I primi passi
La storia del giornalismo online ha ormai quasi vent’anni. Molto prima che Internet diventasse un mezzo di comunicazione diffuso in milioni di case, infatti, un piccolo giornale texano, The Fort Worth Star Telegram, già trasmetteva online una propria edizione digitale. Era il 1982 e il giornale diffondeva la sua versione non cartacea tramite una BBS locale, un sistema che in quegli anni era molto diffuso e che può essere descritto come una sorta di piccola Internet ad ambito locale. Si trattava ovviamente di un sistema piuttosto rudimentale, se paragonato al Web di oggi, senza immagini e composto da sole pagine di testo.
Il quotidiano ora ha un sito Internet molto ricco che viene frequentato da un alto numero di visitatori che vi trovano, oltre all’informazione classica, anche una serie di forum di discussione. La versione digitale di The Fort Worth Star Telegram non ha prerogative particolari rispetto ad analoghe iniziative statunitensi, ma rappresenta comunque, anche simbolicamente, un punto d’inizio di quello che molti pensano sarà un lungo cammino, quello del giornalismo online.
Un’altra data che gli storici del giornalismo online non devono dimenticare è il 28 febbraio 1997. Alle 15.15 ora del Texas, il Dallas Morning News metteva in linea uno scoop che faceva subito la felicità dei giornalisti televisivi: in una testimonianza scritta, destinata ai suoi avvocati, Timothy McVeigh, principale sospettato dell’attentato di Oklahoma City, riconosceva la sua colpevolezza. Per la prima volta un grande giornale (il Dallas Morning News è tra i primi dieci giornali americani) non aspettava la sua edizione stampata per diffondere un’informazione esclusiva, uno scoop. Al tempo stesso invertiva il rapporto tenuto fino ad allora con il proprio sito Web, tradizionalmente considerato dalla proprietà un sottoprodotto, uno sbocco alternativo per gli stessi articoli della carta stampata.
Jon Katz, esperto di media applaudiva immediatamente a questa iniziativa: «D’ora in poi dovrebbe essere più chiaro anche per i vertici reazionari che dirigono il giornalismo [americano] che Internet non rappresenta una minaccia per l’informazione, ma la sua più grande risorsa».
Molti altri giornali americani, tra i quali il New York Times, avevano apprezzato il fatto che il giornale texano si fosse dato un buco da solo. Ralph Langer, redattore capo del giornale di Dallas, convinto che quella seguita fosse la strada giusta, rispondeva così alle critiche: «Il sito Web siamo noi, come il giornale stampato. Sono solo dei mezzi differenti per raggiungere gli stessi obiettivi». Ma al New York Times il responsabile del sito Web la pensava diversamente: «Se noi avessimo una notizia simile, oggi, non cortocircuiteremmo il giornale stampato. Preferiremmo verificarla e lavorarci sopra fino all’ultimo minuto».
Il commento di Jon Katz a tutta questa situazione è piuttosto caustico: «L’industria della stampa non vuole liberarsi dell’ombrello collettivo che ha tra le chiappe e non riesce a comprendere come utilizzare un nuovo media in modo creativo. Più di 700 giornali [negli Stati Uniti] hanno scaricato in linea il contenuto statico dei loro giornali con un effetto deprecabile. A parte alcune testate, l’utilizzo del Web da parte dei giornali come media d’informazione è stato pesante, dispendioso e controproducente». La situazione in Italia - oggi, a due anni di distanza - non appare molto diversa.
Davide e Golia
Internet ha portato due grandi rivoluzioni che hanno trasformato e trasformeranno ancora profondamente il rapporto tra le persone e le informazioni.
- Tramite la Rete è possibile reperire una gran massa d’informazioni in modo rapido, relativamente economico e con un certo grado di personalizzazione.
- Per la prima volta nella storia dell’umanità anche una sola persona, con un impegno economico molto basso e con conoscenze tecniche di base, è in grado di immettere notizie in un circuito che provvede alla loro distribuzione in tutto il pianeta.
Questa seconda possibilità, anche se le due sono collegate tra di loro, è forse la vera grande rivoluzione di Internet.
