Introduzione: Segni di distinzione
di Remo Bodei
1. La vita falsa
Sogni a occhi aperti
Annunciando a Siegfried Kracauer l’invio della prima stesura del Gergo dell’autenticità1, Adorno si augura che l’opera risvegli in lui ricordi e interessi comuni. Essa ha infatti per argomento un aspetto specifico dell’industria culturale, ormai sempre più esperta nell’arte di far dimenticare agli uomini il sapore nauseante della «pappa» con cui li ingozza.2 Ai moderni lotofagi, ai mangiatori di oblio delle società contemporanee, essa insegna infatti come esser paghi di promesse di felicità prorogabili all’infinito (cfr. DdA, 150, 71 sgg.) e come esser convinti di ricevere soltanto quel che desiderano.
Rispondendo, Kracauer nota che l’articolo coglie nel segno, soprattutto quando smaschera la connivenza tra il vertice e la base della confraternita degli «autentici», tra il loro attuale capo e i suoi modesti seguaci: «E' efficace, perché mostri - baldanzosamente - quanto Heidegger abbia in comune con il sudiciume che sta sotto di lui. »3
Adorno non poteva trovare un interlocutore, più vicino alle sue attuali intenzioni e più sensibile all’oggetto e al metodo del suo recente saggio. Circa quarant’anni prima, proprio Kracauer era stato testimone del sorgere della setta, allora dotata di una gerarchia e di una struttura differente (cfr oltre, pp. xiii-xvi). Avrebbe, anzi, voluto farne parte, ma non fu accolto: erede di Husserl, nel progetto di «tornare alle cose stesse», e di Simmel, nell’attenzione per i dettagli in apparenza più frivoli e insignificanti, non solo mancava dei requisiti richiesti dai cultori dell’«interiorità», ma si era interamente dedicato all’esame delle più svariate espressioni di vita «inautentica». Anche per la sua parallela attività di giornalista, immerso nell’universo, che può apparire ovvio, del quotidiano, aveva analizzato i prodotti tipici dell’industria culturale (il romanzo poliziesco, il cinema dei «telefoni bianchi», l’operetta) e osservato con perspicacia i comportamenti delle folle, focalizzando lo sguardo sulla mentalità e le aspirazioni di gruppi sociali subalterni, impiegati o commesse dei grandi magazzini.
Convinto che la realtà sia una costruzione («die Wirklichkeit ist eine Konstruktion»), aveva tentato di dar senso agli eventi del proprio tempo attraverso un’accurata verifica fenomenologica delle «manifestazioni della superficie», ossia di quei sogni a occhi aperti che i mezzi di comunicazione di massa e i loro fruitori fabbricano insieme.
È proprio dalla loro collaborazione che scaturisce, secondo schemi complessi, quell’immaginario sociale, la cui manipolazione costituisce oggi il più formidabile strumento di potere. In un mondo costruito - ma socialmente realissimo - la banalità e lo squallore dell’esistenza quotidiana si intrecciano e si fondono miticamente con le loro compensazioni. L’impasto di realtà e desiderio rivela in negativo la natura di un dominio che non ha più alcun bisogno di nascondersi e che prospera anzi perché grida ed esibisce in pubblico i suoi trasparenti enigmi, gli arcana imperii da cui è scomparso ogni mistero.
I film di evasione ne sono la prova più certa. Dipingendo di rosa le istituzioni più nere, offrono una limpida descrizione dei meccanismi sociali:
Quanto più imprecisamente ne rappresentano la superficie, tanto più diventano esatti, trasformandosi nello specchio fedele nel quale si riflette il meccanismo segreto della società (...) Le stupide e irreali fantasie dei film sono i sogni a occhi aperti della società, nei quali si manifesta la sua vera realtà, prendono forma i suoi desideri altrimenti repressi (...) Per analizzare la società di oggi bisognerebbe stare ad ascoltare ciò che i prodotti della grande industria cinematografica rivelano. Pur senza averne l’intenzione, spiattellano tutti un grossolano segreto.
Sino all’ultimo libro, terminato nel 1966, History. The Last Things before the Last, Kracauer ha esplorato e riservato a se stesso lo spazio intermedio tra la costruzione sociale della realtà e le aspirazioni collettive, il regno delle «cose penultime», ugualmente lontano dalla nostalgia dei fondamenti e delle origini e dalle utopie messianiche della redenzione e dell’avvenire.4
La volgarità del mondo
Malgrado le divergenze teoriche su molti punti (compreso il ruolo dell’industria culturale), Kracauer e Adorno concordano, in questo caso, sia sugli obiettivi che sul modo di procedere del Gergo dell’autenticità. A entrambi sembra giusto attaccare un’ideologia ormai di moda, che afferma i propri contenuti attraverso il linguaggio. Formule, elevate e vacue a un tempo, segnalano l’appartenenza a una presunta aristocrazia dello spirito e ritagliano, in maniera invisibile ai profani, uno spazio sacro della parola, che separa i fedeli dai miscredenti, lasciando sulla soglia i catecumeni.
Tutti i gerghi svolgono una funzione analoga: contribuiscono a rendere coeso e identificabile un gruppo, sbarrando o rendendo difficile la comunicazione con gli estranei e i non-iniziati. Il loro frasario è, di conseguenza, più o meno cifrato, accessibile, di volta in volta, solo ai componenti di un cenacolo, di un mestiere o di una banda di ladri. Neppure quello dell’«autenticità» sfugge alla tripartizione dell’in, dell’out e del between. Privo della potenza dicotomica - integrativa ed esclusiva - che istituisce in Cari Schmitt la ‘coppia truce’ amico/nemico, è semmai incline a produrre tra i cooptati un’atmosfera «aziendale» di cordiale familiarità. La distinzione tra chi sta in alto e chi sta in basso, sempre ricordata da sottili sfumature che si percepiscono solo nel salire di grado, è ufficialmente proclamata inessenziale. Il tono dei discorsi oscilla così tra la leggera intimidazione verso i nuovi venuti e la trepidazione per le anime che a stento si sono salvate dall’imperante volgarità.
Questo gergo, che nella Repubblica di Weimar era gelosamente custodito da circoli di raffinati intellettuali, trionfa ora, nella Germania degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta come ideologia di massa, impersonando «la forma attuale della falsità» (J, 5) e coinvolgendo «trasversalmente» tutti i ceti sociali desiderosi di elevarsi al di sopra della mediocrità e dell’anonimato. Il segreto della sua diffusione dipende in buona parte dal fatto che riesce a rendere ciò che è semplice sinonimo di quel che è spiritualmente ricco, remunerando il minimo sformo con la massima autogratificazione.
Alla maniera di Kracauer (ma ancor prima di Marx e di Engels), anche Adorno ne studia le manifestazioni della superficie, la «fisiognomica» (cfr. J, 3). In questo modo, opta deliberatamente per un’operazione di smascheramento che riveli, partendo da tratti e da tic sintomatici del linguaggio, quanto la nuova «ideologia tedesca» nasconde. Rovesciando come un guanto la pretesa «interiorità» degli «autentici», li espone alla luce e al «gelo» dei rapporti sociali esistenti. La sua strategia teorica mira a dimostrare come - nel far quadrato contro il «mondo» - essi si limitino a sublimare e a stilizzare l’impotenza di tutti a conciliarsi con una realtà degradata. La sperimentata impossibilità di condurre una vita degna dipende infatti da condizioni «esterne» (storiche, oggettive) e non da qualità o da deformazioni soggettive (che ne sono, al contrario, il risultato). Ma, poiché nessuno è in grado di intendere a pieno la natura e l’articolazione di simili condizionamenti, né, tanto meno, di dominarne gli effetti perversi, si produce nelle coscienze un Verblendungszusammenhang, un oscuramento del contesto di senso che le rende cieche e ottuse, specie quando cercano in se stesse le ragioni dell’opacità.
In una circolarità di cause ed effetti, il potere delle ideologie deriva dal «declino dell’evidenza logica come tale». Ormai «la bugia ha il suono della verità, e la verità il suono della bugia. Ogni affermazione, ogni notizia, ogni idea è modellata in anticipo dai centri dell’industria culturale» (MM, 121). Eventi o valori non passati attraverso una previa setacciatura, sono a priori destinati a non essere creduti. L’«ironia», la percezione del distacco tra ideologia e realtà, viene invece denigrata e diventa sospetta. Il suo atrofizzarsi consente all’ideologia di duplicare se stessa in forma di unica realtà, così che la conoscenza si capovolge in adaequatio dell’intelletto all’ideologia. I rapporti di potere sono, per questo, tanto più condivisi quanto più le potenziali vittime ne diventano veicoli e complici.
Tutto ciò che di doloroso e di sgradevole si presenta nella vita di ognuno viene imputato, seguendo la linea di minore resistenza, alla rozzezza dei propri simili e alla piattezza della dimensione quotidiana. La «vita offesa» e rubata agli uomini - che costituisce il nucleo della riflessione adorniana nei Minima moralia e che si rispecchia nel verso di Trakl «Eppur quanto malata sembra ogni cosa che diviene» (cfr. Spengler, 63) - non sarebbe dunque altro che il risultato di una mancata purificazione. Si finisce così per cercare surrogati a un’esistenza deturpata nel culto dell’interiorità soggettiva e nella parola d’ordine del ritorno a un’esperienza originaria, la cui sorgente non sarebbe inquinata. La ritrovata genuinità dei rapporti con se stessi e con quanti condividono i propri ideali diventa l'antidoto più efficace alla nequizia dei tempi o a qualche colpa metafisica, così remota da esser stata dimenticata. Una involontaria caricatura della vita migliore prende il posto dell’armonia che le è preclusa. Ma il comprensibile bisogno di calore, di intimità e di confidenza non può essere soddisfatto con pratiche di mutua rassicurazione.
Nel ripercorrere la «triste storia dell’interiorità tedesca»,5 gli autentici risalgono, tuttavia, come loro «capostipite» al danese Kierkegaard. Già in lui, la particolarità soggettiva murata in se stessa («questo singolo»), non è affatto migliore di quella che Hegel sacrificava senza scrupoli al «sistema», simbolo della «prigione all’aria aperta che il mondo sta diventando» (P, 21). E soltanto allevata in serra e sa di tanfo e di muffa come i tristi intérieurs borghesi dell’Ottocento. Sostanzialmente depressa, lacerata, si sottrae alla perpetua oscillazione della «dialettica della malinconia» (cfr. K, iii, 165) mediante il «salto» nella religione. Con Kierkegaard le moi haìssable di Pascal, finalmente riabilitato, si trasforma nel venerabile santuario dell’autenticità.6
Ma ‘il tormento e l’estasi’ - che ancora caratterizzavano l’interiorità protestante, con il loro corteo di sensi di colpa e di angoscia - sono oggi scaduti a igiene domenicale dell’anima (cfr. J, 12), così come il «timore e tremore» si è depotenziato in un lieve fremito. L’io, diventato ‘calloso’ e superficiale, ha fatto l’abitudine ai dolori e alle disavventure del mondo. Si appaga di blande emozioni e del rinnovato stupore di esistere, di sopravvivere a se stesso (una meraviglia che traduce, a livello più modesto, l’inquietante domanda metafisica posta da Leibniz: «Perché l’essere e non piuttosto il nulla?»).
L’abbassamento delle pretese e - insieme - il bisogno di restarvi affezionato nella rinuncia è connesso alla liquidazione della «piccola azienda psicologica» dell’individuo, sostituita dal «grande magazzino» (DdA, 216), dal soggetto anonimo delle società di massa. Il suo fallimento è così clamoroso che l’appello alla soggettività equivale oggi a un gesto di presunzione: «In molti individui appare già una sfrontatezza che abbiano il coraggio di pronunciare la parola “io”» (MM, 48). In quanto l’io deve, letteralmente, la propria esistenza alla società, non può affrancarsi dai suoi vincoli. Ogni velleità di completa autonomia, ogni atto di ribellione totale produce solo una ricaduta della coscienza che intende distinguersi nell’indistinta folla dei gregari. Per contrapasso, l’io è costretto a ripercorrere a ritroso il cammino dell’individuazione e a regredire alle prime tappe della «preistoria del soggetto», dissipando così quel patrimonio di sofferenze che hanno accompagnato, sin dall’infanzia, la maturazione dell’individuo e, da centinaia di generazioni, l’elaborazione, nella specie umana, di schemi - certo incompleti e manchevoli, ma pur sempre necessari - di identità personale.7
Anime elette
Per quanto il «gergo dell’autenticità», come sappiamo, si diffonda in Germania nel secondo dopoguerra, la sua storia ha un’origine più lontana. Risale ai primi anni venti, quando si forma un ristretto circolo di filosofi, teologi e sociologi, sorretto dalla ricerca di una comunicazione immediata - e quasi mistica -dell’«io» con il «noi» attraverso il «tu». I suoi componenti condividono il rifiuto del razionalismo idealistico, in particolare di quello hegeliano, e l’attesa messianica di un mondo che si rinnova a partire dalle coscienze (solo la struttura elitaria e iniziatica ricorda l’entourage di Stephan George o i «cosmici» di Ludwig Klages). L’elemento di coesione è dato da una sorta di religiosità aconfessionale che celebra i suoi riti in forma di agape.
Nel libro Adorno non li nomina tutti, almeno esplicitamente. Ma, da una lettera a Kracauer del 28 ottobre 1963, sappiamo che il cenacolo comprende perlopiù intellettuali ebrei, tra cui Martin Buber, Franz Rosenzweig ed Eugen Rosenstock-Huessy, convinti di potere conciliare la tradizione ebraica con quella tedesca (e per questo avversati da Scholem). La maggior parte aveva seguito, a Berlino, l’insegnamento religioso dal filosofo neokantiano Hermann Cohen.
Alla fine del primo conflitto mondiale, si ritrovano a Francoforte, dove è stata appena fondata la nuova università e dove Buber - che aveva tratto da Kierkegaard, enfatizzandolo, il concetto di esistenza - inizia a collaborare intensamente con Rosenzweig: sul piano linguistico-ermeneutico, traducendo la Bibbia, e, su quello filosofico, elaborando il «pensiero grammaticale» (dell’«io», del «tu» e del «noi») e l''erfahrende Philosophie, una filosofia dell’«esperienza», che, in senso etimologico, deve sempre mettersi in viaggio (Fahrt).*
Parola e pensiero implicano una relazione tra interlocutori precisi, tra «nomi propri»: «Parlare significa parlare a qualcuno e pensare per qualcuno, e questo qualcuno è sempre ben preciso e non ha soltanto orecchie, come la collettività, ma anche una bocca» (Rosenzweig, ND, 58). Il gergo dell’autenticità si annida sin d’ora nel termine «incontro», che designa il radunarsi nel dialogo di individui che intendono sfuggire, per suo tramite, all’anonimato del discorso impersonale. Negando l’esistenza di presupposti che distinguono originariamente individui e culture, l’idealismo hegeliano avanza due pretese esorbitanti. La prima è che non vi sia niente che resista al pensiero assimilatore e unificante, niente che il «coraggio del conoscere» non possa espugnare (questa logica onnivora ricorda a Rosenzweig, fautore di una guerra filosofica di movimento, la strategia militare dell’ancien régime, secondo la quale un esercito non poteva avanzare se non aveva conquistato tutte le fortezze alle proprie spalle, cfr. ND, 44). La seconda è quella di sconfiggere la paura della morte, strappandole «il suo aculeo velenoso». Il «nuovo pensiero» non desidera invece che l’uomo si sbarazzi subito di questa «paura terrena», perché «nel timore della morte egli deve rimanere» (Rosenzweig, SdE, pp. 3 sgg.).
