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Il Guardasigilli
Roma. Via Arenula, ministero della Giustizia. Dicembre. Le otto e trenta di sera. Salgo le scale due gradini alla volta. L’addetta stampa mi vede da lontano, viene ad abbracciarmi: «Che bello vederti! Andrea ne ha ancora per una mezz’ora, poi andiamo». «Tranquilla cara» le dico, «non c’è fretta… io intanto do un’occhiata in giro.»
Fa sempre una certa impressione scorrere la galleria dei ministri. Il lungo corridoio sul quale si affaccia lo studio del Guardasigilli, e la segreteria particolare. Alle pareti le decine e decine di ritratti di politici che si sono succeduti in carica dall’Unità d’Italia fino a oggi.
Salta agli occhi come negli ultimi venti anni il Paese sia cambiato. Si leggono, chiari, i segni di una crisi del gusto. I ritratti, intanto, hanno fatto posto a delle assurde fotografie ritoccate e incorniciate. Come se la spending review avesse tagliato i fronzoli dello Stato, a partire dal decoro della sua rappresentazione a olio. La foto di Alfano ad esempio. Sembra uscita da una prima comunione. Alfano ride con tutti i denti, non si capisce di cosa. Credo di nulla. È che, da un certo punto in poi, pare sia venuto in obbligo di immortalarsi col sorriso stampato in faccia. Allora cerco indietro. Cerco Vassalli. Ma Vassalli non c’è.
«Vero» dice l’usciere, «manca Vassalli… non volle il ritratto.»
«Cioè…» gli chiedo, «fu lui a dire espressamente che non voleva un ritratto per la galleria dei ministri?»
«Già… proprio così.»
Mi chiedo perché, dovrò indagare meglio su questa cosa che Vassalli non ha voluto il ritratto da ministro. La Severino invece, unica fra i recenti, ha voluto il dipinto. Non una foto come Alfano, ma proprio un dipinto a olio. Anche in quel caso, però, è scomparsa la severa accademia della ritrattistica ufficiale, e si è scelto un ritratto dagli incomprensibili toni pastello, un mélange fra il rosa e il viola, che indulge quasi al naïf. Forse perché è stata la prima donna a rivestire quel ruolo, o non so perché, ma pare chiaro che la Severino abbia voluto distinguersi fra tutti, con un’immagine di sé che ammicca a una certa intimità familiare, in uno stile indefinibile e comunque lontano da ogni retorica istituzionale. Un ritratto più intimo, insomma, ancorché brutto. L’impressione è quella che si sia voluto, con quel ritratto, significare che il ministro è uno di noi, che la professoressa Severino è assurta a un’alta carica dello Stato, certo, ma non è tutta lì, non inizia e non finisce nella carica che riveste, perché c’è molto altro. Così, anche se non ci sono espliciti elementi simbolici che autorizzino questa interpretazione, è chiaro che i toni pastello rimandano all’idea che, dietro tutti quei libri, ci sia una donna garbata e amichevole. Una che, all’occorrenza, saprebbe fare anche la spesa, o che non si sdegna di prendere un tram, o che magari ha anche una famiglia e un gatto cui badare. Tutte cose importanti, certo, ma in qualche modo debordanti rispetto alla cornice, che, fino ai ritratti di qualche anno fa, aveva da essere una cornice strettamente istituzionale. C’era stato un tempo insomma in cui la carica di Guardasigilli riassumeva in sé tutto quel che c’era da sapere su tizio o caio, dove tizio o caio erano il Guardasigilli dello Stato e questo bastava, perché non era mica poco. Ma comunque sia, sotto il ritratto della Severino, sta la cosa di cui il ministro è a guardia, il marchingegno simbolico dello Stato: il torchio che imprime sulle Leggi il Gran Sigillo. Senza il Sigillo dello Stato, una Legge non ha vigore. L’usciere mi dice che quando vengono in visita le scuole, mostrano ai ragazzi come funziona: prende un foglio di carta, gira con forza e me lo restituisce. In rilievo, sulla carta, è rimasto impresso il Gran Sigillo.
