8.
Non appena il commissario mise piede nell'atrio del suo albergo, si fece scuro in volto nel vedere una donna che, alzatasi da una poltrona di vimini, gli si avvicinava, lo baciava sulle guance con un sorriso triste; dopodiché gli prese la mano e la trattenne fra le sue.
«Che cosa terribile!» disse poi con un gemito. «Sono arrivata questa mattina ed è tutto il giorno che corro. Non ne posso più».
Maigret guardò sua cognata, piombata lì dall'Alsazia, e ci mise un bel po' ad abituarsi a quella visione, così contrastante con le immagini che aveva avuto davanti agli occhi negli ultimi giorni e con la cruda atmosfera in cui era tuttora immerso.
La madre di Philippe assomigliava alla signora Maigret, ma più della sorella aveva conservato la genuina freschezza della provincia. Era una donna dalle forme morbide e rotonde, che non si poteva certo definire grassa; aveva un incarnato roseo messo in risalto dai capelli accuratamente pettinati, e tutto in lei, l'abito bianco e nero, gli occhi, il sorriso, dava un'impressione di pulizia. Bastava guardarla per ritrovare il clima della sua casa, dove gli scaffali erano pieni di vasi di conserve e dove aleggiava l'aroma delle pietanze e delle creme che amava preparare: a Maigret sembrava quasi di sentirne il profumo.
«Pensi che riuscirà ancora a trovare un lavoro, dopo questa storia?».
Il commissario prese la valigia della cognata, che aveva un aspetto ancor più provinciale di lei.
«Dormi qui?» le chiese.
«Se non è troppo caro…».
La condusse verso la sala ristorante dove, quando era solo, lui non metteva mai piede, perché aveva un'aria troppo austera e tutti parlavano a voce bassa.
«Come hai fatto ad avere il mio indirizzo?».
«Sono andata al Palazzo di giustizia e ho visto il giudice. Non sapeva che ti occupi del caso».
Maigret non aprì bocca, ma alzò gli occhi al cielo.
Già si immaginava le litanie della donna:
«Lei capisce, signor giudice, lo zio di mio figlio, il commissario di divisione Maigret…».
«E allora?» si spazientì.
«Mi ha dato l'indirizzo dell'avvocato: rue de Grenelle. Sono stata anche lì».
«E sei andata in giro così, portandoti dietro la valigia?».
«L'avevo lasciata al deposito della stazione».
Roba da non crederci! Doveva avere raccontato la sua storia a tutti quanti!
«Pensa che, quando è apparsa la foto sul giornale, Émile non ha neanche avuto il coraggio di andare in ufficio!».
Émile era suo marito, che aveva gli stessi occhi da miope di Philippe.
«Da noi non è come a Parigi! La prigione è la prigione. Sai cosa dice la gente, no? Che non c'è fumo senza arrosto. Ma ha almeno un letto e delle coperte?».
Mentre mangiavano sardine con contorno di barbabietole bevendoci sopra del vino rosso, di tanto in tanto Maigret si sforzava di evadere da quel clima opprimente.
«Tu conosci Émile. Ce l'ha con te. Pensa che è colpa tua se Philippe è entrato nella polizia invece di cercarsi un buon posto in banca. Io gli ho detto che le cose bisogna prenderle come vengono. A proposito, tua moglie sta bene? Non si stanca troppo ad accudire gli animali?».
Andò avanti così per un'ora buona, giacché dopo il pranzo bisognò prendere anche il caffè, e la madre di Philippe voleva sapere nei minimi particolari com'è fatta una prigione e come sono trattati i detenuti.
Erano ancora nella sala ristorante quando il portiere venne ad avvertire Maigret che un signore chiedeva di lui.
«Lo faccia passare!».
Il commissario si stava chiedendo chi potesse essere, e rimase stupefatto nel vedersi davanti Amadieu, che salutò la signora Lauer con imbarazzo.
«La madre di Philippe» la presentò Maigret.
Poi, rivolto all'ex collega:
«Vuole che andiamo nella mia camera?».
Salirono le scale senza parlare. Una volta entrati nella stanza, Amadieu, tossicchiando per mascherare il proprio disagio, posò il cappello e l'ombrello, che portava sempre con sé.
«Pensavo di rivederla dopo l'interrogatorio di questa mattina» esordì. «Invece se n'è andato via senza dir niente».
Maigret lo osservava in silenzio: capiva che il suo interlocutore era venuto lì per fare la pace, ma non se la sentiva certo di facilitargli il compito.
«Quelli sono ossi duri, sa! Me ne sono reso conto quando li ho messi a confronto tutti insieme».
Amadieu si sedette e, per darsi un contegno, accavallò le gambe.
«Ascolti, Maigret, sono venuto a dirle che comincio a condividere la sua tesi. Come vede, sono sincero e non le porto alcun rancore».
Il suono della sua voce, però, aveva qualcosa di falso: Maigret capì che Amadieu aveva imparato la lezione a memoria e non stava certo compiendo quel passo di sua iniziativa. Dopo gli interrogatori del mattino doveva esserci stato un conciliabolo fra lui e il direttore della Polizia giudiziaria, ed era stato quest'ultimo a propendere per la sua tesi.
«Ora le chiedo: cosa facciamo?» scandì lentamente Amadieu.
«E io che ne so?».
«Le servono i miei uomini?». Poi, cambiando improvvisamente discorso:
«Le dirò cosa penso della faccenda, poiché ho riflettuto molto mentre interrogavo quei furbacchioni. Lei sa che, quando Pepito è stato ucciso, era lì lì per essere arrestato. Eravamo venuti a sapere che nascondeva un grosso quantitativo di droga al Floria. Proprio per evitare che qualcuno la facesse sparire, avevo messo un ispettore di guardia nel locale fino al momento dell'arresto, che doveva aver luogo all'alba. E invece la roba è sparita lo stesso».