Nonostante alcune affinità, queste posizioni mal si conciliano, tuttavia, con quelle condannate da Adorno in Heidegger e negli «autentici» del secondo periodo. Infatti - oltre all’elogio del nomadismo apolide del pensiero filosofico (su cui cfr. oltre, p. xxxv) - il gruppo dei protoautentici è caratterizzato dal rispetto per le differenze irriducibili e per le alterità non conciliabili. Nessuna persona, popolo o religione ha il diritto di considerarsi superiore ad altri (lo stesso Yahweh, secondo Buber, non rappresenta il Dio degli ebrei, ma quello deU’anima). Un simile messaggio di tolleranza trova oggi ascolto non solo in pensatori come Emanuel Lévinas, l’ultimo grande allievo spirituale di Rosenzweig (che aveva cominciato, all’inizio degli anni trenta «en découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger», ma certo non scoprendo, in compagnia di quest’ultimo, il rispetto per il volto dell’Altro), ma anche in Jean-Frangois Lyotard, secondo il quale, in uno dei suoi ultimi libri, essere «ebrei» (con la minuscola) non significa affatto appartenere a un determinato popolo, ma difendere l’eterogeneità delle forme di pensiero e di vita dal loro livellamento coatto, dalla compressione delle differenze in un’unità che si vuole monolitica, da quella che nel linguaggio nazista è appunto la Gleichschaltung che ha portato inevitabilmente ad Auschwitz.8
Il parziale debito di riconoscenza intellettuale contratto in gioventù nei confronti di Rosenzweig - di cui Adorno, come già Benjamin, ha utilizzato la categoria centrale di «redenzione» -.9 il fatto che il circolo fosse composto in maggioranza di ebrei e che solo pochi dei suoi esponenti fossero in seguito diventati nazisti spiega la fragilità del nesso storico e concettuale che, attraverso Heidegger, dovrebbe collegare tra loro le due fasi del «gergo». La maniera sbrigativa con cui Adorno se ne occupa è la spia del suo imbarazzo.
Anche l’omogeneità tra i capiscuola del secondo dopoguerra risulta più postulata che dimostrata, a causa del non risolto intreccio tra teoria e polemica, momento linguistico-ideologico del «gergo» e affiliazione politica di chi lo usa. Il fatto che Jaspers venga proclamato il vicario di Heidegger e che molte frecciate siano dirette a Buber implica solo che essi rappresentano gli unici due sopravvissuti della generazione a cui anche Rosenzweig apparteneva.
Tutto ciò non toglie che il Gergo dell'autenticità sia provvisto di un consistente spessore teorico. Non è quindi lecito ridurlo a pamphlet bilioso o a mera didascalia della Dialettica negativa * Si potrebbero applicare ad esso le medesime parole che Adorno ha riferito alla psicoanalisi (che non vi è nient’altro di vero se non «le sue esagerazioni») o alla necessità di inglobare le idiosincrasie del proprio punto di vista nell’interpretazione dei fenomeni (e cioè che la «pagliuzza» nel nostro occhio deve costituire «la miglior lente di ingrandimento», MM, 47 sg.).
Guardando infatti da vicino le espressioni apparentemente innocue del gergo (che potrebbero essere benevolmente scambiate per snobismo o pretenziosità) vi si scorgono i sintomi di una grave patologia della comunicazione. Per paura che gli altri profanino la propria interiorità, esso esclude, infatti, l’individuo da una più ampia e disinibita sfera di rapporti. Costituisce inoltre un’apologia della «vita offesa», in cui la rivendicazione della dignità umana si distorce nella trasformazione dell’esistenza in bene di consumo.
La banalità ostentata
Con voluta prospettiva dal basso, Adorno privilegia le tracce linguistiche lasciate da quanti rifiutano l’appartenenza sia al «mondo comune» degli svegli che al «mondo privato» dei dormienti. Essi cercano rifugio nel dormiveglia dell’ideologia, negli intermundia di piccole o grandi confraternite. Al loro interno, le parole fluttuano senza peso, sottratte alla plebea forza di gravità del linguaggio ordinario e all’onere di prove e verifiche. Ma l’anima che si ritiene eterea e agile finisce per assumere la pesantezza e la prevedibilità degli automi. Gli stereotipi linguistici e comportamentali tradiscono i crampi del pensiero e della coscienza.
L’élite interiore santifica così la banalità, confonde l’ovvio, da cui teme di essere contaminata, con il meraviglioso e scambia «fondi di magazzino» con vestiti alla moda: «Come un cenciaiolo, il gergo si appropria degli ultimi sentimenti in rivolta del soggetto, che declinando è rigettato su se stesso, per smerciarli» (J, 17, 51 sg.). Ciascuno è esortato alla svendita di se stesso e riceve, quale magro compenso, la licenza di «pavoneggiarsi da ipseità» (J, 112). Queste anime belle, asserragliate, hegelianamente, nello zoo del «regno animale dello spirito», vengono nutrite con la «pappa del cuore» dell’autenticità.
Simile al Verbo, il gergo discende dai capiscuola (filosofi, teologi e sociologi di fama) sino al più vasto pubblico dei predicatori, degli insegnanti, degli esponenti del mondo aziendale, amministrativo e politico. Si comunica a tutti, a quanti parlano, in maniera ispirata, da una posizione «in vista», e a quanti li ascoltano nella speranza di ottenerne l’approvazione. Per stimare il tasso di incidenza del gergo, si potrebbe stabilire un’ipotetica «scala G», analoga alla «scala F», già utilizzata da Adorno in The Autoritarian Personality del 1951 per misurare le caratteristiche degli individui virtualmente fascisti. Si scoprirebbe allora un’analoga gerarchia della degradazione. Vi è chi fa assumere al pensiero filosofico il «tono di distinzione» già deplorato da Kant;10 chi avvolge le proprie parole, «come arance nella cartavelina» (J, 33); chi, alla radio e alla televisione, adotta uno stile «disgustosamente confidenziale» (J, 55); chi, svolgendo la funzione di amministratore locale, vuol essere, con i suoi standardizzati giri di frase, anche un burocrate dello spirito; chi, infine, appartenendo ai ceti subalterni, usa espressioni goffamente forbite che dovrebbero innalzarlo nella considerazione sociale. Il linguaggio, decomposto nei suoi elementi, viene ridotto ad arte combinatoria di luoghi comuni e di slogan non molto diversi da quelli dell’industria pubblicitaria. Si ostenta il gergo come una volta si portava all’occhiello il distintivo del partito nazista (cfr. J, 19): per mostrare fedeltà al gruppo di riferimento.
Come i lettori di oroscopi sui giornali condividono una «superstizione di seconda mano» (cfr. Stars), così la truppa degli «autentici» condivide una filosofia di seconda mano. Nei suoi confronti, gli strati sociali considerati rozzi e ottusi per natura - e appunto perciò meritevoli di svolgere solo mansioni squalificate - si mostrano spesso, paradossalmente, meno ignoranti: «Un radiotecnico o un meccanico d’auto, che secondo i criteri tradizionali sono incolti, per poter esercitare il loro mestiere hanno bisogno di parecchie conoscenze e capacità che non sarebbero possibili senza tutta la scienza matematica della natura, a cui del resto la classe inferiore è più vicina di quanto ammetta la boria accademica» (SS I, 92).
Ma l’autentico, rispetto ad essi, gode di una rendita di posizione che gli frutta un superiore prestigio sociale: sa fare sfoggio di un certo virtuosismo retorico; possiede l’abilità di attribuire a frasi banali un alone di significati reconditi; ha preso l’abitudine di dare alla propria voce una intonazione convincente e cordiale. Ha così mutato i rapporti personali in una rete di public relations, la persuasione in imbonimento, l’affabilità in parodia della familiarità e del rispetto: un modo, assai poco kantiano, di trattare l’uomo come mezzo, nel momento stesso in cui si dichiara l’incondizionata disponibilità a trattarlo come fine.
Un tollerabile nichilismo
Proprio quanti credono che la coscienza costituisca un punto archimedeo - in grado di sollevare, se non il mondo, almeno se stessa al di sopra del mondo - non solo raccontano fandonie simili a quelle del barone di Munchhausen, che pretendeva di essersi tirato su dallo stagno afferrandosi per il codino, ma sono i più sensibili al potere di seduzione dell’esistente, i più intellettualmente indifesi di fronte a quello stesso reale che disprezzano: «Il pensiero che respinge più appassionatamente il proprio condizionamento per amore dell’incondizionato, cade tanto più incondizionatamente, e quindi tanto più fatalmente, in balia del mondo. Anche la propria impossibilità esso deve comprendere per amore della propria possibilità» (MM, 304).
Nel tentativo di purificarsi dalle scorie del mondo, alcuni si trincerano, in preda alla nausea e al disgusto, nell’ultimo ridotto del soggetto, nella libertà interiore assoluta. L’ideologia tedesca, tradotta in francese dall’esistenzialismo, assume le pose eroiche dell’homme révolté o della «passione inutile», proclamando la revoca della donazione di senso al mondo, il dominio dell’«assurdo»: «La soggettività ormai di fatto detronizzata e indebolita nel suo intimo nel frattempo viene isolata e ipostatizzata - in modo complementare all’ipostasi heideggeriana del suo polo opposto, dell’essere. La scissione del soggetto non diversamente da quella dell’essere tende - in modo inequivocabile nel Sartre di L’essere e il nulla - all’illusione dell’immediatezza del mediato» (ND, iii).
Anticipando la Germania nella diffusione di massa del fenomeno, l’esistenzialismo francese presenta un profilo «fisiognomia)» diverso: la sua autenticità non si limita al linguaggio e non si contenta di una semplice elevazione: vuol giungere alle profondità dell’anima calandosi negli inferi delle «cantine» di Parigi. Il modo di vestire volutamente trasandato, i lunghi capelli e la barba incolta degli esistenzialisti costituiscono altrettanti segni di riconoscimento non verbale: «L’esistenzialismo, sospettato come sovversivo dall'establishment tedesco, assomiglia alle barbe dei suoi adepti, che amavano atteggiarsi da oppositori, da giovani cavernicoli, che non stanno più al gioco e non accettano più di partecipare all’inganno della civiltà (Kultur), proprio mentre si incollano l’emblema fuori moda della dignità patriarcale dei loro nonni» (ibid., trad. modif.).
In generale, tanto in Francia quanto in Germania, il ceto medio-basso degli «autentici» è costituito da chi - avendo da tempo rinunciato a capire e a cercare forme più degne di esistenza e desiderando sopravvivere senza eccessive lacerazioni, e tuttavia con un certo aplomb - ha predisposto una serie di alibi teorici o di compromessi morali. Gli ingredienti sono quasi sempre gli stessi: blanda inquietudine e indaffarato stordimento, non disgiunti dalla convinzione di aver trovato un punto di relativa assuefazione al proprio ambiente interno ed esterno. Una dose tollerabile di nichilismo, in forma rivoluzionaria o conservatrice, viene utilizzata come terapia dell’anima.
Nessuno del resto - specie se svolge un lavoro intellettuale come professione - può essere immune da queste tentazioni, totalmente sordo al richiamo di una inconfessabile voluttà, che suggerisce di lasciarsi andare, di non lottare più, abbandonandosi alla pressione e all’incanto dell’esistente: «Lo sforzo necessario per produrre qualcosa che abbia una certa consistenza comincia a diventare talmente arduo che non c’è quasi più nessuno che sia in grado di reggerlo. La pressione del conformismo, che grava su ogni produttore, abbassa ulteriormente le sue esigenze verso se stesso. » Anche chi si impone dei salutari tabù, delle autolimitazioni contro ogni deroga nei confronti delle regole di onestà intellettuale e di gusto, sente (proprio nell’acredine con cui censura coloro che rifuggono da tali criteri) di covare anche in se stesso il fascino del peggio: «Il rifiuto dell’andazzo dominante della cultura presuppone infatti che si partecipi a esso quanto basta per sentirne, per così dire, l’attrazione sulla propria pelle, ma che si siano tratte, d’altro canto, da questa partecipazione, le forze necessarie per liberarsene. » La degradazione - come avviene per gli autentici - si maschera tuttavia di umanità, si presenta «come la volontà di rendersi comprensibili agli altri, come esperienza del mondo e senso di responsabilità. Ma il sacrificio dell’autodisciplina intellettuale riesce troppo facile a chi lo esegue perché si possa pensare che si tratta veramente di un sacrificio» (MM, 21 sg.).
2. Lacrimae rerum
Il volto della Gorgone
A questi atteggiamenti e al gergo che li esprime, la dialettica negativa non può opporre altro che la consapevolezza dell’orrore che ispirano i rapporti - storicamente divenuti e perciò forse revocabili - degli individui con se stessi, con gli altri e con la natura. Il linguaggio impietoso con cui Adorno descrive la «storia congelata delle cose» (DN, 47) e degli uomini, rappresenta per lui l’unica pietà oggi concepibile. La sofferenza, che facilmente si consola dinanzi alle mutilazioni e alle umiliazioni della vita, e che a questo scopo si ammanta del candore dell’anima o si addobba di barbe patriarcali, scinde il «dolore metafisico» dalle cause che lo hanno prodotto e che ne perpetuano il dominio. Rinuncia a calarsi nelle contraddizioni del mondo, per rintracciarne le ragioni e trasformarle in pensiero: «Il bisogno di articolare il dolore è la condizione di ogni verità» (ND, 16 sg.). Il dolore più esibito che esperito non sa quanto poco profonda sia la soggettività a cui tende, dato che la conoscenza dell’oggetto richiede non «un di meno, ma un di più da parte del soggetto» (ND, 36). Piuttosto che rendere comprensibile la sofferenza mediante una discesa nell’oggettività, sperimentando la «vertigine che ne deriva» come «un index veri» (ND, 30), l’autentico nobilita, immortala o stilizza la prima, mentre dipinge come abietta, effimera e informe la seconda. Pur indovinando confusamente il «sistema delle cicatrici» di cui ciascuno è coperto, ne occulta la genesi. Solo cosi il gergo è in grado di promettere, ai suoi più ingenui fedeli, cure miracolose per la salute dell’anima e di fornire loro, in positivo, modelli di eccellenza a cui ispirarsi.
