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La stanza fredda
Questa non è una storia, dicevo. Non è “il viaggio dell’eroe”, il format che da Omero è sceso giù, giù e ancora più giù, in ogni variante possibile e immaginabile, fino alle malattie misteriose, ai miei parassiti, a MasterChef, all’alta infedeltà, alle fiction, e a tutte le storie che siamo rimasti a vedere in tv, per tutte le sere di questa nostra prematura vecchiaia. Non è la chiamata dell’eroe alla missione, le sue peripezie, gli antagonisti, la prova estrema, e finalmente il ritorno con una consapevolezza nuova. Non sono gli ultimi secondi del pressure test in cui tutta la vita ti scorre davanti mentre sfiletti il merluzzo e gli dèi ti guardano dalla balconata, mentre le Moire ti avvertono implacabili: «Dàààài, foorza, mancano dieci secondi!».
Non è il viaggio dell’eroe, dicevo, anche se una volta ho alzato la tapparella del finestrino, di notte, mentre l’aereo stava volando sopra Rio de Janeiro e, virando in rotta per San Paolo, d’un tratto ho visto le stelle che non avevo mai visto prima.
Allora questo forse è il Sogno di Scipione, che per gran tempo fu l’unica cosa rimasta di un libro che si chiamava De republica, scritto da Cicerone e poi andato perduto, perché comunque tutto prima o poi si perde. E l’ironia della sorte volle che l’unica cosa rimasta di questo libro fosse proprio uno stralcio in cui si dice che “perfino tra la gente in grado di udire il nostro nome, nessuno può lasciare di sé un ricordo che duri più di un anno” e che quindi non ha molto senso darsi troppa pena per le cose terrene e inseguire una fama che comunque sarà dispersa entro breve, così come ogni conquista terrena pare niente se vista dalla distanza siderale in cui ha luogo il Sogno di Scipione.
Perché andò così, che Publio Cornelio Scipione era stato invitato a cena dal vecchio Massinissa, un re africano molto amico della sua famiglia, e mangia questo, bevi quell’altro, alla fine Publio Cornelio si era addormentato, e nel sonno era venuto a trovarlo suo nonno, Scipione l’Africano, che gli aveva predetto imprese gloriose ma anche una morte prematura, per cui insomma si mettesse l’animo in pace, sapendo che stava facendo una fine.
Dalla distanza siderale del sogno, Publio Cornelio a un certo punto viene preso dallo stupore perché, dice, “c’erano stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene”. E d’un tratto si accorge anche di una musica che pervade tutto, un suono composito e armonioso che avvolge la sfera del sogno. Suo nonno gli spiega che “le orecchie degli uomini, riempite da tale suono, sono diventate sorde”. Quel suono, prodotto dalle orbite degli astri, è così intenso e presente alle orecchie degli uomini, vuol dire il nonno, che gli uomini non ci fanno più neanche caso.
E che dunque Publio Cornelio continuasse a rivolgere lo sguardo verso quel cielo eterno e a porgere orecchio a quella musica celeste, benché nell’immediato gli sarebbe toccato di assediare Cartagine come soldato, e due anni dopo di conquistarla e distruggerla a capo di una legione. Ma non credesse dunque che la distruzione di Cartagine sia tutto quello cui può aspirare un uomo, perché anche di quell’impresa alla fine si perderà memoria.
Allora l’aereo, che si era messo in rotta per San Paolo, ha cominciato a perdere quota in vista dell’atterraggio e dal finestrino mi è apparsa chiaramente, nel silenzio più assoluto dei dormienti, la Croce del Sud. L’ho vista una volta, e poi anche altre volte, ma nella memoria l’ho vista una volta sola.
Come capita sempre dopo l’atterraggio, le orecchie si sono stappate d’improvviso, e come sempre capita, solo nel momento in cui si stappano ti accorgi di essere stato immerso in una campana di ovatta. Così sono tornato a sentire il rumore del mondo.
