Capitolo 8

Sadie, ho una magnifica sorpresa per te!» Dody agitò le dita inanellate mentre entrava a passo leggero in soggiorno. Poiché le sorprese di Dody in genere implicavano decotti d’erbe che puzzavano di compostaggio in decomposizione, e avevano un gusto leggermente peggiore, non ero proprio entusiasta.

«Sto leggendo ai bambini, Dody. Può aspettare?» Jordan era accanto a me e per metà ascoltava, per metà giocava con i suoi camioncini, mentre Paige era completamente rapita. Leggere era il suo passatempo preferito, una conseguenza, immagino, del chiamarsi PaigeTurner, che suonava come page-turner, quei libri che si leggono tutti d’un fiato.

«Può aspettare. Ti ho preso un appuntamento per una lettura con la mia sensitiva, Madame Margaret.» Era raggiante, come se avessi vinto alla lotteria. «È meravigliosa. La adorerai.» Spinse per terra una pila di libri illustrati e si sedette sul divano in un frusciare di stoffa.

«Dody, non ho bisogno di una sensitiva. Mi serve un contabile.»

«Oh, stupidaggini. Non fanno altro che conti. Ma Margaret può illuminarti la via dei tuoi più elevati propositi.»

Non ero certa di avere un proposito elevato. Non riuscivo nemmeno a terminare gli esercizi di autorealizzazione dell’Oprah Magazine.

«Credi davvero a quella roba?» chiesi.

«Credo in qualunque cosa aiuti una persona a ripulirsi dall’energia negativa e a concentrarsi su quella positiva. E tu, signorina, sei stracolma di energia negativa. Margaret può darti proprio la spinta di cui hai bisogno. Ci aspetta tra un’ora.»

«E i bambini?»

«Possiamo lasciarli da AnitaParker. Gliel’ho già chiesto.»

Non ero d’accordo. Non avevo bisogno di una qualche zingara eccentrica che mi raccontasse un sacco di stronzate su un lungo viaggio che avrei intrapreso o sullo sconosciuto alto e bruno che avrei incontrato. O, peggio ancora, di una vera sensitiva che mi dicesse che nel mio futuro non c’erano altro che tristezza e solitudine. Lo sapevo già. Avrei ottenuto consigli migliori da un barista, insieme a un gin tonic. Ma Dody aveva deciso così e ciò significava che ci sarei andata.

Un’ora dopo mi accomodai su una sedia pieghevole nella Boutique di Madame Margaret. Ciondoli mistici e gingilli Wicca decoravano polverose mensole di vetro. Nell’aria aleggiava un vago odore di lavanda e di lettiera per gatti e si udiva il suono metallico di una musica orientale a basso volume. Che diavolo ci facevo lì?

Una donna piccola e tozza con un caschetto di capelli argentei e lenti bifocali con la montatura rossa entrò nella stanza. Indossava una tuta rosa. Fui sorpresa e, sinceramente, un po’ delusa quando si sedette di fronte a me. Era quella la sensitiva? Dov’erano i suoi veli? E lo spesso eyeliner nero? E gli orecchini d’oro a cerchio? Era una fregatura.

Mi fece un caldo sorriso e mi strinse la mano. «Ciao, sono Maggie

«Ciao» risposi rigida, non volendo rivelare nulla. Se era così sensitiva, avrebbe dovuto indovinare il mio nome.

«E tu sei Sadie» disse.

«Sì!» esclamai. Caspita, era brava!

Ridacchiò alla mia reazione, picchiettando il dito sopra un foglio di carta tra di noi sul tavolo. «Il tuo nome è qui sull’elenco dei miei appuntamenti.»

«Oh, già.» Mi spostai a disagio sulla sedia.

Mi porse un mazzo di carte con disegni ricchi di fronzoli. «Mescolale, per favore. Non sono sicura che ci serviranno, ma ti renderà meno nervosa.»

«Non sono nervosa» ribattei troppo in fretta. Dovevo essere nervosa solo perché stava per dirmi che il mio futuro appariva tetro e privo di gioia?

Chiuse gli occhi e respirò adagio.

Era ridicolo.

Poi aprì gli occhi e prese le carte dalle mie mani, girandone alcune secondo uno schema preciso. Recavano strane figure: una torre colpita da un fulmine, una coppia di donne vestite con una toga che reggevano dei calici d’oro, un eremita con una lanterna. E un tizio a cavallo con mantello e cappuccio neri. La carta aveva stampata sopra la parola Morte! Non poteva essere niente di buono.

