CAPITOLO 1
Le feste di compleanno sono molto simili alle visite ginecologiche: un po’ spiacevoli, imbarazzanti e un po’ troppo personali, ma un’inevitabile scocciatura che si ripete ogni anno. Come un pap-test, ma con i regali. Perciò avrei dovuto sapere che non potevo superare indenne quel giorno, con il mio segreto e la mia dignità intatti.
Ero lì che mi facevo i fatti miei, in cerca di una tazza di caffè nella saletta del personale al centro di chirurgia plastica di Bell Harbor, quando fui circondata all’improvviso. Mi piombarono addosso, silenziosi e senza preavviso. L’aria intorno a me si trasformò in uno scintillante tsunami di coriandoli rosa e viola, e delle risate gutturali mi riempirono le orecchie. Corpi caldi avanzarono, spingendomi in un angolo della stanza. Volarono altri lustrini, che mi si attaccarono alla faccia e ai capelli come brillanti schegge di granata.
Mi furono addosso e non ci fu via di scampo.
Fui vittima delle bombe di paillette della squadra d’assalto Ninja di Compleanno.
Perché quel giorno non era un giorno qualunque. Era, in effetti, il mio compleanno. Un compleanno di cui non ero felice. Un compleanno che volevo ignorare. Un compleanno che mi scaraventava fuori dalla parentesi dei diciotto-trentaquattro per lanciarmi nella categoria trentacinque-morte. E ormai ero intrappolata nella rete multicolore dei Ninja di Compleanno. Resistere era inutile.
«Sorpresa!»
«Buon compleanno, Evelyn!»
«Buon compleanno, dottoressa Rhoades!»
Cadde un’altra nuvola di coriandoli e qualcuno mi mise in testa un diadema di strass opachi, che di sicuro strideva sui miei capelli rossi. Auguri quasi pietosi si mischiarono alle risatine e alle frecciatine sulla vecchiaia, mentre il salottino si riempiva dei miei sei colleghi medici e degli impiegati del nostro ambulatorio, ventiquattro persone in tutto. Delle, la rotonda receptionist di mezz’età, si fece avanti con aria solenne e piazzò una torta carica di candeline sul tavolo al centro della stanza. Fece un ampio sorriso, tutta trionfante.
Sorrisero tutti. L’intero branco mi sorrise e attese impaziente, gli occhi che brillavano di aspettativa. Sembravano esultanti, come appaiono le persone quando vogliono che tu sia pervaso dalla gioia… cosa che non ero.
Non che non apprezzassi i loro sforzi. Non è che sfuggissi i compleanni come Scrooge le feste natalizie… tranne quando si trattava del mio. Non sono il tipo di donna che ama stare al centro dell’attenzione o le feste in grande. Mi sembra sciocco avere tutti gli occhi puntati su di me per qualcosa di insignificante come invecchiare. È come ottenere un premio di consolazione. Non me l’ero guadagnato lavorando sodo. L’avevo ottenuto soltanto per essermi presentata.
«Be’, le abbiamo fatto una sorpresa o no?» domandò Delle. Con il pollice grassoccio si spinse gli spessi occhiali sul naso. Aveva una montatura diversa per ogni giorno della settimana. Quella era verdeazzurra. Doveva essere martedì.
Per una frazione di secondo sperai che le fiamme di tutte quelle candeline attivassero gli allarmi antincendio, costringendoci a evacuare l’edificio. Ma non ebbi questa fortuna. Intrappolata in quell’attimo, non ebbi altra scelta che sacrificarmi per il bene comune. Mi stampai in faccia una falsa espressione felice.
«Cavolo, ragazzi. Be’, wow. Mi avete davvero colta di sorpresa. Non avevo idea che qualcuno sapesse che era il mio compleanno.» Il mio stupore era sincero, ma feci anche uno sforzo encomiabile per sembrare contenta. Un punto per me.
«Ce l’ha detto la dottoressa Pullman. Dovrebbe ringraziare lei.» Delle indicò la brunetta alta, con il taglio di capelli da duecento dollari e scomodissime scarpe dai tacchi assurdi.
Spostai lo sguardo su Hilary Pullman, l’unica persona in città che sapeva senza ombra di dubbio che quel giorno non volevo trambusto. Era una collega, la mia confidente più fidata e, fino a dieci secondi prima, la mia migliore amica. Ci eravamo conosciute durante l’internato di chirurgia plastica e avevamo legato, unite dalle difficoltà e dalle sofferenze costituite dall’essere donna e medico. Non c’è niente che consolidi di più un’amicizia che condividere lo spazzolino da denti prima di fare il giro dei pazienti, dopo una notte di turno.
Hilary era cresciuta a Bell Harbor e la nostra amicizia era metà della ragione per cui avevo scelto di esercitare lì. Ma, amica o no, lei sapeva che odiavo le feste di compleanno in mio onore. La guardai di traverso e cercai di apparire furibonda, ma lei era trenta centimetri più alta di me con quei tacchi maledetti. Ero in netto svantaggio.
Mi rivolse un sorriso innocente e scrollò le spalle con il suo tipico fare dispiaciuto ma non troppo. Si allontanò dal gruppo dei festeggiatori. L’aderente gonna nera a tubino le sfiorava a malapena l’orlo del camice bianco. Qualcuno avrebbe potuto obiettare che quella gonna era troppo corta, e avrebbe avuto ragione. Ma, in tutta sincerità, se avessi avuto delle gambe come le sue, avrei indossato anch’io gonne come quella. Purtroppo non era così e quindi non potevo. Col mio metro e cinquantotto di altezza, non c’era niente che mi stesse corto se non me stessa.
Con le sue dita delicate, Hilary prese una spatola dal tavolo e me la porse dal lato del manico.
«Buon compleanno, Evie. So che non è affilata come piace a te, ma tieni. Non usarla per pugnalarmi.» Mi fece l’occhiolino ridendo.
Presi la spatola e cercai di lanciarle uno sguardo truce senza che gli altri lo notassero, ma lei era del tutto insensibile al mio fastidio. Non è che non l’avesse notato. Soltanto, non le importava. Hilary pensava che il suo ruolo nella nostra amicizia fosse provocarmi, indurmi a uscire dal mio bozzolo. Ma io non avevo bisogno di lasciarmi andare. Mi piacevo così com’ero. Il più delle volte.
Delle sospirò e giunse le mani davanti alle sue enormi coppe D. «Su, esprima un desiderio, dottoressa Rhoades. Spenga le candeline.»