Una volta, a diciannove anni, ero piuttosto bello e persino magro. Dopo la maturità, come si usava, ero andato a passare l’estate a Londra. Avevo trovato lavoro al mercato di Camden Town, come venditore di second hand Levi’s 501. La novità di quegli anni fu per me scoprire che più i jeans erano stinti e sdruciti, meglio si vendevano. Strano, no?
Poi, per carità, me ne sarebbero capitate anche dopo di storie, storielle e amorazzi di ogni genere. Ma quella volta che andai a farmi i capelli proprio dietro il mercato di Camden Town, la ragazza che mi passava il tosaerba a zero sul retro, lasciando il ciuffo rockabilly sul davanti, mi premette il seno contro la nuca. La guardavo riflessa nello specchio, era così bella. Avevo sentito l’importanza delle sue tette, ecco. Ma forse era successo per sbaglio. La seconda volta però le aveva appoggiate con più decisione. Ero molto imbarazzato ma anche piuttosto felice, devo ammettere. Una volta sapevo che la felicità più grande era immaginarsi le cose senza che poi accadessero davvero. Infatti, finito che ebbe di tosarmi, mica le chiesi il numero di telefono. La cosa finì lì.
Una volta ero arrivato a Gettysburg verso le sei di sera, cominciava a far buio. Ero con degli amici. Abbiamo accostato la macchina sul ciglio della strada, siamo scesi, e ci siamo subito sparpagliati. Ognuno ha seguito un suo percorso, lungo la Cemetery Hill, di cippo in cippo. Ciascuno, dunque, fuori luogo a modo suo.
Una cosa che non si può raccontare però è la morte. Non la morte specifica di questo o quello, voglio dire, ma la morte come nebbia che sale dal fondo della collina e avvolge tutto, ancora, dopo così tanti anni, come se non se ne fosse mai andata. Questo non si può raccontare, così come quella volta si poteva soltanto camminare su e giù per la Cemetery Hill e pensare che c’è una fine che non finisce mai, che i soldati che hanno fatto una fine a Gettysburg continuano a farla anche se nessuno li conosce più per nome o ricorda la loro faccia. Anche se nessuno è più a casa ad aspettarli, voglio dire, i soldati di Gettysburg continuano a fare la fine che hanno fatto ogni giorno, quando la nebbia sale dal fondo e piano piano avvolge di bruma tutta la collina. Una volta io questo l’ho visto davvero, verso le sei di sera. Mi ha fatto paura, confesso. Non siamo rimasti molto, a dire la verità. Una mezz’ora appena ci è bastata. Quando però ci siamo rimessi in marcia verso Princeton, nessuno aveva più voglia di dire niente. Il viaggio da allora è stato molto silenzioso.
Una volta ero fuori luogo di domenica mattina, saranno state le sette e mezza. Camminavo da solo sulla 2nd Avenue di Nashville. Ero appena arrivato, dopo un viaggio che era durato tutta la notte. Cosa ci facevo a Nashville di domenica mattina? Assolutamente niente. Camminavo da solo, su e giù per la 2nd Avenue e la 2nd Avenue era deserta. Mi pareva di aver scorto un diner già aperto: avrei potuto prendermi un regular, una di quelle sbrosce di caffè che non sanno di molto ma almeno ti scaldano le mani. E invece mi trovo davanti un tipo, che sbuca da una svolta di strada, così, all’improvviso. E giuro che è andata proprio così come la racconto: il tipo mi si para in mezzo al marciapiede a gambe leggermente divaricate, a una ventina di metri. Lo guardo meglio, e mi accorgo che deve avere i suoi anni. È magro, il volto scavato, in testa ha uno Stetson a tesa larga e una specie di gancio di ferro al posto della mano destra. Ma non ha un’aria cattiva, tutt’altro: vederlo, non so perché, mi rassicura. Mi faccio avanti di pochi passi, lui fa lo stesso.
«Are you lost, man?» mi chiede. Sorride.
«Well… We all are, I guess» rispondo. Sorrido.
Mi chiede da dove vengo, mi augura una buona permanenza a Nashville. Sparisce per sempre, sparisco a mia volta.