La sensitiva fissò le carte per un minuto, in silenzio, e iniziò a prudermi la pelle. Erano così tragiche che non sapeva che cosa dire. Ma quando parlò, la sua voce era molto calma.

«Sei squilibrata.»

Nel senso che sono matta?

Indicò la prima carta. «Questa è La Torre. Rappresenta le convinzioni radicate e le idee messe in discussione. Tutti gli aspetti della tua vita al momento sono in un flusso e devi aprirti al cambiamento. Certi problemi finiranno solo dopo che ti sarai sbarazzata di qualcosa o qualcuno, sia dal punto di vista fisico che emotivo. Di recente hai rotto una relazione? O stai pensando di romperla?»

Dody doveva averle detto del divorzio. Annuii una volta, non volendo ancora rivelare troppo.

Madame Margaret annuì di rimando. «È stata una decisione giusta. Lui era tutto fumo e niente arrosto. Ma devi lavorarci ancora prima che tu possa giungere in un luogo migliore. La carta dell’Eremita parla di saggezza interiore. La possiedi, solo che non ti fidi di essa. Devi distogliere la tua attenzione dalla vita di tutti i giorni e guardare dentro di te. È lì che cominciano i tuoi problemi e lì saranno risolti.»

Oh, non penso proprio. I miei problemi sono cominciati e finiti con Richard.

«Ah, e il sei di coppe» proseguì, indicando un’altra carta. «Molto significativa in questa posizione. Connette il passato al futuro di una persona. Ha senso che siano congiunti, nella tua situazione presente. Potresti ritrovarti all’improvviso a ripensare alle esperienze passate, magari anche desiderare la bellezza di una vecchia relazione.»

Oh, non c’è pericolo.

«Questo è anche un periodo di rinnovo emotivo. Sarai finalmente libera e indipendente, con una consapevolezza più profonda nel tuo viaggio.»

Fino a quel momento, mi sembrava un numero standard da indovino. Sciocchezze piuttosto ambigue, soprattutto perché era evidente che Dody l’aveva imbeccata.

Indicò un’altra carta. «Questo è l’asso di denari. Favorisce la salute. E La Stella, accanto, è la carta dell’ispirazione, dell’intuito e della speranza. Un contatto con qualcuno che cambierà notevolmente la tua vita. Una nuova relazione, forse.»

Oh, sì. C’è la firma di Dody su tutto. Sono stata incastrata.

«Non prevedo una nuova relazione» dissi. Dovevo stroncare la faccenda sul nascere.

Lei sorrise con aria benevola. «Di rado qualcuno prevede questo genere di cose. Ma è la bellezza dei tarocchi. Ora ci starai attenta.»

Volevo ribattere, ma capivo che non sarebbe servito a niente. L’eccentrica amica di Dody sembrava una signora molto cortese. Potevo lasciarle tessere la sua storia.

«Il tre di coppe qui mi dice che stai entrando in un periodo di divertimento.»

Per questo le coppe, senza dubbio. Dovevano essere piene di vodka.

«Quaggiù abbiamo il cavaliere di spade e il re di spade. Questi potrebbero essere gli uomini nella tua vita, sia passati che presenti. Possiedono entrambi fascino, intelligenza ed eloquenza, ma uno si lancia contro di te come il vento e se ne va altrettanto in fretta. Si stanca presto.»

Uhm, senz’altro potrebbe essere Richard.

«Ma l’altro rappresenta qualcuno in una posizione di fiducia e responsabilità, un consulente professionale. Un avvocato o un dottore.»

Oh, mio Dio. Sul serio? Dody ha scritto il copione per questa donna?

Margaret corrugò la fronte e studiò la carta successiva. «La Ruota suggerisce che la tua fortuna sta cambiando. Sta iniziando una nuova fase, ma il destino ti concederà poco controllo sugli eventi che verranno. E tu brami il controllo a tutti i costi. Ma, cara, la cosa migliore che tu possa fare per te stessa in questo momento è lasciarti andare alla corrente. E fidarti di quelli che ti vogliono bene. Ti troverai davanti a molte scelte, ma solo una è quella giusta. Non puoi fare sempre tutto da sola.»

Sì che potevo. Ce la facevo da sola da anni. Richard era meno d’aiuto di una sagoma di cartone a forma di marito.

