3
MARTEDÌ
Ci furono i brutti sogni e ci fu il dolore. Kristina si svegliò in un bagno di sudore, con le dita della mano sinistra intorpidite. A preoccuparla non fu questo, bensì le lacrime che le rigavano le guance, scorrendo giù verso le orecchie e perdendosi nei capelli arruffati. Lacrime! Erano state quelle a svegliarla. Aveva sentito se stessa piangere e, quando aveva aperto gli occhi, non era riuscita a fermarsi. Era tutta indolenzita.
Alzatasi dal letto, si spostò sulla poltrona. I lampioni proiettavano una fredda luce gialla sulle tendine bianco sporco. Si asciugò il viso. Che cosa mi prende?, si chiese. È solo un altro stupido Ringraziamento.
Da bambina non aveva mai pianto, non ne aveva avuto motivo. Niente lacrime, ma molte paure: una casa buia e silenziosa senza sua madre, l'incidente stradale della zia, gli uragani, la morte.
Durante l'adolescenza aveva imparato a controllare abbastanza bene la paura.
Ripensò al rischio che aveva corso. Rivide l'incidente, l'auto e il lago artificiale, i momenti in cui si era trascinata lungo la china, lontano dalla morte. Toccandosi le unghie spezzate, rabbrividì. È questo che mi ha svegliata? Stavo rivivendo la mia possibile morte?
Se fosse morta, che ne sarebbe stato dei soldi, ora che lei e Howard avevano divorziato? Se ne sarebbe andata senza lasciare nemmeno due righe. Chi avrebbe preso il cane? Chi avrebbe ricevuto il contenuto della sua stanza e della cassetta di sicurezza in banca? E tutto il resto?
Si strofinò gli occhi finché le fecero male. Nel buio fu assalita dalla consapevolezza che c'erano delle questioni in sospeso nella camera, all'Hinman Hall, al Dartmouth.
Si era iscritta al college per raddrizzare la propria vita. Era ironico che tre anni dopo non fosse cambiato nulla. Dove aveva sbagliato?
Il Dartmouth era una scuola bellissima. Un luogo pittoresco, sobrio, minuscolo, nel cuore delle montagne sulle sponde del fiume Connecticut, il confine naturale tra il New Hampshire e il Vermont.
L'idea di andare lassù le era balenata quando era in quinta superiore e cercava una scappatoia da una situazione impossibile. Avrebbe frequentato il Dartmouth, studiato con impegno, trovato un buon lavoro, conosciuto un uomo gentile, si sarebbe sposata e avrebbe avuto dei figli.
Si era illusa che se si fosse comportata normalmente, se avesse fatto cose normali e avuto un ragazzo normale, la sua vita avrebbe imboccato una direzione diversa, o appunto normale.
Così frequentava il Dartmouth, studiava con impegno, lavorava alla Red Leaves, giocava a pallacanestro e aveva persino conosciuto un ragazzo gentile.
Lei e Jim ce l'avevano messa tutta. Anche dopo la Scozia, anche dopo quei mesi in cui Kristina non aveva mai pensato a lui, avevano provato a tornare in carreggiata. Aveva creduto di desiderare una vita con Jim. Non era un buono a nulla né uno sbruffone, né tantomeno un pagliaccio con la coda di cavallo e i tatuaggi ma senza futuro.
Kristina aveva scelto James Allbright Shaw. Era lui il suo uomo.
Ma Jim non la amava, e lei non lo aveva messo in conto.
Il college. Verrebbe da pensare che sia semplice fingere di essere innamorati quando si hanno così tante cose in comune, tra corsi, studio, feste e tre puntate giornaliere al Thayer. La scuola era un filtro infallibile, la coperta calda che li avvolgeva e li teneva al sicuro. Come si poteva non innamorarsi lì dentro? Quasi tutte le persone che aveva conosciuto negli ultimi tre anni avevano perso la testa per qualcuno. In molti casi, più di una volta. Una studentessa, per esempio, aveva collezionato sette ragazzi solo nel semestre autunnale del primo anno, e ora era tornata con il numero uno.
Chiunque poteva innamorarsi in una fredda e minuscola città tra le colline. Quattromila studenti, una ventina di party ogni week-end, aule piene di iscritti a un'università d'élite, il football ogni sabato, la festa d'inverno; tutti leggevano il Dartmouth, tutti protestavano contro qualcosa, facevano la spesa al minimarket e mangiavano all'EBA. Le differenze tra le persone erano tenui. Tutti si specializzavano in una o più materie umanistiche, tutti venivano da una famiglia affettuosa e tenevano molto all'istruzione, al duro lavoro e al futuro. Non esistevano distinzioni se non tra i sessi, e la guida del college cercava di azzerare anche quelle.
Quel giorno era Jim, il giorno precedente avrebbe potuto essere Barry, che l'aveva invitata ad andare a Cape Cod due anni prima, e il giorno dopo avrebbe potuto essere il detective giovane e carino che l'aveva osservata mentre si allacciava gli stivali e le aveva offerto la cioccolata. Spencer Patrick O'Malley.
Eppure Kristina sedeva nell'oscurità quasi assoluta, con un bernoccolo sulla testa e l'alcol nelle vene, coperta solo da reggiseno e mutandine, e le lacrime le scorrevano lungo le guance e le finivano in bocca.
Jim non la amava. Nemmeno il Dartmouth College era in grado di mascherare quella realtà.
Tra loro era tutto sbagliato. Jim le accarezzava il collo e le faceva massaggi fantastici alla schiena, ma non la guardava mai come l'aveva guardata Spencer O'Malley né come, una volta, Kristina l'aveva pizzicato a fissare Conni. Non si riteneva bella: a volte restava indifferente davanti alla propria immagine, perciò avrebbe capito se gli uomini avessero reagito nello stesso modo, ma non era quella la reazione che avrebbe dovuto avere il suo ragazzo. Albert non si mostrava mai indifferente nei suoi confronti, ma Kristina cercò di convincersi che lui non c'entrasse nulla. Non voleva replicare il sentimento che provava per lui, voleva liberarsi di quel desiderio distruttivo, soffocante, violento. Quello non era amore, bensì follia. Lei voleva un amore sano.
Fuori cominciò ad albeggiare.
Si alzò dalla poltrona e andò al comodino. La bottiglia di liquore era vuota. Chissà dove era finita quella che le avevano regalato, probabilmente l'aveva dimenticata di sotto.
Camminò in tondo nella stanza e poi si sedette sul letto. Raddrizza la tua vita, disse una vocina nella sua testa. Raddrizza la tua vita.
È questo che mi terrorizza, pensò asciugandosi la faccia. Non solo la morte. No, a terrorizzarmi è anche il futuro.
Ricordò la festa d'inverno, quando lei e Jim avevano costruito un enorme pupazzo di neve al centro del cortile. Ci avevano messo due ore, e alla fine della giornata Jim era congelato, ma si era rifiutato di andarsene finché non avevano trovato il cappello e i pezzetti di carbone; era persino corso al Collis Café a comprare una carota. Kristina si era stupita che il Collis avesse anche la verdura fresca. All'epoca Jim l'aveva amata un pochino, nonostante Edimburgo.
Lei avrebbe voluto sentirgli dire che non l'amava.
"Non ti amo, Kristina. Avrei potuto salvarti con il mio amore, tirarti fuori dal pantano buio in cui ti trovi e renderti felice... e libera. Sì, avrei potuto liberarti con il mio amore, prenderti e aiutarti a dimenticare l'uomo pazzo, l'uomo nero, ma non ti amo, perciò non posso salvarti, mi dispiace. Gioca a pallacanestro, nasconditi dietro lo sport, scrivi articoli per la Review, occupati di Evelyn. Ma io non posso salvarti."
Si vestì, sgattaiolò fuori e scese nella camera di Jim.
«Svegliati» sussurrò sedendosi sul letto e scuotendolo con la mano destra. «Devo parlarti.»
Jim gemette, voltandole le spalle. Lo scrollò di nuovo. «Svegliati, per favore.»
Era intontito. «Che ore sono?»
«Presto. A che ora sorge il sole?»
Un altro gemito. «Più tardi ho lezione. Ti prego.»
«No, sono io che prego te.»
Jim si tirò su e appoggiò la schiena alla parete. «Che cosa c'è?»
Kristina si asciugò il viso. «Non saprei, Jimbo. Credo che tra noi sia finita.»
«Credi?» chiese lui in tono di scherno.
«Mi dispiace molto.» Non riuscendo a guardarlo, si fissò le ginocchia. «Non riesco a renderti felice.»
«Perché ci hai mai provato?»
«Ci ho provato, eccome.»
«Nemmeno per idea. Sei troppo impegnata con la pallacanestro, la Red Leaves House e persino con la Review...»
«Collaboro con la Review solo perché me l'hai proposto tu.»
«Hai accettato per farmi un favore, allora» la rimbeccò.
«Senti, neppure io posso dire che tu mi abbia resa felice.»
«Krissy, è impossibile renderti felice.»
«Come fai a saperlo?» Si tirò su e cominciò a zoppicare da un angolo all'altro, seguendo delle linee irregolari. «Ci hai mai provato?»
«Mi sono messo con te, no?»
Bastardo. «Hai accettato per farmi un favore, allora.»
«Sai una cosa? Smettere di vedersi è un'ottima idea. È da un bel po' che non sono felice.»
«Non lo sei mai stato.»
«Sì, invece: prima di conoscerti.»