Una volta Herr Patemann entrò nella libreria di Brema dove lavoravo, ma ero fuori luogo. Una volta, ma lo faceva tutti i giorni, verso le cinque del pomeriggio, e cominciava a guardarsi attorno. Sfogliava i libri esposti, leggeva il risvolto di copertina, li soppesava, li rimetteva al loro posto con cura. Ma scuoteva la testa. Faceva il suo giro, ogni giorno verso le cinque, fra gli espositori dei libri. Infine mi cacciava addosso i suoi piccoli occhietti celesti, semichiusi fra le palpebre cadenti, come due spilli conficcati su una testa troppo grande, che pareva fatta di gomma. E finalmente parlava: «Immer schlechter… Es ist immer schlechter…».
Sempre peggio, è sempre peggio, diceva. Si riferiva all’editoria immagino, o forse alla vita in generale. Fatto sta che non ha mai comprato un libro, anche se veniva in libreria tutti i giorni. Ci veniva tutti i giorni, ma nella memoria è come se fosse una volta. Venne una volta, non lo vidi mai più.
Una volta il treno si fermò al confine con la Germania Est. Una volta c’era la Germania Est. Il treno si fermò nel silenzio più perfetto, nella terra di nessuno dove eravamo tutti fuori luogo. Tutti, me compreso. Eravamo stati avvertiti che non saremmo dovuti scendere per nessun motivo al mondo. Ci raccontavano che una volta, ma non quella, uno che aveva voglia di farsi un bel panino fosse sceso per vedere se c’era un bar, lì in mezzo al nulla, e che venisse per questo falciato da una raffica di mitra.
Così dovevamo aspettare nel silenzio più perfetto, non si sa cosa. Restammo fermi non so quanto, forse un’ora. Poi salirono coi cani e i cani annusavano ovunque. I soldati di frontiera ci chiesero i documenti e frugarono dappertutto. Il treno finalmente ripartì. Pochi chilometri dopo, sotto la neve, una contadina ferma a un passaggio a livello agitava un fazzoletto bianco in segno di saluto.
Una volta era una notte d’estate. Ballavamo nel parco, davanti alla villa sul mare di un amico con tre cognomi. C’era un po’ di gente, ma c’erano comunque più cognomi che persone. Alcuni ne avevano anche quattro, se ricordo bene. Comunque si ballava, si beveva una cosa, si parlava con questo e quello, anche se io, con un cognome solo, peraltro anche piuttosto corto, mi sentivo fuori luogo.
Ricordo un olandese. Diceva di aver fatto i soldi alla fine degli anni Ottanta, con un hedge fund. Ma non un po’ di soldi. Proprio i soldi, intendendone un mare, non so quanti di preciso, ma diciamo uno sproposito. Così si era comprato un famoso champagne. E non una bottiglia o una cassa, no. Intendo proprio il marchio, con annessi vigneti e cantine.
Infine ne aveva avuto abbastanza dello champagne e si era messo a gestire dei parchi naturali in Africa con una sua fondazione. Però, che bravo.
Si ballava, dicevo, si chiacchierava un po’ di questo e quello. Poi a un certo punto era arrivato il vicino di villa, anche lui con tre cognomi, tutti imparentati in qualche modo con i tre cognomi del mio amico. Era vecchio, molto vecchio. Lo tenevano in piedi due filippine. Aveva il cannello dell’ossigeno al naso. Ma non si era dato per vinto, neanche con il cannello dell’ossigeno al naso. Anzi, aveva accennato due passi su Get Lucky dei Daft Punk. Poi si era rotto i coglioni e le filippine se lo erano riportato a casa, un passo alla volta, attraverso il parco.