Poi lei sorrise. «Ma si risolverà tutto per il meglio. Vedi il due di coppe qui? È una nuova storia d’amore. Il prossimo uomo sarà molto più compatibile con te. Ma l’amore ha un prezzo. La nuova relazione non giungerà senza sacrificio.»

Non comportavano tutte dei sacrifici?

Un attimo.

Che cosa?

Aveva detto amore? No, grazie. Avevo sacrificato abbastanza per Richard. Ero svuotata.

Poi si appoggiò allo schienale della sedia e mi osservò per un minuto. «Non possiamo controllare gli eventi nella nostra vita, Sadie. Talvolta non possiamo nemmeno controllare le nostre reazioni. Ma più lottiamo contro le onde, più ci stanchiamo. Il controllo è un’illusione, sai.»

No, l’amore è un’illusione.

Girò qualche altra carta e sorrise di nuovo. «Eccellente. Il quattro di coppe. Non permetti che i beni ti possiedano. Sì, continua così. Non avere paura di fare ricorso alle tue forze innate. Ne hai più di quante tu ti renda conto. Troverai l’equilibrio di cui hai bisogno non appena smetterai di volere le cose come dovrebbero essere e le accetterai così come sono. Tieni d’occhio la grande onda. Ti spingerà nella direzione della gioia. Sarai felice, Sadie. È tutto scritto in queste carte.»

Naturale che lo dicesse. Difficilmente avrei sganciato il venti per cento di mancia se mi avesse predetto il caos. Continuò all’incirca per altri quindici minuti, dicendomi di fidarmi del mio istinto e di lasciare andare il passato. Un buon consiglio, certo, ma la maggior parte delle cose che disse potevano essere uscite dritte dalla bocca di Dody.

Visto? Avrei dovuto spendere quei soldi in gin tonic. Almeno mi sarei presa una bella sbornia.

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«Hai evitato intenzionalmente di dirmi che Fontaine vive da Dody, Sadie! Pensavi che non l’avrei scoperto?» La voce di Richard era aspra per la collera.

Eravamo nel parcheggio del Waffle Castle dove ero andata a prendere Paige e Jordan dopo la loro ultima visita. I bambini al momento erano seduti nella mia auto e ci guardavano discutere e inveire, proprio come ai vecchi tempi.

«Abbassa la voce! E non te l’ho detto perché non lo ritenevo importante, Richard. Cosa cambia se Fontaine abita lì?»

«Cosa cambia? Non voglio che mio figlio venga esposto a Dio sa che genere di porcherie che combina Fontaine. Porta lì i suoi ragazzi?»

Mi puntò il dito in faccia ed ebbi voglia di staccarglielo a morsi e sputarlo.

«No. Ma, sul serio, sei uno stronzo omofobico. Non ti interessa se Jasper si dà alla pazza gioia con delle puttane. Ti preoccupa solo che mio cugino faccia diventare gay tuo figlio.»

Mi afferrò il braccio e mi tirò lontano dalla macchina. «Abbassa la voce. E, maledizione, Sadie, non è giusto. Mi metti le parole in bocca.»

Una coppia ci passò accanto. Il passo della donna vacillò quando ci vide, ma l’uomo la spinse avanti.

«Senti» sibilò Richard quando non furono più in vista. «Non ho tempo per discuterne. Sono in ritardo per il lavoro. Ma devi occupartene, Sadie. Non voglio che nessuno dei miei figli stia in quel genere di ambiente. Perciò manda via quel finocchio di tuo cugino o riporta il culo a Glenville. Hai una casa di cinque stanze che se ne sta vuota mentre tu giochi al tuo stupido campeggio estivo da Dody. Adesso basta. Rivoglio i bambini dove posso vederli più spesso.»

Mi pulsavano le tempie. Riuscivo a stento a respirare e volevo colpirlo all’inguine. O almeno pensare a qualcosa di meschino da dirgli che gli facesse altrettanto male. Ma fui troppo lenta.

Richard saltò in macchina senza un’altra occhiata a Paige e Jordan e se ne andò a tutta velocità.

Tremando come se avessi toccato un filo elettrico, salii sul mio SUV.

«Mamma, perché papà stava urlando?» domandò Paige.

Presi un respiro. «È solo frustrato per una cosa di lavoro, piccola. Starà bene.»