Nella seduta di sabato 31 gennaio del 1948, sotto la presidenza di Umberto Terracini, l’Assemblea Costituente discute l’approvazione dell’emblema della Repubblica che dovrà dunque essere posto sul Gran Sigillo di Stato. L’onorevole Medi della Democrazia Cristiana interviene subito per dire che a lui quell’emblema non piace. Gli pare troppo complicato, e poi non si capisce cosa simboleggi quella ruota dentata.
Anche l’onorevole Di Fausto, sempre democristiano, avanza gli stessi dubbi: manca di sintesi ed è di dubbio gusto. L’onorevole Cremaschi, democristiano anche lui, gli fa eco: «Non mi pare vi sia la sinteticità necessaria». All’onorevole Corsini, che viene dal Movimento dell’Uomo Qualunque, l’emblema pare «una cosa comune, misera, come se ne sono viste a centinaia e centinaia in tutti i paesi e in tutti i villaggi». Concetto Marchesi, il latinista comunista, rincara la dose, con arguzia: «Ritengo che il nuovo emblema della nuova Italia non debba essere così copiosamente ghiandifero». Non piace la ruota, insomma, ma neanche le ghiande. Altri poi si aggiungono a una disapprovazione che pare attraversare tutto l’arco costituzionale.
Quando ecco che l’onorevole Bettiol, ancora un democristiano, rovescia i termini della questione. Perché gli onorevoli colleghi fanno di questo un problema di natura artistica? Che c’entra l’arte con il Gran Sigillo della Repubblica? Non possiamo rimetterlo nelle mani degli artisti, dice il Bettiol, i quali hanno «fantasia bizzarra» e «di politica non capiscono quasi niente».
Ed è a questo punto del discorso che io, per quanto manchino ancora venti anni alla mia nascita, mi alzo in piedi, applaudo a piene mani e poi vado ad abbracciare il Bettiol. Chiedo scusa a Terracini, e a tutti i suoi onorevoli colleghi, padri costituenti, e prego il Bettiol di continuare: «È una scelta di natura politica» dice scandendo bene le parole, con l’indice alzato. E ha ragione. Si decida dunque prima su quali elementi simbolici i cittadini possano riconoscersi oltre le differenze politiche, poi ci si affidi agli artisti, che, lo ripetiamo, «di politica non capiscono quasi nulla».
Interviene allora il presidente Terracini, che fa un lungo discorso, molto ben calibrato nei toni, decisi ma non sprezzanti, e consono all’ufficio da cui viene proclamato, ma che in sostanza si riassume così: amici cari, sono diciotto mesi che ne parliamo di questo benedetto emblema, diciotto mesi. Possibile che non siamo ancora arrivati a una conclusione? Che poi, per carità, abbiamo la Repubblica e questa è la cosa importante. Ma uno straccio di emblema glielo vogliamo dare o no? Anche se Terracini lo dice molto meglio di così, perché è il presidente dell’Assemblea Costituente, e l’Assemblea Costituente è una cosa seria: «Dobbiamo porre un po’ il freno alle nostre ambizioni del bello. Credo che qualunque emblema, quando ci abitueremo a vederlo riprodotto, finirà con l’apparirci caro».
Ma niente. L’onorevole Laconi, del PCI, insiste: non c’è arte in questo sigillo. I simboli andrebbero anche bene, ma è stato realizzato da un «professore di ornato». L’onorevole Conti, repubblicano, viene in soccorso di Terracini: stiamo dando il solito spettacolo, dice. Tanti discorsi per nulla. A lui, a Conti, del sigillo non gliene importa nulla: abbiamo la Repubblica, questo conta. Mettiamoci un po’ quel che vogliamo nel sigillo, ma facciamola breve. Qualche altra scaramuccia. Riprende infine la parola Terracini: «Onorevole Laconi, quando lei riceverà un foglio bollato con sovrimpresso questo sigillo, lei si preoccuperà del contenuto della carta bollata, non certo del disegno che vi è stampato».