L’immagine di come l’uomo dovrebbe essere può invece per Adorno brillare solo nella sua assenza e la sua conciliazione col mondo balenare unicamente «al margine della pazzia» (PhnM., 130) oppure attraverso il velo delle lacrimae rerum, dove traluce attraverso gli squarci e le crepe che la grande musica e la grande filosofia aprono nell’ordine irrigidito e opaco dell’esistenza:
Come la fine, anche l’origine della musica va oltre il regno delle intenzioni, ed è imparentata al gesto, strettamente affine al pianto. E' il gesto dello sciogliere (...) Musica e pianto schiudono le labbra e lasciano libero l’uomo che trattenevano (...) L’uomo che si lascia defluire in pianto e in una musica che non gli assomiglia più in nulla, lascia contemporaneamente rifluire in sé la corrente di ciò che egli non è e che aveva ristagnato dietro lo sbarramento del mondo degli oggetti concreti (PhnM, 129 sg.).
Non esistendo riparo alle mutilazioni della vita, l’illusione più funesta e la cecità più completa derivano dalla volontà di impedire il ritorno della realtà rimossa, che dimenticata, ristagna. Filosofia e arte consentono, appunto, di varcare le barre di confine fissate, socialmente e individualmente, dal Verblendungszusammenhang, e di vedere in filigrana quella verità tremenda, che, proprio in quanto tale, da un lato non può essere totalmente abbracciata, com-presa (in quanto «veri sono soltanto quei pensieri che non comprendono se stessi», MM, 230), dall’altro non può essere neppure totalmente ignorata.
Il compromesso raggiunto dagli «autentici» consiste nel privare l’armonia delle dissonanze. In questo assomigliano a quanti vorrebbero un’arte senza traumi, una bellezza melensa e ridotta a kitsch.
L’elaborazione del lutto per quella parte della vita che è già morta e che continua a morire in ciascuno, l’acuta coscienza dello iato attualmente incolmabile tra il reale e le promesse di felicità è il solo contributo che - in negativo, ma per amore della vita - la filosofia e l’arte offrono agli uomini. La falsità del «gergo» e dell’industria culturale in genere dipende dalla volontà di far credere nella coincidenza di vita e di felicità. Per questo bisogna saper sopportare la visione del volto della Gorgone riflessa nello specchio deformante dell’arte e della filosofia, sino al punto da rivendicarne l’orrore, in quanto esso appartiene al mondo, e non all’immagine che lo rivela:
Dire oggi arte radicale è lo stesso che dire arte cupa, col nero come colore di fondo (...) Ciò che i nemici della nuova arte chiamano la sua negatività, con istinto migliore dei suoi più tiepidi apologeti, è la quintessenza di ciò che la cultura stabilita ha rimosso. E' in quella direzione che ci si sente attratti. Gioiendo del rimosso, l’arte recepisce contemporaneamente la sventura, il principio rimovente, invece di limitarsi a protestare inutilmente contro di esso (...) Riuscite sono quelle opere d’arte che dall’amorfo, cui esse inevitabilmente fanno violenza, salvano qualche cosa trasportandolo nella forma, che fa il salvataggio della scissione. (AT, 68, 33, 85)
Esposti al gelo
Lottando contro le ideologie, filosofia e arte restituiscono la consapevolezza del clima glaciale, di indifferenza e di sopraffazione a cui tutti gli uomini, con diversi gradi di responsabilità e di colpa, sono esposti. Il tentativo di Kierkegaard e degli «autentici» più dignitosi, di far fiorire in serra o nell'hortus conclusus dell’interiorità una nuova specie di individui migliori, è perciò destinato a fallire. Gli uomini hanno bisogno del calore che si sviluppa dal contatto con gli altri e con le cose, della felicità potenziale che rimane perlopiù prigioniera di atti mancati o di comportamenti prevedibili e meschini, che rifiutano la gratuità indifesa del dono. Coloro che si comportano in modo da fare e da dare lo stretto necessario subiscono la nemesi di ricevere in cambio la stessa moneta: «Un gelo afferra tutto ciò che essi fanno, la parola gentile che resta non detta, l’attenzione che non viene praticata. Questo gelo si ripercuote, da ultimo, su coloro da cui emana» (MM, 39).
Il gelo non si evita, tuttavia, ritornando a una presunta immediatezza originaria o riscoprendo una disappresa spontaneità. L’amore stesso, che appare come puro sentimento, incontro genuino tra anime e corpi, è privo - quando è degno di tale nome - di simili qualità. Poiché rappresenta il luogo in cui è ancora possibile serbare l’estrema e più fragile promessa di felicità, la paura di esporsi al «gelo» delle delusioni, delle strumentalizzazioni e del cinismo lo rende, insieme, guardingo e avventato, avaro e prodigo di sé. Combatte l’onnipervasiva invadenza delle mediazioni, solo perché si sa in balia della loro camuffata violenza: «Sei amato solo se puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza» (MM, 230). Nella sua natura è però insita la necessità di acquistare durata e costanza, trasformando in mediazione eversiva l’immediatezza del tabù sociale della fedeltà, imposto e non spiegato:
Amare significa saper impedire che l’immediatezza sia soffocata dall’onnipresente pressione della mediazione, dell’economia, e in questa fedeltà l’amore si media in se stesso, accanita contropressione. Non ama se non chi ha la forza di tener fermo all’amore (...) L’ordine della fedeltà, che la società impartisce, è strumento di illibertà, ma è solo nella fedeltà che la società si ribella all’ordine della società. (MM, 203)
Il convesso e il concavo
Nel periodo in cui progetta e compone la Dialettica negativa e il Gergo dell’autenticità, Adorno combatte su due fronti, cercando di mantenere la distanza tra coinvolgimento e distacco, immediatezza e mediazione. Gli «autentici» trovano infatti, paradossalmente, degli involontari alleati in quelli che avrebbero dovuto essere i loro acerrimi nemici: i cosiddetti «positivisti», che operano nel campo della sociologia e dell’epistemologia contemporanea (come, ad esempio, Hans Albert e Karl Raimund Popper).
Entrambi gli schieramenti congelano il pensiero, il linguaggio e il comportamento in rituali di rassicurazione, seppure di matrice opposta, esistenziale o scientista: li irrigidiscono e li semplificano in stilemi o formule, per paura delle contraddizioni e delle dissonanze. I primi possono così innalzare la propria pura soggettività, i secondi il solido - e nelle loro intenzioni - altrettanto puro edificio del sapere. L’involontaria coincidentia oppositorum giunge tra loro sino alla creazione di un mutuo rapporto di dipendenza. Mediante il processo di sterilizzazione dei fenomeni dai germi della soggettività i «positivisti» si specchiano negli autentici, come loro opposti complementari, mentre sono intenti a disinfettare l’interiorità del soggetto dal suo contagio col mondo delle cose o dei rapporti umani reificati. I positivisti stanno agli autentici come il convesso al concavo. Il perbenismo scientifico si lega a quello filosofico nell’esternare o nell’interiorizzare acriticamente i condizionamenti sociali. E così, mentre i secondi stanno troppo vicini all’esperienza priva di sapere di un indicibile che in realtà è un vuoto, i secondi strappano la trama che, attraverso molti fili, unisce il mondo della vita alla conoscenza: «La scienza che non accoglie in sé, trasformandoli, gli impulsi prescientifici, si condanna all’irrilevanza non meno della mancanza di rigore dilettantesca. Nella screditata area del prescientifico si raccolgono gli interessi che il processo della scientifizzazione blocca e che non sono i meno essenziali» (Einleitung, 29).
Demonizzando la soggettività, in quanto organo di continua mediazione tra l’immediato e il mediato, il nuovo positivismo penalizza il pensiero: «La frase di quel professore universitario: “Siete qui per far ricerca, non per pensare”» esprime perfettamente il senso di un divieto, che, trasformando il pensiero in scienza del «che cosa» e trascurandone il «come», lo rende «impiegatizio». In tal modo, esso non è più autorizzato a prendere alcuna iniziativa, ad agire «di testa propria». Alla routine della comunicazione del «gergo», corrisponde la routine di un pensiero decurtato che deve limitarsi a seguire la normale trafila burocratica e vietarsi ogni «fantasia»: «La denigrazione della fantasia, l’incapacità di rappresentarsi ciò che non è ancora, disturba lo stesso funzionamento dell’apparato, non appena si vede confrontato con fenomeni che non sono compresi nei suoi schemi» (Einleitung, 64). Se la si sopporta, pur relegandola in una riserva (come accade talvolta a popoli considerati più primitivi dai conquistatori), è perché la si separa completamente dalla conoscenza:
Che la fantasia sia tollerata soltanto in forma reificata, come astrattamente contrapposta alla realtà, è un fatto che pesa sull’arte non meno che sulla scienza; l’arte che merita questo nome cerca disperatamente di cancellare l’ipoteca. Fantasia significa meno inventare liberamente che operare mentalmente senza il soccorso pronto e affrettato dei fatti. (Einleitung, 65)
Delle teorie di Popper, di Albert e, in genere, di tutta l’epistemologia contemporanea Adorno ha una conoscenza sicuramente approssimativa, distorta com’è dalla lente di ingrandimento della «pagliuzza» nel suo occhio (o da affermazioni come quella secondo cui «che Carnap e Mieses siano veri non potrebbe essere la verità, nemmeno se fosse vero», ND, 348). Più che modelli scientifici, ha in mente - come nel caso del Gergo dell’autenticità - la loro ricaduta nelle rozze formule catalogatorie che lo scientismo diffonde nelle società di massa, la cui disarmante povertà gli fa rimpiangere l’ultima grande voce che in questo secolo si sia levata contro l’ipersemplificazione del pensare e del sentire: quella di Marcel Proust. Ad Adorno è sempre rimasto impresso, sino all’anno della morte, il ricordo del suo primo impatto con una forma di scientismo popolare - a base di Reader’s Digest - di cui talvolta si nutrono, negli Stati Uniti, alcuni strati sociali:
Tra i vari collaboratori che lavoravano transitoriamente con me nel «Princeton Project», c’era una giovane signora. Dopo un paio di giorni ella prese confidenza con me, e mi chiese con perfetta gentilezza: «Dottor Adorno, le spiace se le faccio una domanda personale?» Io dissi: «Dipende, ma dica pure», e lei continuò: «Mi dica, per favore: lei è estroverso o introverso?» (Erfahrungen, 175)
3. L’«astuto» Heidegger
Risalire all’origine
Per quanto un accenno al gergo dell’autenticità si possa rinvenire già nel 1956, in una pagina della Metacritica della gnoseologia (dove si sostiene che il modo di parlare della filosofia tedesca si va trasformando in un incomprensibile «linguaggio barbaro da iniziati»: geweihtes Kauderwelsch, cfr. MdE, 42), è a partire dal periodo immediatamente successivo al confronto critico con i «positivisti» che Adorno concepisce il progetto di scrivere un libro sulla «dialettica negativa», la cui utilità gli appare subito chiara per i motivi appena accennati.
Il bisogno di risarcire una soggettività insoddisfatta, ridotta ai suoi aspetti direttamente osservabili, a disagio negli ingranaggi sociali, risveglia in Germania una nuova ricerca di autenticità. Tramontata l’epoca in cui il nazionalsocialismo le aveva offerto risposte politiche dirette, abbandonate le più pressanti preoccupazioni dell’immediato dopoguerra, essa può ora rinascere in forme nuove.
Con l’aiuto della televisione e sotto il recente shock del «miracolo economico» - che attraverso la diffusione del benessere sembra livellare il merito - il «gergo dell’autenticità» viene riattivato e aggiornato. Esce così dalle aule universitarie o dai seminari teologici e si espande rapidamente: un’ideologia d’elite diventa di massa, fingendo di restare d’élite. La difesa della dialettica - operata da Sartre con la Critique de la raison dialectìque, del 1960 - non può fungere da argine contro la vischiosità del mondo sociale, del «pratico-inerte» o contro «l'alienazione», perché è ancora intrisa di heideggerismo révolte e ancora troppo ligia alla liturgia dell’interiorità e dell’autenticità.
Nel 1962 - anno in cui inizia la stesura del capitolo della Dialettica negativa, da cui sarebbe poi nato il Gergo dell’autenticità - e nel 1963, Adorno tiene all’Università di Francoforte due corsi sulla Terminologia filosofica: registrati su nastro verranno pubblicati postumi nel 1973. Nello stesso 1963 appare l’articolo Paratassi. Sull’ultima lirica di Hölderlin. Entrambi contengono un duro attacco a Heidegger - diventato ormai il principale bersaglio - e, per suo tramite, all’ideologia e al linguaggio che sembrano a lui richiamarsi. La discussione sull’atteggiamento e il pensiero del «filosofo di Messkirch» durante il nazismo - riaccesa, proprio nel 1962, dalla pubblicazione dei documenti raccolti da Guido Schneeberger 11 e da cui Adorno sembra aver preso diversi spunti - produce su di lui un duplice e contraddittorio effetto. Da un lato, infatti, il sarcasmo, l’ironia e persino il piacere giocoso dell’aggressività ne accrescono l’acume, dall’altro, la vis polemica e l’indignazione morale ne annebbiano l’intenzione e lo sguardo, inducendolo a molteplici fraintendimenti e trasformando, in alcuni casi, la «pagliuzza» in trave. La veemenza con cui Heidegger viene assalito a lezione è talmente inusitata, anche per gli standard accademici tedeschi, che uno studente si sente in dovere di scrivere ad Adorno una lettera di protesta.12*
I principali capi d’accusa presentati nel Gergo dell’autenticità, sono qui succintamente abbozzati, così come subito individuato appare il fulcro polemico su cui far leva: un articolo del 1934, Perché restiamo in provincia?,13 in cui il «segreto» della filosofia heideggeriana viene impietosamente «spifferato», così da farne risaltare tutta la «comicità» e la «miseria» ideologica. L’imputazione più grave consiste nell’aver coltivato il desiderio nostalgico dell’«origine» e del «fondamento», consolidando una tendenza latente che in Germania ha svolto un ruolo particolarmente nefasto. Heidegger trasforma in idolatria il culto dei rapporti sociali arcaici, e tesse gli elogi della vita contadina, sedentaria, provvista di profonde radici nella terra e nella stirpe.14
La dignità attribuita a ciò che è originario implica - in un’ottica filosofica - che si possa giungere a un «Essere» amorfo anteriore alla scissione di soggetto e oggetto, a una totalità fantasmatica, simile agli «dei fuggiti» di cui, in tutt’altro senso, parla Hölderlin: al suo «genio indifeso» viene ormai attribuito, «senza ritegno alcuno» (J, 60), il dubbio privilegio di essere l’antesignano di un pensiero dell’«origine», lo spirito guida «del dogmatismo irrazionalistico» (Parataxis, 152 sgg.).15
Anche il metodo (o talvolta il manierismo) heideggeriano di riportare le parole alla loro radice o al loro significato originario appare ad Adorno una velleità di risalire alla soigente, a un luogo meno inquinato dai veleni immessi più a valle dalla «metafisica occidentale».16 Ad essa dobbiamo infatti quell’«oblio dell’Essere» per cui l’uomo dimentica che è lui ad appartenere all’Essere e non l’Essere a lui, che è il grande occhio dell’Essere a guardarlo e non il suo a misurarlo. Che tale desiderio sia puramente regressivo lo dimostra anche il fatto che l’ideologia dell’«origine», pur mantenendo con la modernità rapporti di inimicizia, ne è un «sottoprodotto». Essa «glorifica semplicisticamente quell’antichità del linguaggio che i positivisti, altrettanto semplicisticamente, desiderano espungere insieme ad ogni espressione» (J, 34, 33). Più in generale, cerca di guarire la «ferita del concetto, la scissione di pensiero e pensato» (ND, 62) attraverso il ‘sentimento oceanico’ di fusione col tutto, che costituisce uno dei primi stadi dell’ancora indifferenziata «preistoria del soggetto».