Maigret sembrava non prestargli ascolto.
«Ne deduco che, quando ci metteremo su le mani, prenderemo anche l'assassino. Mi viene voglia di chiedere al giudice un mandato di perquisizione per andare a far visita al nostro Cageot».
«Non ne vale la pena» lo interruppe con un sospiro Maigret. «L'uomo che ha organizzato nei minimi dettagli il confronto di questa mattina non si è certo tenuto in casa un pacco così compromettente. La roba non è da Cageot, e nemmeno da Eugène o da un altro dei nostri amici. A proposito, cosa ha detto Louis dei suoi clienti?».
«Giura di non aver mai visto Eugène, né tanto meno di aver mai giocato a carte con lui. Audiat è stato varie volte nel suo bar a comprare le sigarette, però non hanno mai scambiato una parola. Quanto a Cageot, ha sentito parlare di lui, come tutti a Montmartre, ma non lo conosce di persona».
«E naturalmente non si sono contraddetti a vicenda, vero?».
«Mai! Neanche una volta. E si guardavano pure con aria divertita, come se se la stessero spassando un mondo. Il capo era furibondo».
Maigret non riuscì a reprimere un sorriso, perché le parole di Amadieu dimostravano che non si era sbagliato: a fargli cambiare idea era stato proprio il capo della Polizia giudiziaria.
«Potremmo sempre piazzare un paio di ispettori alle costole di Cageot» riprese Amadieu, che mal sopportava quei silenzi. «Ma è uno che li semina quando vuole. Senza contare che ha molte protezioni, ed è capacissimo di andare a lamentarsi di noi».
Maigret tirò fuori dal taschino l'orologio e lo osservò con insistenza.
«Ha un appuntamento?» domandò Amadieu.
«Sì, fra poco. Se non le spiace, scendiamo insieme».
Mentre uscivano, Maigret chiese notizie della cognata al portiere.
«La signora è andata via pochi minuti fa. Mi ha chiesto che autobus doveva prendere per andare in rue Fontaine».
C'era da aspettarselo! Voleva vedere con i propri occhi il posto dove, secondo l'accusa, suo figlio aveva ucciso Pepito. E ci sarebbe anche entrata, e avrebbe raccontato tutta la storia ai camerieri!
«Passando, le va di prendere qualcosa alla Chope?» propose Maigret.
Si sedettero in un angolo e ordinarono due armagnac d'annata.
«Deve ammettere» si azzardò a dire Amadieu, tormentandosi i baffi «che è impossibile applicare il suo metodo a un caso come questo. Ne discutevamo poco fa con il capo».
Dunque il direttore si stava interessando parecchio alla faccenda!
«E quale sarebbe il mio metodo?».
«Lo sa meglio di me. Di solito lei lavora calandosi nella vita della gente, tenendo conto della mentalità delle persone, finanche di quello che gli è successo vent'anni prima, più che degli indizi. Ma in questo caso ci troviamo di fronte a individui di cui sappiamo pressoché tutto. Che non cercano nemmeno di fingere. Secondo me, preso a quattr'occhi, Cageot non farebbe nessuno sforzo per negare di aver ucciso».
«Infatti non l'ha negato».
«Allora, cosa pensa di fare?».
«E lei?».
«Come primo passo, organizzerei un bel pedinamento. Mi sembra la cosa più indicata. A partire da questa sera, ognuno di loro avrà un mio agente alle calcagna. Dovranno pur andare da qualche parte, parlare con altre persone. Allora interrogheremo anche queste, e…».
«E fra sei mesi Philippe sarà ancora in prigione».
«Il suo avvocato intende chiedere la libertà provvisoria. Dato che l'accusa è solo di omicidio colposo, la otterrà di sicuro».
Adesso Maigret non sentiva più la stanchezza.
«Facciamo un altro giro?» propose Amadieu indicando i bicchieri.
«Con piacere».
Povero Amadieu! Come doveva essere seccato al momento di entrare nel salone dell'albergo! Ora aveva avuto il tempo di riprendersi e ostentava una baldanza poco naturale in lui, riuscendo addirittura a parlare della questione con una certa disinvoltura.
«Del resto, mi chiedo se sia stato proprio Cageot a sparare» aggiunse, buttando giù una sorsata di armagnac. «Ho riflettuto molto sulla sua tesi. E se ne avesse dato l'incarico a Audiat? Lui poteva rimanere in strada, nascosto nell'ombra…».
«Audiat non sarebbe certo ritornato sui suoi passi per scontrarsi con mio nipote e poi dare l'allarme. È uno che parte in quarta ma poi si smonta subito. Un piccolo delinquente di mezza tacca».
«Ed Eugène?».
Maigret scrollò le spalle, non perché lo ritenesse innocente, ma perché gli sarebbe spiaciuto peggiorarne la posizione. Era una sensazione molto vaga, che aveva qualcosa a che vedere con Fernande…
D'altronde, il commissario seguiva appena la conversazione. Con una matita in mano, tracciava sul marmo del tavolino dei segni privi di significato. Faceva caldo, e l'armagnac gli procurava un gradevole senso di benessere, come se tutta la fatica accumulata svanisse a poco a poco.
In quel momento entrò Lucas insieme a un giovane ispettore, e sussultò nel vedere i due commissari seduti fianco a fianco allo stesso tavolo. Maigret gli lanciò un'occhiata d'intesa attraverso la sala.
«Non viene con me fino in ufficio?» gli propose Amadieu. «Potrei mostrarle i verbali degli interrogatori».
«A che servirebbe?».