Feci un sorriso a lei e poi agli altri, impegnandomi con eroismo per farlo sembrare sincero, e quasi sembrò che lo fosse. Le loro intenzioni, del resto, erano buone. Forse quel compleanno non sarebbe stato così male. Trentacinque anni non erano poi così tanti. Perlomeno non c’erano striscioni da fine del mondo o palloncini che mi dichiarassero ormai sul viale del tramonto. Niente corone da morto o decorazioni a lutto. Solo coriandoli e un diadema. Potevo farcela.
Mi schiarii la gola e presi un respiro. «Grazie a tutti. Siete stati davvero tenerissimi. Questi ultimi mesi qui a Bell Harbor sono stati meravigliosi e voi tutti mi avete fatta sentire proprio a casa. Non mi viene in mente altro che potrei desiderare.»
«Che ne dice di un marito?» gridò Delle, ridacchiando di nuovo e lanciando cenni d’intesa agli altri, mentre gocce di sudore le brillavano sulla fronte scura.
Oh, stava scherzando, vero? Mettermi in imbarazzo al mio compleanno?
La totale mancanza di privacy era uno degli svantaggi del trasferirsi in una comunità molto unita. Essere l’ultimo dottore arrivato in città mi rendeva, agli occhi della brava gente di Bell Harbor, un affascinante oggetto di curiosità, come un meteorite che avesse colpito la croce della chiesa di San Luigi dell’Immacolata Concezione. Sembravano tutti sapere che vivevo sola in un minuscolo appartamento, che volevo comprare una casa in riva al lago e che ero single. Quell’ultimo dettaglio gravava pesantemente nella mente di tutti. Di tutti, eccetto la mia, in realtà. Avevo ancora un sacco di tempo per trovare un marito.
Sempre che ne avessi voluto uno.
Ma non lo volevo.
Il più delle volte.
Non volevo nemmeno quella stanza affollata di persone che facevano congetture sulla mia vita amorosa o sulla sua attuale assenza. La mia vita privata era… be’, privata. Se solo mi avessero permesso di mantenerla tale…
Feci una risatina falsa e mi voltai verso la torta. Fissai le candeline, fingendo di meditare sul mio desiderio con la giusta dose di rispetto. Tuttavia, avendo trascorso buona parte della mia vita trincerata dietro la filosofia della scienza basata sui fatti, esprimere un desiderio e soffiare su una fiamma non faceva parte del mio mondo. I desideri di compleanno non si realizzavano più di quanto non si realizzassero quelli espressi soffiando su un dente di leone o gettando una moneta in una fontana. I desideri non erano altro che obiettivi non raggiunti.
Eppure, l’immagine di me che incedo in un diafano abito bianco lungo la navata verso uno sposo senza volto in smoking mi balenò nella mente come un arcobaleno che ravviva un cielo lugubre dopo la tempesta. C’erano brillanti rose rosa e damigelle vestite di chiffon color lavanda. La melodia del Canone di Pachelbel mi risuonava silenziosa nelle orecchie. Il cuore batteva in maniera assurda, come se quella visione fosse qualcosa a cui aspiravo. Non era così, naturalmente. Non per me. Non in quel momento. Avevo la mia carriera. Era più che sufficiente.
Il più delle volte.
Trasalii, cancellando la mia lavagnetta magica mentale, e soffiai sulle candeline senza esprimere alcun desiderio. Tutti batterono le mani e ondeggiarono in avanti, sincronizzati come un banco di tonni. Tonni che volevano la torta. Fui circondata di nuovo.
«Lascia che ti aiuti.» Gabby, la capoufficio, avanzò di un passo. Si infilò una ciocca di capelli biondi dalle punte rosa dietro l’orecchio con tanti orecchini, la gonna arancione e turchese che le frusciava intorno alle caviglie mentre camminava. Aveva ventotto anni, ma la sua era la pelle giovane e perfetta che i miei pazienti pagavano migliaia di dollari per poter riconquistare. Era anche la sorella minore di Hilary, il che la rendeva per proprietà transitiva la mia sorellina.
«Ecco i piattini» disse, porgendomene una pila.
Erano decorati con dei gattini che indossavano diademi proprio come il mio, come se stessi compiendo cinque anni invece di trentacinque. O erano i rimasugli del compleanno di un qualche bambino, o qualcuno mi stava prendendo in giro. Non volevo sapere quale delle due.
«Chi vuole un angolo con una montagna di glassa?» gridai invece, sollevata di avere qualcosa da fare con le mani.
Diamo inizio – e fine – a questa festa, così posso tornare ai miei programmi e terminare le mie scartoffie del giorno. Ho altri posti in cui andare.
Tagliai la torta in quattro e quattr’otto. Essere un chirurgo plastico aveva qualche vantaggio. Gabby e Hilary passarono i piatti, poi tornarono al mio fianco per prendere la loro fetta. Diedi un morso alla mia, sapendo che ero obbligata. Sapendo che significava quarantacinque minuti di cardio in più per bruciarla. Sapendo che il grasso avrebbe otturato le mie arterie come un vecchio olio da motore. Ma accidenti, era buona. Appiccicosa, dolce e provocante.
Gabby si cacciò in bocca una grande rosa rossa di zucchero. «Feliz aniversário» esclamò masticando, i denti ricoperti di cremisi. Sembrava un vampiro. «Significa “buon compleanno” in portoghese.»
«Quando hai iniziato a parlare portoghese?» domandò Hilary, mordicchiando il minuscolo pezzo che aveva preso per sé.
La sorella si strinse nelle spalle, con fare vago. «Da un po’. Sono autodidatta. Lingua meravigliosa. Uomini meravigliosi.»
Hilary annuì. «Mh-mh. A proposito di uomini meravigliosi, Evie, non ti farebbe male, sai.» I suoi scuri occhi castani si spostarono su di me.
Alzai lo sguardo dalla torta. «Imparare il portoghese?»
«No» sussurrò lei. «Desiderare un marito. E anche fare qualcosina per il tuo compleanno.» Mosse avanti e indietro i fianchi, come se il senso non fosse chiaro.
Gabby ridacchiò e io mi strozzai con la torta. Presi la tazza del caffè, ma era vuota. Deglutii meglio che potei e mormorai indignata: «Che cosa ti fa pensare che non lo farò?».
«Perché me l’avresti detto.»
Aveva ragione. Gliel’avrei detto.
«E perché tua madre ha chiamato per la cena di questa sera» aggiunse Gabby. «Le ho parlato un quarto d’ora fa.»
«Hai parlato con mia madre?»
Gabby annuì e le punte rosa dei capelli le scivolarono sulle spalle. «Sì, e ha detto: “Vamos ser tarde. Podemos encontrá-lo no restaurant”.»