Memore della lezione marxiana e dello stile delle avanguardie artistiche del Novecento, Adorno prova addirittura ripugnanza verso la venerazione delle origini, così strettamente legata a quella dell’autentico. Condivide perciò, a suo modo, un aforisma di Karl Kraus:
Nella frase di tono conservatore di Karl Kraus «origine è la meta» (Ursprung ist das Ziel) si esprime un qualcosa che ben difficilmente era inteso con tale frase: che cioè il concetto di origine dovrebbe perdere la sua informe e statica natura. La meta non si dovrebbe trovarla nell’origine, nel miraggio di una natura buona, bensì l’origine verrebbe assegnata solo alla meta, si costituirebbe per la prima volta a partire da essa. Non c’è origine se non nella vita dell’effimero. (ND, 139, trad. modif.)17
Canalizzare l’orrore
Lo scenario con cui Adorno prepara il passaggio dal primo al secondo atto della tragicommedia dell’«originario» non differisce sostanzialmente da quello con cui illustra altri fenomeni di massa, come la scoperta del proprio «autentico» destino attraverso le stelle, che gli oroscopi promettono:
Dopo la prima guerra mondiale la coscienza di una crisi permanente non è più scomparsa (...) A questa situazione risponde oggi l’astrologia. La sua funzione è quella di canalizzare l’orrore crescente in forme pseudorazionali, di chiudere l’angoscia fluttuante entro stabili modelli, di istituzionalizzare ancora, per cosi dire, questa stessa angoscia (...) Invece di affrontare il doloroso sforzo di prendere chiaramente coscienza di ciò che li rende cosi miseri, essi cercano di venire a capo del loro oscuro presentimento con un corto circuito, comprendendo per metà e per metà rifugiandosi in sfere che si pretendono più elevate. (Stars, 166 sg.; cfr. J, 27)
È proprio grazie alla sua precoce consapevolezza degli effetti (ma non delle cause) di tale «crisi permanente», che Heidegger forma l’anello mancante tra i protoautentici degli anni venti e quelli del secondo dopoguerra. Egli ha saputo cogliere con un certo anticipo il disorientamento e l’opacità dell’esperienza individuale e collettiva, il suo allontanarsi da se stessa e dalla propria autocomprensione, e ha cercato, appunto, vie d’uscita nel mito. Per questo, dopo la pubblicazione del secondo volume del Tramonto dell’Occidente di Spengler, egli comincia ad attrarre «gli appartenenti alla consorteria filosofica», conferendo «al loro malumore un’espressione più robusta ed elevata. Heidegger nobilitava la morte da Spengler decretata senza riguardi personali e prometteva di trasformarne il concetto in un segreto dell’azienda accademica» (Spengler, 39 sg.).
L’oracolo filosofico
Ma, diversamente dai suoi più ingenui seguaci della «consorteria filosofica», l’«accorto Heidegger» sfrutta la sua «astuzia» (cfr. J, 20, 29), per cancellare le tracce dei problemi e dei contesti da cui effettivamente sorge ed entro cui si elabora la propria filosofia. Da lungo tempo «in cammino verso il linguaggio», e, dal secondo dopoguerra, quasi sempre isolato nel suo Olimpo di Todtnauberg raramente inciampa nelle trappole del «gergo» in cui invece cadono spesso i suoi più loquaci colleghi Jaspers o Bollnow.
A lui soltanto è lecito parlare in toni cupi di ciò che normalmente turba e sconvolge gli altri, a causa delle sue «funeste implicazioni di angoscia, cura e morte» (J, 23). Evitando, infatti, ogni facile confidenza, ogni linguaggio diretto e ogni affermazione sufficientemente univoca, offre scarsi appigli a eventuali confutazioni. Ha così buon gioco nel gridare al «volgare» fraintendimento tutte le volte che egli stesso o suoi più imprudenti seguaci ne svelano gli enigmi nascosti dietro il suo «criptolinguaggio»: «Heidegger non è per nulla “incomprensibile”, come scrivono in rosso i positivisti nelle loro note a margine; ma egli si circonda di tabù secondo cui una qualunque comprensione lo falsificherebbe subito» (J, 66). La sua ontologia appare «tanto più numinosa, quanto meno si lascia fissare a contenuti determinati, che permetterebbero all’intelletto temerario di inchiodarla. L’inafferrabilità diventa inattaccabilità. Chi rifiuta di seguirla, è sospetto come un apolide spirituale che non ha la sua dimora nell’essere» (ND, 53).
Per questo bisogna coglierlo - con una controastuzia di sapore freudiano - «non appena allenta il voluto autocontrollo» (J, 38), quando cioè si lascia sfuggire qualche lapsus filosofico.
4. Tecnica, nazismo, sradicamento
Attraversare la notte
Dopo gli ultimi dibattiti sull’atteggiamento politico di Heidegger durante e dopo il nazismo,18 è difficile non provare una punta di fastidio nel tornare su un problema che, accanto a pochi scritti pregevoli, ha dato luogo a una valanga di libelli carichi di pesanti - e non esplicitate - ipoteche ideologiche, ad accuse e scuse.
Forse i pregiudizi sono in qualche misura inestirpabili, ma perché coltivarli? Se si riescono a distinguere adeguatamente piani del discorso che sono stati spesso confusi e a emendare i più vistosi fraintendimenti, qualche pregiudizio lo si può, almeno, rettificare o evitare. Un simile tentativo merita di essere compiuto. Favorisce infatti non solo una più perspicua visione del contenzioso teorico tra Adorno e Heidegger, ma anche una migliore comprensione del Gergo dell’autenticità (in particolare l’enfasi ivi posta sulla tanatofilia heideggeriana e sul suo implicito rapporto con il nazionalsocialismo).*
Il libro di Victor Farias, ad esempio, è criticabile da molti punti di vista (su cui tornerò subito). Ma qualche merito lo ha avuto: ha confermato il sospetto che l’adesione del filosofo al regime - lungi dall’essere frutto di un compromesso quasi obbligatorio e comunque passeggero - fosse stata una scelta ponderata e consapevole, ma ha inoltre dimostrato come Heidegger fosse legato all’ala movimentista, plebea e «antiborghese» che faceva capo alle SA di Rohm e come, a guerra finita, la sua fede nella missione storico-universale del popolo tedesco non fosse stata ancora scalfita: «Qui non si fa che pensare al crollo [Untergang), ma la verità è che noi tedeschi non possiamo cadere perché non ci siamo ancora levati. Noi dobbiamo attraversare la notte.»19
Bisogna però aggiungere che Farias travisa il pensiero di Heidegger secondo schemi e argomenti già collaudati nel Gergo dell’autenticità. Per una sorta di ironia ermeneutica, essi risultano tanto più inaffidabili quanto più attendibili sono i dati su cui si fondano. La ragione è abbastanza evidente: non tengono in debito conto il fatto che i criteri di rilevanza da applicarsi a testi di differente tenore e udienza devono esser tarati in modo diverso, che non si può cioè trattare Essere e tempo come se fosse un articolo per un giornale di provincia, e viceversa.
Tecnica, disciplina, politica
Ritornando ad Adorno, è del tutto opinabile e, al limite, falsa l’affermazione secondo cui Heidegger sarebbe stato l’esponente di una ideologia arcaica, precapitalistica e contadina. La sua intenzione era piuttosto quella di controbilanciare il potere planetario e spaesante della tecnica mediante il radicamento del popolo tedesco nel «suolo», nella «terra», nella «vicinanza». Almeno sino al 1943-44, questo significa considerare la Germania quale unica nazione del mondo moderno in grado di compiere questo miracolo grazie all’impegno individuale e alla ferrea coesione garantita dalla «comunità popolare» (Volksgemeinschaft).
La conferma di tale prodigiosa capacità sembra giungergli dagli eventi bellici. Nella prima fase del conflitto, essi mostrano, infatti, per un verso, la discrasia tra il potenziale tecnico e le doti «spirituali» degli Alleati, e, per l’altro, la compenetrazione, nell’esercito e nel popolo tedesco, di disciplina, tecnica e compattezza politica. Alcune osservazioni sull’attualità, lasciate cadere incidentalmente da Heidegger, soprattutto durante le lezioni friburghesi dei primi anni quaranta, avrebbero offerto ad Adorno - se le avesse conosciute - formidabili appigli per la sua polemica. Egli avrebbe potuto godere di alcune di quelle rare occasioni per spiare un pensiero, nel momento in cui - stando con la guardia abbassata - il suo autore abbandona provvisoriamente il linguaggio cifrato e manifesta il campo magnetico di forze storiche e politiche che lo orienta. Si tratta di allusioni alla debolezza dimostrata dal gigante industriale americano, fattosi ingenuamente sorprendere dai giapponesi a Pearl Harbor, e al subitaneo tracollo della Francia (che rappresenta, in termini filosofici, il paese di Descartes e del meccanicismo). Se paragonata a questi disastri, la fulminea conquista della Norvegia da parte dei paracadutisti e delle truppe aeronavali del Reich mostra la superiorità della Germania su una tecnica separata dallo spirito e su uno spirito separato dalla tecnica.
Americanismo e heideggerismo
È impossibile non rimaner colpiti dal tono di sufficienza con cui Heidegger guarda al mondo situato oltre i confini della Germania. In particolare il giudizio sugli Stati Uniti, come Stato di un popolo senza storia, esprime l’idea di fondo, mai abbandonata, da Essere e tempo a Sentieri interrotti, secondo cui l'americanizzazione del mondo trasforma gli oggetti - per utilizzare l’espressione di un altro «autentico», ossia di Rilke - in «pseudocose» e rafforza quel conformismo anonimo che è caratteristico dell’uomo massa, dell’individuo che è parte della «folla solitaria», di un esemplare che vegeta soprattutto nelle metropoli di società in cui lo scatenamento della tecnica non incontra alcun contrappeso nel radicamento dell'«uomo».20 Come scrive lo stesso Rilke:
Per i nostri avi, una «casa», una «fontana», una torre loro familiare, un abito posseduto, il loro mantello erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l’umano. Ora ci incalzano dall’America cose vuote e indifferenti, pseudocose, aggeggi per vivere (...) Una casa nel senso americano, una mela americana o una vite di là non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui erano riposte la speranza e la ponderazione dei nostri padri.21
Al confronto, le analisi su Americanismo e fordismo di Gramsci (che pure scriveva, pochi anni prima, nel chiuso di un carcere) sono di una lungimiranza esemplare, persino nella polemica difesa del «conformismo», quale taglia da pagare per il passaggio a una nuova e più moderna organizzazione della fabbrica e della società contro gli «autentici» nostrani, in partico lare contro i più beceri rappresentanti dello «strapaese».22
Il silenzio e la chiacchiera
Adorno ha tuttavia visto solo il lato più «rilkiano» o l’aspetto folcloristico dell’adesione di Heidegger ai valori contadini. Ha caricato di eccessivi significati la descrizione offerta da Toni Cassirer dell’incontro a Davos tra suo marito Ernst e quell’essere timido e scontroso, stranamente abbigliato, che entra in una sala con lo stesso impaccio di un villico nel castello di un signore feudale.23 Si è poi fatto impressionare dai vestiti indossati da Heidegger, che potevano sì apparire quelli di un campagnolo o di un montanaro della Selva Nera, ma che erano in realtà costumi non «autentici», abiti di sartoria fatti confezionare sulla base di modelli falsamente tradizionali, in voga nell’ultimo decennio del secolo scorso. Da questo punto di vista, Heidegger è davvero un post-modem, un «citazionista», una figura intellettuale che sa curare tanto la diffusione della propria immagine, quanto la scelta delle sue parole. Come ha notato in tutt’altro ambito di discorso McLuhan, egli sa cavalcare l’onda dei moderni media, conosce e sfrutta tecniche ed espedienti messi a punto dai mezzi di comunicazione di massa.*
Non si può tuttavia smentire quanto egli stesso racconta (e che viene poi amplificato da Adorno, con tagliente ironia) a proposito delle tempeste di neve che, mentre scuotono la sua baita, gli ululano che è giunto il momento di filosofare. E neppure la patetica storia del vecchio contadino che, scuotendo impercettibilmente la testa, gli fa intendere che non deve andare a Berlino, dove gli è stata offerta «per la seconda volta» una prestigiosa cattedra di filosofia.24 Occorre, tuttavia, ricordare che si tratta pur sempre di articoli scritti ‘con la mano sinistra’ per giornali di provincia.
Ma proprio questo è il materiale che interessa ad Adorno, poiché il pensiero latente vi filtra attraverso un’autocensura allentata. Tale scelta metodologica - pur essendo euristicamente feconda - si presta a qualche arbitrio e pone un problema più generale: se, cioè, un filosofo debba essere affrontato ai livelli più alti, di maggior concentrazione della coscienza, o a quelli più bassi, quando la tensione intellettuale cede. E chiaro che Adorno si serve di Heidegger - oltre che in veste di imputato, per una volta tanto reo confesso delle convinzioni che normalmente nasconde - anche come capro espiatorio: non solo del nazismo ma anche della più recente ideologia che a lui si richiama. Con una sorta di «teoria della recezione» di carattere morale, egli è considerato in qualche modo responsabile di tutte le interpretazioni e di tutte le varianti che scaturiscono dalla sua filosofia.