Come molte altre volte in precedenza, mentii sul loro padre. Non sarei stata quella che li avrebbe messi contro di lui. Quando fossero stati più grandi, avrebbero stabilito da soli che tipo d’uomo era. Fino ad allora, li avrei protetti.

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Tornata a Bell Harbor, quel pomeriggio, ero ancora scossa dalla lite. Non volevo andarmene. Non ancora. E non avrei nemmeno chiesto a Fontaine di farlo lui. Non avevo neppure l’intenzione di riferirgli ciò che aveva detto Richard. Ma avrei dovuto fare qualcosa.

Portai i bambini e i cani in spiaggia. Forse un po’ di sole avrebbe schiarito le nubi minacciose che avevo in testa. Dody aveva declinato il mio invito a unirsi a noi, era già impegnata in una lezione di danza del ventre con AnitaParker.

Scaricai sulla sabbia un cesto di giochi in plastica per tenere occupato Jordan. Paige aveva le sue bambole e per me avevo una sedia, una glacette per il vino e un romanzo da due soldi. Sole, alcol e un po’ di narrativa scadente. Quella sì che era una vacanza.

Lazyboy abbaiò, correndo all’impazzata come se avesse una mangusta attaccata alla coda, e alla fine si acquietò accanto a me per un pisolino. Fatso fiutava la sabbia, cercando cibo spazzatura mezzo sepolto, lasciato in giro da altri bagnanti.

Dopo alcuni minuti, udii un breve fischio acuto. I cani si drizzarono all’istante sull’attenti e corsero verso il suono.

Era Des, che correva sulla spiaggia. L’onnipresente sussulto che provavo ogni volta che lo vedevo mi percorse tutte le giunture e ancora una volta mi dissi che dovevo levarmelo dalla testa. Sì, ero attratta da lui, molto più di quanto osassi ammettere, ma era una semplice infatuazione. Il brivido di emozioni che mi suscitava era quasi da cartone animato, tutto fulmini, saette e scintille. Era divertente fingere che fosse l’uomo da sei milioni di dollari con l’upgrade del chip della sensibilità. Ma non lo era. Non nella realtà. Era solo un uomo, e se l’avessi conosciuto meglio, avrei scoperto tutti i suoi pessimi difetti. Era piacevole flirtare e fingere che significasse qualcosa, ma non era così.

Des raccolse un pezzo di legno trasportato dalla corrente e lo scagliò lontano, costringendo i cani a un’altra folle corsa, poi si avvicinò e si sedette accanto a me.

«Ehi.»

«Ehi» risposi, nascondendo con discrezione dietro la sedia il romanzo scadente e la bottiglia da due soldi.

I bambini erano qualche passo più in là, impegnati a scavare una buca fino in Australia. (Contrariamente alle leggende metropolitane, che dicono che se scavi una buca arrivi fino in Cina, se scavi una buca nel Michigan, finirai in Australia. Un’altra inutile banalità che mi intasava il cervello, insieme al fatto che l’acqua nello scarico dei water scorre in senso opposto dall’altro lato dell’equatore.)

«Come stai?» mi chiese.

«Bene. E tu?»

«Bene. Dov’è Dody

«A danza del ventre.»

Ridacchiò e scosse la testa, probabilmente cercando di scacciare l’immagine dalla mente.

Paige arrivò di corsa. «Ciao Des! Hai visto la mia sirena? Si chiama Rosemerelda Abernathy Sparkleberry Turner. Ti piace?»

«Sì, mi piace.»

«E ti piace il mio costume da bagno nuovo? Ha dei fiori gialli. Vedi?» Fece un inchino, inclinando la testa e mettendosi la mano sul fianco.

«Vedo. È molto grazioso.»

«Lo so.» Si voltò e tornò al suo tunnel australiano trans-terrestre.

Jordan alzò gli occhi e salutò con la mano.

Des ricambiò il saluto.

Rimanemmo in silenzio per un minuto, guardando i bambini giocare.

«Sei silenziosa oggi.» Des si piegò di lato, sbattendo il gomito contro il bracciolo della mia sedia.

«Davvero? Scusa. Sono di cattivo umore. Una lite con il mio ex marito.» Maledizione. Perché l’avevo detto? Sentir parlare di ex coniugi da qualcun altro era come guardare le foto di una pessima vacanza in cui non sei nemmeno andato. Eppure mi ritrovai a proseguire il discorso. «Richard non vuole che io stia qui. Ha paura che Fontaine trasmetta a Jordan un incurabile caso di febbre gay.»