Nemmeno gli inventori dell’HTML avevano previsto un tale entusiasmo. Tim Berners-Lee ha spiegato alla Technology Review che «l’idea originaria era che chiunque avrebbe dovuto essere messo in grado di scrivere documenti collegabili tramite link ipertestuali. Quello che mi ha sorpreso è la facilità con cui la gente ha accettato di codificare manualmente i testi. L’HTML non è stato concepito per essere qualcosa di visibile, ma per essere gestito da un programma. È la stessa cosa dei programmi di scrittura. Gli utenti dei computer non sono costretti a scrivere tutti i codici dei caratteri e dei margini per formattare i loro documenti. Mi sorprende molto che la gente abbia effettivamente accettato di scrivere l’HTML a mano. Non avrei neanche immaginato che qualcuno dovesse inserire i link ipertestuali digitando quei lunghi e complessi codici. La sintassi dell’URL non era stata concepita per essere usata dagli esseri umani, era stata creata per una macchina».
Nonostante gli ideatori dell’HTML non avessero pensato agli uomini, questi si sono prontamente appropriati di una risorsa superando, senza apparente difficoltà, gli ostacoli che si trovavano di fronte. Perché? La risposta e semplice: la scrittura di noiosi codici o di indirizzi chilometrici, non era un impedimento sufficiente a tenere lontana l’umanità dalla possibilità di comunicare a basso costo a livello planetario.
In una lista di link, le pagine personali di un giovane studente appassionato di windsurf possono avere lo stesso rilievo del sito ufficiale di una multinazionale. E i siti più consultati non sono necessariamente quelli costati di più. In tutto il mondo, sulla base di queste constatazioni, si è iniziato a sognare un (cyber) mondo migliore, nel quale i piccoli possono allegramente tenere testa ai più grandi.
Forse, però, si tratta solo di un mondo fantastico. Con l’entrata in scena degli attori principali, fermamente decisi a ricavare dei profitti da questa terra vergine, Internet è diventato un mercato. Certo, in molte circostanze abbiamo potuto vedere piccoli siti registrare migliaia di accessi o vincere premi internazionali. Certo, alcuni siti realizzati con pochi soldi sono stati (o sono ancora) autentici laboratori della nascente cultura online. Ma tutto questo quanto durerà ancora?
Un Web ha bisogno del sostegno di un’azienda o della pubblicità per poter sopravvivere e professionalizzarsi. Alcuni, nati spontaneamente, con piccoli budget e grazie al lavoro entusiasta di poche persone, sono stati acquistati da grossi editori. In questo non c’è nulla di negativo, ma dimostra che i piccoli, anche quando hanno delle buone idee, devono prima o poi confrontarsi con la logica del mercato.
Esattamente quello che è successo alle radio libere italiane alla fine degli anni Settanta. Allora, infatti, era possibile dar vita a una nuova stazione con un budget limitatissimo e con conoscenze tecniche sommarie. Era sufficiente un piccolo trasmettitore e, nell’etere completamente libero di quegli anni, il proprio segnale poteva viaggiare indisturbato per chilometri. Anche gli ascoltatori, abituati alla soporifera radio di stato, si accontentavano di trasmissioni più che artigianali, ma che avevano la freschezza della spontaneità.
Ben presto le cose sono cambiate e già agli inizi degli anni ottanta il piccolo trasmettitore da 800 watt non era più in grado di coprire tutta la città; la gente si era assuefatta alla novità e iniziava a sintonizzarsi sulle emittenti con il segnale più nitido. Oggi la grande maggioranza delle radio private appartiene a investitori che hanno recuperato le idee, le capacita, i talenti e il saper fare dei pionieri. Il rischio è che le cose vadano nello stesso modo per Internet. Anche se Negroponte ritiene che saranno proprio i piccoli a trarre i maggiori vantaggi dalla nuova situazione.
Secondo il direttore del Media Lab il mondo digitale sarà il paradiso delle piccole aziende dinamiche e innovatrici, anche in Italia. Dice Negroponte: «Il peso dei grandi gruppi diminuirà a vantaggio di nicchie produttrici di informazioni piccole, flessibili e disseminate sul pianeta. Persino le barriere legislative tra carta stampata e televisione non avranno più senso perché il pluralismo sarà garantito dalla presenza di migliaia di fonti. Più in generale, il mondo digitale sarà un paradiso per le piccole aziende e l’imprenditoria diffusa: ecco perché ad esempio l’Italia, che ha già una struttura economica di questo tipo, sarà avvantaggiata». Prendiamolo come un augurio.