Una volta io e l’Ambasciatore eravamo seduti ai tavoli del Gales Bar, il miglior bar karaoke di Asunción e quindi di tutto il Paraguay, sulla Mariscal Estigarribia. Ma non eravamo lì per il karaoke, io e l’Ambasciatore. Era ancora troppo presto per quello. Avevamo preso giusto una birra, in attesa che si facesse l’ora di andare a una cena coi coreani. Non facevo parte del corpo diplomatico, non avevo interessi che riguardassero la Corea. Non ci stavo a fare niente lì, al Gales Bar di Asunción, con il nostro Ambasciatore. Avevo tenuto una conferenza, il giorno prima, è vero, ma ero comunque fuori luogo, anche se non era affatto male essere fuori luogo proprio lì, sulla Mariscal Estigarribia.
Perché è lì, mentre continuavo a fare una fine, che ho provato la migliore nostalgia di tutta una vita.
Non era tanto il proprietario del bar che, visto il nostro Ambasciatore, era spuntato fuori a raccontarci le sue origini italiane e a mostrarci le foto di un raduno familiare per cui erano venuti da tutto il Sud America.
Era piuttosto la trasandata bellezza di tutto quel barrio, di quei palazzotti cadenti che echeggiavano il decoro di quando il Chaco era tutto paraguayo, e la distanza infinta dal mare, lì, in mezzo al continente. La certezza infine che presto tutto sarebbe scomparso, che qualcuno con qualche soldo, di lì a qualche anno, avrebbe cominciato a pensare che in fondo il centro di Asunción non è così male, e allora forse Asunción sarebbe diventata come San Paolo, dove sull’Avenida Paulista è rimasta una sola villetta da cafeteiro, a farsi mangiare dai rovi tropicali, in mezzo ai grattacieli. Oppure, come mi auguro, i grattacieli avrebbero continuato a spuntare più in là, nel Barrio Ycuá Satí e in periferia, e invece lì, in quei palazzotti cadenti dell’epoca bella, avrebbero cominciato ad abitare gli scrittori, gli artisti, gli architetti e gli psicanalisti, e insomma tutta la crema paraguaiana; e invece del karaoke sarebbero comparsi quei ristorantini dove si reinterpreta la tradizione con un occhio alle ultime tendenze della gastronomia internazionale ed è tutto bio, non OGM, chilometro zero, un po’ di giàs in sottofondo, e le mostre delle fotografe e le presentazioni dei libri, il teatro sperimentale, un cinemino che fa retrospettive, i locali dove si beve benissimo e insomma tutto quello che ci piaceva tanto e di cui, in realtà, non ne possiamo assolutamente più, fino al punto di essere finiti a fare una fine in un paesello sulle colline pisane.
Ma nel frattempo, dicevo all’Ambasciatore, eravamo lì, a goderci la nostalgia del presente che sarebbe presto passato, forse gli ultimi ad aver visto Asunción come nessuno ad Asunción vorrebbe che restasse Asunción, perché anche la mia nostalgia, ci tenevo a dire all’Ambasciatore, è soltanto un piccolo lusso che posso permettermi, ma non ne farei mai un programma politico: credo che il barrio dove si dipana la Mariscal Estigarribia e si canta il karaoke debba conoscere quello sviluppo inarrestabile per cui, alla fine, non riusciremo più a sfuggire ai ristorantini, alle mostre fotografiche, alle presentazioni di libri e, in definitiva, all’infelicità costitutiva di tutti quelli che si sentono speciali e portano in giro il loro lagnoso narcisismo, da un ristorantino all’altro, da una mostra all’altra, da una presentazione all’altra, come criceti sulla ruota, in attesa di una fine pietosa che li tolga dalla loro compiaciuta sofferenza. Credo che così debba essere, mentre in quei ristorantini, in quelle mostre di fotografia, in quei cinemini retrospettivi, non mancheranno minoranze agiate che pagheranno in qualche modo il prezzo della loro cattiva coscienza migliorando il mondo a discorsi, fra un aperitivo e l’altro, lamentando la decadenza dei tempi, la perdita dell’innocenza dei contadini del Chaco corrotti dalla società dei consumi, stigmatizzando come segno della fine la comparsa delle antenne paraboliche sulle loro baracche.