E, infine, parimenti innegabile che Heidegger approvi in pieno il «silenzio taciturno» (Verschwiegenbeit) e l’attaccamento alla propria terra del contadino ottusamente pago della propria limitata esperienza: tali atteggiamenti sono in effetti contrapposti alla «chiacchiera» (al tentativo di riempire un vuoto con parole inautentiche), all’erranza e alla «curiosità» senza meta dell’abitante della grande città, del flàneur.25 Anche Adorno condivide la condanna della chiacchiera, ma non approva il fatto che la si trasformi, da una forma di comunicazione storicamente e socialmente determinata, in «situazione emotiva di tipo ontologico difettivo», oggetto di semplice deplorazione (cfr. J, 71). Le accuse di Heidegger finiscono per ritorcersi contro di lui: egli stesso, infatti, «colonizza una regione immaginaria intermedia tra l’ottusità dei facta bruta e la chiacchiera ideologica» (ND, 89), preparando così il terreno alla crescita rigogliosa del «gergo dell’autenticità».
Non c'è scampo
E Adorno tuttavia che sbaglia nel ritenere il suo avversario un arcade: Heidegger è sin d’ora consapevole del fatto che la campagna e la provincia non rappresentano oasi di idillica serenità, avulse dal mondo moderno.26 Sa bene - anche se formulerà queste idee, con maggiore lucidità, in un periodo successivo, sviluppando tuttavia posizioni degli anni trenta - che vi è una sussunzione nel processo produttivo generale tanto degli elementi della natura (del bosco, della campagna, del fiume), quanto degli uomini (del boscaiolo, del contadino, della piccola borghesia rurale). Non è così bucolico da non capire che, ormai,
la guardia forestale che nel bosco misura il legname degli alberi abbattuti e che apparentemente segue nello stesso modo di suo nonno gli stessi sentieri è oggi impiegata dall’industria del legname, che lo sappia o no. Egli è impiegato al fine di assicurare l’impiegabilità della cellulosa, la quale a sua volta è provocata dalla domanda di carta destinata ai giornali e alle riviste illustrate. Questi, a loro volta, spingono (stellen) il pubblico ad assorbire le cose stampate, in modo da diventare «impiegabile» per la costruzione di una «pubblica opinione» su commissione (bestellte).
Allo stesso modo, si rende conto che la campagna, i contadini e l’agricoltura in genere sono stati assorbiti dall’«industria meccanizzata dell’alimentazione» e che il fiume è stato «incorporato» nella costruzione della centrale elettrica, riducendosi così a una sua appendice, bisognosa di addetti che provengono da strati sociali abituati per secoli a svolgere altri mestieri. La tecnica moderna non solo «pro-voca» - chiama, fa scaturire e mette allo scoperto - risorse ed energie naturali, ma è, per giunta, capace di immagazzinarle, trasformarle e distribuirle a distanza lungo reti di comunicazione che coprono virtualmente l’intero pianeta (mentre l’allocazione dei beni era prima più lenta o limitata nello spazio e la conservazione dell’energia, come nel caso dei mulini, impossibile; cfr. Heidegger, FdT, pp. 11-13).
5. Redenzione attraverso la morte
Lo spirito della Germania
Proprio perché capace di assorbire la tecnica senza produrre effetti di perturbante spaesamento, di Unheimlichkeit, il primato del popolo tedesco non è di natura tecnica, ma spirituale. Dato che la tecnica non ha niente di tecnico, ma è solo una modalità di «disvelamento» dell’Essere, si può dire che essa abbia trovato la sua «casa» in Germania e nella lingua tedesca.
Heidegger non attribuisce, comunque, alla supremazia filosofica della sua lingua materna o al termine «spirito» (Geist) gli stessi significati che si possono riscontrare in altri pensatori (compreso lo stesso Adorno, che ha sostenuto, ripetendo un vecchio topos, che la lingua tedesca possiede «una speciale affinità elettiva con la filosofia»; Auf die Frage, 699). Già Hegel, che non era affatto nazionalista, aveva considerato, la Germania - in un’Europa «dove pure si promuovono con fervore le scienze e la cultura dell’intelletto» - come l’attuale depositaria del «fuoco sacro» dello spirito, compito che una volta era spettato «alla nazione ebraica».27
Senza volerlo, Derrida ha offerto un aiuto indiretto alla soluzione dei rapporti tra «spirito» e tecnica in Germania, quando si è interrogato sul perché Heidegger cerchi, sino al 1933, di «evitare» la parola «spirito» con tutti i suoi derivati, oppure li usi tra virgolette. Scopre allora, non senza sorpresa, che essa compie il suo ingresso trionfale, proprio a partire dall'Autoaffermazione dell’università tedesca, nel momento cioè in cui il Führer accademico, dichiara che la sua missione28 è quella di fornire una guida spirituale: «Accettare l’ufficio di rettore significa assumersi e far proprio il compito di guida spirituale di questa scuola di studi superiori. » Ma ricorda e ammonisce: «Coloro che sono alla guida sono essi stessi guidati - guidati dalla inesorabilità di quella missione spirituale che obbliga e incalza il destino del popolo tedesco a forgiare la sua storia» (cfr. Heidegger, SdDU).
Come risulta anche da scritti successivi, lo «spirito» è «fuoco», «fiamma», «conflagrazione», oppure ciò che infiamma. L’uso di questo termine risulta a Heidegger tanto più difficile, quanto più gli è necessario: difficile, perché evoca il Dio o il Geist dell’idealismo (ciò che trasforma lo spirito in spettro o revenant, ossia nel doppio di se stesso, in sostanza medesima della metafisica);29 necessario - aggiungo - perché esso raffigura la forza che mobilita e infiamma il popolo tedesco nell’«ora decisiva», allorché si tratta di eseguire, senza discutere, l’ordine del Führer, ubbidendo a una «chiamata» che non è certo muta, come quella percepita della coscienza in Essere e tempo.30
La chiamata del Dio terreno
Il nazionalsocialismo acquista così in Heidegger il senso di un destino inesorabile: chiede che ciascuno abbandoni la dimensione privata e ‘qualunquistica’ e assuma - in modo «autenticamente» individuale - la propria responsabilità dinanzi al popolo («nessuno può trarsi in disparte»). Per quanto lo riguarda, ciò significa passare, senza contraddirsi, dall’«autenticità» del singolo in Essere e tempo all’«autenticità» pubblica, politicoaccademica, di chi ha sentito la vocazione a stringere ulteriormente i rapporti tra il sapere e il potere, tra la deutsche Wissenschaft e il Partito, tra le giovani generazioni e il Volk che si risveglia; per gli studenti, unire servizio militare, servizio di lavoro e servizio del sapere (Wissensdienst); per tutti, infine, essere indomiti e pronti al sacrificio supremo della vita.
Heidegger denuncia, in quest’epoca, una concezione dello Stato basata sulla sicurezza del cittadino. Da lui esige, non cautela e scarsa propensione al rischio, ma tensione eroica, «risolutezza» (Entschlossenheit), disponibilità ad ascoltare le autorità, una condotta cioè che aiuti la Germania a scuotersi dal torpore e dalle umiliazioni del dopoguerra. E' questa la fiamma che deve accendersi negli individui e nella comunità popolare, la voce che, nel suo silenzio lontano dalla chiacchiera, si rivolge a ognuno per invitarlo - a differenza del «demone» di Socrate - a seguire, non la coscienza contro le leggi dello Stato, magari ingiuste, ma la vox populi con cui tuona l’attuale «Dio terreno».
Heidegger e la «rivoluzione conservatrice»
Per inquadrare queste posizioni bisogna inserire il pensiero di Heidegger nel dialogo (in gran parte muto o cancellato) con i teorici della «rivoluzione conservatrice» o del «modernismo reazionario», a cui è per molti versi vicino o con cui, comunque, si confronta.31 Significativa, a questo proposito, è per Heidegger l’opera e l’esempio dell’amico Ernst Jünger. I suoi libri - ancor prima di quello considerato il più importante, L’operaio, del 1932 - hanno lasciato in lui una traccia profonda sia sull’elaborazione del modello eroico dell’«essere-per-la-morte», sia sul modo di intendere il rapporto tra tecnica, politica e società.
In Tempeste d’acciaio, del 1920, nella Battaglia come esperienza interiore, del 1922, e in Fuoco e sangue, del 1929 l’estasi mistica della battaglia, l’ebrezza che deriva dal mettere a repentaglio la propria vita e l’ostilità della ragione a quest’ultima sono state spesso descritte. Durante una battaglia, «l’individuo è come una furiosa tempesta, come il mare che ulula e il tuono che romba. Si è dissolto nel tutto. Si sofferma sulla soglia oscura della morte come un proiettile che ha colto nel segno» (Jünger, KiE, 57 e cfr. S, passim). In Der Arbeiter, inoltre, gli operai (ribelli che conciliano modernità e tradizione), temprati alla dura scuola della fabbrica, tra le «tempeste d’acciaio» delle macchine - simili in ciò ai soldati, a questi «lavoratori a giornata della morte» (KiE, 76) - hanno anch’essi assunto l’uniformità di una maschera metallica (cfr. A, 117). Jünger trasforma le virtù anonime dell’obbedienza e della disciplina in princìpi di individuazione, e attribuisce a ciò che annienta la persona una patente di nobiltà e a quel che distrugge e rende amorfi, la morte, il carattere di vera creatrice di «forma», di Gestalt.
Rispetto a Kracauer, che aveva dichiarato la retrocessione delle folle moderne al ruolo ornamentale di comparse della politica - dimenticando, peraltro, il lato attivo del loro coinvolgimento -Jünger presenta le masse come antidoto omeopatico alla massificazione stessa. Al loro interno ciascuno diventa cosciente, come il soldato in guerra, del proprio contributo al potenziamento dell’energia complessiva di un popolo, del suo essere sì un ingranaggio, ma un ingranaggio che fa funzionare la grande macchina della collettività (cfr. Jünger, TM, passim). Anche a lui potrebbe adattarsi, con diversa intenzione, quanto Adorno dice a proposito dell’avversione heideggeriana contro l’anonimità del «Si»: nella denuncia della sfera anonima della società della circolazione e dello scambio, la sua posizione assomiglia a «un sistema di credito altamente sviluppato» (cfr., per analogia, ND, 67), in cui ciascuno prende a prestito la risolutezza dell’altro per capitalizzarla nel sistema economico in espansione della Volksgemeinschaft.32
Ma, per quanto entrambi predichino l’appartenenza del singolo alla totalità che si mobilita o all’Essere che chiama nel silenzio, Jünger è sicuramente molto più «modernista» di Heidegger. La sua apologia delle macchine (cfr. Jünger, FuB, 81 sgg.) e la sua scelta senza esitazioni in favore delle grandi città e contro la campagna33 lo mostrano meno interessato a un riequilibrio del potere della tecnica (attraverso il concetto statico di «radicamento») e senz’altro più incline a una visione dinamica, in cui la tecnica diventa, essa stessa, produttrice di ordine, di disciplina e di compattezza. Proprio perché la tecnica non produce alcun effetto di «spaesamento» o di spersonalizzazione, ma al contrario un forte senso di appartenenza alla comunità - gerarchicamente concepita secondo il modello dell’esercito -, uomini e macchine possono non solo coesistere, ma crescere simbioticamente. Lo sguardo di Jünger è perciò volto all’operaio di fabbrica, invece che al contadino, alla grande città piuttosto che alla baita di montagna. Sotto tale profilo, egli è indubbiamente meno arcaico di Heidegger. Adorno ha dunque ragione, in termini comparativi. Quel che gli sfugge, tuttavia, è il motivo dell’importanza attribuita da Heidegger al mondo contadino: essa non è dettata da una nostalgia delle origini, bensì da un’esigenza attuale, «modernistica».
Ciò non toglie che la diagnosi e gli scopi tanto di Jünger, quanto di Heidegger, siano abbastanza simili. Quel che cambia è la combinazione dei mezzi. Entrambi prendono atto della debolezza e dell’inconsistenza dell’io, dell'Ichschwäche, ed entrambi trasformano in rimedio la causa che l’ha prodotta. Conferiscono così al bisogno di protezione e di solidarietà degli individui soluzioni filosofiche, politiche e letterarie che ne sanzionano la fragilità e la dipendenza dalla totalità sociale.34 La loro esigenza di trovare un punto d’appoggio all’instabilità psicologica dei singoli e alla turbolenza della società mediante l' estetizzazione della politica, l’instaurazione di un ordine meccanico o di una autenticità individuale e collettiva viene trasformata, da espressione di malessere di una determinata civiltà, in bisogno ontologico o in destino epocale. Ma, come noterà Adorno, «chi non fosse più oppresso dall’esterno e in sé, non cercherebbe un punto d’appoggio, e forse nemmeno se stesso» (ND, 85).
Complicità con la morte
In Heidegger e nel «modernismo reazionario» il desiderio di rassicurazione si manifesta attraverso il suo opposto apparente, l’avversione per la sicurezza e l’amore del rischio e della morte. In quest’ottica, anche Nietzsche si mostra ad Adorno in una luce più nobile:
Lo slogan imperialistico e avventuroso di Nietzsche sul vivere pericolosamente - «vivere di esperimenti e offrirsi all’avventura» - voleva piuttosto dire, in ultima analisi, pensare pericolosamente, pungolare il pensiero, che muove dall’esperienza della cosa, e non recedere di fronte a nulla, non lasciarsi inibire da nessuna convenzione che scaturisca dal deposito disponibile del pre-pensato. (KuG, 605)
Adorno individua nella filosofia di Heidegger un’intima «complicità con la morte», che si manifesta nella sua trasfigurazione da necessità naturale in emblema della dignità e della libertà umana, da fatto in valore.35 Il soggetto - identificato con la morte stessa - è infatti autentico solo nella sofferenza, nella passività, nella sopportazione pura e semplice di un negativo assoluto, non rischiarato dalla pur debole luce messianica gettata dalla «stella della redenzione»:
Dolore, male e morte sarebbero, come dice il gergo, da «accettare»: non da cambiare. Al pubblico viene insegnato il difficile gioco d’equilibrio di aggiustarsi il nulla come se fosse l’Essere; di onorare la miseria evitabile, o quanto meno riducibile, come la cosa più umana dell’immagine dell’uomo; di sopportare l’autorità come tale a causa dell’innata insufficienza umana. (J, 48) 36
Identificandosi con l’irreparabile, l’individuo cerca di ottenere, per mezzo della morte, una sua disperata grandezza, una sublime ‘verticalità’: «Davanti alla filosofia heideggeriana si chiuse ciò che una volta costituiva l’ingresso alla vita eterna; essa adora invece di questa l’imponenza e l’ampiezza del portone. Il vuoto diventa l'arcanum della permanente infatuazione per il numinoso nascosto» (J, III).