Lanciai un’occhiata a mio figlio, che era in ogni centimetro lo stereotipo del maschietto. Aveva abbandonato gli scavi della buca per tirare calci e pugni in aria, impegnato in un combattimento mortale con un nemico immaginario.

«È alquanto stupido. Che cosa hai intenzione di fare?» domandò Des, reclinando la testa all’indietro con il viso verso il sole e gli occhi chiusi.

Colsi l’opportunità per lasciar vagare lo sguardo su di lui, ma davanti al mio silenzio, lui mi guardò di nuovo.

«Non lo so» ammisi. «Dipende da quanti problemi vuole causare Richard. Mi fa solo infuriare, perché Fontaine è magnifico con i bambini. Ha giocato più lui con loro in un mese di quanto non abbia fatto Richard in cinque anni.»

Des annuì piano. «È grave.»

Annuii anch’io e tirai fuori la glacette del vino da dietro la sedia. «Sei mai stato sposato?» L’inesorabile schiettezza di Dody era contagiosa.

Assentì con il capo e calciò la sabbia con il piede. «Sì. Non è andata molto bene.»

«Mi dispiace.» Gli passai la bottiglia, che lui accettò.

«Ora mi sembra sia passata un’eternità.»

«Che cos’è successo?»

Bevve un altro sorso. Le sue parole arrivarono a poco a poco. «Priorità differenti, immagino. Eravamo piuttosto giovani. Piuttosto egoisti.» Scosse di nuovo la testa e mi restituì il vino. La sua mano sfiorò la mia. Per un brevissimo istante i nostri sguardi rimasero avvinti. Il mio cuore sfavillò e s’incendiò, come l’ultima esplosione di scintille prima che un fuoco d’artificio si spenga.

Des accennò un sorriso, poi la sua espressione cambiò, come se si fosse appena ricordato di aver lasciato una pentola a bollire sul fornello o si fosse dimenticato di mettersi i pantaloni. Spostò lo sguardo sull’acqua. «Sai, succede. I matrimoni finiscono.»

Una parte di me voleva insistere. Una parte di me sapeva che non mi sarebbe piaciuto ciò che avrei sentito. E comunque, era ovvio che non ne voleva parlare.

«Niente ospedale oggi?» chiesi invece.

Lui sospirò e sembrò quasi che il sole fosse in qualche modo svanito. «No, non oggi. Ma ho ancora un sacco di cose da fare. Immagino che dovrei mettermici.»

Si alzò lentamente, come se stesse aspettando di aggiungere qualcos’altro. Ma disse solo: «Ci vediamo».

Si voltò e si rimise a correre lungo la spiaggia.

 

Nota a me stessa: non chiedere a Des del suo matrimonio perché lo rende triste. E lo spinge ad andarsene.

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Mi sistemai la nuova borsa di pelle sulla spalla e feci il mio miglior sorriso da riordinatrice professionista. Kyle aveva ragione. Il suo vecchio amante, Patrick, e il nuovo amante di Patrick, Owen, avevano un sacco di roba!

La loro casa era un mastodontico edificio storico, il più antico di Bell Harbor. Ciò significava splendida boiserie intagliata, una sontuosa veranda che circondava tutta la costruzione e gabinetti vecchio stile con lo sciacquone a catena. Significava anche decine di stanze minuscole, la cucina progettata nella maniera più assurda che avessi mai visto e niente ripostigli! Letteralmente, nemmeno un ripostiglio! Il mio incubo peggiore! Il lavoro sarebbe stato una sfida più grande di quel che mi aspettavo e poiché era il mio primo incarico di riordino, doveva essere perfetto.

I miei clienti erano felici e innamorati pazzi ed eccitatissimi all’idea di andare a vivere insieme. Non gli importava arredare la loro nuova casa nei dettagli; volevano solo sistemare il contenuto degli scatoloni con una qualche sembianza di ordine.

Ma se avessi fallito e il disordine si fosse impadronito della casa, avrebbero iniziato a litigare per le mazze da golf che si rovesciavano in corridoio o per lettere importanti che si smarrivano tra le varie pile di scartoffie. Il mio fallimento nel creare ordine da quel caos poteva segnare la sorte della loro relazione. Magari non si sarebbero resi conto che era stata colpa mia, ma io sì. Perciò dovevo fare tutto per bene.