La migliore nostalgia di tutta una vita, mentre facciamo una fine, pensai allora, è quella per il presente, visto dal prossimo futuro. La nostalgia migliore, quella che ho provato mentre parlavo con il nostro Ambasciatore in Paraguay, non era quella per la città che mi ero lasciato alle spalle senza voltarmi indietro, ma quella per come eravamo io e lui nel momento in cui la provavo, seduti fuori luogo, a lato di un mondo che scompare di qui a pochi anni, come è inevitabile che sia.
Una volta ho visto Valeria Bruni Tedeschi comparire su un set con un vestito bellissimo e delle ciabatte ai piedi. Parlava animatamente in francese al cellulare. Io la guardavo da dentro il camper del trucco. Come era bella. Poi siamo passati al parrucco e mentre venivamo acconciati lei mi ha detto: «Facciamo un po’ di memoria, ti va?». Intendeva dire che era meglio se ripassavamo le battute. Abbiamo fatto un po’ di memoria. Io mi sentivo fuori luogo, perché non sono un attore, e quello era il cinema.
Una volta ho detto messa in Santa Maria in Trastevere, vestito con l’abito talare. Una cosa davvero fuori luogo, anche se in fondo era soltanto cinema.
Una volta ero vestito fuori luogo, con un abito di lana, il gilet di lana, la cravatta di lana, ai primi di agosto, nell’agosto più torrido che Roma ricordasse in tanti anni, e sudavo. Sudavo come un maiale. Anche se l’Archibugi era molto gentile, come è nella sua natura, e si scusava, ma le maestranze avevano deciso la pausa e poco importava se gli attori grondavano, perché se è pausa, che pausa sia, o si va in straordinario e si sfora il budget.
Quella volta era inverno nella fiction ma, fuori dalla fiction, era piena estate e faceva un caldo atroce. Allora mi ricordai un verso di Eliot che dice così: “I read, much of the night, and go south in the winter”. Credo che Eliot volesse dipingere un mondo alla rovescia, un mondo dove siamo tutti fuori luogo. Amavo molto Eliot quando ancora mi piaceva leggere. L’ho letto tante volte, ma nella memoria l’ho letto una volta sola.
Una volta sono andato in carcere a parlare di letteratura ai detenuti. Ci sono andato molte volte in carcere, a parlare di letteratura, ma una volta più di altre. Quella volta, in particolare, abbiamo parlato di Madame Bovary, in massima sicurezza.
Diversi detenuti avevano letto Flaubert. Qualcuno in vista del nostro incontro. Qualcuno perché, avendo un lungo tempo vuoto da riempire, l’aveva letto di sua iniziativa. Uno, addirittura, l’aveva letto ancora prima di finire in carcere, perché comunque, in massima sicurezza, ci finisce l’élite del crimine, mica i ladri di polli.
Comunque, io ho soltanto detto loro che la fine che avrebbero fatto Carlo ed Emma avrebbero potuto indovinarla già dalle prime pagine di questo straordinario capolavoro. Un libro così perfetto, ho confessato, che davvero non si capisce perché ci ostiniamo a scriverne altri.
La fine che avrebbe fatto Carlo, ho detto, la si poteva intuire già da quella tremenda figuraccia che fa il primo giorno di scuola, per via del suo ridicolo berretto.
Ma è la fine di Emma che il lettore attento può indovinare addirittura prima che Emma stessa entri in scena. Ed è davvero terribile quando la fine che fa un personaggio è decisa così, da un dettaglio apparentemente insignificante. I grandi scrittori alle volte sono davvero spietati.
Nel caso di Emma, poi, Flaubert è così ironico e crudele da mettere l’indizio decisivo proprio sotto gli occhi di Carlo, la prima volta che questi si reca a cavallo alla fattoria del signor Rouault.
Una bella fattoria, non c’è dubbio: robusti cavalli da lavoro, un bel letamaio fumigante, un alto granaio, un lungo ovile. Non manca nulla. Nel cortile razzolano polli e tacchini. E «cinque o sei pavoni», che però non servono a niente. «Non uno o due, badate bene» ho detto loro «ma cinque o sei.»