La morte è così l’unico evento che dà senso alla vita. Per questo, pur non essendo Essere e tempo un testo prenazista, il «principio di anarchia», di sregolatezza, di arbitrio - che la morte instaura sul piano individuale, per il fatto di spalancare e rendere autentiche tutte le possibilità e le decisioni - consente il passaggio non traumatico dalle posizioni del 1927 a quelle del 1933, da un’ideologia della morte individuale a una della morte in serie, dall’arbitrio privato all’arbitrio politico.37
Le immagini di Auschwitz pesano in maniera intollerabile sull’animo di Adorno e la disumanità che vi si può appena intuire si proietta tanto sulla filosofia di Heidegger, quanto sulle versioni edulcorate dei suoi più recenti accoliti. Auschwitz ha infatti dimostrato che la morte non è semplicemente un destino eterno e livellatore di ogni differenza:
La morte come tale, o come fenomeno biologico originario, non è distaccata dagli intrecci storici: in questo senso l’individuo che porta la esperienza della morte è una categoria troppo storica. L’affermazione che la morte sia sempre uguale è astratta e non vera; la forma con cui la coscienza viene ad adattarsi alla morte, varia insieme alle concrete condizioni in cui uno muore, fin dentro alla physis. La morte nei campi di concentramento ha un nuovo orrore: dopo Auschwitz la morte significa terrore, temere qualcosa di più orribile della morte.38
Auschwitz diventa così l’allegoria dell’impossibilità stessa di vivere, della nullità a cui gli uomini vengono ridotti, una volta trasformati in prigionieri del lager aperto che è il «mondo amministrato»: «Quel che i sadici annunciavano alle loro vittime nel campo di concentramento: domani ti snoderai nel cielo come fumo da quel camino, lo dice l’indifferenza della vita di ogni singolo, verso la quale si sta movendo la storia: già nella sua libertà formale egli è così fungibile e sostituibile come poi lo sarà sotto i calci dei liquidatori.»39
Appropriarsi del nulla
Ma, almeno per quanto riguarda Essere e tempo, il tema della morte (pur portando in sé i tratti inconfondibili di un cupio dissolvi, che renderanno, in una certa fase, congeniale a Heidegger la volontà di potenza e di annientamento del nazionalsocialismo) è filosoficamente più complesso di come lo presenta Adorno.40 Una «precomprensione» originaria di coappartenenza al mondo, un orizzonte di vincoli e di possibilità da articolare nella forma del progetto, orienta da sempre il pensare, l’agire e il sentire di ognuno. L’ulteriorità e l’apertura costituiscono, appunto, la specificità dell'ex-sistenza umana, che non divide il soggetto dall’oggetto - nella forma dell’appropriazione di qualcosa di esterno o dell’interiorizzazione del mondo - anche se poi la «metafisica» ha finito, nel pensiero occidentale, per scindere i due mondi e ha separato la «tonalità affettiva» (Befindlichkeit, parola che sembra corrispondere al greco pathos) dall’attività del conoscere, ormai apprezzato, perlopiù, in quanto strumentale e calcolante.
Il singolo si sradica così dall’Essere, cade nell’oblio dei nessi di coappartenenza degli enti all’Essere e dei limiti di quell’Ente tutto speciale che egli stesso è, in quanto «Esserci». Il Si vaga inquieto, in preda alla chiacchiera, alla curiosità e all’equivoco, proprio perché si sforza incessantemente di dimenticare il limite invalicabile delle sue possibilità e dei suoi vincoli fattuali. Incapace di far proprio (eigen) questo orizzonte, ciascun individuo che si lascia andare alla deriva, che si immiserisce nella tranquillizzante sicurezza di una quotidianità che gli sottrae la vista della morte, è, di conseguenza, privo di «autenticità» (Eigentlichkeit). Gli manca l’appropriazione, non di qualcosa di esterno, di strumentalmente utile, ma del «progetto» mediante il quale si assume la propria vita e la propria morte. Non possiede, in altri termini, alcuna «anticipazione» dispiegata del ventaglio delle proprie possibilità di realizzarsi e della sequenza del loro disporsi lungo un asse temporalmente irreversibile, al cui traguardo sta per lui e per il mondo, da cui è inscindibile, il nulla.41
Il sacrificio della libertà
L’«essere-per-la-morte» non coincide affatto, in Heidegger, né con la medìtatio mortis che - da Platone a Montaigne e oltre - ha caratterizzato la riflessione filosofica dell’Occidente, né, tanto meno, con la spinoziana meditatio vìtae. Non bisogna infatti, secondo l’autore di Essere e tempo, pensare alla morte: è sufficiente esservi sempre preparati, porsi a disposizione della sua chiamata, sopportandone l’anticipazione come premessa di ogni comportamento autentico. Questo è l’aspetto veramente tanatofilo dell’atteggiamento di Heidegger, non compensato, come nella tradizione filosofica, da alcun elemento di riscatto intellettuale o morale, da alcuna phìlia che si opponga al dominio incontrastato di Thanatos.
Soprattutto nel cruciale 1944 - quando la guerra subisce una svolta per la Germania - Heidegger è dominato, nello scrivere la Postilla al Che cos'è la metafisica?, da una macabra visione del trionfo della morte e da una parallela, drammatica, mistica del sacrificio. Nella sua gratuità, contrapposta al tornaconto personale, l’atto dell’immolarsi diventa l’unica forma di emancipazione dal bisogno, dall’angoscia e dall’intelletto. Il sacrificio rappresenta, infatti, «un prodigarsi sottratto a ogni costrizione, perché sorge dall’abisso della libertà». Esso «non tollera alcun calcolo, in base al quale ogni volta lo si conta come utile o come inutile, siano gli scopi in alto o in basso. Un simile calcolo storpia l’essenza del sacrificio. La brama di scopi turba la chiarezza del timore, pronto all’angoscia, dello spirito di sacrificio, che si è creduto capace della vicinanza dell’indistruttibile» [WiM, 44 sg.).
Alludendo ad altro, aveva ragione Jaspers a sostenere che «Heidegger non sa cosa sia la libertà».42
6. La perdita della vicinanza
Luce dall’Occidente
Sino al momento in cui la vittoria della Germania appare assai probabile o ancora possibile, Heidegger crede non solo alla necessità «progettuale» del sacrificio degli individui a vantaggio del proprio popolo, ma anche alla saldatura già in atto, al suo interno, tra tecnica e radicamento comunitario.
Dopo la sconfitta del Reich, egli separa provvisoriamente la «questione della tecnica» dal suo legame privilegiato con la Germania. Ma, come già sappiamo, sarà proprio dalle radure (Lichtungen) della Selva Nera, dalla terra alemanno-sveva, che trasparirà nuovamente, dopo un lungo viaggio au bout de la nuit, la «luce», il «diradamento» o l’alleggerimento (Licht, come Lichtung ha la stessa radice di leicht, «lieve») dell’Essere che rischiarerà «l’Occidente» nel suo complesso.43
La tecnica tende ad assumere, da ora in poi, una dimensione esplicitamente globale, riferita all’uomo dell’«era atomica» e dell’automazione. Appare legata a una serie di osservazioni - in parte presenti negli scritti di Benjamin e di Bloch degli anni trenta, in parte assolutamente inedite - sugli effetti del sinergismo tra mezzi di trasporto veloci, mezzi di comunicazione di massa e cibernetica. Da tale rapporto si genera una diversa percezione del tempo e dello spazio (l’accorciarsi della durata e delle distanze), il fondersi e l’ibridarsi delle culture, il trasferimento coatto o volontario di ingenti masse umane sull’intera superficie del globo (cfr. FT, 109 sgg.). Da esso, inoltre - e questo è un punto teorico nodale - scaturisce «la fine del pensiero nella forma della filosofia», a causa dell’introduzione dei calcolatori, il cui uso si estenderà anche alle scienze umane, trasformando «la tradizione in bisogno d’informazione» e l’uomo, da «signore», in «servo della tecnica».44 Tutti questi mutamenti - malgrado gli effetti positivi di ricaduta, che pure ci sono, ma che non devono venire enfatizzati - continuano a essere visti nella prospettiva dello spaesamento. La società governata dagli strumenti di comunicazione, di controllo e di elaborazione delle informazioni moltiplica enormemente (e in maniera frastornante) il numero dei messaggi e l’anonimità del linguaggio e del costume.
Per quanto Heidegger sdrammatizzi le sue precedenti prese di posizione sull’impatto dirompente di una tecnica non frenata dai vincoli di sacrificio a una comunità e per quanto dia ormai per scontato il carattere anonimo dell’uomo nelle società di massa, non vi è dubbio che egli è rimasto sino all’ultimo allarmato per i destini dell’«Occidente». Questa è una delle ragioni per cui «ormai solo un Dio ci può salvare».
Il suo sguardo «planetario», alla fine degli anni cinquanta, non si è tuttavia ancora staccato dalla Germania. Si volge ai profughi tedeschi del Grossreich, che si sono rifugiati nella Repubblica Federale, e a quanti, a causa dei flussi migratori degli ultimi decenni, hanno dovuto trasferirsi. Ma il motivo di maggior preoccupazione è dato a Heidegger proprio da coloro i quali - pur non essendosi mai mossi dalla loro terra - ne sono altrettanto sradicati. La sedentarietà, il legame fisico con il suolo, non costituiscono più un contrappeso e una garanzia allo spaesamento generato dalla tecnica. L’erranza, lo sradicamento e la «curiosità» (sotto forma di voracità di notizie) sono ormai assunti come orizzonte normale dell’esistenza: tutti gli uomini sono virtualmente apolidi, a cui i media offrono legami eterei e immaginari con la realtà, esibendo un mondo lontano e finto, che fa loro dimenticare quello vicino:
Molti sono i tedeschi che non hanno più una patria, che hanno dovuto abbandonare i loro villaggi e le loro città, che vagano profughi lontano dalla terra che li ha generati. Innumerevoli altri sono quelli che, pur avendo una patria, sono costretti ugualmente a emigrare, finiscono nell’ingranaggio delle grandi città, debbono stabilirsi negli squallidi suburbi industriali, sono ormai diventati estranei alla terra che li ha generati. E quei tedeschi che vi vivono ancora? Spesso sono da essa ancora più lontani di coloro che l’hanno lasciata. Ogni ora, ogni giorno, seguono incantati le trasmissioni della radio e della televisione, ogni settimana il cinematografo li porta in un mondo certamente meraviglioso, ma spesso costituito soltanto da ambiti di rappresentazioni ordinari, che simulano un mondo che non è un mondo. Dappertutto è a portata di mano la cosiddetta rivista illustrata. Certo, tutto ciò con cui i moderni strumenti tecnici di informazione ogni ora, incessantemente, sorprendono, incalzano, stimolano la curiosità dell’uomo, è oggi molto più vicino del campo che circonda la propria cascina, più vicino del cielo sopra la campagna, più vicino dell’avvicendarsi del giorno e della notte, più vicino degli usi e costumi del villaggio, più vicino delle tradizioni del proprio mondo d’origine. (G, 32 sg.)
Lo scambio dei ruoli tra lontananza e vicinanza logora i rapporti con la propria comunità e con la natura nel suo complesso.45
Abbandono
Dinanzi a questa situazione, Heidegger adotta, alla fine, una strategia di distaccato stoicismo, di «abbandono» o «distesa serenità» (Gelassenheit), che dovrebbe anticipare una nuova, e appena percettibile, chiamata dell’Essere nell’impostare la nostra relazione con le cose. Queste, nel frattempo, hanno perduto la distinzione classica tra quelle che dipendono da noi e quelle su cui invece non possiamo esercitare alcun intervento. In nostro potere altro non c’è che una tranquilla presa di distanza, una compassata indifferenza, che rappresenta l’ultima chance di «controllare» una tecnica che in realtà ci controlla. Heidegger suggerisce, perciò, di assumere nei confronti dei prodotti della tecnica un atteggiamento rilassato, che non sia né di apologia, né di demonizzazione: occorre saperne fare a meno, senza tuttavia rinunziarvi:
Si tratterà infatti di lasciar entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i prodotti della tecnica e allo stesso tempo di lasciarli fuori, di abbandonarli a se stessi come qualcosa che non è più nulla di assoluto, ma che dipende esso stesso da qualcosa di più alto. Vorrei chiamare questo contegno che dice al tempo stesso si e no al mondo della tecnica con un’antica parola: l’abbandono di fronte alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen = l’abbandono delle cose e alle cose). (G, 38)
Neppure ora Heidegger esprime però un incondizionato apprezzamento della tecnica o si adegua a una più raffinata forma di «americanismo». Intende soltanto disporre gli uomini a un periodo di apprendistato, in cui si abituino a convivere con lo strapotere della tecnica (ossia con il modo attuale in cui l’Essere si rivela e si nasconde, preparando un prossimo «oltrepassamento» dell’attuale condizione). Questo risultato si potrebbe conseguire strappandole, da un lato, l’energia unheimlich, che continua a sprigionare, e, dall’altro, educando gli individui a scoprire altre radici, magari invisibili, e cioè altre forme di convivenza con se stessi, con gli altri e con l’Essere nel suo complesso.
La soluzione del problema non è, comunque, per Heidegger né semplice, né indolore, dato che passa per nuove lacerazioni: anche e soprattutto quando anything goes e in alcune zone del mondo si attraversa una fase di benessere che l’umanità non ha mai conosciuto prima: «Tutto funziona. Questo appunto è l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e sradica l’uomo sempre più dalla terra (...) Io so che tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo aveva una patria ed era radicato in una tradizione. » 46
7. Soluzioni e limiti
Le colpe dei filosofi
Il limite del Gergo dell'autenticità ne costituisce, per certi versi, anche il pregio: è il suo lato illuministico di pamphlet satirico, che non prende abbastanza sul serio i propri avversari. Rientra, del resto, nella natura della satira il mostrarsi irriguardosa delle differenze e l’accentuare sino al grottesco i particolari: scintille di pensiero possono così nascere - come nel freudiano motto di spirito - anche dalla frizione tra incongruenze. Tuttavia, attaccare gli avversari nei punti in cui sono teoricamente più deboli, e persino esposti al ridicolo, invece che là dove sono più forti o inquietanti, fa perdere al pensiero filosofico occasioni di crescita che vengono invece moltiplicate da un confronto più serrato sulla base di argomenti.
L’accettazione di una sfida del genere sarebbe stata - in un altro contesto - astrattamente possibile, almeno da parte di Adorno, che ha professato un principio di carità logica (o di beneficio metodologico) di cui, in precedenza, aveva goduto anche Spengler: «Uno dei compiti fondamentali di fronte a cui si trova oggi il pensiero è quello di impiegare tutti gli argomenti reazionari contro la cultura occidentale al servizio dell’illuminismo progressivo» (MM, 229 sg.). E anche probabile in questo caso che
Adorno discrimini Heidegger - oltre che per ragioni politiche e ideologiche - per una sorta di nevrosi di contatto nei confronti di questo nemico da cui è comunque attratto: alcune idee sorgono infatti in lui - se non altro come formazione reattiva - proprio in quanto sollecitate dalle tesi heideggeriane.