La mia curiosità schizzò in alto, insieme al livello del glucosio. «Il mio portoghese è un po’ arrugginito, Gab. Che cosa significa?»
«Significa che ti vedrai con i tuoi genitori direttamente al ristorante perché saranno in ritardo.» Spazzolò un’altra rosa di glassa.
«Ha anche detto che non sopporta l’idea che tu trascorra un altro compleanno da sola» aggiunse Hilary, prendendo con la forchetta una singola briciola.
«Non è vero!» La mia voce grattò nella gola e gettai un’occhiata intorno per vedere se qualcuno stesse ascoltando. Per fortuna la torta li aveva incantati. Modulai il tono a un coscienzioso sussurro. «Mia madre non direbbe mai una cosa del genere. A meno che qualcuno non le punti un bisturi alla giugulare.» Non mi disturbai a precisare che, inoltre, mia madre era persino meno sentimentale di me su faccende come quella e che sapeva che avevo trascorso più di un compleanno perfettamente e felicemente da sola.
Hilary inarcò un sopracciglio dalla linea perfetta. «Va bene. Hai ragione. Non l’ha detto. Ma, Evie, sei qui da quasi quattro mesi e non ti ho sentito accennare a nessun appuntamento. È ora che tu esca e che incontri persone nuove.»
«Sì, persone di sesso maschile» specificò Gabby. «Il mio ragazzo, Mike, conosce un sacco di uomini single con cui potresti uscire. Be’… un sacco è una parola grossa. Ma ne conosce almeno un paio. E un paio ti bastano per una gran bella festa, giusto?»
Le sorelle risero insieme e io valutai il livello di serietà di Gabby. «Non credo di voler sapere a che genere di feste partecipi.»
Hilary posò il piatto. «Be’, Steve e io frequentiamo noiose coppie sposate, ma anche quelle sono meglio che trascorrere il compleanno da sola. Sul serio, Ev, devi sforzarti di più. Smettila di essere così schizzinosa.»
Mi drizzai in tutta la mia statura… be’, per quella che era… e mi preparai a difendermi.
«Non sono troppo schizzinosa. È solo che non ne ho avuto il tempo. Lavoro sempre.»
«Lavori sempre perché non hai altro da fare.» Il rimprovero era gentile ma mi giunse familiare. «Giocare la carta degli impegni andava bene durante l’internato» aggiunse Hilary, «ma ora sei un chirurgo. Hai un orario di lavoro regolare. E non hai più scuse.»
Quel discorso mi faceva sempre venire il prurito. Il mio interesse dormiente nel trovare un uomo era un argomento su cui Hilary e io non eravamo mai d’accordo. Solo perché lei era sposata e aveva due bei bambini, non poteva capire perché io stessi ancora rimandando quella fase della mia vita, perché fossi ancora concentrata sulla carriera invece che sulla famiglia. È che, semplicemente, non avevo fretta. Avevo visto il lato oscuro del matrimonio. Conoscevo la percentuale di fallimenti. Avevo vissuto con i miei genitori. I miei genitori…
«Un attimo» esclamai, mentre il mio subconscio si focalizzava su un pensiero. Poggiai il piatto sul tavolo con un tonfo e guardai Gabby. «Hai detto che mi incontreranno al ristorante? Loro, cioè entrambi i miei genitori?»
Non poteva essere. Doveva esserci solo mia madre. Come avevamo programmato.
Gabby annuì piano, guardinga di fronte al mio cambio di atteggiamento.
«Che cosa ha detto di preciso?» chiesi, resistendo all’impulso di afferrarla per le spalle e scrollarla.
Gabby corrugò la fronte. «Ha detto: “Diga a Evelyn estava tarde estávamos…”»
«No, No! Basta portoghese. Per favore.» Ma faceva sul serio?
Gabby alzò gli occhi azzurri al soffitto, come se fossi io quella seccante.
«Oh, va bene. Tua madre ha detto: “Dica a Evelyn che ci vedremo al ristorante perché suo padre è stato trattenuto in sala operatoria”. Perché è così importante?»
Era importante, ma naturalmente non ne avrebbero capito l’importanza capitale. Non era una faccenda di cui parlavo spesso.
«I miei genitori non vanno d’accordo» risposi. «A dire il vero, non andare d’accordo è un eufemismo. I cani e i gatti non vanno d’accordo. Il rapporto tra i miei genitori è come mescolare la candeggina con l’ammoniaca, poi aggiungere della Coca-Cola e una Mentos. È tossico ed è un disastro per chiunque si trovi nel raggio di tre chilometri.»
I miei genitori erano entrambi cardiochirurghi. Importanti cardiochirurghi impegnati, un punto che mi era stato ripetuto spesso in gioventù, quando mi trascinavano dall’uno all’altro. Avevano divorziato da anni e non cenavamo tutti e tre insieme da quando mi ero iscritta alla facoltà di medicina. E quella cena era terminata di colpo quando mia madre aveva rovesciato il gazpacho sui pantaloni di lino di mio padre ed era uscita dal ristorante pestando i piedi prima che fosse servito l’antipasto. Aveva lasciato i solchi sul marciapiede.
«Non ti avevano detto che sarebbero venuti tutti e due?» chiese Hilary. Aveva sentito diverse storie sulla competizione diabolicamente perversa tra i miei genitori, ma non tutte. Conosceva però la mia convinzione sul fatto che entrambi esercitassero a Ann Arbor anche per potersi rubare i pazienti a vicenda.
«No, non me l’avevano detto.»
Scorsi con la mente una breve lista di possibili ragioni sul perché sarebbero venuti insieme. Forse mio padre era stato nominato ministro della sanità. Forse mia madre aveva inventato un’altra rivoluzionaria tecnica chirurgica. O forse uno di loro era stato contagiato da un ceppo virulento di vaiolo delle scimmie e gli erano rimasti solo pochi giorni di vita. Ci saremmo visti in un ristorante davvero grazioso, perciò speravo non fosse quello il caso. Qualcosa tuttavia aveva provocato quella riunione a sorpresa. Non solo venivano tutti e due, ma sembrava anche che sarebbero arrivati insieme. D’accordo, Ann Arbor era a un paio d’ore di macchina da Bell Harbor, ma comunque in quel lasso di tempo uno dei due si sarebbe ritrovato legato e imbavagliato nel baule.
Era davvero tutto molto strano.
«Dottoressa Rhoades.» Una delle infermiere si affacciò nella saletta. «Il dottor McKnight del pronto soccorso è al telefono. Dice che ha bisogno di un consulto per una lacerazione facciale. Lei è reperibile stasera, giusto?»