Ecco il dettaglio decisivo: le ambizioni del padre di Emma fanno la ruota sull’aia.
Che poi subito dopo Emma non trovi l’agoraio, perché di cucire non gliene importa nulla, e che si punga le dita mentre cuce, perché ha la testa fra le nuvole, che succhi infine le gocce del quarto di sangue oscuro con inconsapevole malizia, pare dunque inevitabile per la presenza di quei pavoni paterni nel cortile.
Quella volta abbiamo discusso a lungo, in massima sicurezza, di queste cose. Se la fine che si fa, la si fa per le nostre scelte, voglio dire, o per il quarto di sangue oscuro che ci scorre nelle vene, e se, in ogni caso, non sia dunque vero che ciascuno porta sulle spalle un fardello mortifero di verità individuale che finirà prima o poi per abbatterlo.
Come è facile intuire, il tempo in cui si svolgono le discussioni che intratteniamo in massima sicurezza è un tempo diverso da quello in cui si svolgono fuori dal carcere. In massima sicurezza le parole sono immerse nel tempo, ne hanno il respiro, che è poi quello che sempre spetterebbe loro se ne avessimo un qualche rispetto. Il rispetto insomma che si dovrebbe portare quando siamo in casa d’altri: le parole non sono mai le nostre, ma sempre già dette prima che nascessimo, da altri, da quelli che infatti trapassano come spettri fra le sconnessioni del tempo.
Fuori dal carcere, le parole spesso il tempo lo sfiorano appena. Fuori dal carcere, spesso, le parole lasciano il tempo che trovano.
Per questo credo che, potendo scegliere, abbia molto più senso parlare di libri in un carcere di massima sicurezza che non, ad esempio, in una libreria. Mentre infatti nella libreria il letterato fa la ruota davanti a una platea (magari semideserta) in attesa che, alla fine, qualcuno del pubblico faccia a sua volta la ruota con una domanda, nel carcere, qualunque fossero le ambizioni del letterato, o quali che fossero quelle del detenuto, è evidente a tutti che le ripetute mandate di chiavi, corridoio dopo corridoio, finiscono con il delimitare uno spazio angusto di massima sicurezza in cui però il tempo si allarga, inevitabilmente, fino a diventare quello di tutta la vita, intesa anche e soprattutto come condanna. Anzi, meglio, quello della sommatoria delle condanne a vita, per un totale di anni che basterebbe a farci tornare indietro fino al medioevo o a farci andare avanti fino al giorno del Giudizio, ma comunque tale, per la limitata immaginazione umana, da somigliare all’eternità.
Forse è per questo che i detenuti non fanno mai vere e proprie domande. Parlano sempre a margine. Forse sanno che non ci sono risposte e che domandare all’eternità non serve a niente.
Oppure può darsi sia semplicemente una forma di educazione, da interpretarsi in un preciso e specifico contesto, quello dell’associazione mafiosa, che ricorre fra i capi di imputazione della maggior parte di quei condannati: mettersi a chiedere questo e quello non sta bene.
In ogni caso, quella volta, è risultato chiaro a tutti che la letteratura, qualunque cosa sia, è un ergastolo.
Una volta io e mio padre siamo tornati al Parco delle Viole a portare a spasso Gus. Abbiamo notato entrambi che anche Gus non era più quello di prima. Dopo sei camion era già stanco. Si è sdraiato sul prato con la lingua di fuori. Certo che è proprio vero: gli anni passano per tutti.
Poi siamo andati fino alla panchina in fondo al parco, ma non abbiamo trovato traccia di MS spezzate né guanti di lattice.
«È già da un po’ che non ne trovo più di quella roba» ha detto mio padre.
«Mah, chissà che fine ha fatto il nostro uomo» ho detto io.
Gus però ha abbaiato, come se avesse visto qualcosa o qualcuno. Ma non c’era niente e nessuno a parte noi, e la cosa è finita lì.