«Cosa conta di fare?» replicò il suo interlocutore.
Era chiaramente preoccupato da quello che poteva celarsi dietro l'espressione caparbia di Maigret. La sua cordialità era già calata di tono.
«Non dovremmo vanificare i nostri sforzi a vicenda. Anche il capo è di questo parere, e mi ha consigliato di mettermi d'accordo con lei».
«Be', non siamo forse d'accordo?».
«Su che?».
«Sul fatto che Cageot ha ucciso Pepito e che probabilmente, quindici giorni fa, ha ucciso anche Barnabé».
«Non basta che siamo d'accordo su questo, per arrestarlo».
«Non c'è dubbio».
«E allora?».
«Allora niente. O meglio, le chiedo solo una cosa. Immagino che per lei sia facile ottenere dal giudice Gastambide un mandato d'arresto per Cageot».
«E poi?».
«Poi vorrei che al Quai des Orfèvres ci fosse un ispettore sempre pronto con quel mandato in tasca. Appena riceve una mia telefonata, deve solo raggiungermi».
«E dove?».
«Dove sarò in quel momento! Anzi, sarebbe meglio che avesse più di un mandato. Non si sa mai».
«Molto bene. Ne parlerò al direttore» concluse bruscamente Amadieu, la cui faccia pallida aveva ora un'espressione contrariata.
Chiamò il cameriere e pagò solo il primo giro di ordinazioni. Poi continuò per un bel po' di tempo ad abbottonarsi e sbottonarsi il cappotto, nella speranza che Maigret si decidesse a parlare.
«Bene! Le auguro di farcela».
«Grazie, molto gentile».
«Per quando pensa che sarà?».
«Magari fra poco, o forse solo domani mattina. Ma sì, penso che sia meglio rimandare la cosa a domani mattina…» concluse Maigret.
E mentre Amadieu si allontanava si ricordò di ringraziarlo per la visita.
«Dovere!» rispose l'altro.
Rimasto solo, il commissario pagò il secondo giro, e andandosene si fermò un momento al tavolo di Lucas e del suo amico.
«Ci sono novità, capo?».
«Può darsi di sì. Dove ti trovo domani mattina verso le otto?».
«Al Quai des Orfèvres. Ma se preferisce posso anche venire qui».
«Allora ci vediamo qui. A domani!».
Uscì, fermò un taxi e si fece portare in rue Fontaine. Si era fatto buio, e le vetrine erano illuminate.
Passando davanti al Tabac Fontaine, chiese all'autista di rallentare.
Nel piccolo bar la giovane cassiera sedeva pigramente al suo posto, il padrone stava dietro al banco, e il cameriere passava uno strofinaccio sui tavoli. Non c'era traccia, però, né di Audiat, né di Eugène, né del marsigliese.
«Saranno furibondi, stasera, di non poter fare la solita partita!».
Qualche istante dopo il taxi si fermò di fronte al Floria. Maigret chiese all'autista di aspettarlo, poi spinse la porta del locale, che era socchiusa. Era l'ora delle pulizie. L'unica lampada accesa gettava una luce incerta sulle tende e sulle pareti dipinte di rosso e di verde. Sopra ai tavoli di legno grezzo nessuno aveva ancora steso le tovaglie, e sul palco gli strumenti musicali erano chiusi nelle loro custodie.
L'insieme aveva un aspetto squallido e lugubre. La porta dell'ufficio, in fondo al locale, era aperta e all'interno Maigret intravide la figura di una donna. Proseguì, passò vicino a un cameriere che stava spazzando il pavimento, e tutt'a un tratto apparve in piena luce.
«Ah! Sei tu!» esclamò stupita sua cognata. Era diventata rossa e sembrava imbarazzatissima. «Volevo vedere il… la…».
Con la schiena appoggiata al muro, un giovanotto fumava una sigaretta. Era il signor Albert, il nuovo proprietario del Floria, o per meglio dire il nuovo prestanome di Cageot.
«Questo signore è stato molto gentile…» balbettò la madre di Philippe.
«Avrei voluto poter fare qualcosa di più» si scusò il giovane. «La signora mi ha detto di essere la madre del poliziotto che ha ucciso… Be' sì, insomma, che è accusato di avere ucciso Pepito. Ma io non so niente. Ho preso possesso del locale solo il giorno dopo».
«Ancora mille grazie, signore. Vedo che lei capisce cosa vuol dire essere una mamma».
Si aspettava che Maigret le facesse una scenata.
Quando lui la fece salire sul taxi che era rimasto in attesa, si mise a parlare, tanto per dire qualcosa.
«Hai preso il taxi? C'è un autobus così comodo… Puoi fumare, se vuoi… Ci sono abituata…».
Maigret diede all'autista l'indirizzo dell'albergo. Poi, strada facendo, mormorò con voce strana:
«Mi è venuta un'idea per far passare questa lunga serata. Domani mattina dobbiamo essere in forma, con i nervi saldi e la mente fresca. Se ti va, andiamo a teatro».
«A teatro, con Philippe in prigione?».
«Oh, Be', tanto è l'ultima notte».
«Hai scoperto qualcosa?».
«Non ancora. Ma non preoccuparti. Stare in albergo è triste, e poi non abbiamo altro da fare».
«E io che volevo approfittarne per andare a mettere ordine nella stanza di Philippe!».
«No, lo faresti soltanto andare in bestia! A un giovanotto non piace che la madre frughi nelle sue cose».
«Credi che abbia una relazione?».
In queste parole c'era tutta la sua mentalità provinciale, e Maigret la baciò sulla guancia.
«Ma no, stupidona! Purtroppo non ne ha nessuna. Philippe è il ritratto del suo papà».
«Non sono sicura che Émile, prima del matrimonio…».