Kristina si sentì mancare, ma riuscì a rispondere: «Trovo difficile crederci». Era sull'orlo delle lacrime, ma si trattenne. Non gli avrebbe dato quella soddisfazione. Sapeva che Jim faticava a parlare di questioni personali. Era fatto così, amen.
Lui rise, imbarazzato. «Stento a credere che abbiamo resistito per tutto questo tempo.»
«Non dire così. Le cose non sono sempre andate male.»
«No?»
«No. Solo da quando mi sono resa conto di cosa provi per me. O meglio, di cosa non provi per me.»
La fissò freddamente, senza muoversi dal letto. «A cosa ti riferisci?»
Kristina continuò a camminare avanti e indietro. Un nodo in gola le impedì di esprimere i propri pensieri.
«Lascia stare. Sono venuta sperando che potessimo parlare.»
«Non è vero» la contraddisse Jim, sprezzante. «Mi hai svegliato sperando che ti tirassi su il morale, come sempre. Be', non ho la minima intenzione di trascurare gli studi per tirarti su il morale. Non mi sto mica specializzando in psicologia.»
«Su questo non ci piove» borbottò lei. «Dio! Sei l'ultima persona che potrebbe tirarmi su il morale. Non mi hai mai saputo prendere.»
Non avrebbe pianto davanti a lui, non in quel momento. Assolutamente no. Si sforzò di usare un tono calmo quando annunciò: «Me ne vado».
«Ciao, Krissy» la salutò Jim con voce incrinata.
Vedendo che non muoveva un dito per fermarla, Kristina tornò in camera sua.
Si sedette sul letto, sconfortata. Anziché stare meglio, si sentiva molto peggio. Dio, mi sono svegliata e stavo così male da non riuscire a ragionare... ma guarda in che condizioni sono ora.
Nella luce dell'alba, ogni cosa era silenziosa e azzurrina. Aristotle guaì.
«So come ti senti, amico. So esattamente come ti senti» disse mesta, stendendosi accanto al cane sulla moquette sottile. Gli diede un bacio sulla testa e, dopo una fitta di dolore, si addormentò.
Dormì per la durata delle due lezioni mattutine e dell'allenamento. Era troppo indolenzita per giocare a pallacanestro. Quando si svegliò, Aristotle non c'era. Qualcuno l'aveva portato a spasso e, quasi di sfuggita, le aveva gettato addosso una coperta. Di sfuggita oppure no, era curiosa di sapere chi fosse stato. Albert? Jim? Conni?
Aprì gli occhi con un'orribile sensazione di pesantezza e depressione di cui non riuscì a sbarazzarsi. Faticava a credere di essere stata abbandonata così a lungo; di solito qualcuno entrava nella sua stanza e la chiamava.
Mentre si alzava, si rese conto che non era depressione. Il suo corpo pulsava da capo a piedi.
Per quanto tempo mi avrebbero lasciata sul pavimento?, si chiese spazzolandosi i capelli arruffati. Per quanto tempo sarei rimasta lì? Sarebbero partiti senza avvisarmi? Chi per Wilmington, chi per Cold Spring Harbor, mollandomi qui senza Aristotle. Controllò l'orologio. Era già pomeriggio.
Vestirsi fu una tortura. La spalla le doleva più del giorno prima, ma riuscì a sollevare il braccio più o meno all'altezza della vita. Lo tenne fermo per qualche straziante secondo prima di abbassarlo piano.
D'un tratto bussarono alla porta. Non riconobbe i colpi ma, quando li udì, rimase impietrita.
«Chi è?»
«Polizia. Aprite.»
Sospirò esasperata. Ci mancava anche questa.
«Un attimo, per favore. Mi sto vestendo.»
Altri colpi. «Apra la porta, per favore. Subito.»
«Cazzo» bofonchiò Kristina, andando verso l'uscio in slip e felpa.
Quando socchiuse il battente, si ritrovò davanti un giovane poliziotto basso e tarchiato, che le sbatté il distintivo sotto il naso, e Spencer O'Malley.
Spencer, mezzo metro più in là, trattenne un sorriso. L'altro pareva estremamente nervoso.
«Agenti, come state?» esordì Kristina nel suo tono più formale. «Vi sarei grata se poteste concedermi qualche minuto.»
Spencer non fiatò, mentre il suo collega, rosso in viso e imbarazzato, disse, cercando di non guardarla: «Faccia pure con comodo».
Li ringraziò e chiuse la porta, per poi ricomparire di lì a un minuto con indosso i pantaloni della tuta. «Ditemi, che cosa posso fare per voi?» Finse di non conoscere Spencer O'Malley, ma notò che stringeva tra le mani la sua borsetta nuova.
A condurre l'interrogatorio fu perlopiù l'altro poliziotto, che si presentò come agente Ray Fell. «Miss Kim?» Aveva spessi occhiali dalla montatura nera e una massa ribelle di ricci corvini. Sembrava più un patito di computer che un poliziotto.
«Sì, esatto» confermò Kristina.
«Guida una Ford Mustang marrone del 1981?» Lesse il numero di targa.
«Mi vedo costretta a rispondere di no» disse, evasiva.
«No?»
«No, non guido più una Ford Mustang.»
O'Malley sorrise. Fell, confuso, proseguì con voce più ferma.
«È indicata come proprietaria della vettura.»
«Non la guido più da ieri.»
«È rimasta coinvolta in un incidente?»
«Sì, direi proprio di sì.»
«Miss Kim, si è allontanata dall'auto dopo la collisione?»
«Sì.» Kristina osservò Spencer che, a differenza del collega, era in borghese.
«Sa che è reato abbandonare la scena di un incidente?» continuò Ray. «È una grave infrazione del codice della strada. Il conducente del veicolo non è autorizzato ad allontanarsi in caso di danni a persone o cose.»
«Mi dispiace, non ne avevo idea.»
«Non sapeva di dover aspettare la polizia?»
«No, era buio pesto, e volevo solo andarmene da lì. Stavo per mandare un carro attrezzi che prelevasse la macchina e la portasse in un deposito rottami.»
«Miss Kim, deve presentare una denuncia di incidente stradale, non sa nemmeno questo? Ha contattato la compagnia d'assicurazione?»
«No. Volevo risolvere ogni cosa oggi.»
Fell annuì. «Le dispiace seguirci in centrale per fare quattro chiacchiere?»
«Agenti, farò tutto il possibile per collaborare, ma ho un test di calcolo che non posso assolutamente saltare.»
«Miss Kim» riprese l'agente alzando la voce, «intralciare un'indagine di polizia è un reato punibile con una sanzione o con la reclusione. Ora, le dispiace venire con noi?»
«Non ho nessuna intenzione di intralciarvi, e mi piacerebbe molto potervi accontentare. Possiamo fare tra un paio d'ore? Magari alle quattro o giù di lì?» Prima aveva alcune commissioni da sbrigare.
«No, subito.»
Spencer fece un passo avanti e posò la mano sulla spalla del collega.
«Miss Kim, è stata in ospedale?»
Kristina scosse la testa.
«Forse possiamo accompagnarla al Darmouth-Hitchcock. Si direbbe che la sua faccia abbia visto giorni migliori.» Posò lo sguardo sul braccio ferito. «Qualcuno dovrebbe darle un'occhiata.»
«Sergente» mormorò Fell, «credevo dovesse seguirci subito.»
«Non preoccuparti, la signorina non va da nessuna parte.» Poi, rivolto a Kristina: «Ma dovrebbe farsi visitare da un medico, Miss Kim». Pronunciò le ultime due parole lentamente, quasi con tenerezza.
«Sto bene, e posso sempre andare all'infermeria del campus, grazie. Ma è possibile rimandare a più tardi?»
«Non se ne parla: è già a rischio di arresto» intervenne Fell. «La procedura prevede la compilazione immediata della denuncia. Ha abbandonato la scena dell'incidente, è reato. Deve venire con noi.»
Tossicchiando, Spencer gli rimise la mano sulla spalla. «Raymond, saresti così gentile da aspettarmi di sotto, per favore?»
Fell parve riluttante ma, per poco che conoscesse la gerarchia della polizia, Kristina capì che l'agente aveva ricevuto un ordine cui non poteva rifiutarsi di obbedire.
Quando furono soli, Spencer le restituì la borsetta. «Chi avrebbe mai detto che ci saremmo rincontrati così presto?»
Lei la gettò sul pavimento accanto alla porta. «Non ci sei ancora arrivato? Ho inscenato l'incidente solo per rivederti.»
«Non era necessario prendersi tutto questo disturbo.»
«Nessun disturbo.»
«Sei nei guai fino al collo. Hai fatto arrabbiare il mio collega.»
«Grazie per avermi aiutato.» Avrebbe voluto invitarlo a entrare, ma si vergognava del disordine; non voleva che Spencer la giudicasse una sciattona. Si ripromise di riordinare quanto prima. Per fortuna si era spazzolata i capelli.
«Hai commesso un reato.»
«Non sapevo che lo fosse.»
«Perché non hai aspettato i soccorsi?»
Kristina si sentì in dovere di dirgli la verità. «Non amo molto gli ospedali, e poi ieri era il mio compleanno. Avevamo organizzato una festicciola.»
«Tanti auguri. È stato bello?»
«Bellissimo.»
«Ti senti vecchia a ventun anni?»
«Sì, come fai a saperlo?»
«Perché ne ho compiuti trenta da poco e mi sono sentito decrepito.»
Kristina pensò che non li dimostrava, nonostante i capelli rasati. Assomigliava a un ragazzo allampanato che ha appena finito la naia.