Una volta io e mia moglie cenavamo al ristorante del paesello. Un ristorante eccellente, devo dire, la cui fama si stende infatti ben oltre i limiti del nostro territorio comunale.
Parlavamo del nostro amico barista, quando inaspettatamente è entrato proprio lui, il nostro amico barista.
«Toh, parlavamo di te, che combinazione!»
Ma il nostro amico barista ha guardato il padrone del ristorante e i due si sono scambiati un sorriso complice. Non capivo.
L’amico barista allora si è seduto al tavolo con noi, per bere un bicchiere di vino.
«Guarda ti spiego» ha detto abbassando la voce, «parlavate di me e sono arrivato, ma qui è normale.»
«Cioè?»
«Perché siete seduti nel cigliere.»
Col termine cigliere si intende in Toscana quella stanza del rustico, spesso uno scantinato, in cui si conservano vettovaglie. In italiano sarebbe celliere. Ma non è di questo che importa adesso.
Secondo il padrone del ristorante e il mio amico barista, nel cigliere, che è diventato una delle sale, dopo una certa ora non ci sono più soltanto gli avventori.
Oltre ai commensali seduti ai tavoli, secondo loro, ci sarebbero altri, che certo non mangiano più da tempo immemore, e che aleggiano intorno alle volte. Dice il mio amico che è come se parlassero senza parole. Suggeriscono, insinuano, ti portano con la testa dove vogliono loro. I più non se ne accorgono neanche e credono di pensare con la loro testa, magari danno la colpa al vino. Altri invece, fra cui il mio amico barista e il padrone del ristorante, si accorgono di essere come attraversati da questi invasori, ma li lasciano fare perché è giusto così.
Il padrone del ristorante da giovane faceva il pugile. Peso piuma immagino, perché è bassino, anche se ha spalle larghe e un fisico asciutto e nervoso. Ha il naso schiacciato dai pugni che deve essersi preso quando combatteva sul ring.
Lui dice che le presenze del cigliere gli hanno insegnato un sacco di cose. Chiunque si creda chissà chi, chiunque non pensi di fare una fine, mi spiega, basta che stia seduto un paio d’ore lì sotto e subito abbassa la cresta e torna a più miti consigli. Forse è questo il motivo per cui, quando tutti i clienti sono andati via, il padrone spesso resta da solo seduto in silenzio sotto le volte del cigliere, con una bottiglia di vino.
Ma non è un argomento di cui parli volentieri. Vi accenna, vi allude, ma non indugia in spiegazioni e aneddoti. Piuttosto, trancia la nostra curiosità con una domanda rituale:
«E allora, cosa vi porto come dolcino? Ciabbiàmo una crostatina ai frutti di bosco che è la fine del mondo».
Comunque, io credo che quella volta si sia trattato soltanto di una banale coincidenza. Non lo so, ecco. La cosa è finita lì.
Una volta, ma è successo almeno tre volte negli ultimi mesi, ricevo una chiamata dal numero 02 800190. Qualcuno da Milano, ho pensato. Chissà chi è, chissà che vuole. Rispondo e dico «pronto, pronto». «Pronto, chi parla?» Passano tre secondi di silenzio, infine una voce femminile mi dice «goodbye» e riattacca. Cerco sull’internet, scopro che è capitato ad altri. Potrebbe trattarsi di un programma di composizione automatica dei numeri in uso in uno di questi allevamenti umani dove i povericristi devono venderti qualcosa per telefono: il programma intanto fa il numero ma se il poverocristo è già occupato con un’altra chiamata allora parte la registrazione.
Oppure no. Potrebbe darsi che uno spettro del tempo scardinato voglia soltanto ricordarmi la fine che sto facendo.