Era come fare un tuffo nell'acqua limpida… Una volta in albergo, Maigret fece prenotare due posti per il Palais-Royal, e poi, in attesa della cena, scrisse una lettera a sua moglie. Sembrava aver dimenticato l'uccisione di Pepito e l'arresto del nipote.
«Si va a fare baldoria, noi due, questa sera!» annunciò alla cognata. «E se fai la brava ti porto a vedere il Floria in piena azione».
«Ma non ho il vestito adatto!».
Lui fu di parola. Dopo una buona cenetta in un ristorante dei Grands Boulevards poiché non aveva voluto mangiare in albergo, portò la signora Lauer a teatro e vide con soddisfazione che, nonostante tutto, rideva di gusto agli equivoci di una commedia brillante.
«Mi vergogno di quello che mi hai costretta a fare» sospirò tuttavia durante l'intervallo. «Se Philippe sapesse dov'è sua madre a quest'ora!».
«Ed Émile? Ammesso che non stia facendo la corte alla cameriera!».
«Ma se ha cinquant'anni, quella poveretta!».
L'impresa più difficile fu di convincerla ad entrare al Floria, perché era bastato l'ingresso del locale, illuminato dalla luce al neon, a impressionarla. Maigret la condusse a un tavolo vicino al bar, e passando sfiorò Fernande, che era lì in compagnia di Eugène e del marsigliese.
Com'era prevedibile, alla vista della brava donna che Maigret si portava appresso i tre si scambiarono dei sorrisi ammiccanti.
Lui, invece, era al settimo cielo. Sembrava non cercasse altro! Simile in tutto e per tutto a un provinciale in vena di divertirsi, ordinò dello champagne.
«Mi ubriacherò!» si schermì la signora Lauer.
«Meglio così!».
«Sai che è la prima volta che metto piede in un posto simile?».
Faceva tenerezza, tanto era sana moralmente e fisicamente.
«Chi è quella donna che continua a guardarti?».
«È Fernande, una mia amica».
«Se fossi mia sorella, non starei davvero tranquilla. Ha l'aria di essere innamorata di te».
C'era del vero in quell'affermazione, ma anche del falso. In effetti, a tratti Fernande guardava Maigret in modo strano, come se rimpiangesse la loro intimità bruscamente interrotta, ma subito dopo si aggrappava al braccio di Eugène e lo stuzzicava con un'ostentazione esagerata.
«È proprio bello il suo ragazzo!».
«Peccato che domani quel bel ragazzo sarà in galera!».
«Cosa ha fatto?».
«È uno di quei mascalzoni che hanno fatto arrestare Philippe».
«Lui?».
La signora Lauer non riusciva a crederci. E il peggio venne quando, come ogni sera, Cageot si affacciò nel locale per vedere come stavano andando gli affari.
«Vedi quell'uomo che ha l'aria di un avvocato?».
«Quello con i capelli grigi?».
«Sì! Sta' attenta, però. Cerca di non metterti a urlare. È l'assassino».
A Maigret ridevano gli occhi, come se Cageot e tutti gli altri fossero già in sua balia. Gli ridevano al punto che, quando Fernande si voltò a guardarlo, se ne stupì. Poi, fattasi di colpo inquieta e pensierosa, aggrottò la fronte.
Di lì a poco si alzò per andare alla toilette, e passando lanciò un'occhiata a Maigret, che si affrettò a raggiungerla.
«Ha qualche novità?» gli chiese allora Fernande, quasi con cattiveria.
«E tu?».
«Niente. Lo vede anche lei. Stiamo andando via».
Intanto lo spiava di sottecchi e, dopo una pausa di silenzio, gli domandò:
«Lo arresteranno?».
«Per il momento, no».
Lei si innervosì e batté sul pavimento uno dei suoi alti tacchi.
«È un grande amore?» chiese il commissario.
Ma Fernande si stava già allontanando, e rispose soltanto:
«Non lo so ancora».
La signora Lauer trovò molto sconveniente che andassero a dormire alle due del mattino. Maigret invece, appena fu a letto, si addormentò profondamente, e si mise a russare come non gli capitava più da qualche giorno.
Alle otto meno dieci Maigret si fermò davanti al bureau dell'albergo, dove il proprietario, appena arrivato, stava esaminando insieme al portiere di notte il registro degli ospiti. Un secchio di acqua sporca ingombrava il passaggio, e appoggiata al muro c'era una scopa. Con la massima serietà, il commissario la prese e ne esaminò il manico.
«Permette che la usi?» chiese al proprietario.
«Prego…» balbettò quello.
Poi, dopo averci pensato su un momento, domandò preoccupato:
«La sua stanza è per caso sporca?».
Maigret si era appena acceso la prima pipa della giornata, e la stava fumando con aria soddisfatta.
«No, non mi pare» rispose tranquillamente. «Non è la scopa che mi interessa. Mi serve solo un pezzetto del manico».
La donna delle pulizie, che si era avvicinata asciugandosi le mani nel grembiule azzurro, pensò probabilmente che fosse diventato pazzo.
«Non ha per caso un seghetto?» continuò il commissario rivolto al portiere di notte.
«Avanti, Joseph!» dovette ripetergli il padrone. «Va' a cercare un seghetto per il signor Maigret…».
Così, all'insegna di un'amena stramberia, iniziava quella giornata decisiva, un'altra splendida mattinata di sole. Una cameriera passò con un vassoio per la colazione. Il pavimento del corridoio era ancora tutto bagnato. Entrò il postino, che si mise a rovistare nella sua borsa di cuoio.
Maigret, sempre con la scopa in mano, aspettava il seghetto.
«Mi pare che nel salone ci sia un telefono, o sbaglio?» chiese al proprietario.