E per quanto Adorno - diversamente da altri - si sia sforzato di non confondere mai la biografia con la filosofia, egli ha innegabilmente ricondotto alcune tra le più elaborate posizioni teoriche di Heidegger all’ideologia, al comportamento o all’atteggiamento politico da lui manifestati o, addirittura, a qualche frase particolarmente goffa. Ma il fatto che Platone sia stato amico dei tiranni di Siracusa o Rousseau abbia mandato i propri figli all’orfanotrofio impedisce forse alla Repubblica o all 'Emilio di essere dei grandi libri? Le «colpe» dei filosofi si estendono alla tenuta (ossia alla «verità» o alla confutabilità) delle loro teorie. Per il resto, essi condividono quelle di altri uomini le cui azioni o idee divengono pubbliche, ricevendo spesso interpretazioni opposte. E ogni tanto i grandi pensatori - come capitava persino a Omero - «dormicchiano».
Nodi
Per uscire dalla situazione di stallo rispetto al «rifiuto della comunicazione» ostentato da due tra i più significativi filosofi del Novecento (e per abbandonare finalmente il piano dell’a-pologia e dell’irrisione) non restano che due mosse, il cui valore trascende il caso specifico.
Anche se raramente seguita, la prima è abbastanza semplice. Consiste nel porre domande pertinenti: nel non chiedersi, a esempio, quali rapporti esistano tra le convinzioni personali e le teorie di un filosofo, ma in che misura, semmai, i pregiudizi politici o ideologici interferiscano con il nucleo più consistente del suo pensiero o, al contrario, derivino direttamente da esso. O, ancora, come si articolino - in tutta la loro ambiguità e nel quadro di una complessa strategia della comunicazione - la dimensione filosofica e quella politico-ideologica.47
La seconda mossa è quella più inquietante e, di conseguenza, la più difficile, perché esige che si esamini a fondo un interrogativo che rovescia l’ottica consueta con cui di norma si considerano simili questioni. Per decidersi a compierla, è anche necessario (nello spirito della migliore filosofia adorniana) avere la forza di guardare la Gorgone. La mossa teorica da compiere per sbloccare l’impasse si traduce così, in termini più specifici, nella domanda: cosa aveva il nazismo per attrarre uomini come Heidegger? E, in termini più generali: quali esigenze trovarono soddisfazione - sia pure in maniera mostruosa, perversa o regressiva - attraverso la sua politica, perché essa fosse seguita così ciecamente da milioni di uomini, disposti a infliggere, e a darsi, sofferenza e morte? Finché tali interrogativi non riceveranno repliche più adeguate,48 si continueranno a scrivere solo storie criminali della filosofia.
Per il ruolo che gli spetta, anche una rinnovata lettura del Gergo dell’autenticità potrebbe fornire l’occasione per un ripensamento e un bilancio dei nodi teorici e storici legati ai nomi di Adorno e Heidegger. E questo proprio a vent’anni dalla scomparsa di Adorno, quando il suo avversario sembra aver conquistato, in diversi paesi, quel prestigio culturale che il «gergo dell’autenticità» aveva contribuito a creargli in Germania. Oggi che questo linguaggio è scomparso - sostituito da forme di più ironico disincanto - restano, tuttavia, ancora insoddisfatti e non sempre chiari, molti dei problemi e delle aspirazioni che l’avevano puntellato.
REMO BODEI
Note
1 Il Jargon der Eigentlichkeit. Zur deutscben Ideologie ( =J), elaborato tra il 1962 e il 1964, era inizialmente destinato a diventare un capitolo della Dialettica negativa. Scorporato da essa per il suo carattere specifico e autonomo, è apparso dapprima come articolo sulla «Neue Rundschau», lxxiv (1963), pp. 371-85, e, nel 1964, ampliato e con il medesimo titolo, in forma di libro, presso l’editore Suhrkamp di Francoforte (successivamente ristampato, con una prefazione, nel 1967, è ora compreso nelle Gesammelte Schriften di Adorno, voi. 6, pp. 413-526).
Per rendere più scorrevole il testo, ho citato le opere di Adorno, Heidegger, Rosenzweig e Junger secondo un sistema di sigle (e di numeri, che rinviano alle pagine della traduzione italiana, quando esiste, altrimenti all’edizione originale). Lo si può trovare riportato nell’Appendice, dove ho inoltre concentrato tutti i riferimenti utili a chi voglia eventualmente approfondire i problemi trattati (la bibliografia, raggruppata per blocchi tematici, segue l’ordine dell’esposizione; i blocchi sono, tuttavia, segnalati o in maniera esplicita o mediante un asterisco in questa Introduzione o nelle note). La relativa ampiezza dell’apparato bibliografico è dovuta anche alla necessità di riannodare i fili di un rapporto tra Adorno e la cultura filosofica - non solo italiana - interrotti da oltre un decennio, indicando possibili percorsi di lettura.
2 Cfr. la lettera inedita di Adorno a Kracauer del 22 luglio 1963. Sono grato alla dottoressa Roberta Malagoli per la segnalazione di questo carteggio tra Adorno e Kracauer (che si svolge tra il luglio 1963 e il marzo 1965 e che contiene diversi accenni relativi al Gergo dell'autenticità), al dottor Rolf Tiedemann dell’Adorno-Archiv di Francoforte e alla dottoressa Ingrid Belke del Deutsches-Literaturarchiv di Marbach per avermi gentilmente concesso di consultarlo e di parafrasarne o citarne brevi passi.
3 Cfr. lettera di Adorno a Kracauer del 22 novembre 1963.
4 A lui si riferisce, appunto, l’allusione posta all’inizio del Gergo: «Con suo lieve rammarico un amico, attratto allora da questa cerchia, non fu invitato. Gli si fece capire che non era abbastanza autentico» (J, 7). Per notizie su Kracauer e i suoi scritti, cfr. oltre, pp. Lviii sg. Il passo citato si trova in S. Kracauer, Die kleinen Làdenmadchen gehen ins Kino (1927), in Das Ornament der Masse e Strussen in Berlin und Anderswo, Frankfurt a.M. 1963 e 1964 [trad. it. Le piccole commesse vanno al cinema, in La massa come ornamento, Napoli 1982, p. 86].
5 L’espressione è di Thomas Mann, cfr. Deutschland und die Deutschen, in Essays, voi. 2 Politik, a cura di H. Kurze, Frankfurt a.M. 1977 [trad. it. La Germania e i tedeschi, in Tutte le opere, Milano 1957, voi. 11, p. 560].
6 La critica dell’interiorità e dell’autenticità in Kierkegaard e in Heidegger risale, nella formazione di Adorno, a una fase assai antica. Già nella prolusione del 1931 all’Università di Francoforte, la ricerca della «profondità» viene infatti giudicata infruttuosa, un mero surrogato (anche in Heidegger) di «quello che non le è riuscito di trovare nell’aperta pienezza della realtà» (AdPh, 5).
7 Sebbene Adorno abbia ripetutamente rivendicato l’esigenza di far prevalere il «non-identico» contro l’identità tautologica, il bisogno degli «autentici» di non essere identici agli altri appare appunto come premessa e conseguenza di una nuova vittoria del «tutto» (il quale, proprio perché notoriamente «è il falso», domina la «vita offesa»). L’autenticità - sotto questo profilo -non è che la parte concava del dominio del tutto sugli individui, la falsità duplicata e interiorizzata.
8 Cfr. J.-F. Lyotard, Heidegger et «les juifs», Paris 1988 [trad. it. Heidegger e «gli ebrei», Milano 1989].
9 Le riserve espresse da Benjamin nei confronti di Rosenzweig (peraltro accompagnate da una costante stima) non gli impediscono di utilizzare questo tema dominante della Stella della redenzione. Del resto, esistevano, tra i due, punti di virtuale intesa, anche sul piano della «filosofia grammaticale», sin dallo scritto giovanile di Benjamin Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo, in cui la ricerca di una lingua originaria e autentica dell’umanità è proiettata nel futuro della «redenzione». Per l’importanza che l’idea di «redenzione» ha sempre giocato in Adorno, cfr. ad esempio MM, 304: «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce se non quella che emana dalla redenzione sul mondo. »
10 Cfr. E. Kant, Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton der Philosophie, in Gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe, Berlin-Leipzig, poi Berlin 1900 sgg., vol. 8 [trad. it. Di un tono di distinzione recentemente assunto in filosofia, in «Studi Urbinati», xu (1967)]. Sul problema della «distinzione», cfr. P. Bourdieu, La distinction, Paris 1979 [trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna 1983, in particolare pp. 11 sgg. e 481 sgg.].
11 Cfr. G. Schneeberger, Nachlese zu Heidegger. Dokumente zu seinem Leben und Denken, Bern 1962.
12 Nel primo numero della rivista «Diskus», del gennaio del 1963, uno studente scopri una recensione scritta da Adorno nel 1934 sul mensile «Die Musik», in cui erano contenuti alcuni tentativi di ingraziarsi il nuovo regime parlando con favore di Baldur von Schirach, il capo della Hitler-Jugend, e citando Goebels. Adorno si difese subito definendo «stupidamente tattiche» le sue mosse, che sarebbero state basate sull'ipotesi che il nazionalsocialismo fosse destinato a non durare. Trovava perciò offensivo ogni eventuale accostamento della sua posizione a quella di Heidegger, «la cui filosofia è fascista fino nei suoi più intimi elementi». Di diverso parere, e durissima nei confronti del filosofo francofortese, è Hannah Arendt che lo accusa dapprima di tirare le fila dell'attacco a Heidegger sul piano dell'antisemitismo, lo definisce «uno degli uomini più ripugnanti che conosca» e ritiene che egli, «mezzo ebreo», avesse «sperato di farla franca grazie alla sua discendenza italiana da parte di madre» (cfr. Hannah Arendt e Karl Jaspers, Briefwechsel1929-1969, München 1985, lettera del 4 luglio 1966, p. 679, e lettera del 18 aprile 1966 [trad. it. parziale Carteggio. Filosofia e politica, Milano 1989, pp. 225 sg., con la nota del curatore A. dal Lago]).
13 Cfr. M. Heidegger, Warum bleiben wir in der Provinz?, riportato in Schneeberger, Nachlese zu Heidegger cit., pp. 216-18.
14 Da qui scaturisce «l'idea che colui che è stato per primo in qualche posto, che lo ha posseduto per primo, sia il migliore, sia più nobile rispetto al newcomer o all'immigrato (...) Un certo sentimento di avversione per determinati gruppi mobili è inequivocabilmente presente nella stessa impostazione generale heideggeriana. Se l'essere è identificato con l'agricolo in questo senso (...), tali analisi (...) hanno allora un peso e un'importanza straordinariamente grandi.
Di fatto io considererei quindi questo testo di Heidegger in un certo senso come una chiave per la sua filosofia, per capire ciò che significa autenticità» (PhT I, 144 e 156, ma cfr. ibid., 145-48 e 154-56 e, più avanti, in questa Introduzione, pp. xxxiii sgg.). Particolarmente presa di mira è poi la «criptoterminologia » di Heidegger, che adopera «parole molto lontane dall'uso linguistico che si suol fare delle stesse parole (...) Chi ha orecchio abbastanza fino, può sentire abbastanza spesso il loro suono stridente, che denuncia come l'onesta e semplice parola straniera che starebbe propriamente al loro posto sia stata impedita solo perché il lettore non possa farsi cattivi pensieri» (PhT I, 24).
15 Per l'interpretazione heideggeriana di Hölderlin cfr. Heidegger, Brief, 290 sgg., EzHD, 5 sgg. (e, più in generale, i testi raccolti nell'edizione italiana La poesia di Hölderlin, Milano 1988), nonché i corsi universitari Hölderlins Hymnen «Germanien» und «Der Rhein», in GA XXXIX e Hölderlins Hymne «Der Ister», in GA LIII. Anche Hegel viene difeso da Adorno contro l'interpretazione heideggeriana del suo concetto di esperienza come in parte legato a una dimensione originaria (cfr. DSzH, 91 sg. e Heidegger, HBdE).
16 Questa avrebbe separato il soggetto, come «specchio della natura» (intendendo l'espressione nel senso, molto heideggeriano, datogli da R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton 1979 [trad. it. La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1986, in particolare, pp. 36 sgg.]), dall'Essere, ridotto a «immagine del mondo» (cfr. Heidegger, ZW).
17 Adorno trascura il fatto che il linguaggio ha in Heidegger un suo specifico carattere di «storicità». È il modo in cui si manifesta, di volta in volta, la coappartenenza dell'uomo all'Essere nell'evento (Ereignis): termine, questo, imparentato - attraverso la stessa radice eig di Eigentum, «proprietà» - ad Eigentlichkeit, «autenticità», appropriazione di se stessi nel «progetto esistenziale di un essere-per-la-morte autentico» (cfr. Heidegger, SZ, 392 sgg.). Adorno ha colto nelle categorie heideggeriane una sorta di «individualismo proprietario»: vedi, a esempio, la critica della nozione di «sempre mio», come «rapporto di proprietà a cui compete il rango e il diritto dell'apriori filosofico» (J, 79, cfr. 89).
18 Penso, in particolare, all'eco suscitata dalla pubblicazione dell'intervista concessa da Heidegger al settimanale «Der Spiegel» il 13 maggio 1976, pochi mesi prima della morte (Nur noch ein Gott [trad. it. Ormai solo un Dio ci può salvare, Parma 1987]) e al libro di V. Farias, Heidegger et le nazisme, Paris 1987 [trad. it. Heidegger e il nazismo, Torino 1988]. Ma vedi l'Appendice per l'ulteriore letteratura sull'argomento.
19 Cfr. la lettera di Heidegger a Rudolf Stadelmann del 20 luglio 1945, riportata in Farias, Heidegger e il nazismo cit., p. 305.
20 Cfr. Heidegger, EM, 48.
21 Cfr. una lettera di Rilke del 13 novembre 1925, citata da Heidegger, WD, 268.
22 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino 1975, voi. 3, pp. 2158 sgg.
23 Cfr. T. Cassirer, Aus meinem Leben mit Ernst Cassirer, New York 1950, pp. 165-67. Per quanto Heidegger, come «matador di questa politica del gergo» stia lontano dalla sua normale goffaggine, Adorno pare convinto che anch’egli nutra «il rancore dell’interiorità».
24 Cfr. Heidegger, Warum bleiben wir in der Provinz? cit. e J, 40. Il saggio heideggeriano Costruire, abitare, pensare, del 1935 - malgrado il suo esasperato tradizionalismo e la comunione mistica instaurata tra artificio umano ed elementi naturali - contiene riflessioni, che possono rendere meno ridicoli i passi dell’articolo, sul legame tra la casa, in quanto luogo fisico, e gli affetti, la memoria, le tradizioni e le attività che vi si svolgono (cfr. Heidegger, BWD, 107 sgg.)
25 Per il senso della critica heideggeriana all’erranza e alla curiosità, cfr. J, 77 e, a proposito dell’idealizzazione dei contadini, l’osservazione secondo cui, rispetto a una società fondata sullo scambio generalizzato delle merci, essi «hanno di meglio solo una cosa ancora peggiore, lo sfruttamento immediato della famiglia» (J, 41).