«Hai veramente un test di calcolo?» le chiese.
«Ecco... se seguissi il corso di calcolo, sì. No, me lo sono inventato, ma devo andare in banca prima delle tre.»
«Devi riorganizzare le tue finanze?» scherzò Spencer.
«Più o meno.»
Lui incrociò le braccia. «Facciamo una cosa: che ne dici se tengo la tua denuncia sulla mia scrivania fino a lunedì?»
«Puoi farlo?»
«Certo, sono a capo dell'indagine, posso fare quello che voglio. Ma non dirlo al mio superiore, mi farebbe un cazziatone.»
«Okay. Ma dov'è l'inghippo?»
«Niente inghippo. Però...» Imbarazzato, Spencer lasciò la frase a metà e avvampò. Notando lo sguardo indagatore di lei, arrossì ancora di più, annaspando in cerca delle parole giuste. «Quello che volevo dire è che... mi chiedevo se tu... se magari noi... ecco... potessimo uscire a cena una di queste sere.»
«A cena, eh?»
«Sì, se ti va.»
«Dove?»
«Al Jesse's. Fanno le bistecche più buone del mondo. Ti piace la carne, vero?»
«Certo, anche se non riesco a mangiarla spesso.»
«È un sì?»
«È un non lo so.» Kristina sentì il cuore che accelerava. Fu tentata di accarezzargli i capelli cortissimi. «Il fatto è che sono molto impegnata...»
«È solo una serata. Un paio d'ore al massimo.»
«Quando?»
«Venerdì?»
«Questo venerdì?»
Spencer si grattò la testa. «Sì, perché no? Aspetta, è il week-end del Ringraziamento.»
«Sì.» Aveva davvero voglia di uscire con lui, ma voleva fargli credere di avere una vita molto piena.
Per fortuna Spencer le facilitò le cose. «Facciamo il venerdì successivo?»
«Okay, Spencer O'Malley. Puoi portarmi fuori a cena se non mi metti in prigione.»
«Non essere ridicola; nessuno voleva metterti in prigione. È solo la procedura. Viviamo e moriamo secondo la procedura, a Hanover. Riesci a venire lunedì? Oppure preferisci che faccia un salto qui e ti dia un passaggio?»
«No, no, non preoccuparti. Vengo per conto mio.»
Spencer sfoderò uno splendido sorriso dai denti perfetti. «Non hai nessuna intenzione di presentarti, giusto?» Cercò di nascondere il piacere che provava all'idea della sua risposta affermativa.
«No, vengo, sta' tranquillo.» Kristina avrebbe mantenuto la parola per avere la possibilità di rivederlo, ma notò che non era convinto. «Mmh... riguardo al prossimo venerdì... a che ora?»
«Quando preferisci. Io smonto alle cinque.»
«Giochiamo contro le Crimson. La partita dovrebbe finire alle dieci. È troppo tardi? Possiamo fare, diciamo, alle dieci e un quarto?»
«Vai alla partita?»
«In che senso, vado? Gioco.»
«Neanche per sogno. Non con quel braccio.»
Kristina non aveva voglia di parlarne, nemmeno con lui. «Guarirà» disse, noncurante.
Spencer la guardò con espressione divertita. «Vuoi che venga a prenderti qui?»
«Dipende. Vieni con una macchina della polizia o con un'auto civetta?»
«Quella che preferisci.»
Kristina non riuscì a dissimulare il compiacimento. «Con la macchina della polizia, allora. A sirene spiegate. Okay?»
«Okay. Ne porterò una in più, appositamente per te.»
«E io mi metterò in ghingheri. Appositamente per te.» Devo comprare un vestito.
«Affare fatto.» D'impulso, Spencer allungò la mano e le sfiorò il viso. Prima di andarsene, aggiunse: «Deve essere stato un brutto incidente. La tua macchina era molto malconcia». La squadrò. «Peggio di te. Sei fortunata a essere viva, sai?»
«Non lo siamo tutti?» In cuor suo però Kristina sapeva che lui aveva ragione.
«Promettimi una cosa: se il braccio non migliora entro domani, vai a farti visitare.»
«Sembra così malandato?»
«Sì, potrebbe essere slogato. Non riesci a muoverlo, giusto? Non si sa mai. A volte è più grave di quanto si pensi. Promettimelo.»
«Okay, detective O'Malley.» Kristina provò a sollevare il braccio. «Te lo prometto.»
Gli tese la destra e Spencer la strinse. Aveva una mano calda e forte. Mentre indietreggiava verso la porta antincendio, le disse in un tono insieme scherzoso ed esitante: «Non azzardarti a tirarmi un bidone. Altrimenti ti arresto per aver mentito a un pubblico ufficiale».
«È un crimine anche questo?»
«Reato capitale.»
Kristina rise. «Non preoccuparti. Non sgarrerò di un minuto.»
«A presto.»
«Ciao, Spencer.»
Lo guardò superare la porta e poi girarsi a sbirciarla. Il dolore cessò per un attimo, alleviato da un caldo piacere.
Kristina chiuse l'uscio, poi tornò indietro e girò la chiave. Si sedette davanti al Mac e aprì un nuovo documento. Digitò rapida la data – 23 novembre 1993 –, l'ora – 14.29 – e la formula A chi di competenza. Quindi la cancellò e la sostituì con Egregio Signore/Gentile Signora. Sì, così andava meglio. Scrisse un breve messaggio, lo stampò e chiuse Word. Quando il computer le chiese se volesse salvare il file, cliccò su No.
Quando uscì, nevicava. I fiocchi svolazzanti si stavano infittendo. Si domandò se Albert, Conni e Jim fossero partiti per il ponte. No, impossibile. Aristotle non è in camera mia, non l'avrebbero portato via senza avvertirmi.
Tremando sotto i pantaloni della tuta azzurro sbiadito, zoppicò verso la banca. Avrebbe potuto infilarsi una seconda felpa, ma rivoleva il cappotto di sua madre. Forse poteva chiamare Spencer e pregarlo di accompagnarla al Fahrenbrae. No, troppe domande. Il Fahrenbrae non era reale per nessuno tranne che per lei e Albert, e voleva che le cose restassero così.
La banca chiudeva alle tre. Doveva sbrigarsi.
Più facile a dirsi che a farsi: durante l'incidente aveva sbattuto il ginocchio contro il cruscotto e ora aveva un male cane. In East Wheelock Street, di fronte all'Hanover Inn, rallentò e aspettò che le auto passassero. Perché ho tutta questa fretta? Anche se non dovessi farcela, posso sempre tornare domani. Le banche sono aperte domani, no? E non ci sarà in giro nessuno. Sì, posso venire domani. Non è un problema. Tuttavia preferiva autenticare immediatamente il documento.
«Mi dispiace, siamo chiusi» annunciò una guardia con le chiavi nella toppa.
«Ascolti, voglio solo mettere una cosa nella mia cassetta di sicurezza e controllare il saldo. La prego» ansimò Kristina.
L'uomo chiamò una cassiera, che la fece entrare con riluttanza.
«Per favore, faccia presto» raccomandò.
Sarò un fulmine. «Ci metto solo un minuto. Grazie.»
Aspettò che le consentissero l'accesso al caveau sul retro.
«Buongiorno, Mr. Carmichael. Può autenticarmi un documento?»
Il direttore, Mr. Carmichael, un cinquantacinquenne esile dalla barba grigia, alzò gli occhi al cielo, quindi fece un sorriso bonario.
«Siamo chiusi. Conosci il significato di questa parola?»
«Sì. Ma può aiutarmi, vero?»
Un sospiro. «Che cosa ti serve?»
«Solo l'autenticazione della mia firma su questo foglio.» Estrasse la pagina, ma la piegò in modo che Mr. Carmichael non potesse leggere il contenuto.
«Devo vedere tutto il documento, conosci le regole. Non è la prima autenticazione che mi chiedi.»
Kristina lo assecondò.
Il direttore lesse e quando ebbe finito lanciò un'occhiata alla ragazza, che sperò di riuscire a mantenere un'espressione impassibile.
«Okay, firma qui» disse Mr. Carmichael. Lei obbedì e lui prese il timbro notarile e autenticò la firma, quindi aprirono la cassetta di sicurezza e l'uomo si allontanò.
Kristina infilò delicatamente la lettera nella busta gialla che conteneva i documenti del divorzio, poi frugò rapida nella scatola. Rifletté per un momento, quindi tirò fuori una matita e scarabocchiò qualcosa sul retro di una vecchia lettera. La rimise dentro e uscì.
«Buon Ringraziamento!» augurò a Mr. Carmichael. «E grazie!»
«Prego. Buon weekend» la salutò il direttore.
Sarà semplicemente fantastico, pensò Kristina, rimpiangendo di aver dimenticato il cappotto. Aveva bisogno di un drink e avrebbe voluto che la testa smettesse di pulsarle. Era contenta di essere riuscita ad andare in banca; l'indomani avrebbe dormito fino al tramonto.
Nevicava forte. Non più piccoli fiocchi, ma grossi frammenti che sembravano palle di neve. Cadevano dal cielo sui suoi capelli, sulla sua faccia e sul terreno. Le macchine in Main Street avanzavano piano, affondando silenziosamente le gomme nella coltre candida. I marciapiedi erano innevati, le tende verdi si erano tinte di bianco e gli alberi erano immobili, neri e spogli.