«Sei di turno stasera?» chiese Hilary. «Perché non hai fatto cambio con qualcuno, visto che è il tuo compleanno? Io avrei potuto, se me l’avessi chiesto in anticipo.» Il suo tono era un misto di sorpresa e accusa. Era evidente che avevo avvalorato la sua idea che mi stessi tenendo intenzionalmente occupata con il lavoro per evitare gli obblighi sociali. In realtà quello che volevo erano soldi extra. Mettevo da parte ogni penny che guadagnavo per la mia futura casa. La volevo in riva al lago, e lì le case non erano a buon mercato.
«Mi piace essere reperibile. E, inoltre, tutti gli altri hanno dei figli da cui tornare.» Mi rivolsi all’infermiera. «Per favore, gli dica che sarò subito da lui.» Potevo occuparmi di quel paziente e arrivare comunque in tempo alla cena. Solo che non sarei riuscita a fare prima una corsa a casa per cambiarmi.
Alzai la mano e richiamai l’attenzione delle persone rimaste alla festa di compleanno. Si erano diradate e mi resi conto che gli altri miei colleghi erano già tornati al lavoro.
«Grazie a tutti per la splendida festa. Mi scuso per la botta di zuccheri e per la fretta, ma il dovere chiama.»
Qualche voce gridò un altro giro di auguri mentre Hilary e Gabby mi seguivano in sala d’attesa. Mi voltai verso di loro prima di lasciare l’ufficio.
«E un grande, enorme grazie a voi due per aver spifferato del mio compleanno.»
Agitai il dito contro di loro ma, ancora una volta, Hilary rimase indifferente davanti alla mia frustrazione impotente e, tra me e me, ne fui felice. Dovevo ammetterlo: nel profondo mi sentivo un po’ emozionata e confusa, sapendo che quel gruppo si era preso tutto quel disturbo per me. Certo, forse volevano solo la torta, ma avevano applaudito tutti quando avevo soffiato sulle candeline.
«Não há problema.» Gabby sorrise. «A proposito…»
Hilary interruppe la sorella. «So che in realtà volevi che ci disturbassimo.»
Risi forte per la sua certezza mal riposta. «No, sul serio. Ma apprezzo il gesto.»
«Qualcuno deve insegnarti a divertirti, Evie. Vivi un po’.» Il suo sorriso era esagerato per l’occasione.
Gabby mi strinse il braccio. «Più tardi potrei mandare il mio amico Axel a casa tua per una foda pena. È uno spasso.»
«Che cos’è una foda pena?»
«È una bella sco…»
«Sst!» sibilai e feci il gesto di tagliarmi la gola.
Delle, la receptionist, si era posizionata strategicamente e con abilità dietro di loro per ascoltare la nostra conversazione. Davvero, quella donna pesava più di un giocatore di football, ma riusciva a muoversi di soppiatto per origliare come un killer professionista. Non a caso era a capo dei Ninja di Compleanno.
Dall’ufficio del centro di chirurgia plastica scesi due rampe di scale e percorsi diversi corridoi prima di arrivare al pronto soccorso. Tutti quelli che incontrai lungo la strada mi salutarono con un ampio sorriso e persino qualche risatina soffocata. O si era sparsa la voce del mio compleanno, o non mi ero ancora abituata a quanto fossero cordiali gli abitanti del posto.
Il pronto soccorso di Bell Harbor era un luogo trafficato, ma neanche lontanamente caotico come quello in cui avevo fatto il praticantato a Chicago. Le emergenze da queste parti tendevano a essere del tipo da villeggiatura e in tutto il reparto c’era un’atmosfera cortese. Non che non ci fossero incidenti d’auto, infarti o altri simili eventi drammatici, ma qui nessuno veniva pugnalato o colpito con un’arma da fuoco. Non c’erano graffiti con i simboli delle bande ai lati del parcheggio delle ambulanze e non vedevo una prostituta strafatta da mesi.
Spinsi le porte metalliche. Al mio ingresso un’infermiera in divisa verde si spostò con un saltello, poi anche lei sorrise. Aveva i capelli neri e ondulati raccolti in una crocchia ed ero quasi sicura che il suo nome fosse Lecia, ma dato che non ne ero certa, ricambiai soltanto il sorriso. Le infermiere odiano quando le chiami con il nome sbagliato. L’avevo imparato a mie spese alla facoltà di medicina.
«Salve, dottoressa Rhoades. È molto chic oggi. È qui per la lacerazione facciale?»
«Molto chic?»
Indicò la mia testa.
Oh!
No.
Possibile?
Alzai la mano e… sì, eccolo. Il diadema. Me lo tirai via con forza, strappandomi anche un po’ di capelli. Come avevo potuto dimenticare quello stupido diadema? Non c’era da meravigliarsi che tutti continuassero a sorridermi.
«Scusi. È il mio compleanno» mormorai e lo gettai nel bidone dei rifiuti più vicino. Mi scostai i capelli dal viso, sentendomi le guance incandescenti. Scommetto che mi stavo anche riempiendo di chiazze rosse. Oh, le gioie dell’avere la pelle chiara. «E sì, sono qui per la lacerazione facciale. Qual è la situazione?»
Mi condusse verso una zona riparata da tende.
«Maschio bianco di ventisette anni contro una bottiglia di whiskey e una banchina.»
«Come?»
«Ha sbattuto contro una banchina di ormeggio mentre guidava ubriaco un acquascooter. Ha attutito la caduta con la faccia. Ma, secondo la sua versione, non ha rovesciato nemmeno una goccia del suo drink.» L’infermiera inarcò le sopracciglia mentre annuiva, chiaramente colpita dalle priorità dell’uomo. Prese la cartella clinica dal raccoglitore e me la porse, aggiungendo: «Ma è bello e non vuole cicatrici».
Tirò la tenda mentre esaminavo i suoi dati.
Tyler Connelly. Ventisette anni. Segni vitali buoni. Nessun datore di lavoro menzionato. Mi avvicinai per vederlo meglio.
Era alto e con le spalle larghe. Lo si capiva anche se era disteso sulla barella. Aveva gli occhi chiusi e i capelli spettinati, con il genere di striature bionde che derivano dal trascorrere ore al sole. Ciò spiegava anche l’abbronzatura, che ricopriva tutto ciò che potevo vedere eccetto il volto, di un pallore cinereo e con segni di escoriazioni su un lato. Lungo la mascella, da sotto il mento fin quasi all’orecchio sinistro, gli era stata applicata una garza bianca.
Mi infilai la cartella sotto il braccio. «Signor Connelly, sono la dottoressa Rhoades.»
Dal letto provenne un lieve russare.