Gli outsider
La soglia d’ingresso dei mezzi di comunicazione di massa è sempre stata altissima. Le spese fisse per l’avvio di un’attività editoriale di tipo professionale sono sempre state alla portata solo delle grandi organizzazioni o dei magnati. Internet ha scardinato queste regole consentendo a chiunque di diffondere notizie a livello planetario a costo zero. Una volta acquistato un computer dotato di modem, infatti, è possibile avviare un’attività pubblicistica sul Web senza contare su un budget, ma solo sulle proprie conoscenze e capacità.
È ancora difficile prevedere quale sarà la portata storica di questa innovazione, ma già ora è possibile vedere come il mestiere di giornalista sta cambiando, consentendo a singoli individui di dare vita a pubblicazioni di un certo successo.
Il più noto tra questi outsider, che da soli cercano di farsi largo nel mondo dei media, è certamente Matt Drudge, il giornalista che dal suo sito, il Drudge Report, ha svelato lo scandalo Lewinsky. La sua è una storia nota e che è stata variamente interpretata e commentata, soprattutto perché Drudge è diventato famoso grazie ad un azzardo: quello di pubblicare uno scoop senza aver verificato in alcun modo la notizia.
Meno note sono le storie di altri dilettanti dell’informazione che, partendo da un’idea semplice, hanno dato vita a siti giornalistici che in poco tempo si sono conquistati l’interesse di un certo pubblico, avviando un’attività professionale che, pur non avendoli portati alla ricchezza, rappresenta per loro una buona fonte di guadagno. Sono gli One Man Web, gli uomini che da soli realizzano un servizio informativo via Web di livello professionale: senza finanziamenti, senza finanziatori, con il solo ausilio del loro computer e delle loro conoscenze.
Uno di questi è Randy Cassyngham. Il suo giornale, infatti, è redatto da una sola persona, lui stesso, ma conta ben 156 mila abbonati. Si tratta di un bollettino che viene inviato tramite posta elettronica in 143 Paesi: una serie d’informazioni curiose, a volte bizzarre, sempre rigorosamente vere. Non a caso la pubblicazione si chiama This is True, Questo è Vero. Un esempio: «La regina Elisabetta visita per la prima volta un supermarket». Ogni notizia è seguita da un commento umoristico. A volte non è necessario.
Fonte principale d’informazione di This is True sono i dispacci delle agenzie stampa reperibili su Internet, in particolare AP, Reuters e France Presse. Il giornalista cita la fonte, ma non paga nessun diritto. «I fatti - dice - sono liberi da diritti. Io scrivo i miei articoli sulla base dei fatti che leggo, riscrivendo tutto con il mio stile e per una lunghezza non superiore alle 75 parole».
Contrariamente a quanto fanno quasi tutti gli editori elettronici, il sito Web di This is True non è utilizzato per distribuire informazioni, ma solo per registrare gli abbonamenti, mentre la pubblicazione viene distribuita via e-mail.
Forte della sua popolarità su Internet, Randy Cassyngham è ora corteggiato da molte riviste stampate, alcune delle quali pubblicano i suoi articoli. Una volta l’anno dà alle stampe una raccolta dei servizi migliori. Ma anche per i libri fa tutto in proprio con i soliti due mezzi: la posta elettronica per distribuire le informazioni e il sito Web per registrare gli abbonamenti.
Randy Cassyngham è un giornalista per caso. In passato è stato vice sceriffo e autista di autoambulanze e ha lavorato per la Nasa a Pasadena, in California. Il suo hobby era quello di trovare notizie strane sui giornali e mandarle, tramite la posta elettronica interna, ai suoi colleghi. Tutti le leggevano divertendosi molto e richiedendone sempre di nuove. Una notte del 1994 gli venne l’idea di utilizzare Internet per allargare il suo pubblico.
This is True viene distribuito tramite due diversi tipi di abbonamento: uno, gratuito, è sostenuto dalla pubblicità: un breve testo che costa all’inserzionista 750 dollari. Il secondo, a pagamento (15 dollari l’anno), non contiene pubblicità e ha il doppio di notizie rispetto alla versione gratuita. Tra i lettori di This is True ci sono anche avvocati e preti che usano la pubblicazione come fonte d’ispirazione per i loro sermoni o le loro arringhe.
Il successo è stato immediato, gli abbonamenti sono cresciuti rapidamente e in soli due anni Randy ha potuto lasciare il suo lavoro per dedicarsi a tempo pieno a This is True. Si è trasferito a Boulder, Colorado, e da lì scrive il suo bollettino settimanale inviandolo a mezzo mondo. Un motivo di soddisfazione per Cassyngham, che da sempre sognava di andare a vivere vicino alle Montagne Rocciose e di lavorare senza padroni.