«Ma certo, signor Maigret. Sul tavolo a sinistra. Le do subito la linea».
«No, non mi serve».
«Non vuole telefonare?».
«No, grazie. Non è necessario».
Entrò nel salone brandendo la scopa, mentre la donna delle pulizie ne approfittava per dichiarare al padrone:
«Vede anche lei che non è colpa mia se non posso far niente. Dopo non mi venga a fare una scenata perché non ho ancora finito la hall».
Il portiere di notte ritornò con un seghetto arrugginito che aveva trovato in cantina. Intanto ricomparve Maigret con la scopa, prese il seghetto e cominciò a tagliare la cima del manico, facendo cadere della segatura sul pavimento appena lavato. Per poter lavorare meglio, aveva appoggiato al bancone la scopa, che sfregava contro il registro sotto gli occhi preoccupati del padrone.
«Ecco fatto! Grazie mille» disse alla fine il commissario, prendendo la rondella di legno che aveva appena tagliato. Subito dopo restituì alla donna delle pulizie la scopa, più corta di qualche centimetro.
«Le serve altro?» domandò il direttore dell'albergo, sforzandosi di rimanere serio.
«Nient'altro, grazie».
Uscì per recarsi alla Chope du Pont-Neuf: anche lì le donne delle pulizie erano entrate in azione armate di secchi. Nella sala in fondo al locale trovò Lucas.
«Sa, capo, dopo averla lasciata, Amadieu si è messo in testa di arrivare per primo a beccare quei tizi e ha mobilitato l'intera squadra. Hanno lavorato tutta la notte. Guardi, posso dirle che lei è stato al Palais-Royal con una signora».
«E che poi siamo andati al Floria. Povero Amadieu! Ma quegli altri?».
«Al Floria c'era anche Eugène. Lo avrà visto di sicuro. Alle tre meno un quarto è uscito con una professionista».
«Fernande, la conosco. Poi ha dormito da lei, in rue Blanche, non è vero?».
«Esatto. La macchina è rimasta parcheggiata lì davanti per tutta la notte. È ancora là».
Maigret ebbe un moto di disappunto, benché non fosse certo innamorato di Fernande. Due giorni prima c'era lui in quell'appartamentino inondato dal sole, mentre la ragazza beveva il suo caffellatte con addosso solo una vestaglia, e fra loro due si era instaurata una fiduciosa intimità.
Non era geloso, ma gli piacevano poco gli uomini come Eugène, che adesso, probabilmente, era ancora mezzo addormentato, mentre Fernande si dava da fare per preparargli il caffè e portarglielo a letto. Chissà con che aria condiscendente le sorrideva!
«Le farà fare tutto quello che vuole!» sospirò. «Continua, Lucas».
«L'amico marsigliese è andato in giro per due o tre locali prima di rientrare al suo albergo, l'Alsina. Adesso dorme di certo, perché non si alza mai prima di mezzogiorno».
«E il piccoletto sordo?».
«Si chiama Colin. Vive con la moglie, perché è legittimamente sposato, in un appartamento di rue Caulaincourt. Quando torna tardi, lei gli fa sempre delle scenate. Era la vicetenutaria del suo bordello».
«A quest'ora, di solito, cosa fa?».
«Va a fare la spesa. Ci va sempre lui, con una grossa sciarpa attorno al collo e le pantofole ai piedi».
«E Audiat?».
«Ha bevuto come una spugna, passando da un bistrot all'altro. Poi, all'una, è ritornato al suo albergo, in rue Lepic, e il portiere di notte ha dovuto aiutarlo a salire le scale».
«Cageot, invece, è a casa sua, immagino?».
Quando i due uomini uscirono dalla Chope du Pont-Neuf, a Maigret parve di vedere tutti quei personaggi sparpagliati attorno al Sacré-Coeur, che emergeva tutto bianco dalla nebbia in cui era avvolta Parigi.
Per dieci minuti buoni il commissario diede a Lucas una serie di istruzioni, parlandogli a voce bassa.
Poi, mentre si congedavano con una stretta di mano, mormorò: «Hai capito bene? Sei sicuro che ti basti mezz'ora?».
«Lei è armato, capo?».
Maigret si batté una mano sulla tasca dei pantaloni, poi fermò un taxi che passava.
«Rue des Batignolles!» ordinò all'autista.
Davanti alla porta socchiusa della guardiola c'era un impiegato del gas.
«Chi cerca?» fece una voce stridula nel momento in cui Maigret attraversò l'androne.
«Il signor Cageot, per favore».
«All'ammezzato, sulla sinistra».
Il commissario sostò un attimo sullo zerbino logoro, riprese fiato, poi tirò il lungo cordone di passamaneria, che produsse all'interno dell'appartamento un suono simile a quello di un sonaglio per bambini.
Anche qui si sentiva lo strofinio di una scopa che ogni tanto urtava contro un mobile. Una voce di donna chiese:
«Va ad aprire lei?».
Poi si udirono dei passi felpati, una catenella che veniva tirata e il rumore di una chiave che girava nella toppa. Infine il battente si aprì, ma solo di pochi centimetri.
Dallo spiraglio si intravide Cageot, in vestaglia, con i capelli in disordine e le sopracciglia più arruffate che mai. Senza dare il minimo segno di stupore, guardò negli occhi Maigret e gli domandò con voce cupa:
«Cosa vuole?».
«Prima di tutto, entrare».
«È qui in veste ufficiale, con un regolare mandato?».
«No».
Cageot fece per richiudere la porta, ma il commissario bloccò il battente infilando un piede nell'apertura e disse:
«Non è meglio se facciamo quattro chiacchiere?».