Guardai l’infermiera, che era impegnata con l’apparecchio per la misurazione della pressione.
«Be’, di certo avete gestito bene il suo dolore» osservai secca.
Lei ridacchiò. «Non gli abbiamo dato niente. Whiskey, ricorda? Era mezzo anestetizzato quando è arrivato.»
«Di martedì pomeriggio?»
Non era insolito che i pazienti del pronto soccorso fossero ubriachi, ma questo non sembrava il solito derelitto. Era muscoloso e ben nutrito, e persino con quel pallore e la garza appiccicata alla mascella il viso era gradevole. Da modello virile. Non che fossi rimasta colpita da quel genere di particolare. Ma accidenti, era un bell’uomo.
Mi spostai alla destra del letto e alzai la voce. «Signor Connelly, si svegli.»
Lui sussultò e aprì gli occhi. Erano arrossati e un po’ opachi, ma anche così erano gli occhi più belli e dell’azzurro più chiaro che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Osservai ancora una volta la sua cartella.
Ventisette anni.
Disoccupato.
Ubriaco.
Maledizione.
E di nuovo maledizione.
Lui mi guardò e sbatté le palpebre, piano, come se il suo cervello stesse scaricando le istruzioni su come farlo. Poi un lento sorriso gli sollevò un angolo della bocca.
«Wow» disse con un sospiro mentre richiudeva gli occhi. «In questo posto ci sono delle infermiere supersexy.»
La vera infermiera ridacchiò, poi si avvicinò al suo orecchio e gridò: «Ehi! Bell’addormentato! Sveglia. Questo è il dottore. E ti metterà i punti in faccia, quindi farai meglio a mostrarle un po’ di rispetto».
Oh, quella donna mi piaceva! Qualunque fosse il suo nome.
A quelle parole lui aprì di scatto le palpebre e le sbatté rapido. Vidi il suo sguardo tornare a fuoco. Mi esaminò, come se stesse confrontando tutte le parti di me in un inventario mentale.
«Lei è il dottore?»
Mi capitava spesso quella reazione. Era il prezzo dell’essere una rossa bassa e formosa in un mondo di uomini alti in camice bianco e dall’ego smisurato. Ma se c’era una cosa che mi aveva insegnato mia madre era non permettere mai che qualcuno mi facesse sentire inferiore a ciò che ero. Non mi sarei fatta sminuire da un ventisettenne disoccupato che di martedì pomeriggio non aveva niente di meglio da fare che ubriacarsi e giocare con i suoi giocattoli da maschio.
Incrociai le braccia e sollevai il mento, rendendomi più alta di almeno un centimetro.
«Sì, signor Connelly. Sono la dottoressa Evelyn Rhoades, una chirurga plastica specializzata. Ho saputo che ha avuto un incidente oggi, perciò le toglierò quella benda e darò un’occhiata. Va bene?»
«Sì. Certo. Naturalmente.» Il suo lieve cenno di assenso terminò con una smorfia, forse dovuta al dolore provocato dalle ferite o, più probabile, dagli inevitabili postumi della sbornia. L’aroma dell’alcol impregnava l’aria intorno a lui. Non era il tanfo acido, stantio, che di solito accompagnava i senzatetto alcolizzati. Era più un odore dolce, stucchevole, come uno spumeggiante champagne rosé avanzato alla fine di una festa. Mescolato con burro di cacao. A quanto pareva, il mio paziente stordito dall’alcol non era così irresponsabile da fare a meno della crema solare.
«Ha dolore, signor Connelly?» chiesi.
«Sto bene.» Il suo sguardo mi disse che aveva altro da aggiungere, ma qualunque cosa fosse non aveva niente a che vedere con le sue condizioni mediche, piuttosto riguardava la sua impressione su di me. Sembrava incuriosito ma un po’ sospettoso.
«Il dottor McKnight gli sta curando il braccio e la spalla» spiegò l’infermiera. «Stiamo aspettando le radiografie, ma non sembra aver riportato fratture o segni di commozione cerebrale.»
Mi misi i guanti in lattice viola. «A quanto pare, sarebbe potuta andare molto peggio, signor Connelly. Statisticamente parlando, è stato fortunato.»
I suoi assurdi occhi né grigi né azzurri incontrarono i miei. «Sì, sono un ragazzo fortunato.» Iniziò a ridacchiare, ma sembrò ripensarci e diede invece un colpetto di tosse. Si portò con cautela le mani al petto, facendo capire che avvertiva una certa dose di dolore. Anche se era coperto dalla camicia a puntini blu dell’ospedale, notai ogni sorta di muscolo che si fletteva e si gonfiava nel fare quel gesto.
I suoi occhi, e i miei.
Gabby, accidenti a te e alla tua foda pena!
Con il ginocchio, spinsi vicino alla barella uno sgabello nero a rotelle, mentre una voce nella mia testa mi ricordava che lui aveva ventisette anni. Ed era disoccupato. E ubriaco.
Ed era un paziente! C’era anche quella piccola questione.
«Signor Connelly, sono qui per occuparmi della sua lesione facciale, perciò dedichiamoci prima a quella.»
Ignorai la maniera in cui la camicia gli scivolò dalla spalla mentre si sistemava sul lettino. Ignorai il bordo di un tatuaggio sul deltoide che sbucò dal tessuto sollevato. Non mi affascinò in alcun modo. Ero una professionista. Mi sarei concentrata solo sulla sua ferita, non sul suo fisico. Solo perché Hilary e Gabby pensavano che avessi bisogno di attività sessuale e solo perché era passato un secolo dalla mia ultima ginnastica orizzontale con un uomo e solo perché era il mio compleanno, non significava che quell’uomo dall’Isola che non c’è fosse ciò che mi serviva. Quello che mi serviva era rimettermi al lavoro.
L’infermiera iniziò a predisporre una bacinella per la sutura senza che le venisse richiesto, mentre io toglievo con delicatezza la garza.
Il mio paziente aveva una lacerazione frastagliata che correva lungo il profilo della mascella e terminava sul mento. Era lunga circa tre centimetri, profonda, ma non fino all’osso. Tuttavia, una ferita come quella richiedeva una sutura a sopraggitto e gli sarebbe rimasta senza dubbio una cicatrice. Potevo ridurla al minimo, però. L’avrei fatto rimanere affascinante e non sfigurato. Potevo riuscirci. Ero davvero in gamba.
«Avrà bisogno di alcuni punti, signor Connelly. Le hanno mai messo dei punti prima?» Premetti la pelle.
Lui ridacchiò di nuovo. «Un sacco di volte.»