Dopo prova e controprova, è approvata.
Vicino ai cinquant’anni è come se la forza di gravità fosse diventata più forte. Tutto ciò che può essere fatto, richiede un piccolo sforzo aggiuntivo. E se uno volesse compiere un’azione anche semplice, come ad esempio alzarsi da una sedia, lo farebbe comunque, ma un attimo dopo, perché l’anticipazione immaginaria della fatica lo trattiene un poco più a lungo nell’immobilità. Il peso della realtà è diventato più gravoso, i pensieri stessi intorno alle cose così densi da non riuscire a staccarsi dal suolo. Diventiamo terra terra, per così dire. Vicini ai cinquant’anni, il Paese diviene il nostro Paese, senza che possiamo immaginarcene un altro dietro una svolta di strada. E questo riguarda tutto. Il lavoro, le storie d’amore, i rapporti personali, le amicizie, la vita delle famiglie, come se tutto fosse divenuto d’un tratto più difficile e, proprio per questo, più bisognoso di spiegazione e commento. Come se ogni decisione necessitasse all’improvviso di una lunga nota a piè di pagina, tale da doversela trascinare dietro a ogni passo, per cui, a rigore di logica, neanche potresti dire «buonanotte», senza spiegare perché e percome, e cosa intendi, e se era davvero il caso. Ma poiché, vicini ai cinquant’anni, non si ha più troppa voglia di parlare, ecco che invece si preferisce starsene zitti quanto più possibile. Ci sarebbero troppe cose da dire, meglio dunque non dirne alcuna. Quanto alla politica, bene allora confessare subito che questo aumento della forza di gravità si condensa in un lungo silenzio, dietro una svolta di strada che si apre sul Lungotevere dei Vallati. Su una Lancia blu, l’autista tace da protocollo. Solo l’agente di scorta mormora ogni tanto la sua nenia logistica all’auricolare, per accordarsi con l’auto gemella che ci segue a pochi metri, nel traffico ormai diradato di Roma notturna. Brevi istruzioni sussurrate, come «prendiamo per Ponte Sisto», o «ora diretti a Piazzale Ostiense», per chiudersi subito di nuovo in un silenzio vigile.
Così guardiamo fuori dal finestrino, come se al ristorante dove abbiamo cenato fossimo riusciti a dirci tutto quello che c’era da dire e adesso non restasse altro che starsene zitti.
Ceno con Andrea una volta ogni tanto. Finita la cena, stavolta, Andrea si è offerto di darmi un passaggio.
Appena salito sull’auto ministeriale però, Andrea è ridiventato il Guardasigilli e si è chiuso in un cupo mutismo, come se il fatto stesso di essere vicino agli uomini della scorta, blindato nella protezione dello Stato, dietro i vetri fumé, gli rendesse il parlare più faticoso di quanto non fosse al ristorante, dove invece riusciva ancora a ridere e scherzare.
Il supplemento di gravità di questi ultimi anni diventa allora palpabile a bordo della Lancia, addensandosi in una specie di nebbia sottile sospesa davanti agli occhi, tale per noi da non scorgere più qualcosa che rassomigli a un’intenzione, fosse pure semplice, o a un progetto, o comunque a qualcosa che potremmo per brevità chiamare “futuro”. Del resto, dalla discussione che abbiamo intavolato a cena, è emersa chiaramente, sia per quanto mi riguarda sia per quanto riguarda Andrea, la certezza che il mondo non sia perfettibile. Mentre però Andrea ha lasciato intendere che, a suo avviso, il mondo è decisamente migliorabile, io sono restato fermo nella mia convinzione che il massimo che possiamo fare alla nostra età, ciascuno per la sua natura e per i compiti che gli sono stati assegnati, è spostare l’apocalisse di qualche giorno. «Tuo compito come Uomo di Stato» ho detto ad Andrea «è fare come quel bimbo della favola che tiene il dito nel buco della diga per salvare l’Olanda dalla piena d’acqua che sta per travolgerla.»