Attraversò Main Street, indecisa se andare alla Peter Christian's Tavern a comprare una torta di carote da portare a casa – l'estate precedente c'era stato un periodo in cui aveva vissuto solo di quella –, ma poi stabilì che sarebbe stato meglio rimandare al giorno seguente, quando tutti fossero partiti e lei sarebbe potuta entrare per pranzare in santa pace e leggere il giornale.
Non metteva nulla sotto i denti dalla festa della sera prima. Nelle ultime ventiquattr'ore aveva mandato giù la torta gelato alla Red Leaves, la torta al cioccolato dei suoi amici e una bottiglia di Southern Comfort. Bella dieta. Tuttavia non aveva fame, l'emicrania non le dava pace.
Il ricordo del giorno precedente la fece rabbrividire. È stato solo ieri che ho rischiato di morire? Perché sembra che sia passato un sacco di tempo? Si toccò il bernoccolo sulla tempia. No, solo poche ore. Infatti, eccolo qui.
E se ci fosse qualcosa che non va? E se avessi una commozione cerebrale? Si diresse verso il campus. E se avessi un ematoma, e se morissi per un'emorragia interna? Il sangue gocciolerebbe dalle vene nel cervello e mi scorrerebbe lungo il corpo fino a raccogliersi nei piedi e nelle gambe, agitandosi dentro di me come se fossi un pentolone di acqua sporca, e poi un mattino non mi sveglierei più.
Intirizzita, entrò nella cappella del Dartmouth e rimase seduta al caldo per qualche minuto, pensando a Evelyn, ai bambini e ad Albert. Avrebbe voluto accendere una candela per i due neonati, ma non c'era più posto. Uscì.
Vide Albert che parlava con un amico vicino al negozio di informatica e si incupì. Allungò il passo a fatica. Le sue gambe accelerarono, ma la mente rallentò. Poi Albert si avviò verso nord, in direzione di Frat Row. Kristina aumentò la velocità, trascinando la gamba destra.
«Albert!» lo chiamò alla fine, senza fiato. «Aspetta!»
Lui si voltò e le andò incontro. Kristina ansimava quando lo raggiunse, e si ritrovò senza nulla da dire. Si fissarono in silenzio.
«Jim si è fermato da te la notte scorsa?» chiese Albert, scontroso. Lei odiava quando si comportava così.
«No.» Si strofinò le mani per riscaldarle. «Abbiamo rotto.»
«Davvero? Perché? Le cose tra voi non funzionavano?»
«Non come tra te e Conni.»
«Chi ha detto che tra me e Conni funzionano? Sono solo contento per te e Jim.»
«Non ne dubito.»
«E adesso? Vuoi che molli Conni?»
«Mollarla?» Kristina inorridì. «Perché?»
«Per andare in Canada con te. E fare altre cose.»
«Piantala di tormentarmi con la storia del Canada. Te l'ho detto, non posso venire. Perché sei così assillante?»
«Non sono assillante. Che cosa pensi di fare, allora?»
«Riguardo a cosa?»
«A te e Jim.»
«Niente. Magari iniziare a frequentare qualcun altro.» Notò un'ombra di dolore che gli passava negli occhi. «Albert, ti prego» disse con un filo di voce. Le sembrava di avere un macigno sul petto e provò una stretta dolorosa al cuore. «Hai portato fuori Aristotle questa mattina?»
«Sì. Gli è piaciuta la neve fresca.»
«Ci scommetto.» Allora era stato Albert a coprirla.
«Ti ricordi dell'anno scorso? Quando abbiamo portato Aristotle al Fahrenbrae e siamo rimasti bloccati dalla neve per tre giorni? Quante corse abbiamo fatto! Quanto ci siamo divertiti! Io bevevo e tu mi facevi il caffè, e di notte ci spogliavamo e correvamo nudi giù per le colline del Vermont, urlando come ossessi. Vincevi sempre tu, io non resistevo mai al freddo. E quando tornavamo allo chalet, mi soffiavi sui piedi congelati e me li avvolgevi nelle coperte. Te lo ricordi, Rock?»
«Certo.» Era esausta. «Non sto negando i miei sentimenti. Quelli non cambieranno mai.» Rabbrividendo, si massaggiò il braccio ferito. Il gelo attenuava il dolore. «Rientriamo? Sto morendo di freddo.»
Albert abbassò la voce. «Oggi vinco io, per una volta.»
Kristina non indietreggiò, ma nemmeno accettò la sfida. «Dai, sto congelando.»
«Stavo andando da Frankie.»
«Vuoi che ti accompagni?»
«No, non ci metterò molto. Credo che voglia parlarmi a quattr'occhi. Da uomo a uomo.»
«Ah sì? Ti conviene sbrigarti, allora, se Frankie vuole un uomo.»
«Che cosa vorresti insinuare?» Le tolse la neve dai capelli.
Sorrise. «Niente.»
«Torna al campus, stai congelando. Poverina, dobbiamo andare a riprendere il tuo cappotto.»
«Non compatirmi. Sto bene.»
«Ottimo» replicò lui un po' più distaccato. «Ci vediamo dopo?»
«No! Insomma... forse. Alberto, io... ecco, voglio troncare con te» rispose d'un fiato.
«Ho capito, ho capito» disse, gelido. «Chi stai cercando di convincere?»
«Me stessa, ma questa volta dico sul serio. Voglio che ognuno vada per la propria strada.»
«È quello che avevamo programmato, Rocky.» Albert la fulminò con lo sguardo. Lei arrossì come se avesse improvvisamente caldo.
«Non chiamarmi Rocky. Voglio avere una vita, non capisci?»
«Con chi? Tu e Jim avete rotto, ripeti che io e te abbiamo rotto. Con chi, allora?»
Kristina non abboccò. «Lontano da te. Sarà mai possibile?»
«No» rispose, deciso e rassegnato. «No. Me ne sono reso conto molto tempo fa. Perché non lo accetti anche tu?»
«Perché non è vero» affermò, disperata.
Lui si avvicinò fino a essere a pochi centimetri dal suo viso. «Guarda che labbra meravigliose. Ho voglia di baciarti. Subito.»
«Smettila, Albert, basta.»
«Okay, ascolta, se non vuoi venire in Canada, vieni con noi a Long Island. Non voglio che passi il Ringraziamento qui, tutta sola. Dai, sarà divertente.»
«Vuoi scherzare? Divertente per chi? Per Conni, che bussa alla mia porta come una pazza? Per me? O per te, che te ne starai lì a fissarmi in silenzio per quattro giorni? No, grazie. Una volta avevo una casa. Ora non voglio che gli altri mi compatiscano, che mi invitino per pietà. I Tobias, oppure gli Shaw e i loro figli, che mi tempestano di domande e mi passano il tacchino, la torta di zucca, la torta di mele. Non voglio la loro beneficenza, né tantomeno la tua.»
Ignorandola, Albert insistette con voce roca: «Io voglio te, Kristina. Non c'è nulla che desideri di più al mondo».
«Desideri impossibili. È questo che siamo. »
«Vorrei che potessimo vivere a Edimburgo. Senza mai uscire dal bed and breakfast, anzi dal letto.» Incapace di trattenersi, lui le accarezzò la guancia con sentimento. «Dai, vieni con noi. È sempre meglio che restare al Dartmouth.»
«È qui che ti sbagli.» Kristina non si sottrasse al contatto della sua mano. Non lo faceva mai, e lo sapevano entrambi.
«Ti prego, vieni.»
«No.»
«Per favore.» Altre carezze.
Alla fine Kristina si staccò. Tanto valeva sputare il rospo. «Dimmi, è vero? La settimana scorsa Conni mi ha detto che volete fidanzarvi questo Ringraziamento.»
«No, non è vero. È lei che vuole fidanzarsi.»
Kristina era incredula.
«È la verità» riprese Albert. «Ne abbiamo parlato, ma è stata Conni a tirare fuori l'argomento.»
«Non puoi fare a meno di mentire, eh? Nemmeno con me.»
«Non so di cosa tu stia parlando» rispose serio.
Il respiro si condensò in una nuvola davanti alla bocca di Kristina. «A quanto ne so, il fidanzamento implica il consenso di entrambi gli interessati.»
Albert la fissò con occhi cupi, vacui, tristi, battendo i piedi per riscaldarsi.
Kristina invece restò immobile. «Che cosa pensavi di fare? Di portare me in Canada e di fidanzarti con Conni nello stesso weekend?»
«Non mi sarei fidanzato con Conni.»
«Avresti rimandato di una settimana o giù di lì? Oppure la sua famiglia sta organizzando una festa speciale?»
«Non ne ho idea.»
«Sì, come no.» Kristina si allontanò. Albert non la seguì.
«Giochiamo a poker stasera, Rock.» Era quasi una supplica. «Noi quattro e Frankie. Puntiamo qualche spicciolo.»
Vedendo che lei non rispondeva, gridò: «Vieni, per favore. Abbiamo bisogno di te».
Kristina gli voltò le spalle e si diresse verso Tuck Mall.
«Dobbiamo andare a prendere il tuo cappotto» ripeté Albert.
Lei fece un cenno di saluto con la mano senza girarsi.
Aristotle non era in camera sua. Nevicava forte, e Kristina sperò che non fosse fuori. Voleva ritrovarlo, portarlo di sopra e stendersi con lui per qualche minuto.
Scese al secondo piano, nella stanza di Conni. La porta era aperta. Sbirciò dentro. Pulizia impeccabile, come al solito. Il display azzurro della sveglia digitale segnava le 3.45.