«È incline agli incidenti?» Non so perché glielo chiesi. Non era rilevante dal punto di vista medico, ma qualcosa mi spinse, una sconveniente curiosità di sapere come trascorreva il tempo quel paziente.
«No. È solo che non mi piace stare fermo.»
Aveva la voce profonda, con un piacevole tono roco. Il genere di voce che avrebbe suscitato pensieri illeciti in una donna meno professionale. Per sua e mia fortuna, non ero quel tipo di donna. Il più delle volte.
«Che sorta di ferite ha riportato in passato?» chiesi, continuando a non sbirciare quel tatuaggio.
Lui sospirò, come se riflettere sulla mia domanda gli facesse male alla testa, cosa che, date le circostanze, era probabile.
«Una spalla lussata, uno strappo al crociato anteriore. Una frattura al polso. Una volta mi sono tagliato la fronte facendo snowboard.» Si toccò l’angolo del sopracciglio destro, indicando una cicatrice sbiadita.
L’avrei notata se non fossi stata impegnata a evitare il contatto visivo. Mi chinai per esaminarla da vicino. In quel mentre lui si voltò verso di me e mi ritrovai a pensare che era diabolicamente ingiusto che un uomo avesse ciglia così folte e scure, quando invece le mie richiedevano dosi copiose di mascara.
«Vuole sentirle tutte?» chiese. «Ho elencato tutto quanto all’altro dottore.»
Mi raddrizzai e gettai uno sguardo all’infermiera. «Può passarmi la cartella, per favore?» Lei lo fece e io la scorsi, studiando la lista dettagliata documentata dal dottor McKnight. Ossa rotte, distorsioni, contusioni. O quell’uomo era terribilmente goffo o era un drogato di adrenalina. Sembrava un po’ troppo muscoloso per essere goffo.
«Be’, signor Connelly, a parte i danni fisici riportati prima di oggi, in generale direbbe che gode di buona salute?»
«Sissignora.»
Signora?
Oh. Quello sì che feriva. Ero una femminista convinta, ma nessuna donna sotto i settantacinque vuole sentirsi chiamare “signora”. Avrebbe anche potuto chiamarmi “nonna”. Un’acuta, inutile sofferenza mi perforò i polmoni. Forse quella faccenda del compleanno mi stava infastidendo più di quanto mi fossi resa conto. D’un tratto mi sentii… oserei dire… irritabile?
«Non pensa che possa essere piuttosto avventato andare in acquascooter bevendo whiskey?»
Oh sì. Ero decisamente irritabile. Sentii le labbra contrarsi intorno alla parola “whiskey”, come la moglie di un predicatore all’epoca del proibizionismo.
Ma il mio giovane paziente dal bel viso rise e basta. «Sì, il whiskey è stata una cattiva idea. Ma ho rinunciato alla birra per la Quaresima. In più, non avevo in programma di fare acquascooter. Quello è stato una specie di incidente.»
Non riuscivo a immaginare come si potesse finire accidentalmente su un acquascooter, ma non era proprio un mio problema. Non faceva parte del mio lavoro esprimere giudizi su quel cucciolo scatenato. Il mio lavoro era solo riparare ciò che lui aveva rotto. Per non parlare del fatto che ero quasi certa che la Quaresima fosse più o meno intorno a Pasqua e che, poiché eravamo in giugno, era evidente che lui non mi avrebbe dato risposte dirette. Era ora di badare ai fatti miei e di rimettermi all’opera.
«Va bene, le diamo qualche punto e la mandiamo fuori di qui.»
L’infermiera si voltò e finalmente scorsi il suo badge identificativo. Si chiamava Susie. Da dove diavolo mi era spuntato Lecia? Quello era il motivo per cui dovevo prestare attenzione quando mi rivolgevo a qualcuno chiamandolo per nome. Non c’era da fidarsi che beccassi quello giusto. Sapevo elencare tutti i muscoli del corpo umano, ma avrei sbagliato se mi avessero chiesto il nome degli impiegati del mio stesso ufficio, figuriamoci quello di un’infermiera a caso del pronto soccorso.
«Grazie, Susie» la ringraziai a voce alta mentre lei si allontanava per assistere un altro paziente.
Mi sistemai con i miei strumenti e l’attrezzatura a portata di mano e iniziai a suturare la lacerazione. In quello eccellevo. Non nei nomi. Non nelle chiacchiere. Quello era il mio divertimento. Il brusio di voci e i bip delle apparecchiature mediche, mischiati in un ronzio diffuso intorno a me. Quello era il rumore di sottofondo della parte migliore della mia vita e di solito trovavo calmante il trambusto.
Ma non quel giorno, mentre cercavo di concentrarmi sulla ferita davanti a me. Tuttavia non erano il rumore o il caos dell’affollato pronto soccorso a distrarmi. Era il viso del signor Connelly.
Da un punto di vista puramente scientifico, il suo aspetto incantava. Aveva lineamenti di una simmetria quasi perfetta, persino nelle fossette abbinate; poche persone possedevano quel tipo di equilibrio. Era affascinante. Ecco perché continuavo a guardarlo. Per la scienza.
Come scienziata, inoltre, non potevo fare a meno di apprezzare la notevole muscolatura delle sue ampie spalle o i tendini dell’avambraccio, che si muovevano quando univa le mani sull’addome piatto e asciutto. Sotto quella camicia d’ospedale probabilmente c’erano anche addominali scolpiti. Per non parlare di qualche altro bell’esempio di muscolatura ben proporzionata.
Cavolo. Non faceva un po’ caldo? Credo fosse un po’ caldo lì dentro. O forse quel compleanno aveva innescato la mia prima vampata premenopausa. Infatti non era possibile che fossi così accaldata e infastidita solo perché il signor Connelly era attraente. Quel genere di dettaglio non mi aveva mai toccata. Per vivere creavo volti bellissimi. Senza contare che aveva solo ventisette anni, per l’amor del cielo. Otto anni meno di me. E mi aveva chiamata “signora”!
Era colpa di Delle, Hilary e Gabby, che mi avevano messo in testa folli pensieri lascivi. Ecco qual era il problema. Dunque, se fossi stata una donna sui venti e qualcosa, forse quell’agitazione sarebbe stata logica, malgrado l’apparente mancanza di buonsenso e di un lavoro remunerativo di quell’uomo. O magari… no. Avevo trascorso i miei vent’anni alla facoltà di medicina e poi nell’internato, e dopo di quello nel tirocinio. Avevo studiato mentre i miei coetanei se la spassavano e andavano a letto con tutti. Andavano in vacanza durante la pausa primaverile e io approfittavo di quel periodo per fare la volontaria in una clinica. I miei genitori mi avevano insegnato che il lavoro viene sempre prima del divertimento. E quel ragazzo era tutto divertimento.