Allora siamo restati in silenzio per un po’.
«Non dirlo a nessuno che siamo cugini» mi ha detto d’un tratto.
«Va bene, come vuoi… ma perché scusa? Non credo di aver fatto niente che potesse metterti in imbarazzo» ho detto.
«Ma figurati, che c’entra?» ha sbottato. «È il contrario… di questi tempi, un parente che fa il ministro e sei rovinato, non voglio che tu abbia noie per colpa mia.»
«Ma noi in famiglia siamo tutti molto orgogliosi di te…»
«Sì, vi ringrazio, ma metti che vinci un premio, o ti recensiscono su “Repubblica”, poi tutti a dire che è grazie a tuo cugino.»
«Grazie un cazzo cugino, diciamoci la verità, tu per me non hai mai fatto nulla. Magari, sai… che so, un posticino in una fondazione, un consiglio di amministrazione, insomma una sinecura, come si sarebbe detto un tempo, non mi sarei mica offeso… invece nulla.»
«Vero» ride.
«Appunto, e quindi guarda, ti ringrazio tanto della premura che ti fa onore, ma chi se ne frega. Il conto del ristorante invece lo paghi tu.»
Il problema delle cene con il Guardasigilli è che tendo sempre a eccedere col vino, ed è forse anche questo il motivo per cui stavolta Andrea si è offerto cortesemente di accompagnarmi in stazione.
Così, mentre lui mantiene quella sobrietà grigiolucido che lo distingue nella variopinta compagine di governo, a me gira la testa e, per non cadere nel precipizio dell’ebbrezza, getto fuori lo sguardo dal finestrino. Ma d’un tratto rompe un silenzio che sembrava secolare, proprio mentre incrociamo Piazza della Bocca della Verità, per chiedermi come stanno. «Come stanno i tuoi?» mi chiede. A cena non ne abbiamo parlato, in effetti. «Mah, mio padre non sta bene, un tumore all’intestino…» gli dico. Allora lui, che ha chiuso un attimo gli occhi, dice: «Oddio no! Mi dispiace tanto. Posso fare qualcosa? Pensi che sia il caso che venga a trovarlo?». «Gli farebbe sicuramente piacere, stravede per te» rispondo.
(n.d.a. Mentre scrivevo queste righe mi sono reso conto del potenziale politicamente esplosivo di questa storia: il Guardasigilli avrebbe dunque usato l’auto blu per accompagnarmi alla stazione, la qual cosa assumerebbe i contorni di un vero e proprio scandalo in quanto ennesimo esempio di abuso della Casta dei Politici a danno dei cittadini che si chiamano Legione, perché sono tanti e non si fanno più fregare da nessuno. Mentre scrivevo queste righe mi sono dunque chiesto se non fosse meglio omettere questo dettaglio per salvaguardare l’onorabilità del Guardasigilli. Poi mi sono detto che un Paese nel quale un cristo, ancorché ministro, non può far fare una deviazione di tre minuti alla scorta blindata con cui è costretto a convivere ogni giorno dalla mattina alla sera per accompagnare suo cugino alla stazione, come sarebbe concesso a qualunque altro cristo, è uno schifo di Paese, e noi non vogliamo vivere in uno schifo di Paese, giusto?)
Credo che la vita del Guardasigilli sia molto complicata. Ha un cellulare che suona ogni due minuti, un segretario e un’addetta stampa che non lo mollano un attimo, se vuole entrare in un bar deve avvisare la scorta, ogni giorno viene insultato e minacciato da centinaia di matti su Facebook che gli danno del mafioso, per quanto a firmare i 41bis sia lui e non i matti su Facebook. Se parla con una donna la foto finisce online dopo dieci minuti. Se dice X i magistrati si incazzano, se dice Y si incazzano lo stesso.