Alla fine trovò l'amica che studiava vicino alle vetrate nel salottino dell'Hinman. Si stupì vedendo Frankie seduto lì accanto. Erano così concentrati sui libri che non alzarono lo sguardo.
Era confusa: Albert non aveva detto che Frankie lo aspettava all'Epsilon House? E se non doveva incontrare Frankie, allora chi? Rise sommessamente. Albert stava forse facendo le corna a Conni... anche con un'altra?
Forse Frankie si era dimenticato di averlo invitato. Si tirò indietro i capelli e si avvicinò.
«Ciao» li salutò. Risposero con un cenno poco entusiasta.
«Come stai oggi, Krissy?» chiese Conni.
«Bene, grazie» mentì Kristina. «Hai visto Aristotle?»
«Mi sembra di averlo visto con Jim in Main Street circa un'ora fa, vicino alla redazione della Review. Dove sei stata tutto il giorno?»
«Qua e là» svicolò Kristina. «Ho dormito quasi tutto il tempo. Frankie, non dovresti essere con Albert?»
L'altro parve perplesso. «Eh?»
«Non essere così loquace. Non dovresti essere nella tua stanza con Albert in questo momento?»
«Eh?»
«Frankie!»
«Non ho idea di cosa tu stia parlando. Non sento Albert dal suo compleanno.»
«Capisco.»
Frankie si rimise a studiare. Conni, a disagio, fissò Kristina, che riuscì a fare un sorriso cordiale e un cenno di saluto prima di andarsene.
Andò in camera sua, si stese sul letto e tirò su la coperta. Provò a fare un sonnellino, ma l'angoscia non glielo permise. Si alzò e riordinò la camera, giocò a un videogame, chiamò Jim, guardò fuori della finestra e si sdraiò di nuovo. Inutile. Aveva un macigno al posto del cuore. Affondò la testa nel cuscino e pianse.
Non riusciva a dormire. Non era stanca, voleva soltanto stare meglio e credeva che il sonno le avrebbe dato sollievo. Ma il sonno non arrivò. Ogni volta che chiudeva gli occhi, vedeva la Mustang che urtava l'altra vettura, schiantandosi, ribaltandosi e cadendo con un tonfo. Schiantandosi, ribaltandosi e cadendo con un tonfo. Schiantandosi, ribaltandosi...
Si alzò e telefonò a Spencer in centrale. Aveva già smontato. Chiese il suo numero di casa al servizio informazioni e ritentò, ma lui non c'era. Non sapeva cosa gli avrebbe detto se avesse risposto; aveva solo voglia di sentire la sua voce gentile.
Finalmente Jim riportò Aristotle, ma non si fermò a lungo. Kristina non ebbe l'energia di farlo restare. Per il momento si sarebbe dovuta accontentare del cane; gli permise di saltare sul letto e si rannicchiò lì accanto.
Pensò di andare sul ponte, ma aveva finito il liquore. Frugò nell'armadio per quasi un'ora, cercando qualcosa che le bagnasse la gola, che calmasse il tremore della mano, che alleviasse le fitte alla spalla e alle costole e soprattutto il dolore al cuore. Non c'era niente.
Si ricordò della bottiglia che le avevano regalato. Dov'era finita?
Era arrivata l'ora di andare al piano di sotto per il poker, ma non le importava. Aprì la porta e se la chiuse alle spalle, scese rapida le scale e poi tornò a prendere Aristotle, che, pur non molto entusiasta all'idea di uscire, la seguì come se avesse intuito che la sua padrona aveva bisogno di compagnia. Kristina percorse Tuck Mall nell'oscurità bianca e raggiunse Main Street, dirigendosi verso la Murphy's Tavern. A Hanover non c'erano negozi di liquori. Lo Stinson's vendeva birra e champagne, come il supermercato Grand Union, ma chi cazzo li voleva, la birra e lo champagne? Ogni tanto un barista della Murphy's Tavern le permetteva di acquistare una bottiglia di Southern Comfort, se non c'erano poliziotti nei paraggi e se glielo chiedeva gentilmente.
Il locale era chiuso causa neve. Scrutò la strada come se sperasse che un messicano con una bottiglia di tequila infilata nel cinturone si avvicinasse e le offrisse un goccetto.
Le venne in mente che Spencer viveva in Allen Street, vicino all'EBA, così andò da quella parte e si fermò davanti all'edificio, osservando due finestre illuminate. Non sapeva se fossero le sue, ma erano le uniche accese. Sul citofono c'era il suo nome. Pensò di suonare, ma poi cambiò idea.
«Aristotle» disse al cane, che stava annusando la neve immacolata nella speranza di scovare qualcosa di delizioso. «Non siamo una bella coppia? Qui fuori, con questo tempaccio, infreddoliti e tristi. Be', tu sei infreddolito, io sono triste. Anche tu sei triste?»
Il cane scodinzolò allegramente.
«Come immaginavo. Sembri proprio giù di corda.» Gli accarezzò la schiena. «Dai, torniamo a casa.»
Camminarono piano, sollevando sbuffi di neve. Kristina guardò prima le zampe nude di Aristotle e poi i propri piedi, infilati in scarpe da tennis slacciate. «Non è giusto.» Il cane si fermò. Facendo una sosta a sua volta, Kristina si tolse le scarpe anche se non aveva i calzini. Le raccolse e baciò l'animale sulla grossa testa chiara.
La Baker Tower suonò una volta, ma lei la ignorò.
Quando arrivò, il salottino dell'Hinman era deserto. Controllò l'orologio digitale, rotto da mesi. Le 2.10. Del mattino o del pomeriggio? Prese una birra e si sedette ad aspettare.
Di lì a poco comparvero tutti tranne Frankie.
«Incredibile: Krissy è in anticipo» commentò Conni.
«No, siete voi in ritardo.»
«Non è vero» la contraddisse Jim. «Guarda l'orologio.»
«Sì, come no. Le 2.10. Dove eravate finiti?»
«In camera di Conni.»
«Stavamo studiando una strategia per sconfiggere Frankie» spiegò Conni.
In quel momento il ragazzo entrò, si tolse il cappotto e urlò: «Dove vi eravate cacciati? A complottare contro di me?».
«Finalmente. Fa' pure con comodo» lo schernì Conni.
Si sedettero intorno a un tavolo rotondo. Kristina si accomodò di fronte ad Albert e finse di non accorgersi del suo sguardo intenso.
«Aristotle ha le zampe bagnate e congelate» disse Albert. «Dove l'hai portato?»
«A fare una passeggiata sulla neve. Sai che la adora, no?»
«Giochiamo!» propose Frankie. «Avete qualcosa da bere?»
«Niente di buono, stanne certo.» Kristina si alzò. «Però abbiamo un cartone di Miller Lite.»
«Perfetto. Dammi una birra, donna, e cominciamo.» Frankie allungò la mano. Schiaffeggiandola scherzosamente, Kristina gli porse una lattina.
Albert mise sul tavolo un barattolo di monetine. Ciascuno prese cinque dollari e puntò due penny. Albert diede le carte. Giocava a poker tradizionale, senza jolly. Frankie vinse la mano con un tris, poi il mazzo passò a Conni. Stud poker a cinque carte, e i jack fungevano da jolly. Frankie vinse di nuovo, questa volta con un colore. Lo adoravano tutti, ma nessuno voleva giocare a carte con lui perché stracciava sempre gli avversari. E la prendeva anche alla leggera, come se non capisse perché gli altri facessero un affare di Stato di quelle partite settimanali. Diceva che erano poco sportivi e che non sapevano perdere, e loro non potevano neppure definirlo un gradasso, perché rimetteva sempre le vincite nel barattolo. Ma era una questione di principio.
Quando giocavano, gli altri ce la mettevano tutta per vincere e non restituivano mai i soldi. Albert aveva bisogno di denaro, Constance era stata educata a tenerselo stretto e Jim lo intascava perché trovava inconcepibile rendere ciò che gli spettava di diritto. − Kristina sapeva che Jim amava vincere. A Monopoli era spietato, e lei era riuscita a batterlo forse un paio di volte in tre anni. − Rimettere le monetine nel barattolo avrebbe trasformato la vittoria in sconfitta. Tra i cinque, lei era quella che perdeva più spesso.
Sfortunata al gioco, la consolava Frankie, fortunata in amore. Jim rideva, all'epoca in cui era ancora capace di ridere, e Kristina pensava ad Albert, con la tentazione di dire: "Altroché se sono fortunata". Invece sorrideva educatamente, perché perdere con stile era un'arte e non aveva avuto altra scelta se non impararla. Era fortunata in amore e sapeva perdere con stile, e cos'altro importava nelle nevose serate d'inverno all'Hinman Hall, nel River Cluster del Dartmouth College?
L'unico che sembrava divertirsi davvero era Frankie, che blaterava, faceva palloncini con la gomma da masticare, faceva battute a raffica e vinceva una partita dopo l'altra. La sua allegria però non riuscì a contagiare Kristina, ancora oppressa da una sensazione soffocante.
Gli altri tenevano i ventagli di carte come scudi. Di solito il gioco era più vivace. Kristina non aveva idea di cosa angosciasse gli altri tre, ma sapeva bene cosa tormentava lei.
«Com'è andata la chiacchierata con Frankie oggi pomeriggio?» chiese ad Albert dopo dieci mani.
Tutti alzarono gli occhi. Era sorprendente e curioso sentire Kristina che si rivolgeva ad Albert. Succedeva di rado, e ora quella strana domanda dalle implicazioni imprevedibili.