Eppure, c’era una parte nascosta di me a cui mancava il non essere mai stata frivola, spensierata e stupida. Non abbastanza stupida da sfidare a una prova di coraggio una banchina, ma magari abbastanza stupida da ubriacarmi a metà settimana.
Un inaspettato sospiro di rimpianto mi sfuggì prima che potessi trattenerlo.
«Si sta annoiando?» Gli occhi del mio paziente erano di nuovo chiusi, ma una leggera incurvatura gli segnò gli angoli della bocca.
«Sto facendo un intervento, signor Connelly. Non mi annoio mai durante un intervento» risposi.
«Tyler» disse lui.
«Mi scusi?»
«Per favore, mi chiami Tyler. L’unica persona che mi abbia mai chiamato signor Connelly era il preside alle superiori, e quando lo faceva non andava mai a finire bene.»
«Perché? Lei era un piantagrane?» Riuscivo a immaginarmelo. Un ragazzo troppo bello per il suo stesso bene. Un istigatore. Che fraternizzava con le cheerleader. Che ignorava le ragazze secchione come me.
Aprì gli occhi e mi scrutò senza muovere il viso. «Non ero un piantagrane. Ero un angelo. Ho solo l’abitudine di farmi trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato e con le persone sbagliate.»
La tenda che circondava il letto si scostò all’improvviso. «Hai detto bene, ragazzo. Che diavolo è successo oggi su quella barca?»
Un uomo con i capelli grigi, una vistosa scottatura solare e la barba di due giorni si piazzò davanti a me e guardò di traverso il mio paziente.
A parte un breve, leggero sospiro, il signor Conn… cioè, Tyler non mostrò una grande reazione. «Come sapevi che ero qui, Carl?»
«Le voci girano.» L’uomo estrasse una bibita in lattina dalla tasca del suo… oh mio Dio, era un accappatoio quello che indossava?
Lo era.
Di spugna azzurro chiaro.
Aprì la lattina come se volesse mettersi comodo. «Ma i dettagli sono un po’ incompleti. Quindi, o adesso mi dici che cosa è successo, o posso ascoltare mentre lo spieghi ai poliziotti, perché sono nell’atrio e qualcosa mi dice che ti stanno cercando.»
Quell’affermazione sembrò ottenere l’attenzione del mio paziente, che alzò una mano per fermare il mio lavoro e cercò di voltare la testa. Io però lo bloccai afferrandogli il mento prima che sfilasse il mio ultimo punto.
«Gli hai detto qualcosa?» chiese Tyler.
L’altro uomo proruppe in una risata di scherno come se fosse la più assurda delle domande. «Certo che no.»
«Hai parlato con Scotty?» gli domandò Tyler.
«Tuo fratello? No. Perché? Che c’entra lui?» Il bevitore di bibite con indosso l’accappatoio si accigliò, le labbra arricciate in un’espressione preoccupata.
«Trovalo e portalo a casa. Digli di non parlare con nessuno, d’accordo?»
Carl mandò giù una sorsata rumorosa dalla lattina. Udii la bibita frizzare e osservai il suo pomo d’Adamo muoversi mentre mi domandavo chi fosse e, cosa più importante, che diavolo stesse succedendo.
«A tua madre non piacerà» disse a Tyler, bevendo un altro sorso.
«La mamma è l’ultima delle mie preoccupazioni in questo momento, Carl. Trova Scotty e basta. Tienilo lontano dal telefono, se ci riesci. E tienilo lontano dalla mamma.»
Carl lo guardò di traverso e incrociò le braccia coperte dall’accappatoio. Non mi aveva ancora degnata di uno sguardo. Non so nemmeno se si fosse reso conto che ero lì. Abbassò solo gli occhi in silenzio sul mio paziente e alla fine proruppe: «Il piccolo ha incasinato tutto, eh?».
Tyler mi gettò un’occhiata, come se stesse valutando la mia affidabilità, poi guardò di nuovo Carl.
«No. Scotty è a posto. Me ne occuperò io. Ora esci di qui prima che la polizia ti veda e ti arresti per vagabondaggio. Sembri un barbone con quell’accappatoio.»
Carl si lisciò un risvolto con la mano come se fosse visone, invece che spugna logora. «Adoro questo accappatoio. Me l’ha regalato tua madre per Natale. Penso che l’abbia rubato in un negozio, ma voleva che avessi qualcosa di carino.»
«È per stare in casa, non per andarci in giro. Te l’abbiamo detto un centinaio di volte.»
Tyler emise un sospiro, questa volta lento e profondo. Una tensione che prima non c’era comparve sulla sua mascella contratta. Ma la scrollata di spalle di Carl fu il ritratto dell’indifferenza. Non trovava niente di sbagliato nel proprio abbigliamento o nel modo in cui era finito in suo possesso. Alla fine mi guardò, sgranando un po’ gli occhi quando si spostarono sul mio viso. Inclinò la lattina verso di me in uno strambo brindisi. «Scusa per l’interruzione, Rossa. Affari di famiglia.»
«È una dottoressa, Carl. Mostra un po’ di rispetto.» Tyler scimmiottò le precedenti parole dell’infermiera e, se non fossi stata così sconcertata, avrei riso.
«Piacere di conoscerla» rispose Carl. Sollevò la lattina, allungando il mignolo. «Perché ha i brillantini nei capelli?»
«Cosa?»
No! Mi passai una mano sopra la testa e dei coriandoli scesero verso il basso, proprio sul viso del mio paziente.
«Oh caspita. Io… oh!» Diedi un colpetto alla guancia di Tyler per spazzare via i coriandoli rosa e viola. «Mi dispiace. È… è il mio compleanno.»
Tyler mi guardò, gli angoli dei suoi occhi azzurri si sollevarono in quello che potevo presumere fosse solo divertimento.
«Davvero? Tanti auguri» disse.
Carl sollevò ancora più in alto la sua bibita. «Buon compleanno, Doc. Si prenda cura del mio ragazzo, va bene?»
Annuii. «Ehm, sì. Certo. Naturalmente.» Brillantini nei capelli? Avrei ucciso quei Ninja di Compleanno! In maniera subdola e irrintracciabile.
«Be’, me ne vado. Cercherò di intercettare quei poliziotti» disse Carl voltandosi.
«No» rispose Tyler. «Lascia che la gestisca io, Carl. Promettimelo.» Non era una richiesta. Era un ordine.
Osservai le spalle vestite di spugna alzarsi in un altro gesto d’indifferenza.