«Questa è la suite padronale» spiegò Patrick, aprendo un’altra porta. «Le finestre non sono divine? Stiamo pensando ad alcuni tessuti trasparenti e sexy dappertutto.»

«E adiacente c’è una camera di servizio» aggiunse Owen. «Stiamo meditando di trasformarla in una cabina armadio.»

Una cabina armadio? Grazie a Dio.

«Perché sarà uno spasso nasconderci degli scheletri» ridacchiò Patrick.

Owen sospirò. «Per te non è mai una battuta troppo vecchia, vero, piccolo?»

Trascorremmo il resto della giornata parlando delle loro aspirazioni per i vari spazi. Scattai decine di foto e presi appunti e promisi di tornare entro una settimana.

Dietro richiesta di Patrick, acconsentii anche a portare con me la mia etichettatrice la volta successiva, per contrassegnare gli appendini degli asciugamani in bagno con lui e lui.

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Qualche giorno più tardi, mentre vagavamo per l’atrio dell’ospedale dopo l’appuntamento di Dody con il dottore, udii un accento familiare. Come al solito, un brivido mi percorse la spina dorsale, dritto fino alle mie parti più femminili.

«Ehi, Sadie!» mi chiamò Des.

Dody e io ci voltammo e Des sussultò, colto di sorpresa dal boa turchese di mia zia. Era scintillante, con piume e paillettes e le penzolava dalle spalle come un membro dei Muppet. Walter, stando a quanto si diceva, l’aveva comprato da una domestica rumena che l’aveva sgraffignato dal camerino di Diana Ross. Avevo i miei dubbi.

Des, naturalmente, era affascinante in tenuta da dottore. Che cos’era che rendeva così sexy un generico camice bianco da ambulatorio o la divisa chirurgica, mi domandai, proprio prima di desiderare di essermi impegnata un po’ di più a curare il mio aspetto. Cioè, ero in vacanza, certo, ma mi avrebbe ucciso lavarmi i capelli? I dieci minuti in più a letto erano valsi la pena? Al momento non ero nemmeno sicura di essermi lavata i denti quella mattina. Maledizione!

Sorrisi, tenendo le labbra chiuse e cercando di sentire qualche traccia di dentifricio in bocca.

«Caspita, Dody, sei uno schianto oggi.» Fece un ampio sorriso.

Lei sventolò il boa insieme alle ciglia. «Grazie. È proprio quel che ha detto Fontaine

Des annuì, inarcando le sopracciglia. «Fontaine se ne intende.»

Mi fece l’occhiolino da sopra la testa di Dody, istigando il mio reggiseno a slacciarsi da solo in dolce resa.

«Che cosa vi porta qui oggi, signore?» chiese.

«Oh, niente di serio. Solo un controllo dal mio vaginologo» rispose Dody.

«Dody!» esclamai.

«Che c’è? Oh, ti scandalizzi per niente, Sadie. Lui sa di queste cose. È un dottore, dopotutto. Giusto, Des? Sai tutto delle parti intime delle donne, vero?» Sventolò civettuola il boa.

Il volto di lui era privo d’espressione come quello di un Vulcaniano. «Sì, sono pratico di vaginologia.»

Ci avrei scommesso.

«Stavamo andando a pranzo nella caffetteria» disse Dody. «Ti unisci a noi?»

«Non stavamo andando a pranzo» sbottai, innervosita dalla presenza di Des.

«Sì, invece. Sto morendo di fame.» Si voltò e mi lanciò un’occhiata penetrante, a occhi spalancati.

Des controllò l’orologio. «Ho solo qualche minuto, ma vi accompagnerò.»

Puntò il dito nella direzione opposta, segnalando l’enorme cartello della caffetteria che avevamo beatamente superato. Ci girammo e camminammo insieme lungo un breve corridoio, arrivando alla caffetteria in un minuto.

Era quasi deserta. Forse perché erano solo le dieci e mezzo del mattino.

«Magari dovremmo prendere solo un caffè» disse Dody. «Non sono così affamata, dopotutto.»

Lo sapevo! Che vecchia bugiarda impicciona, che ancora cercava di far entrare a forza Des nel mio mondo.

«Il tempo per un caffè ce l’ho» affermò Des, indicando un tavolino d’angolo. «Perché non vi sedete laggiù? Io prenderò i caffè» si offrì.