Luke Ford, anche lui ideatore, gestore e redattore unico del suo sito, si è specializzato nel mettere a nudo i segreti dell’industria pornografica americana.
Si tratta di un lavoro oscuro, spesso condotto indagando nei postriboli di un milieu fatto anche di miserie personali e rapporti ambigui, molto lontano da quello patinato delle majors hollywoodiane. Eppure il lavoro di Ford è apprezzato anche dai colleghi delle grandi testate statunitensi. «Senza di lui - afferma Nick Ravo, giornalista del New York Times, autore di articoli sull’industria a luci rosse - un’enorme quantità di informazioni su questo ambiente non sarebbe mai stata diffusa».
Nel 1998 Ford ha seminato il panico a Los Angeles, culla del porno, rivelando l’improvviso propagarsi del virus dell’Aids nella comunità degli attori pornografici. La bufera spinse una quarantina di produttori a firmare un inedito accordo in favore dell’uso del preservativo durante le riprese. Lo scoop, però, come nel caso Lewinsky, fu messo a segno senza verificare le notizie, giocando d’azzardo in un modo che i giornalisti tradizionali ritengono inaccettabile per la professione.
Australiano di nascita, Luke Ford si trasferisce con la famiglia in California. A 21 anni viene colpito dalla sindrome da stanchezza cronica, che lo inchioda al letto per sei anni e lo porta alla conversione all’ebraismo. A Los Angeles scopre Internet e decide di scrivere un libro sull’industria porno. Il suo sito Web raccoglie i frutti di anni di ricerche sul mondo a luci rosse americano con reportage sulle riprese, biografie e mille altre curiosità.
«Internet - afferma - permette a chiunque di diventare giornalista, ma soltanto i più bravi riescono. La rete è il supporto più facile per pubblicare notizie e anche il più elastico per correggerle. È una forma di giornalismo ideale per seguire l’industria pornografica, per metterne a nudo i difetti».
Il soggettista pornografico Martin Brimmer confessa che per fare ricerche consulta il sito. «Il 90% del materiale - dice - è molto buono, ma Ford dovrebbe prendersi un po’ più di tempo per verificare le sue informazioni. E rispettare la gente del mestiere».
Secondo Jeffrey Douglas, i tre quarti dei professionisti americani del porno hanno accesso a Internet e molti visitano il sito di Luke Ford. A parte i pettegolezzi del giorno, le attrici possono scoprire, ad esempio, che il tal produttore firma assegni a vuoto. Contraria mente a Matt Drudge, Luke Ford non è ancora mai stato trascinato in tribunale e riporta tutte le lettere minatorie sul suo sito che, per il momento, rimane gratuito. Un tentativo di trasformarlo a pagamento è fallito nel dicembre del ’98. Il sito con i soli introiti pubblicitari frutta a Luke Ford 3000 dollari mensili, sufficienti per andare avanti col lavoro e a condurre una vita non troppo modesta.
L’Open Source Journalism di Slashdot
Nel panorama delle Webzine, le riviste nate su Internet, l’americana Slashdot rappresenta un fenomeno di grande interesse.
Slashdot è nata intorno ad una particolarissima forma di nuovo giornalismo che poteva vedere le luce solo su Internet, perché si basa su una delle caratteristiche peculiari della rete: il lavoro in comunità. Il sito è qualcosa a metà strada tra la rivista online e la comunità virtuale, un po’ Salon magazine e un po’ The Well, per intenderci.
La grande risorsa di Slashdot è il numero elevato di persone che orbitano intorno al sito, che riceve una media di 600.000 visitatori al giorno; in buona parte programmatori informatici. Il New Journalism di Slashdot è piuttosto semplice: chiunque può inviare ai tre responsabili del sito un articolo, una notizia, un messaggio. Se la redazione riterrà l’informazione interessante, pertinente, la pubblicherà senza apportarvi modifiche. Naturalmente questo, in perfetto stile Internet, non è che l’inizio del processo, perché ogni visitatore può inviare un suo commento alla notizia pubblicata, avviando una discussione. Il ruolo dei giornalisti è limitato alla selezione delle notizie e alla gestione delle discussioni.