«Okay, ragazzino. Se lo dici tu. Ma tua madre non sarà contenta.»
Si allontanò dal letto e riportò la tenda alla sua posizione originaria. Gli anelli di metallo tintinnarono come catene sbatacchiate e poi tacquero.
«Mi dispiace» disse Tyler quando la tenda smise di ondeggiare.
La sua pelle acquistò colore e anche se potevo attribuirlo al fatto che si sentisse meglio, in realtà sapevo che era per l’imbarazzo. Ma non ero nella posizione per giudicare. Di solito non ho brillantini tra i capelli quando curo i pazienti.
«Non c’è problema» gli risposi. «Finiamo questa sutura, però.»
Mi risistemai sullo sgabello e feci un altro punto, ma la mia curiosità ribolliva come una reazione chimica dentro una provetta. Volevo chiedergli dove fosse stato quel giorno e perché la polizia voleva interrogarlo. Ma già da molto tempo avevo imparato che ogni paziente aveva una qualche storia triste o eccitante da raccontare ed era sempre meglio lasciare quel genere di dettagli incasinati agli assistenti sociali. A volte era difficile farlo, ma qualunque cosa fosse accaduta prima che il mio paziente sbattesse contro quella banchina, non erano affari miei. Sapevo bene che non dovevo immischiarmi.
Passò un momento e continuai a chiudere la ferita, finché Tyler non emise un altro gran sospiro.
«Ha fratelli o sorelle?» chiese.
La sua voce suonò malinconica e sentii indebolirsi il mio proposito di non coinvolgimento.
«No.»
In realtà avevo un paio di sorellastre da qualche parte, ma non le contavo davvero, poiché la maggior parte dei matrimoni di mio padre era stata così breve che avevo avuto a malapena il tempo di firmare il registro degli ospiti prima che le mogli e i figli a carico sparissero. Oltretutto era meglio non lasciarsi invischiare nei dettagli delle loro vite complicate. Manteneva la mia vita molto più semplice.
Tyler incrociò le braccia sul torace. La camicia dell’ospedale gli scese un po’ più giù dalla spalla, rivelando un’ulteriore porzione di quel tatuaggio, ma non abbastanza da poterlo vedere chiaramente. Era intrigante in maniera assurda. Doveva essere così che si sentivano gli uomini quando vedevano una scollatura.
«Be’, io ne ho un paio di entrambi» aggiunse lui. «Ed è faticoso tenerli fuori dai guai.»
Le mie mani si fermarono, la mia mente elaborò. Non avrei dovuto chiederlo, ma lo feci. «Perché deve tenerli lei fuori dai guai?»
La sua risatina sembrò carica di rassegnazione più che di buonumore. «Perché i guai ci trovano. E quel tizio in accappatoio è il nostro patrigno. Pensa che li terrà d’occhio?»
Volevo saperne di più. Sul serio. Volevo sapere come il mio paziente ubriaco fosse finito su un acquascooter di martedì pomeriggio e contro una banchina e che cosa c’entrava suo fratello Scotty con quella faccenda e perché i suoi fratelli erano una sua responsabilità, ma lanciai un’occhiata all’orologio sulla parete, che segnava le sei e quaranta. Sarei arrivata incredibilmente in ritardo all’incontro con i miei genitori e, se fossero rimasti soli, probabilmente avrebbero finito per pugnalarsi a vicenda con i coltelli da bistecca.
Quella conversazione con Tyler Connelly non mi avrebbe aiutato a ricucire la sua lacerazione e quella era la mia responsabilità primaria. Dal punto di vista tecnico, era la mia unica responsabilità. E inoltre, saperne di più mi avrebbe soltanto coinvolto ulteriormente, ed era meglio lasciare inesplorate le complicazioni emotive. Rimasi in silenzio e continuai a suturare.
Dopo un po’ lui chiuse gli occhi e sospirò di nuovo. «Da quanto tempo lo fa?»
Diedi un leggero strattone a un punto. «Da circa quaranta minuti, ma ho quasi finito.»
Ora la sua risatina era divertita. «Voglio dire, da quanto tempo è un dottore?»
«Oh.» Sorrisi, anche se lui non poteva vedermi. «Da un po’.»
«Non può essere da molto. Sembra molto giovane. Quanti anni compie oggi?»
Non avevo intenzione di rispondere a quella domanda. Ma era bello sentire che almeno sembravo giovane. «Signor Connelly, ho bisogno che la smetta di parlare e che tenga la mandibola ferma, per favore. Ho quasi finito.»
Una voce profonda e autoritaria penetrò il brusio generale del reparto. Trascorsero pochi secondi, poi la tenda si scostò e una massa imponente blu scuro apparve nel mio campo visivo. Alzai gli occhi e vidi un mastodontico agente di polizia in piedi dall’altro lato della barella. Accanto a lui c’era un secondo poliziotto corpulento, con voluminosi avambracci e occhiali da sole a specchio.
«Tyler Connelly?» Il poliziotto più grosso fissò il mio bel paziente dotato di simmetria.
Tyler riaprì gli occhi.
«C’è qualche problema, agente?» chiesi. Provai l’impulso di dire loro che Tyler Connelly era appena scappato dalla porta posteriore. Ma poiché lui era sdraiato sulla barella tra di noi, non credevo si sarebbero lasciati ingannare. Inoltre, se la polizia voleva parlare con il mio paziente, probabilmente avevano un valido motivo, mentre io non avevo nessuna ragione plausibile per sentirmi protettiva.
«Sono Tyler Connelly» rispose lui senza traccia di esitazione.
«Tyler Connelly, è in arresto per furto aggravato di un acquascooter e per distruzione di proprietà. Ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale. Ha diritto a un avvocato. Se non può permettersi un avvocato, gliene sarà assegnato uno d’ufficio. Ha compreso i diritti che le ho appena elencato?»
Furto aggravato?
Guardai il mio paziente e i fremiti di sorpresa lasciarono il posto a un brivido di disagio mentre aspettavo che rispondesse. Di certo non aveva rubato quell’acquascooter. Senz’altro c’era stato un errore. Si sarebbe senza dubbio difeso e i poliziotti se ne sarebbero andati soddisfatti perché non era avvenuto alcun crimine.
Tyler Connelly mi guardò. Questa volta nessuna chiazza d’imbarazzo gli colorò le guance. Era freddo come un ladro di gioielli della Costa Azzurra, gli occhi color ghiaccio sgombri da ogni dubbio.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Persino mentre diceva: «Sì, capisco. Ma prima che mi ammanettiate, vi dispiace se la festeggiata qui presente finisce di mettermi i punti?».