Frankie stava guardando le proprie carte, con un grosso palloncino di chewing-gum che gli spuntava dalla bocca. «Due» disse, e ricevette due carte da Albert, che aveva un'espressione impassibile. Conni invece era tutt'altro che impassibile, e Jim fingeva solo di esserlo.
«Che ore sono?» domandò.
Frankie consultò l'orologio. «Le undici meno dieci.»
«Per me questa è l'ultima mano» annunciò Jim.
«Qual è il problema? Devi andare a nanna?» lo punzecchiò l'altro.
Jim non rispose.
«Frankie, com'è andata la chiacchierata con Albert oggi pomeriggio?» tornò alla carica Kristina.
«Albert?» Frankie fece uno dei suoi sorrisi cordiali. «Di che cazzo sta parlando?»
«Già, di cosa stai parlando?» gli fece eco Conni.
«Albert?» chiese Kristina.
Lui fissò le carte. «Sì?» disse stancamente.
«Com'è andata la chiacchierata?»
«Non l'abbiamo fatta. Frankie non c'era.»
Kristina annuì, studiando la propria combinazione: regina di quadri, tre assi, regina di picche. «Servita, grazie.» Spinse al centro del tavolo i soldi che le erano rimasti. «Rilancio.» Indicò la pila di spiccioli. Conni e Jim passarono. Albert vide e Frankie anche, aumentando la posta di tre penny. Kristina dovette chiedere un prestito a Conni per vedere.
Frankie aveva un poker di re.
Lei buttò giù le carte. «Curioso. Avrei giurato che avessi detto che Frankie voleva parlarti. Da uomo a uomo, ti ricordi?»
Albert la fissò. Frankie si grattò la testa. «A cosa si riferisce?»
«Già, a cosa si riferisce?» ripeté Conni.
Jim tacque.
«A niente, credo» rispose Kristina, lanciando un'occhiata eloquente ad Albert. «A niente, giusto?»
«Sì, esatto.»
Frankie fece un altro palloncino mentre mescolava le carte. «Come sai, Krissy, mi fa sempre piacere vedere Albert.»
«Ma non oggi pomeriggio. Stavi studiando con Conni, o sbaglio?»
Conni accantonò le carte. «Quello che mi piacerebbe sapere è perché ti interessa così tanto.»
«Bella domanda» borbottò Jim.
«Lasciamo stare» disse Kristina.
«No, sono curiosa.»
«Davvero? Sei curiosa?» Sfilando il mazzo dalle mani di Frankie, lo passò a Conni. «Tocca a te.»
Conni le spinse via. Jim e Albert posarono le mani sul tavolo. Frankie li guardò confuso.
Albert si chinò verso Conni. «Dai le carte.»
«Non ho più voglia di giocare.»
«Muoviti, Constance.» Quando lui la chiamava così, stava iniziando ad arrabbiarsi.
«Muoviti, un corno! Che cosa sta succedendo? Voglio saperlo!»
«Sì, perché non glielo dici?» intervenne Kristina con voce forzata.
Albert la fulminò con lo sguardo. «Non c'è niente da dire.»
Frankie si alzò, sempre sorridendo. «Sapete una cosa? È meglio che vada. Buona continuazione.»
Albert lo imitò. «Non andartene, amico. È ridicolo.»
Frankie si voltò verso gli altri e sollevò l'immancabile cappello. «Buona serata, signore e signori. Se è colpa della mia insolita serie di mani vincenti, potete tenere i soldi come portafortuna.»
«No, grazie» bofonchiò Kristina.
Frankie le tirò leggermente i capelli. «E tu, signorina, sono venuto, primo, perché è la serata del poker e, secondo, perché nevica, e qui non c'è forse una tradizione quando nevica?» Allargò le braccia come se stesse camminando su un'asse d'equilibrio, chiuse gli occhi e procedette in punta di piedi lungo una retta immaginaria sul pavimento di legno sporco. «Dai, i ragazzi della confraternita si ubriacano e ti guardano. Aspettano questo momento per tutto l'anno. Credo che metà di loro si sia già riunita alle finestre della Feldberg, in attesa del tuo arrivo.»
«Sono sbronzi?»
«Da settembre.»
«Dovranno aspettare a lungo. Io sono sobria.»
Conni sbuffò. Albert si risedette e le sussurrò all'orecchio: «Dacci un taglio».
«Neanche per sogno» ribatté lei ad alta voce, in tono di sfida.
«Dacci un taglio» bisbigliò Albert scandendo le parole.
«Prima spiegami cosa sta succedendo.»
«Devo proprio scappare!» annunciò allegramente Frankie. «Vado! Krissy, è una nevicata stupenda. Per favore, sii così gentile da ubriacarti al più presto. Tieni, prendi la mia Miller. Ti aspetto in biblioteca, ho portato persino il binocolo.» Dalla tasca del cappotto estrasse un piccolo modello femminile placcato d'oro. «Me lo sono fatto prestare da quella santa donna di mia madre. Mi ha chiesto a cosa mi servisse e, quando ho risposto che l'opera non sarà mai emozionante quanto il Dartmouth, ha detto: "Se non altro ricevi un'istruzione, tesoro". "Oh sì" le ho assicurato, "un'ottima istruzione".» Si portò il binocolo agli occhi. «Ci vediamo dopo?»
Kristina sorrise e bevve addirittura un sorso di birra. «Ti darai mai per vinto? Perché ci tieni così tanto a vedermi sul ponte?»
«Vuoi scherzare? Divento l'eroe di Frat Row. Salto le lezioni per una settimana e copio gli appunti degli altri. Tutti amano gli eroi!»
Kristina gli diede una pacca sul braccio. «Sì, hai ragione, Franklin. Hai proprio ragione. Mi terrai d'occhio mentre sono sul ponte, vero? Controllerai che non cada?» Kristina sbirciò Conni, che arrossì e distolse lo sguardo.
Frankie si grattò la testa, perplesso. «Non voglio farmi coinvolgere, nossignore, neanche per idea. Me ne guardo bene. Ciao!»
«Levati dalle palle, Absalom» disse Albert.
«L'unica cosa che voglio» replicò l'altro, «è... levarmi dalle palle» concluse quando vide l'espressione dell''amicò. «È l'unica cosa che voglio, anzi che ho mai voluto. Ciao!» Prima di uscire strizzò l'occhio a Kristina e si avvicinò il binocolo alla faccia. «Abbiamo fatto un patto» sussurrò. «Bevi come una spugna.»
«Sì, sì, sì» rise lei.
Quando Frankie se ne fu andato, gli altri quattro rimasero seduti a fissare le carte senza fiatare. Fu Kristina a rompere il silenzio. «Volete giocare ancora?» Ma non bastò per allentare la tensione.
«Devi andare, no? Hai un appuntamento sul ponte cui non puoi mancare, giusto?» sbottò Conni.
«Rilassati. Prendi tutto troppo sul serio.»
«Non credo. Anzi, penso di non averlo preso abbastanza sul serio. E lo stesso vale per Jim.»
Kristina gli lanciò un'occhiata. «A me sembra che lo stia prendendo nel modo giusto. O sbaglio, Jimbo?»
«Lasciatemi fuori da questa storia.» Lui si alzò di colpo, senza guardare nessuno. «Non pensiamoci più, mettiamoci una pietra sopra.» Gli altri lo fissarono con un misto di irritazione e stupore.
Conni si tirò su e poi si risedette sbuffando. Le sue dita rabbiose tamburellarono nervosamente sulle carte. «Jim, che cosa sta succedendo?»
«Niente» assicurò Kristina.
«Lasciamo stare» si intromise Albert.
«Non voglio lasciar stare!» Conni quasi urlò, saltando su come una molla. Le carte caddero sul pavimento. «Ho l'impressione che qui, sotto il mio naso, stia succedendo qualcosa di veramente schifoso, e giuro su Dio che se non mi dite subito di cosa si tratta, io... io... io...»
Non è molto brava a fare minacce inutili.
«Subito» proseguì Conni. «Sono stanca di questi giochetti.»
Kristina sgranò gli occhi fingendosi stupita. Muovendo solo le labbra, Albert le ordinò di smetterla, ma lei lo ignorò.
«Perché... bisbigli?» gridò Conni. Benché la domanda fosse rivolto ad Albert, tenne gli occhi puntati sull'amica. Le tremavano le mani.
Era l'unica in piedi. Nessuno le rispose e nessuno la guardò.
«Voglio sapere cosa sta succedendo. In questo preciso istante. Non me ne vado finché non me lo dite» ansimò in tono lamentosa.
Kristina si alzò. «Non è il posto più adatto per questa conversazione.»
«È un posto perfetto, invece! Voglio che tu mi dica la verità.»
Kristina mise il braccio intorno alle spalle di Jim, che glielo spostò in malo modo, alzandosi a sua volta. Era agitato, con gli occhi verdi pieni di collera e sconcerto. «Questa sarebbe una conversazione? E la verità su cosa, Constance?»
«Su Kristina e Albert.»
Jim rimase in silenzio, come se fosse impaziente di ascoltare la risposta della sua ex.
Kristina tacque per una trentina di secondi. Poi: «Sai una cosa? Io vorrei sentire la verità su te e Jim».
«Me e Jim?» Conni era più irritata che confusa. «Di che cazzo stai parlando?»
«Non pensiamoci più.» Kristina agitò il braccio, imitando Jim. «Mettiamoci una pietra sopra.» Fece per andarsene, quindi si fermò. «A proposito, Conni. Albert è qui davanti a te: perché non lo chiedi a lui?»