Il Notaio si rese conto che non sarebbe riuscito a richiudere la porta, e il suo sguardo si fece ancora più torvo.
«Potrei chiamare la polizia…».
«Certo che può! Io però non lo farei. Servirebbe a ben poco. Non preferisce parlare con me a quattr'occhi?».
Alle spalle del Notaio la domestica, vestita di nero, aveva interrotto il suo lavoro e tendeva le orecchie. Tutte le porte dell'appartamento erano spalancate per le pulizie. Sulla destra del corridoio si apriva una stanza piena di sole che dava sulla strada.
«Venga dentro» disse Cageot a Maigret.
Richiuse la porta a chiave, rimise la catenella e aggiunse: «A destra… Nel mio studio».
Era l'alloggio tipico della piccola borghesia di Montmartre, con un cucinino largo poco più di un metro che prendeva luce dal cortile interno, un attaccapanni di bambù nell'ingresso e una sala da pranzo buia, con le tende scure e la tappezzeria a fiori stinta. Nelle intenzioni dell'architetto, la stanza che Cageot chiamava il suo studio avrebbe dovuto essere il salotto, ed era l'unica della casa ad avere due finestre che la rendevano più luminosa. Il parquet era tirato a cera; al centro della stanza facevano bella mostra di sé un tappeto scolorito e tre poltrone ricoperte di una stoffa che aveva assunto la stessa tinta indefinibile. Le pareti color granata erano tappezzate di quadri e di fotografie appesi dentro cornici dorate. Negli angoli c'erano dei tavolini rotondi e degli scaffali carichi di soprammobili di nessun valore. Vicino alla finestra troneggiava una scrivania di ^mogano ricoperta di vecchio cuoio, dietro alla quale andò a sedersi Cageot, che ammucchiò da un lato alcuni fascicoli sparsi qua e là.
«Marthe! La cioccolata me la porti qui».
Non guardava più Maigret. Preferiva aspettare che fosse lui a fare la prima mossa.
Quanto al commissario, dopo essersi sistemato su una sedia un po' troppo fragile per il suo peso, si era sbottonato il cappotto e, mentre si guardava intorno, caricava la pipa picchiettando il tabacco con il pollice.
Una delle due finestre era aperta, di sicuro per via delle pulizie, e quando la domestica arrivò con la cioccolata Maigret chiese a Cageot:
«Le spiace se chiudiamo la finestra? L'altro ieri ho preso freddo e non vorrei che il mio raffreddore peggiorasse».
«Marthe, chiuda la finestra».
Marthe non mostrava alcuna simpatia per il visitatore.
Si capiva da come gli gironzolava intorno e da come, passando, trovò il modo di urtargli una gamba senza nemmeno scusarsi.
L'odore della cioccolata si diffuse per tutta la stanza. Cageot stringeva la tazza con entrambe le mani, come per riscaldarle. Per strada passavano i furgoni adibiti alle consegne, i cui tettucci arrivavano quasi al livello delle finestre, come quelli color argento degli autobus.
La domestica uscì lasciando la porta socchiusa e riprese a sbrigare le sue faccende nell'ingresso.
«Non le offro la cioccolata, perché sicuramente lei avrà già fatto colazione» esordì Cageot.
«Sì, l'ho fatta. Un bicchiere di vino bianco, casomai…».
Ogni frase aveva un peso, anche le parole più insignificanti. Non per nulla Cageot aggrottò la fronte, chiedendosi come mai il suo ospite volesse qualcosa da bere.
Maigret capì e sorrise.
«Ho l'abitudine di lavorare all'aperto. D'inverno fa freddo e d'estate fa caldo. In entrambi i casi vien voglia di bere, e allora…».
«Marthe, porti del vino bianco e un bicchiere».
«Di quello sfuso?».
«Sì. Mi piace di più» rispose Maigret.
La sua bombetta era posata sulla scrivania, di fianco al telefono. Cageot sorbiva la cioccolata a piccoli sorsi, senza distogliere lo sguardo dal commissario. Di mattina era più pallido che di sera, o per meglio dire la sua pelle era incolore, e gli occhi erano dello stesso grigio spento dei capelli e delle sopracciglia.
Aveva la faccia lunga e ossuta. Apparteneva a quella categoria di uomini che sembra siano sempre stati di mezza età. Era difficile immaginarlo da bambino, o quand'era un ragazzino che andava a scuola, o un giovanotto innamorato. Non doveva aver mai tenuto una donna fra le braccia sussurrandole parole dolci. In compenso, le sue mani morbide, piuttosto curate, avevano sempre avuto a che fare con carte di ogni sorta. Probabilmente i cassetti della sua scrivania erano zeppi di appunti, di conti, di fatture.
«Si alza presto, lei» osservò Maigret, dopo avere dato un'occhiata al suo orologio.
«Non dormo più di tre ore per notte».
Era proprio così! Lo si capiva, chissà mai da che cosa, ma lo si capiva.
«E cosa fa? Legge?».
«O leggo o lavoro».
Si stavano concedendo una breve tregua. Avevano tacitamente deciso che la conversazione seria sarebbe iniziata dopo che Marthe avesse servito il vino. Nella stanza non c'erano librerie, ma solo un piccolo tavolo vicino alla scrivania con sopra dei libri rilegati, fra cui il codice e varie opere giuridiche.
«Ci lasci soli, Marthe» ordinò Cageot non appena la donna ebbe posato il vassoio sul tavolo.
Mentre la domestica si dirigeva verso la cucina, il Notaio fu sul punto di richiamarla per farle chiudere la porta, ma poi cambiò idea.
«Si serva pure da solo» disse a Maigret.