Molti osservatori hanno definito questa nuova forma di giornalismo Open Source Journalism, prendendo spunto dal movimento Open Source, basato sulla diffusione pubblica dei codici sorgente dei programmi informatici. Il principio, anche nel caso di Slashdot, è lo stesso: condivisione delle risorse, possibilità per ognuno di intervenire integrando il proprio lavoro a quello altrui nel rispetto di alcune regole. È l’idea di fondo che ha permesso a migliaia di programmatori di lavorare insieme allo sviluppo di Linux che, pur non avendo alle spalle (almeno inizialmente) alcun capitale finanziario, è riuscito a insidiare il predominio Microsoft nel settore strategico dei sistemi operativi.
Slashdot, che si occupa esclusivamente d’informatica, è nel suo settore una delle voci più autorevoli e certamente una delle testate più informate, grazie alla sua capillare e vastissima - seppur spontanea - rete di collaboratori. Anche se l’aspetto più interessante di questa nuova forma di giornalismo è da ricercare nella mancanza di un pensiero unico, di una linea editoriale predefinita. È una sorta di caos organizzato, che riflette maggiormente il punto di vista dei lettori che quello degli editori.
Anche per quanto riguarda la verifica delle notizie, uno dei fondamenti della professione giornalistica, Slashdot propone un modello diverso, alternativo a quello classico. La verifica, infatti, non viene svolta dalla redazione, cioè dai responsabili del sito, ma dagli utenti stessi, dai lettori, in buona parte specialisti del settore. Se una notizia infondata o errata viene messa in linea, ecco che scatta un meccanismo collettivo che la individua e la segnala al resto della comunità. Un’idea che può peccare d’ingenuità, ma che, sostanzialmente, funziona.
L’esperienza di Slashdot ridimensiona fortemente il ruolo del giorna-lista, negandone in parte la funzione.
I giornalisti, già da tempo in crisi di credibilità, sono sempre più sotto assedio. Forme di comunicatori minacciano ormai il loro monopolio. All’assedio partecipano le aziende stesse che con Internet hanno avuto la possibilità di dar vita a siti ricchi di notizie destinate agli utenti finali, entrando in questo modo in diretta concorrenza con le pubblicazioni specializzate. La ricaduta di questo fenomeno non è da vedere solo dal punto di vista dell’audience che viene sottratta agli organi d’informazione classici, ma anche da quello del mercato pubblicitario. Perché, infatti, pianificare costose campagne su giornali, TV e siti Web altrui, quando è possibile instaurare un rapporto diretto con i consumatori? Inoltre, i siti aziendali possono accogliere pubblicità di aziende non concorrenti, sottraendo ulteriori sostanze a chi fa informazione per mestiere. Ovviamente, i siti aziendali non avranno mai il pregio dell’imparzialità, della libertà di pensiero, ma si tratta di una qualità sempre più rara anche nelle migliori redazioni.
La lezione di Slate
Le vicende di Slate, il magazine online di cultura e attualità lanciato nel giugno del 1996 da Microsoft, con un impegno economico considerevole, possono rappresentare un interessante caso di studio che potremmo intitolare: «Non è sufficiente essere potenti per avere successo sul Web».
In effetti, l’armata Slate messa in campo dal gigante di Redmond sembrava destinata ad un rapido successo: un sostegno finanziario da parte dell’editore - Microsoft, in quel momento all’apice della sua crescita e con una causa antitrust ancora lontana - senza problemi di budget; un direttore, Michael Kinsley, di grande fama e carisma, uno stuolo di ottimi giornalisti prelevati senza badare a spese, dalle migliori testate statunitensi. Nonostante le premesse, la vita di Slate è stata difficile e tormentata, con continui cambi di rotta e di modello informativo. E tutto ciò mentre altre iniziative, come Salon, una rivista online nata senza la forza economica di Microsoft alle spalle, passavano da un successo all’altro.
La lezione appresa da Kinsley e dal suo staff è sintetizzabile in uno slogan: «Per avere successo sul Web, bisogna conoscerlo». Gli errori commessi avevano in effetti tutti la stessa matrice: proponevano su Internet, su un medium nuovo e profondamente diverso dalla carta stampata o dalla TV, formule giornalistiche e modelli di business alieni alla rete o, almeno, inadatti a sopravvivere nel nuovo ambiente.