«Perché lo sto chiedendo a te.» Non degnò il suo ragazzo nemmeno di uno sguardo.
«Conni, togliti le fette di salame dagli occhi» la esortò Jim brusco. «Non è evidente? Te l'ha appena detto.»
«Io non l'ho sentito.»
«Te l'ha appena detto!» ripeté Jim, urlando. Poi, a Kristina: «Non è così? Non rivolgermi mai più la parola!». Aveva la faccia rossa e stravolta dall''ira. «Non parlarmi più, capito? Non avvicinarti a me, non chiedermi di portarti a spasso il cane né di aiutarti a studiare. Non rivolgermi più la parola, sono stato chiaro?»
Conni non fu l'unica a restare a bocca aperta. Dunque Jim si arrabbiava anche per qualcosa di diverso dalle critiche alla Dartmouth Review, dai dibattiti politici o dalle statistiche sulla criminalità. Solo, sapeva scegliere con cura i teatri delle sue battaglie. Alcuni studenti, che erano arrivati per guardare la TV e ovviamente avevano assistito al suo sfogo, si fermarono sulla soglia, a disagio.
«Dai, amico...» provò a calmarlo Albert.
«Vaffanculo.» Jim gli puntò il dito contro. «Non so a che razza di gioco malato tu stia giocando, ma non voglio farne parte.»
L'altro non si lasciò intimidire e Jim girò sui tacchi e uscì, spingendo via tre matricole che non avevano fatto in tempo a spostarsi. Prima di andarsene scoccò a Kristina un'occhiata carica di rabbia e di odio.
«Visto cos'hai combinato?» disse Kristina a Conni.
«Io?» Sembrava meno in collera, come se la schiettezza e la sfuriata di Jim l'avessero calmata anziché esasperarla. «Dunque Jim pensa che tu gli faccia le corna» osservò in un tono spiccio e noncurante che nascondeva la gravità delle sue parole. Evidentemente si stava sforzando di dimenticare con chi Kristina era stata accusata di aver tradito il suo ex ragazzo.
«Mi avete stufato» intervenne Albert. «Vado in camera mia.»
«Aspetta» lo fermò Conni.
«No, smettetela. Sono stanco di questa storia, e sono stanco in generale. Non ne posso più delle vostre accuse assurde» dichiarò, sebbene nessuno gli avesse rimproverato nulla. «Sono stufo del tuo dito puntato contro e della tua sfiducia. Se sei così convinta, Conni, lasciami. Meglio ancora, lasciami e torna con Jim, mi sembra di capire che è libero. Non ti fidi, e non lo sopporto. Non voglio una relazione in cui la mia ragazza non si fida di me. Fidati oppure mollami, a te la scelta. Sono stanco di questi giochetti.»
«Non voglio lasciarti» mormorò Conni. «Voglio solo sapere la verità, poi giuro che non ti chiederò più niente e che non dubiterò più di te.»
Kristina aspettò senza curiosità né impazienza. Conosceva Albert e sapeva che dire la verità non era il suo forte. Non l'avrebbe mai fatto. Probabilmente anche Conni ne era consapevole, ma preferiva fare finta di niente. Quello era il suo imperativo categorico: la negazione della realtà. Quello di Albert era l'ambiguità perenne. La sua parola, che non aveva garanzie, consistenza, peso né storia, sarebbe stata sufficiente per Conni. Kristina attese che Albert Maplethorpe trionfasse su Constance Tobias e affermasse il proprio imperativo.
Lui fu all'altezza delle sue aspettative.
La resa dei conti fu una delusione. L'unico risultato fu che ora nessuno si rivolgeva più la parola. In passato non avevano mai permesso che accadesse una cosa simile.
Kristina salì al piano superiore; quando arrivò nella sua stanza, erano le undici e un quarto.
La neve cadeva ancora fitta. Rimpianse di non essere ubriaca e di non poter camminare lungo il muro. Frankie la stava aspettando. Con un profondo sospiro si sedette davanti al computer, meditando di cominciare l'articolo sulla pena di morte, ma sognando solo di andare a letto e smettere di sentire quel peso sul cuore.
Alle dodici meno un quarto portò fuori Aristotle, rientrando qualche minuto prima di mezzanotte.
Un colpo alla porta la spaventò, accelerandole il battito. Che cosa mi prende?, si interrogò nervosamente.
Il colpo fu leggero, non rabbioso; poteva essere solo una di tre persone, e non aveva voglia di parlare con nessuna di loro. Non andò subito alla porta, bensì aspettò di riconoscere il visitatore dal suo modo di bussare.
Un altro colpo.
Andò ad aprire. «Ascolta, Jim...» iniziò.
Era Conni. Era in disordine, con i capelli arruffati. I suoi occhi azzurri cercarono di sorridere, ma era palesemente combattuta.
Kristina la invitò a entrare.
«No, devo tornare in camera. Albert mi sta aspettando, e devo ancora fare i bagagli. Volevamo solo darti questa.» Tirando fuori il braccio da dietro la schiena, le porse la bottiglia di Southern Comfort. «Abbiamo pensato che ti avrebbe fatto piacere averla mentre siamo via. Comunque, volevo parlarti.»
Kristina fu pervasa dal sollievo. Accettò volentieri il liquore e lo gettò sul letto. «Ottima idea, grazie.»
«Mi dispiace per prima.» Conni evitò il suo sguardo.
«Entra» ripeté Kristina. Aristotle scodinzolò. Conni non si mosse. «Non hai nulla di cui dispiacerti» aggiunse.
«Albert dice di sì, e penso che abbia ragione.»
«Non hai niente di cui scusarti» ribadì ferma.
«Sì, invece; ho sbarellato. Non c'era nulla che non andasse, non so perché me la sono presa così tanto.»
«Lo sai benissimo invece. Perché fingi sempre che vada tutto bene?»
Lesse la paura nei suoi occhi, come se quella non fosse la conversazione che Conni volesse avere il giorno prima di fidanzarsi. «Non fingo, okay?»
«Altroché se lo fai. Ma perché?»
«Non è così!» Poi, a voce più bassa: «In che senso fingerei?».
«Neghi l'evidenza anche a te stessa. Fingi che ciò che è vero non lo sia.»
Fu come se l'amica le avesse mollato un ceffone, perché Conni indietreggiò vacillando di una trentina di centimetri. Impiegò qualche secondo per riprendersi. «Menti, ne sono certa. Tanto per cominciare un sospetto non significa niente. Ho solo i normali dubbi che vengono a chiunque abbia una relazione. Mi fido di Albert, devo farlo. Altrimenti come potrei stare con lui? Se non mi fidassi e continuassi a stare con lui, non avrei autostima né rispetto per me stessa. Perciò devo fidarmi, capisci?»
Kristina scosse la testa, ma disse: «Sì, perfettamente».
D'un tratto Conni la schiaffeggiò, lasciandole un segno rosso sulla guancia. Poi, prima che l'amica avesse la possibilità di muoversi, le diede una seconda sberla.
Ora fu Kristina ad arretrare. «Che cosa stai facendo? Che cosa ti salta in mente?»
«Meriti di peggio. Tu non sei mia amica, altrimenti sapresti quanto amo Albert.»
«Certo che lo so. E so anche tutte le cose che tu ignori.»
«Non sai un bel niente! Sei solo crudele. Tu hai tutto, io voglio soltanto Albert. Non vedi quanto è vulnerabile?»
Kristina rise. «Vulnerabile? Albert? È la persona più forte del mondo.»
«Ti sbagli. È un mistero anche per se stesso.»
«Invece si conosce meglio di chiunque altro. Meglio di te e di me. Ed è fedele solo a se stesso, te ne renderai conto.»
Di scatto, Conni le afferrò una ciocca di capelli e tirò forte. Questa volta, però, Kristina era pronta. Dovette allungare il braccio destro e inclinare il capo, ma strinse un ciuffo dell'amica e lo strattonò. «Piantala» ansimò. «Smetti di comportarti così, sei fuori di testa!» Ma Conni non la lasciò. Cercando di fermarla, Kristina le affondò le unghie nella pelle sotto l'occhio, perforandole la guancia e strappandole un urlo.
Conni mollò la presa, ma lei no.
«Voglio dirti una cosa.» Torreggiava sopra l'amica, a pochi centimetri di distanza. «So che te la prendi sempre e solo con me, ma ti assicuro che non sono io la persona con cui devi arrabbiarti.»
«Lasciami andare» sussurrò Conni con veemenza. «Lasciami andare!»
Kristina obbedì e indietreggiò verso l'interno della stanza. Sulla guancia sinistra dell'altra spiccavano dei graffi insanguinati.
Conni si toccò il viso. Poi, trafelata, continuò con voce bassa e malevola: «Ora te la dico io una cosa. Ho chiesto ad Albert di voi, e sai cos'ha risposto?».
«Certo che lo so.»
«Ha negato ogni cosa.»
«Era ovvio.»
«Ora devo scegliere tra credere al mio ragazzo, che amo e che voglio sposare, oppure a te, una semplice amica. E ho deciso di credere ad Albert, perché è la versione più accettabile, okay? Non voglio più tornare sull'argomento.»
«Okay.» Kristina era disgustata da Conni e da se stessa, e furiosa con Albert.
Sempre tenendosi la guancia, l'altra fece un passo indietro, quindi si voltò, corse lungo il corridoio e superò la porta antincendio.