Intanto, con la massima naturalezza, aprì un cassetto e ne tirò fuori una pistola automatica che posò sulla scrivania, a portata di mano: un gesto che non ebbe nulla di provocatorio, ma che anzi parve del tutto abituale. Poi allontanò la tazza vuota e si accomodò sulla poltrona, appoggiando i gomiti sui braccioli.
«Sono pronto ad ascoltare la sua proposta» disse allora, col tono di un uomo d'affari a colloquio con un cliente.
«Cosa le fa pensare che io abbia una proposta da farle?».
«Se no, per quale motivo sarebbe qui? Lei non fa più parte della polizia. Dunque non è venuto per arrestarmi, e nemmeno per interrogarmi, dato che non è più sotto giuramento e quel che potrebbe riferire dopo non avrebbe alcun valore».
Maigret assentì con un sorriso, mentre si accendeva la pipa che si era spenta.
«D'altra parte, suo nipote c'è dentro fino al collo, e lei non sa come fare a tirarlo fuori».
Il commissario aveva posato la scatola di fiammiferi sul bordo del cappello, e nel giro di pochi minuti dovette riprenderla in mano almeno tre volte: il tabacco della pipa, forse perché troppo pressato, si spegneva in continuazione.
«Dunque, lei ha bisogno di me, ma io non ho bisogno di lei» concluse Cageot. «Adesso sono pronto ad ascoltarla».
La sua voce era neutra e scialba come la sua persona.
Con una faccia e una voce simile, sarebbe stato perfetto come presidente di tribunale.
«E va bene!» esclamò infine Maigret, alzandosi e muovendo qualche passo nella stanza. «Quanto vuole per tirar fuori dai guai mio nipote?».
«Io? E come potrei?».
Maigret sorrise di nuovo, bonariamente.
«Andiamo! Non faccia il modesto, adesso. Si può sempre disfare quello che si è fatto. Quanto?».
Cageot restò per un attimo in silenzio a riflettere sulla proposta. Alla fine disse: «Non mi interessa».
«Perché?».
«Perché non ho nessun motivo per aiutare questo giovanotto, che ha fatto di tutto per finire dentro. Io non lo conosco neanche».
Di tanto in tanto il commissario si fermava ad osservare un quadro oppure davanti alla finestra, e gettava un'occhiata in strada, dove le massaie si affollavano attorno ai carretti dei venditori ambulanti.
«Per esempio,» mormorò lentamente accendendosi per l'ennesima volta la pipa «se mio nipote venisse scagionato, io non avrei più niente a che fare con questa storia. Come ha detto lei stesso, non faccio più parte della polizia. A dir la verità, le confesso che prenderei volentieri il primo treno per Orléans, e due ore dopo sarei già a pescare sul mio barchino».
«Ma lei non beve!».
Maigret si versò un bicchiere colmo di vino bianco e lo vuotò d'un fiato.
«Quanto ai mezzi di cui può disporre,» proseguì rimettendosi a sedere ed appoggiando i fiammiferi sul bordo del cappello «ce ne sono tanti. Durante il secondo confronto, Audiat potrebbe avere dei vuoti di memoria e non riconoscere formalmente Philippe. Sono cose che succedono tutti i giorni».
Cageot rifletteva, e dal suo sguardo assente Maigret intuì che non lo ascoltava nemmeno. O probabilmente si stava chiedendo: «Perché diavolo è venuto da me?».
Da quel momento in poi, il commissario si preoccupò soltanto di non rivolgere più lo sguardo verso il cappello od il telefono. Ma anche di aver l'aria di uno che pensa solo a quello che dice; in realtà, parlava a vuoto. Per sciogliersi un po', si versò un altro bicchiere e lo bevve.
«È buono?».
«Il vino? Non c'è male. So già cosa sta per rispondermi. Una volta scagionato Philippe, l'inchiesta riprenderà alla grande, perché la giustizia non avrà più in mano nessun colpevole».
Cageot alzò impercettibilmente la testa, interessato al seguito del discorso. In quello stesso istante, un pensiero attraversò la mente di Maigret, che all'improvviso si fece tutto rosso in volto.
Cosa sarebbe successo se, proprio allora, Eugène, oppure il marsigliese, o il padrone del bar tabacchi, o chiunque altro avesse telefonato a Cageot? Era una cosa possibile, anzi addirittura probabile. Il giorno prima l'intera banda era stata convocata al Quai des Orfèvres, e fra i suoi membri doveva regnare una certa agitazione. Cageot non aveva forse l'abitudine di dare ordini e di ricevere rapporti per telefono?
Ma per il momento il telefono non funzionava, e doveva rimanere così ancora per parecchi minuti, se non addirittura per un'ora buona.
Non a caso il commissario aveva posato il cappello sulla scrivania in modo tale che il suo interlocutore, dal punto in cui si trovava, non potesse vedere la base dell'apparecchio. E mentre continuava a prendere e posare i fiammiferi, aveva infilato sotto la cornetta la rondella di legno che si era procurato poche ore prima. In altre parole, Cageot non poteva ricevere telefonate, ma la loro conversazione veniva registrata alla centrale, dove Lucas era in ascolto insieme a due stenografi che sarebbero serviti da testimoni.
«Certo, lo capisco, lei ha bisogno di un colpevole» mormorò Maigret guardando il tappeto.
E se Eugène, allarmato perché non riusciva a telefonare, fosse corso lì? Gli sarebbe toccato inventare qualcos'altro! Anzi, non ci sarebbe stato proprio niente da fare, perché a quel punto Cageot avrebbe tenuto gli occhi ben aperti!
«Non è difficile trovarlo» riprese Maigret, cercando di non tradire l'emozione. «Basta pescare un ragazzo qualsiasi che abbia all'incirca la corporatura di mio nipote. Ce n'è un sacco, a Montmartre. E ce ne sarà pure uno che le farebbe piacere veder finire in galera! Bastano un paio di testimoni e il gioco è fatto!».