Una volta è venuto a trovarmi un mio amico che si chiama come me, ma che, a differenza di me, sa tutto. Non nel senso in cui talvolta si dice di qualcuno che “sa tutto lui”, intendo cioè che è un saputello. Lui sa tutto davvero, non lo fa apposta, e quasi sembra che gli dispiaccia pure: sa proprio tutto, o almeno sa tutto quello che io credo si debba sapere. Ad ogni modo, l’ho fatto accomodare nel mio studio, perché volevamo parlare di libri. Anche il mio amico che si chiama come me è in esilio. Solo che lui è andato molto più lontano, negli Stati Uniti. Insegna morti italiani in una prestigiosa università. Ogni tanto torna per curare gli affari di famiglia.
«Scusami per il freddo che c’è in questa stanza» gli ho detto.
«Ci sono abituato, non ti preoccupare» ha risposto.
«Non so perché, ma questa stanza è la più fredda della casa, eppure il riscaldamento sta acceso come nelle altre stanze. Questa però non si scalda mai.»
«Ah, ma è normale. È la “stanza fredda”. Ce ne è sempre una in queste vecchie case.»
«Pensavo dipendesse dall’esposizione, ma non mi torna. La cucina ad esempio è caldissima e guarda a nord come questa.»
«Non c’entra l’esposizione. Tutte queste vecchie case hanno la “stanza fredda”, ma dipende da chi ci è vissuto e magari anche da chi ci è morto.»
«Dici?»
«Sì, ma non devi fartene un problema. Ci sono tanti libri. Lasciane sempre aperto qualcuno sulla scrivania. Devono passare il tempo in qualche modo.»
«Mi sembra una buona idea. Dici che Hardware and General Goods for the Autumn 1938 possa andar bene?»
«Direi che è perfetto» ha detto il mio amico che si chiama come me. Poi abbiamo parlato d’altro.
Una volta, mentre ero in sala a sfogliare il giornale, si è accesa la televisione in cucina. Si è accesa da sola, così. Una cosa assurda, fuori luogo. Dicono che può trattarsi di uno sbalzo di tensione che la centralina dei comandi ha mal interpretato o di un impulso generato da un altro apparecchio nelle vicinanze, non lo so. Comunque ho spento la televisione ed è finita lì.
Una volta, mentre ero nel mio studio a leggere, la porta si è chiusa improvvisamente, sbattendo. Mi è parso strano perché non c’erano finestre aperte, e non tirava un alito di vento. Ho riaperto la porta, e la cosa è finita lì.
Un’altra volta è venuta a trovarci una cantante lirica con gli occhi verdi spiritati e i capelli rossi, un particolare che non ha necessariamente alcun significato. Però, entrando nella stanza del camino, ha sorriso: «Che carina» ha detto. Pensavo si riferisse alla stanza. «Si nasconde sotto il tavolo, sta giocando» ha aggiunto. Non capivamo a cosa si riferisse. «Una bambina, ma non fateci caso, scusate… ho queste visioni a volte.» Forse si è resa conto di aver detto una cosa fuori luogo, non lo so. Noi però non ci abbiamo fatto caso. Forse le cantanti liriche a volte hanno queste visioni. Ed è finita lì.
Una volta guardavo il giardino dalla finestra del mio studio e ho visto che mia moglie era lì, fra la tuia cinese e i cipressi, ad annaffiare le piante. Ho aspettato che si voltasse e alzasse gli occhi, così, per salutarla.
Dopo un po’ infatti si è voltata e ha guardato verso la mia finestra. Io le ho fatto “ciao ciao” con la mano ma non mi ha risposto.
«Non mi hai visto?» le ho chiesto poi quando è rientrata.
«Visto quando, visto dove?» ha chiesto lei.
«Prima… Ero alla finestra, non mi hai visto? Ti salutavo» le ho risposto.
«Non ho visto niente» ha detto lei.
Io dico delle bugie ogni tanto, lo so, fa parte del mestiere. Ma mia moglie no, è una che dice sempre la verità. Ne dice anche troppa di verità. Non lo so. Forse, in quel preciso momento, il sole batteva sui vetri della finestra, oscurandone la trasparenza. Capita. Forse capita persino a novembre. O forse no, e allora ci sarà un altro motivo. Non lo so.
Comunque la cosa è finita qui.