Credo tuttavia che il Guardasigilli sapesse esattamente la fine che vuole fare già quando aveva dodici anni e faceva il volontario alle feste dell’Unità di La Spezia. Credo, in altri termini, che la fine che fa il Guardasigilli, ovvero quella di un uomo che non ha più una vita sua e che deve misurare con attenzione ogni passo e ogni parola, sia esattamente quella che desiderava sin da quando era un ragazzino, almeno per come me lo ricordo. Tutto il contrario di me, insomma, che non solo non avevo idea della fine che avrei fatto, ma che, anzi, per non fare una fine quale che fosse, ho cercato ogni volta di prendere la via più tortuosa possibile, pur di non arrivare mai davvero da nessuna parte, illudendomi così che bastasse sviare continuamente per non essere finalmente messo con le spalle al muro da una fine quale che fosse.
Pare insomma che il Guardasigilli abbia continuato a giocare la sua partita di minigolf, accettando il fatto che di buca in buca il percorso si facesse più difficile e insidioso, mentre io, a un certo punto, ho cominciato a tirare la pallina a casaccio nonostante sapessi che mancavano soltanto dieci minuti e poi saremmo dovuti tornare a casa, dubitando del fatto stesso che ci fosse un luogo in cui mi sentissi a casa davvero.
Così dunque, mentre le complicazioni della vita del Guardasigilli dovrebbero essere facilmente immaginabili, la complicazione essenziale della mia vita, per la fine che faccio, deriva dal sentire di essere esposto alla realtà senza scorta, magari barcollante come adesso che la Lancia ministeriale mi ha lasciato nel piazzale della Stazione Ostiense.
Nel mio caso, meglio, la complicazione deriva dalla varietà di mondi fra loro lontanissimi e irrelati che devo attraversare, ogni volta, nel giro di poche ore, pur avendo sempre la stessa faccia e magari lo stesso vestito addosso.
Come adesso che devo prendere l’Intercity Night di mezzanotte, come spesso mi capita, passando dall’alta carica dello Stato al puzzo di piedi di chi viaggia ammassato nelle carrozze senza biglietto, senza soluzione di continuità.
Così, qui sul binario, guardo una donna con la bocca rifatta e impastata, e la borsa LV cinese, i sabot tacco dodici, la gonna di pelle con un lungo spacco che le arriva quasi al probabile perizoma, incerta nel procedere, ma sorretta da quello che pare essere suo marito, un ometto tarchiato con il volto squadrato e una specie di smorfia rassegnata stampata sulla faccia. E lei che gli urla biascicando: «Cornuto, so’ la reincarnazione de’ Cleopatra… che te credi… Cornuto!». E lui che dice: «Sì, andiamo… attenta a dove metti i piedi». «Ma sta’ attento tu, cornuto! Io so’ Cleopatra, che te credi.» Perché l’amore si dice in molti modi.
E anche l’amore, io credo, come tutto, riguarda alla fine il potere della forza di gravità, per cui anche l’ometto tarchiato ha perfettamente chiaro come il suo unico compito sia quello di spostare l’apocalisse di sua moglie di qualche minuto, sorreggendola perché la gravitazione universale non la faccia cadere sui binari, almeno fino a quando saranno entrati nello scompartimento dell’Intercity Night.