Maigret, che cominciava ad aver caldo, si tolse il cappotto e lo posò sulla spalliera di una sedia.
«Lei permette, vero?».
«Potremmo aprire la finestra» propose Cageot.
Per carità! Con il rumore che arrivava dalla strada, gli stenografi all'altro capo del filo rischiavano di perdere la metà delle frasi pronunciate.
«No, grazie. È il raffreddore che mi fa sudare tanto. L'aria fredda sarebbe ancora peggio. Stavo dicendo…». Vuotò il bicchiere e caricò di nuovo la pipa.
«Non le dà fastidio il fumo, vero?».
Nell'ingresso si sentivano i passi della domestica che continuava ad andare avanti e indietro, ma ogni tanto si fermava ad origliare.
«Basta che lei dica un prezzo. Quanto costa un'operazione del genere?».
«La galera!» fu la risposta inequivocabile di Cageot.
Il commissario sorrise, ma iniziava ad avere qualche dubbio sul suo piano.
«Be', se ha tanta paura, faccia lei una proposta».
«Non ho bisogno di fare proposte, io! La polizia ha arrestato un uomo accusato di avere ucciso Pepito. Sono fatti suoi! Ogni tanto, è vero, faccio dei piccoli favori a quelli di rue des Saussaies e del Quai des Orfèvres. Ma in questo caso non so niente. Mi spiace per lei…».
Fece per alzarsi e mettere fine al colloquio.
Bisognava escogitare immediatamente un diversivo.
«Vuole che le dica cosa succederà?» chiese lentamente Maigret.
Marcò una pausa, poi, scandendo ogni sillaba, disse:
«Tempo due giorni, e lei sarà costretto a far fuori il suo amico Audiat».
Il tiro era andato a segno, Maigret ne era certo. Cageot evitava di guardare il suo interlocutore, che invece, temendo di perdere il vantaggio ottenuto, proseguì:
«Lo sa meglio di me! Audiat non è che un ragazzo. Inoltre, credo che faccia uso di droghe, perciò è un tipo che si impressiona facilmente. Da quando gli sto addosso fa un errore dopo l'altro, è tutto agitato, e l'altra notte, nella mia stanza, ha praticamente vuotato il sacco. Naturalmente, sapevo bene che lei l'avrebbe aspettato davanti al portone del Quai des Orfèvres per impedirgli di ripetere quel che mi aveva raccontato. Ma se le è andata bene una volta, non è detto che sarà sempre così. La notte scorsa, Audiat l'ha passata a ubriacarsi nei bistrot, e stasera ricomincerà. In più, avrà sempre qualcuno alle calcagna…».
Cageot si manteneva rigorosamente immobile, con gli occhi fissi sulla parete color granata.
«Vada avanti» disse tuttavia con naturalezza.
«È proprio necessario? Come pensa di poter sopprimere un uomo sorvegliato giorno e notte dalla polizia? Se non lo ammazza, Audiat parlerà certamente. È chiaro! Ma se lo ammazza, la beccheranno subito, perché è molto difficile far fuori uno guardato a vista».
Un raggio di sole che filtrava dai vetri sporchi stava scivolando sulla scrivania, e di lì a poco avrebbe raggiunto il telefono. Maigret aspirava il fumo a rapide, nervose boccate.
«Allora, cosa mi risponde?».
Senza alzare la voce, Cageot ordinò:
«Marthe, chiuda la porta!».
La donna eseguì, borbottando qualcosa. Poi, abbassando il tono di voce al punto che Maigret si chiese se alla centrale avrebbero potuto sentirlo, il Notaio scandì:
«E se Audiat fosse già morto?».
Nel pronunciare questa frase non aveva battuto ciglio.
Maigret si ricordò della conversazione avuta con Lucas alla Chope du Pont-Neuf. Il brigadiere non gli aveva forse detto che Audiat, pedinato da un ispettore, era ritornato al suo albergo, in rue Lepic, verso l'una? E quell'ispettore doveva per forza essere rimasto lì di guardia per tutta la notte.
Con la mano appoggiata sul cuoio logoro della scrivania, a pochi centimetri dalla pistola, Cageot riprese:
«Vede bene che la sua proposta non sta in piedi. La credevo più in gamba».
E, dopo una pausa, soggiunse:
«Se vuole saperne di più, può telefonare al commissariato del XVIII arrondissement».
A Maigret si gelò il sangue nelle vene. Cageot avrebbe potuto tendere una mano, afferrare la cornetta e porgergliela, ma non lo fece, e il commissario tirò un sospiro di sollievo, affrettandosi a dire:
«Le credo. Ma non ho ancora finito».
Non aveva la minima idea di quel che avrebbe detto. Comunque, doveva assolutamente rimanere lì. Bisognava ad ogni costo indurre Cageot, a pronunciare determinate parole che lui sembrava invece voler evitare come la peste. Fino a quel momento non aveva mai negato l'omicidio.
Ma non aveva neanche pronunciato una sola frase, una sola parola che potesse essere considerata come una confessione.
Maigret s'immaginava Lucas intento ad ascoltare febbrilmente quella conversazione con la cuffia attaccata alle orecchie, passando da momenti di speranza ad attimi di cupo sconforto, che diceva agli stenografi:
«Lasciate perdere, questo non vale la pena di trascriverlo».
E se Eugène o qualcun altro avessero tentato di telefonare?
«È sicuro di dovermi dire qualcosa d'importante? Devo andare a vestirmi».
«Le chiedo ancora cinque minuti».
Il commissario si versò da bere e si alzò come un uomo un po' su di giri che si appresti a fare un discorso.