«No, lascia che ti paghiamo noi il caffè. Te lo dobbiamo» dissi.

Lui si piegò verso di me, sfiorandomi con la mano la parte bassa della schiena. «Non c’è problema. Per me il caffè è gratis.» Ammiccò, annuendo, come se il caffè gratis fosse il miglior benefit in assoluto.

Sembrava che non avessi scelta. «D’accordo, allora. Grazie.»

Ci raggiunse al tavolo qualche istante dopo, posando tre tazze e scivolando accanto a me sul divanetto. Tirò fuori dalle tasche del camice delle bustine di zucchero e le porse a Dody. Lei era raggiante come se lui si fosse appena dichiarato. A lei.

«A te piace nero, giusto?» mi chiese.

Annuii. «Hai indovinato.»

Si picchiettò la tempia. «Un acuto spirito d’osservazione. L’hai bevuto nero l’altra sera, quando sono stato da voi per cena.»

Abbassai lo sguardo di colpo sulla mia tazza, non volevo che assistesse alla mia crescente meraviglia. Richard non sarebbe stato in grado di dire come prendevo il caffè nemmeno se fosse stato coperto di miele e torturato con le formiche di fuoco.

«Quanto hai detto che ti fermerai nella nostra incantevole Bell Harbor, Des?» chiese Dody, percependo la mia muta adorazione.

«Qualche altro mese, forse di più. Dipende.»

«Dipende da cosa?»

Sorrise. «Da varie cose.»

La sua risposta mi innervosì. Era troppo vaga. Che cosa stava nascondendo?

«E cosa fai quando non lavori?» Dody si era evidentemente resa conto di essere finita in un vicolo cieco con l’ultima domanda, ma non era bastato a dissuaderla. Avvertii il suo fastidio per la mia totale incapacità di vendermi.

Sorseggiai il mio perfetto caffè nero, cercando di ignorare il calore della gamba di Des vicina alla mia. Era difficile farlo, su un divanetto così piccolo. Era anche difficile non notare la minuscola zona accanto alle basette che aveva saltato radendosi, o la piccola cicatrice sbiadita all’angolo del sopracciglio, sulla quale ebbi l’improvviso impulso di premere le labbra.

«Corro, vado in bici, viaggio, gioco a basket. Leggo e guardo film. Il solito, immagino.»

«Che genere di film?»

«Tutti. Mi diverto con poco.»

«Ti piacciono i film romantici?» insistette lei, sbattendo le palpebre. Il boa svolazzò al suo respiro.

Sospirai. La sottigliezza non compariva sul radar di Dody.

Des ridacchiò. «Sì, a dire il vero. Sono cresciuto con tre sorelle, ricordi? Perciò ne ho visti parecchi.»

«Ah, delizioso. E New York com’è?»

Des si appoggiò allo schienale e con il braccio sfiorò il mio. Accidentalmente strinsi la tazza di polistirolo, quasi rovesciando ciò che rimaneva del caffè.

«New York? Non ci sono mai stato.»

«Davvero? Pensavo che tutti gli estranei illegali entrassero attraverso Elvis Island.»

Des rise forte, facendo tremare il divanetto che dividevamo.

«Dody» sospirai, «ci sono così tante cose sbagliate in quello che hai detto che non so nemmeno da dove cominciare.»

«Perché? Cos’ho detto?»

«Non importa.»

Il telefono di Des trillò e lui lo estrasse dalla tasca, ancora ridendo. «Dottor McKnight

Si schiarì la gola e ascoltò, rispondendo di quando in quando. «Sì. No. Dieci minuti. Dille che può aspettare.» Fece di nuovo una pausa. «No, l’ho aspettata tutta la mattina e non si è fatta vedere. Sarò lì tra un attimo.»

Appese, posando il cellulare sul tavolo, poi bevve un sorso di caffè.

«Era la tua ragazza?» chiese Dody.

Lui tossì mentre cercava di deglutire. Di tutte le domande bizzarre che lei gli aveva posto, quella sembrava la prima a metterlo a disagio. Arrossì mentre rovesciava un’ultima volta la tazza per finire il caffè. Poi schiacciò il polistirolo e fece un sorriso enigmatico a mia zia. «Dody, non ho una ragazza.»

«No?» esclamò lei, raggiante. «Be’, è un vero peccato! Non è così, Sadie