Nello scompartimento dell’Intercity Night, tre donne tunisine, madre figlia e nipote, si sono sdraiate l’una accanto all’altra, come potevano. In una specie di abbraccio, di groviglio di corpi, che dimostra una consuetudine a questi viaggi di fortuna e all’angustia degli spazi. La bambina rinchiusa e protetta fra le gambe della madre e le braccia della nonna. Ritratto più che posso in un angolo accanto al finestrino tiro fuori dalla borsa i due regali che mi ha fatto il Guardasigilli. Un paio di calzini Gallo, a righe variamente colorate dal bordeaux al blu, e un opuscolo dal titolo Togliatti Guardasigilli. Si tratta di un discorso che lui stesso ha tenuto alla Sala del Cenacolo della Camera dei Deputati qualche giorno prima. È la notte del 20 dicembre, abbiamo, ciascuno secondo la sua funzione, atteso alle ultime incombenze prima che le feste ci lascino tracollare sui lunghi e lenti divani di famiglia. Ma intanto osservo che i calzini Gallo e l’opuscolo su Togliatti devono essere considerati come le due parti di un testo unico che va rimesso insieme prima di essere decifrato. Come se il Guardasigilli mi avesse consegnato, nello stesso pacchetto, un memoriale allusivo e discreto, affidandomi l’incarico di tradurlo in volgare. Come se i calzini Gallo fossero la nota a piè di pagina dell’opuscolo su Togliatti, o persino viceversa. Ma la sostanza è che il Guardasigilli ci tiene a farmi sapere, con questi due doni, tutta una complicata serie di cose che, di fatto, riguardano la circostanza di essere entrambi sulla soglia dei cinquant’anni e di sentire così il supplemento gravitazionale che affligge tutta la nostra generazione. Ma io penso che riguardino anche il posizionamento stesso del Guardasigilli nella compagine di governo, di cui lui sarebbe per così dire l’elemento più radicato nella tradizione, percepito quindi da molti come residuo di un mondo in bianco e nero, lo stesso da cui emerge proprio la foto di Togliatti che illustra la copertina dell’opuscolo. E tuttavia la foto scelta dallo stesso Guardasigilli ritrae un Togliatti sorridente, di un sorriso quasi cinematografico, forse addirittura americano. Un sorriso da tempo di pace, volto a rassicurare chi temesse vendette giudiziarie ora che un comunista è arrivato al governo. Per contro, i calzini Gallo con le loro righe colorate alludono sicuramente a un bisogno del Guardasigilli di liberarsi dalla rigidezza formale di quella tradizione, magari non in prima persona, ma vicariamente, tramite me che, in qualità di cugino scrittore, o artista, o gabbamondo, posso indossare calzini a righe con pieno diritto. Il regalo dei calzini sarebbe allora la testimonianza della volontà del Guardasigilli di confermare adesione al patto di Governo che ha portato lui e il Presidente del Partito ad appoggiare il Presidente del Consiglio, il cui carisma si fonda invece proprio su una spontanea adesione alla modernità, per come si rivelò al Paese durante la sua apparizione ad Amici con un giubbottino di pelle. In quel paio di calzini ci sarebbe dunque il segno della distanza che separa ormai il Guardasigilli dalla minoranza del Partito che osteggia il Presidente del Consiglio. Nell’opuscolo su Togliatti, al contrario, ci sarebbe invece il tentativo di svuotare quella stessa minoranza di ogni diritto di successione rispetto a quella tradizione di cui il Guardasigilli reclamerebbe a sé il diritto ereditario, relegando così la minoranza nella dannazione dei figli di nessuno: “extra ecclesiam nulla salus”, fuori dalla Chiesa non vi è salvezza. La Chiesa resta la Chiesa anche quando sbaglia, chi va fuori dalla Chiesa invece sbaglia sempre e non è più niente e nessuno.
La nonna sta sognando, parla in arabo nel sonno. Il suo agitarsi ridesta prima la nipote e poi la figlia, che, spaurita, prima mi scalcia e poi mi chiede scusa. Difficile dire se il sogno della nonna abbia acceso e trasmesso un’inquietudine alla sua discendenza, come parte di un sogno familiare e condiviso, o se sia stato semplicemente il rumore dei suoi lamenti. Ma io sono felice che queste tre donne abbiano dormito nello stesso scompartimento dove sto vegliando: mi è parsa una specie di considerazione benevola. Ma fosse stata anche indifferenza, guadagnarsela in queste ore in cui i cani dormono e si aggirano i lupi mi vale come una specie di patente da innocuo poverocristo. Allora la figlia mi chiede dov’è che siamo. Ma io non lo so dove siamo, perché dal finestrino non si vede niente. Solo campagna di notte, e luci rade e remote. Forse Tarquinia o già Montalto. Comunque lontani da tutto.