"D'accordo, dunque credi di aver capito che tipo è" avrebbe voluto dirle Kristina. "Oscilli tra la diffidenza e l'ingenuità e, quando sbotti, non lo fai mai con lui, ma solo con me."
Si sedette sul letto e rifletté.
Poi guardò l'orologio.
Le 12.30.
Si spogliò. La sensazione nel suo petto era così forte e sconfortante che si accasciò sul materasso. Prese la bottiglia, la tenne tra le gambe nude e svitò il tappo. Stava per bere un sorso, ma fu assalita dalla nausea. Aprì leggermente le cosce e lasciò cadere il Southern Comfort sul pavimento. Non voleva bere quella robaccia né camminare sul ponte, né tantomeno alleggerire il proprio cuore.
Spense la luce e andò alla finestra. La neve soffice e intatta era splendida. La prima dell'anno. In circostanze normali, molti studenti sarebbero usciti, ma quella sera erano tutti in casa oppure dormivano. Di fronte all'Hinman, la Feldberg Library era ancora illuminata. Chissà se Frankie aspettava davvero che Kristina si arrampicasse sul muro.
Lo avrebbe fatto, decise. Quando, ubriaca, camminava su quel muretto sotto la neve, dentro di lei scattava qualcosa che la liberava dal male. Si sentiva come un uccello inesperto, impaziente di spiccare il volo, una cosa sola con la natura, il rumore dei suoi passi attutito dalla neve. L'alcol nel sangue le dava stabilità al punto che, se fosse andata al creatore da un momento all'altro, sarebbe stata pronta.
Dopo l'incidente invece si era resa conto di non essere affatto pronta.
Ora era spaventata. «Perdonami» sussurrò. «Perdonami per essere ancora viva, per non averti voluto vedere, per aver preferito vivere. Caro Dio, voglio vivere bene, ma non so da che parte cominciare.» Chinò il capo. «Ti prego, mostrami come fare.»
Il giorno prima aveva ricevuto l'occasione di ripartire da zero, ed era decisa a sfruttarla. Aveva la possibilità di comportarsi nel modo giusto, di vivere nel modo giusto. Ma come?
Rinuncia ad Albert. Lascialo perdere. Cedilo a Conni e volta pagina. Senza di lui.
I lampioni gialli proiettavano una luce malinconica sulla neve bianca e azzurrina.
Di solito percorreva il ponte scalza, ma quello era stato prima di comprare gli stivali neri. Finalmente aveva qualcosa di decoroso da indossare. Le costole e la spalla le facevano male, ed era un'impresa ardua infilarsi gli stivali con un braccio solo, ma pian piano ci riuscì.
Ne aveva allacciato uno quando qualcuno bussò alla porta.
Il cuore iniziò a galopparle nel petto. Cominciò ad ansimare prima ancora del secondo colpo.
Avrebbe preferito non aprire, ma Aristotle scodinzolava come faceva per un solo visitatore, e Kristina voleva augurargli buon Ringraziamento. Divertiti a Cold Spring Harbor.
Sulla soglia c'era Albert.
«Entra.» Kristina gli si parò davanti, nuda e avida di contatto fisico.
«Sono venuto a vedere come stai.»
«Benissimo.» Si sedette sul letto accanto all'altro stivale.
«Credevo che avresti camminato sul muro. Non resisti mai alle sfide.» Si lasciò cadere sulla poltrona con noncuranza e si diede un'occhiata intorno. Lo sguardo gli cadde sulla bottiglia, il cui contenuto aveva inzuppato la moquette.
«Che cosa vogliamo fare, Albert?»
«Niente, Rocky. Lo sai.» Guardò fuori dalla finestra, poi chiuse i vetri. «Fa freddo.»
«Lasciala aperta, di notte muoio di caldo.»
Albert si alzò. «Se non ci vediamo domani, buon Ringraziamento.»
Kristina era sull'orlo delle lacrime. «Grazie, altrettanto.»
«Sicura di non voler venire con noi?»
«Sicurissima.»
Lui si avvicinò, ma lei fece un passo indietro, con l'anima dilaniata da una battaglia tra la rabbia, il rimpianto e l'amore.
Albert tese la mano, ma Kristina si sottrasse al suo tocco. «Lascia che ti aiuti con lo stivale» si offrì lui dolcemente.
Kristina accettò. Albert si inginocchiò e lei allungò il piede. Era nuda e notò che la fissava con desiderio, con le labbra dischiuse.
«Vuoi che lo allacci?»
«Sì, grazie.»
Albert provò ad accarezzarle le cosce, ma Kristina chiuse le gambe e cercò di spostarsi. Lui le sfiorò il viso.
«Che cos'è successo alle tue guance? Sono tutte rosse.»
«Sei arrivato tu, ecco cosa è successo.»
Albert non chiese altre spiegazioni e lei non gliele diede. Lui si raddrizzò e fece per andarsene. «Ci vediamo, Rocky.»
«Ciao.» Gli voltò le spalle.
Sentì il suo sguardo su di sé per qualche secondo, poi lo udì uscire.
Si buttò sul letto con le lacrime che le velavano gli occhi. Ti prego, non piangere. Smettila di sentirti così. Su col morale, stai per uscire al gelo. Se questo non serve a rallegrarti, non ci riuscirà nient'altro.
Nel giro di qualche minuto si alzò, sospingendo Aristotle con il piede mentre usciva, e scese le scale.
Prese la porta laterale. Fu investita da una raffica fredda e da un turbine di neve. Si affrettò a coprirsi i seni con la mano. È meglio che mi sbrighi. Ma sapeva di non poter essere precipitosa: doveva studiare ogni mossa e camminare come al rallentatore. Aveva passato la giornata tra fitte di dolori ed emozioni negative. Voleva che il freddo la intorpidisse, che la facesse stare meglio.
Alzò gli occhi verso la Feldberg Library, cercando di distinguere Frankie a una delle finestre. Era il suo guardiano, ma non aveva detto che l'avrebbe aspettata tutta la notte. Sorrise per scaramanzia e si fece il segno della croce quando arrivò all'estremità del ponte.
Sali, Kristina, sali. Il cornicione di pietra era alto novanta centimetri e largo quasi sessanta. Si arrampicò lentamente, appoggiando il peso sul ginocchio destro, e si tirò su. Prima di iniziare a camminare provò ad allargare le braccia, ma solo il destro obbedì.
Con il sinistro lungo il fianco, allungò l'altro e, tremando, fece due, tre, quattro passi incerti, sussurrando: «Non seguire con il tuo udito i miei passi che muovono innanzi, per tema che le stesse pietre abbiano a divulgare, con le loro chiacchiere, il luogo dov'io m'aggiro». Se fosse caduta in quel punto, non sarebbe stato grave. C'era meno di un metro dal ponte alla sua destra e più o meno la stessa distanza dal terreno imbiancato alla sua sinistra. Poi il terrapieno sulla sinistra diventava molto più ripido e si interrompeva in corrispondenza del vialetto di servizio. Avanzò lungo il cornicione, sospesa a ventidue metri di altezza. Era un uccellino senza piume con una sola ala spiegata, con le gambe lunghe che si muovevano cautamente e gli stivali che lasciavano volutamente orme sul muro innevato. Tenendo gli occhi puntati davanti a sé, bisbigliò esitante: «E tolgano all'occasione, che ora così bene vi s'accorda, l'orrendo silenzio di quest'ora».
Gli stivali la aiutavano a non scivolare, ma nel suo cuore infuriava la paura. «Mentr'io minaccio, egli continua a vivere. Le parole spirano un alito troppo freddo sul calore dell'azione.» Rabbrividì e si spostò di lato, sbilanciata dall'uso di un braccio solo. Contro ogni logica, tentò di sollevare anche il sinistro, ma il dolore improvviso e lancinante la fece sobbalzare senza volerlo. Perse l'equilibrio e scivolò sulla neve.
Cadde di lato e poi all'indietro, sbattendo la gamba destra sulla parte affilata della pietra. Temette che il cuore le esplodesse. Per un attimo restò sdraiata sul cornicione in una posizione innaturale, troppo terrorizzata per muoversi, quindi scese sul ponte.
«Oddio, oddio, oddio» continuò a balbettare. Il battito non voleva saperne di calmarsi. Santo cielo, ci è mancato poco. Santo cielo, ci è mancato poco.
Non si era mai spaventata così tanto, nemmeno durante lo schianto.
Non è divertente. È meglio perdere a poker contro Frankie. Per fortuna sto bene. Sotto il sollievo superficiale, una paura impenetrabile la pervase da capo a piedi.
Raggiunse l'estremità del ponte sulle gambe malferme, emettendo sussurri inudibili: «Vado, e in un momento ogni cosa è fatta: il campanello m'invita. Non udirlo, Kristina; perché è un rintocco di morte, che ti chiama o al cielo o all'inferno».
Un piccolo sentiero serpeggiava dietro la Feldberg Library, sul bordo delle pinete. Una lampadina gialla illuminava la porta di servizio dell'edificio.
Sono pazza. Matta da legare. Mai più. Mai e poi mai. Spencer Patrick O'Malley, ti prometto che vivrò abbastanza a lungo per uscire a cena con te.
Togliendosi la neve dal petto, fece il segno della croce e ringraziò Dio. Quando si incamminò verso l'Hinman, credette di sentire qualcuno che la chiamava. «Kristina... Kristina...» Si voltò ma non vide nessuno. Devo averlo immaginato, si disse scrutando l'oscurità, con il cuore che scivolava nell'abisso.