Il primo errore fu quello di pensare di poter proporre su Internet un settimanale a pagamento. Il piano iniziale prevedeva, infatti, il passaggio dalla gratuità piena, al momento del lancio, alla formula a pagamento mediante la sottoscrizione di un abbonamento di 19,95 dollari l’anno. L’idea si rivelò presto fallimentare e venne accantonata prima di diventare operativa. Kinsley, probabilmente troppo fiducioso nei propri mezzi e in quelli di Microsoft, non aveva tenuto conto che su Internet - dove quasi tutto è gratuito - una rivista a pagamento non ha grandi possibilità di sopravvivenza.
Chi ha interesse a leggere una pubblicazione che si occupa di cultura e attualità preferisce ancora quelle tradizionali. Leggere un foglio stampato è più confortevole dello schermo di un computer e anche Kinsley, in una lettera di autocritica pubblicata sul sito della Microsoft, nel novembre del ’97, intitolata Slate: Mistakes made, Lessons Learned, ammetteva che fino a quando «non verranno crea-ti schermi abbastanza leggeri e portatili per essere utilizzabili in una comoda poltrona davanti al caminetto, o a letto o in bagno» Slate si dovrà adattare. Forse Kinsley aveva scoperto solo successivamente che anche Bill Gates trova sgradevole la lettura di lunghi articoli su uno schermo.
Gli articoli, inoltre, erano troppo lunghi. «Stiamo facendo i nostri articoli più corti» scriveva quindi Kinsley nella sua lettera di autocritica e aggiungeva: «Gli articoli delle riviste possono avere una lunghezza di migliaia di parole. Su Slate noi faremo di tutto per tenerli entro una lunghezza massima di 1000 parole (poco più di 6000 caratteri, cioè 3 cartelle e mezza Ndr)».
La nuova formula giornalistica era anche più semplice e si adattava meglio a Internet: una serie di assaggi facili da digerire che facevano da contorno ad un pasto normale. Piccoli articoli facili da leggere, quindi, e alcuni pezzi importanti, di approfondimento. Dando più spazio all’informazione che alle opinioni.
«Il mio secondo errore - ammetteva ancora Kinsley - è stato quello di pensare che si può pubblicare sul Web una volta alla settimana e lasciare il sito fermo per tutto quel tempo. Un sito Web è troppo dinamico in confronto ad una pagina stampata per lasciarlo statico per una settimana intera».
La Webzine diretta da Kinsley, in quel momento, contava una media di 100.000 lettori al mese e 100.000 pagine lette al giorno.
Slate, quindi, dopo un anno e mezzo di vita, scopriva che era necessario adattarsi alla Rete per sopravvivere, comprendendone le caratteristiche e dimenticando in parte quanto appreso precedentemente sugli altri media. Un grande giornalista della carta stampata o della TV può essere un primitivo sulla Rete, dove valgono nuove regole, nuove formule e dove tutto cambia rapidamente.
Consapevole del fatto, Slate viene presto contagiato da una delle malattie più diffuse su Internet, la Sindrome da Cambiamento Continuo, resa più infettiva dall’elasticità del mezzo. In particolare, inizia una sorta di yo-yo dell’abbonamento e la rivista passa dalla formula iniziale, gratuita, a quella a pagamento nel marzo del 1998, per tornare alla gratuità nel febbraio del ’99.
Attualmente la Webzine ha adottato una complicata formula mista che prevede l’accesso libero al sito e una serie di servizi a pagamento, tra i quali una varietà di Newsletter via e-mail che si distinguono per l’orario di invio (mattino, pomeriggio o sera), oppure per il tipo di notizie che contengono: gli articoli del giorno, le news o una versione settimanale, stampabile, della rivista. Gli abbonati hanno anche accesso a The Fray, i forum di discussione di Slate, e agli archivi del sito.
Il fatto che una pubblicazione che può contare su mezzi economici straordinari, come quelli messi a disposizione da Microsoft, continui a non trovare la formula economica giusta è certamente sorprendente.
La morale di questa vicenda è stata brillantemente sintetizzata da Jim Nail, analista della Forrester Research: «Avremmo dovuto dirglielo molto tempo fa: le sole cose per le quali la gente è disposta a pagare sono contenuti molto particolari. E, specificamente, contenuti per adulti o informazioni finanziarie in tempo reale o approfondite analisi finanziarie. I contenuti di Slate sono molto interessanti, ma devono essere supportati dalla pubblicità, non dagli abbonamenti». E il fatto che Slate sia passata da 90.000 a 20.000 abbonati sembra confermare questo punto di vista.