26 Resta significativo il fatto che, per tutta la vita, Heidegger abbia preferito la propria piccola patria svevo-alemanna (la Heimat, parola che conserva la radice di casa, Heim), allo Staat, termine e concetto che, per la sua origine «razionalistica», non era molto amato neppure dal nazionalsocialismo, il cui «Beemoth» - per parafrasare Franz Neumann - è il Volk o il Reich. L’attaccamento di Heidegger al suo angolo sudoccidentale di Germania, piuttosto che al Grossreich, si manifesta anche dopo il crollo del regime hitleriano, quando si dichiara convinto che sarà proprio a partire dalla terra sveva - dal paese natale di «Hegel, di Schelling e, soprattutto, di Hölderlin» - che si desterà lo spirito dell’Occidente» (le frasi citate compaiono in due lettere a Rudolf Stadelmann, rispettivamente del 20 luglio e del i° settembre 1945, scoperte da Farias, Heidegger e il nazismo cit., p. 305).
27 Cfr. G.W.F. Hegel, Vorlesungen ùberdie Geschichte der Philosophie, in Werke in zwanzig Banden, a cura di E. Moldenhauer e K. M. Michel, voi. 18, p. 12 [trad. it. Discorso inaugurale tenuto a Heidelberg il 28 ottobre 1816, in Lezioni sulla storia della filosofia, Firenze 1973, voi. 1, p. viii].
28 Auftrag, «missione» o «incarico», è un vocabolo tipico del gergo dell’autenticità. Non bisogna, in generale, perdere di vista la «rara ambiguità» del linguaggio heideggeriano: come ricordava Lowith, con sottile ironia, dopo questo discorso rettoriale, «l’uditore non sapeva se aprire i “Presocratici” di Diels o arruolarsi nei ranghi delle SA». Sull’«idioletto filosofico» di Heidegger, ossia sui termini tipici e ricorrenti del suo linguaggio (in alcuni casi si tratta di reminiscenze che derivano dal gergo nazista del Völkischer Beobachter, cfr. P. Gay, Weimar Culture. The Outsider and the Insider, London 1968, p. 84 e, più in generale, sul vocabolario politico di Hitler, J.-P. Stern, Hitler. The Führerand the People, Berkeley 1975), cfr. P. Bourdieu, L'ontologie politique de M. Heidegger, Paris 1988 (una versione leggermente diversa era già apparsa negli Actes de la recherche en sciences sociales del 1975).
29 Cfr. J. Derrida, De l’esprit. Heidegger et la question, Paris 1987 [trad. it. Dello spirito. Heidegger e la questione, Milano 1989, pp. 39 sgg., 95].
30 Cfr. Heidegger, SZ, 414, 416 sg.: «La chiamata viene da me e tuttavia da sopra di me (...) La chiamata non racconta storie e chiama tacitamente. Essa chiama nel modo spaesato del tacere.» Sul piano politico, non è da escludere l’ipotesi che Heidegger - al pari di Carl Schmitt - volesse esercitare, a sua volta, un’influenza filosofica sul nazismo, che abbia pensato «guidare la guida», den Fuhrer fuhren.
31 Non va passato sotto silenzio il fatto che molti degli atteggiamenti e dei valori di «destra» di questo movimento avevano trovato un corrispettivo simmetrico in alcuni dei gruppi più radicali della «sinistra» weimariana, come, a esempio, l’attacco a tutte le mediazioni del pensiero democratico-liberale, il ripudio, appunto, dei suoi ideali di pacifica sicurezza «borghese», l’accento stesso posto sul rischio, la decisione e la risolutezza, l’esigenza di mantenersi sempre pronti al «balzo in avanti» o alla «spallata rivoluzionaria». Oltre ai testi ricordati in Appendice, cfr. J. Herf, Reactionary Modernista. Technology, Culture and Politics in 'Weimar and in the Third Reich, New York 1984 [trad. it. Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Bologna 1988], il quale ritiene, tuttavia, che, nel secondo dopoguerra, Heidegger abbia abbandonato quell’accettazione della tecnologia verso cui era stato spinto dal «modernismo» nazista. A mio avviso le cose stanno in termini completamente diversi (cfr. oltre, pp. xlvii sgg.).
32 Sui rapporti tra Jünger e Heidegger, cfr. M. Bonola, Al muro del nulla. Heidegger, Jünger e Val di là del nichilismo, in «Rivista di estetica», xxiii (1983), pp. 131-50 e M. Cacciari, Dialogo sul termine. Jünger e Heidegger, in «Studi germanici», NS, xxi-xxii (1983-84), pp. 291-302. Significativi - e a mio parere assai più interessante il pezzo di Jünger che quello di Heidegger - sono i due saggi che ciascuno di loro scrive in onore dell’amico sulla natura del nichilismo che per Jünger può essere vinto, dopo il crollo dei valori cristiani, a partire dall’interiorità eversiva: «Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia» (UL, 104). Più ‘negativa’ la posizione di Heidegger; per il quale (pur nel riconoscimento del debito intellettuale nei confronti delle opere di Jünger e in particolare di Der Arbeiter) la «linea» è ancora ben lontana dall’essere oltrepassata (cfr. SF, 117 sgg.).
33 Cfr. Jünger, GuL, 579 sg., dove tecnica, in quanto fonte della «cultura» del nostro tempo, è decisamente separata dalla sua degenerazione, l’«americanismo».
34 All’esperienza di questa debolezza, Adorno e Horkheimer opporranno, nella Dialettica dell illuminismo, la duplice resistenza tanto agli allettamenti dell’esistente, quanto alla malia del canto di morte delle «Sirene», cfr. DdA, 52 sgg. e soprattutto 260 sg.
35 Cfr. J, 108 sgg. Il culto della Faktizitat e dell''haecceìtas, criticato da Adorno in Duns Scoto, oggetto della dissertazione di Heidegger (cfr. Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, Tubingen 1916 [trad. it. La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, Roma-Bari 1974] e /, 87), costituisce tuttavia una delle più antiche convinzioni del «filosofo di Messkirch»: è, infatti, già teorizzato nelle lezioni di Friburgo del 1919, Zur Bestimmung der Philosophie, cfr, T. Kisiel, Das Entstehen des Begriffsfeld «Faktizitat» im Fruhwerk Heideggers, in «Dilthey-Jahrbuch», IV (1986-87), pp. 89-120, in particolare pp. 98 sgg.
36 La filosofia heideggeriana non va tuttavia criticata per il suo nichilismo, «bensì per il fatto che essa presenta l’assoluta nullità della sua parola suprema come un positivo» (ND, 71).
37 Per alcune implicazioni, cfr., con diversa impostazione, R. Schurmann, Le principe d'anarchie. Heidegger et la question de l'agir, Paris 1971; O. Pòggeler, Den Fuhrer führen? Heidegger und kein Ende, in «Philosophische Rundschau», xxxii (1985), pp. 26-67 e H. Ebeling, Das Ereignis des Führers. Heideggers Antwort, in Martin Heidegger: Innen- und Aussensichten, a cura del Forum fiir Philosophie di Bad Homburg, Frankfurt a.M. 1989, pp. 33-57; cfr. anche oltre, pp. xlvi sg.
38 Per alcune riflessioni filosofiche recenti su questo punto, cfr. J. Derrida, Feu la cendre [trad. it., con testo originale a fronte, Ciò che resta del fuoco, Firenze 1984] e Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere, Napoli 1988, in particolare pp. 82 sgg.
39 Gli autentici hanno, a loro modo, operato un travail de l’oubli più che una elaborazione del lutto per il passato tedesco (su questo punto, vicino alle riflessioni di Alexander Mitscherlich in Germania sema lutto, cfr. Was bedeutet). Che il «mondo amministrato» sia, poi, molto meno oppressivo, in alcuni paesi, di quel che pensavano Adorno e Horkheimer e che vi siano delle differenze tra i diversi regimi politici è un punto che ad Adorno interessa poco, mentre è al centro delle riflessioni della seconda generazione di studiosi della Scuola di Francoforte, in particolare di Jurgen Habermas, la cui opera, sotto questo profilo, è espressione dello sforzo di legittimare una democrazia pluralistica basata sul consenso razionale degli individui.
40 Per il confronto - o, meglio, il mancato confronto in profondità o il suo rifiuto - tra le posizioni teoriche di Adorno e quelle di Heidegger, vedi in particolare, oltre ai numerosi testi citati nellAppendice, H. Mòrchen, Adorno und Heidegger Untersuchung einer philosophischen Kommunikationsverweigerung, Stuttgart 1981, pp. 13 sgg. Adorno aveva visto Heidegger una volta sola nel 1929, senza neppure riuscire a parlargli. Heidegger; da parte sua, interpellato sugli attacchi che Adorno gli aveva mosso nel Gergo dell’autenticità e nella Dialettica negativa, aveva sprezzantemente dichiarato di non aver letto nulla di questo «sociologo».
41 Cfr. Heidegger, SZ, 76 sgg. In ogni caso, «l’inautenticità dell’Esserci non importa però un “minor” essere o un grado “inferiore” di essere. L’inautenticità può invece determinare l’Esserci, con concretezza più piena, nella operosità e nella vivacità, nella capacità di interessarsi e di godere» (SZ, 78).
42 Cfr. K. Jaspers, Notizen zu Martin Heidegger, a cura di K. Saner, München-Zürich 1978, p. 77.
43 Cfr. sopra, p. xxxvi nota 26 e Heidegger, Das Denken, 46-49.
44 Cfr. Heidegger, Das Ende, 34, 44 (assieme all’introduzione di A. Fabris alla traduzione italiana di questa conferenza del 1965 [pubblicata in tedesco nel 1984] con il titolo Filosofia e cibernetica). Il testo contiene alcune penetranti osservazioni, come questa: «Una cosa oggi è già chiara: per mezzo delle rappresentazioni che guidano la cibernetica - informazione, controllo, richiamo -vengono modificati in un modo, oserei dire, inquietante quei concetti chiave - come principio e conseguenza, causa ed effetto - che hanno dominato finora nelle scienze» (Das Ende, 33).
45 In questa prospettiva, la questione del rapporto tra tecnica e forme di vita e di cultura è più che mai viva nel dibattito filosofico attuale (si pensi soltanto al contrasto tra Jürgen Habermas e Karl-Otto Apel, da un lato, e Richard Rorty o Alisdair Mclntyre, dall’altro). Per un esame del problema in Heidegger, cfr. V. Cavallucci, Heidegger. Metafisica e tecnica, Venezia 1981.
46 Heidegger, Nur noch ein Gott, 134 sg. Più radicale (anche se, aggirando alcune difficoltà, ne incontra altre non meno gravi) appare il gesto di chi recide il doppio nodo entro il quale si sono impigliate tanto le posizioni di Heidegger e di Adorno, quanto quelle dei loro odierni continuatori. Esso consiste nell’accettazione simultanea e senza riserve delle chances offerte sia dalla centralità della tecnica - nella sua forma oggi più caratterizzante del dominio dei media in una «società trasparente» - sia degli effetti di spaesamento che essa produce. In questo caso, i processi di socializzazione innescati dai mezzi di comunicazione di massa e lo sradicamento stesso non costituirebbero una minaccia o una regressione alla barbarie (da esorcizzarsi mediante la terapia heideggeriana dell’«abbandono» o quella adorniana dell’utopia di un negativo che si sottrae disperatamente alla reificazione del «mondo amministrato» e dell’industria culturale manipolata), quanto, piuttosto, l’apertura di nuovi e inesplorati percorsi di «liberazione delle differenze», che, pur nel caos e nell’appiattimento relativo della comunicazione, lascerebbero spazio a individui, gruppi, popoli che non hanno mai avuto pieno accesso alla parola e alla storia (cfr. G. Vattimo, La società trasparente, Milano 1989, in particolare pp. 11 sgg., 42 sgg., 84 sgg.). Lo Heidegger a cui Vattimo qui si ricollega per suffragare le proprie teorie non è tuttavia l’autore dei testi a cui mi sono riferito, quanto quello, soprattutto, dell’Origine dell’opera d’arte. Ciò gli permette di contrapporre alla razionalità con pretese universalistiche il «mito» e, alla dimensione utopica, l’«eterotopia». Il primo, da molti considerato un residuo fossile nello sviluppo del pensiero, costituirebbe invece il discorso (o récit) adeguato al mondo postmoderno, a una situazione cioè in cui è finito il monopolio della verità e dell’autenticità, mentre l’«eterotopia» eviterebbe il supplizio di Tantalo dell’attesa di un futuro o di un altrove migliore e cercherebbe nella molteplicità degli intrecci e delle nicchie della realtà forme diverse di autorealizzazione. Questo disincanto «politeistico», che toglie la distinzione - certo problematica - tra fatto e valore e sdrammatizza conflitti, tensioni, aspettative, mantiene nondimeno un atteggiamento di semiadorniana «ironia».
47 In una direzione del genere si è mosso, a esempio, Pierre Bourdieu, con L'ontologie politique de Heidegger cit., in cui critica le posizioni (comuni anche ad Adorno) di chi trascura l’autonomia dello «spazio filosofico» rispetto a quello politico. Ma Bourdieu cerca, inoltre, di vedere come entrambi questi spazi si articolino in Heidegger secondo una strategia comunicativa costitutivamente caratterizzata dall’«ambiguità». Giocando, infatti, sul doppio registro irriducibile del linguaggio teorico e di quello politico, Heidegger - come del resto, in misura diversa ogni filosofo - ha dovuto fare i conti con la realtà e con il pubblico. Ha così parlato, in maniera reticente, attraverso allusioni e sottintesi, clausole e sbarramenti. Ciò non gli ha impedito tuttavia di produrre un discorso filosofico, ossia non esclusivamente ideologico. Ma questa spiegazione è ancora, giustamente, dal suo punto di vista, settoriale, in quanto bisognerebbe approfondire - oltre alle strategie linguistiche - anche le ragioni intrinseche, gli argomenti del dire e del non dire. Naturalmente, a questo punto si aprirebbe un discorso più vasto. Mi sembra, tuttavia, che, in linea generale, niente impedisca alla filosofia - pur mantenendo la sua indipendenza e il suo rigore - di scendere al più ‘basso’ livello del confronto polemico e delle forme di attenzione verso un determinato pubblico. Una punta di ‘sale’ le aggiunge anzi sapore. L’importante è che se ne usi con la dovuta parsimonia, che non lo si scambi col fiele e che, soprattutto, non si sovrappongano i piani dell’argomentazione razionale con quelli delle mosse strategiche, il cui ruolo deve restare subordinato. Gli ‘effetti perversi’ teorici aumentano con il diminuire della consapevolezza della distanza.
48 In questo senso, uno dei libri migliori resta sempre quello di Ernst Bloch, Erbschaft dieser Zeit, Zurich 1935, ora in Gesamtausgabe, Frankfurt a.M. 1962-77, vol. 4.