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Nel momento in cui, verso l'una e mezzo, Maigret spinse la porta del Tabac Fontaine, il padrone, che si era appena alzato, stava scendendo len­tamente la scala a chiocciola che portava nel re­trobottega.

L'uomo aveva la stessa corporatura del commissario, grossa e robusta, anche se era meno alto di lui. Dai suoi capelli intrisi di acqua di Colonia e dai residui di borotalco sotto i lobi delle orecchie si capiva che aveva appena finito di lavarsi. Non por­tava la giacca e neanche il solino. La sua camicia era di un bian­co smagliante, leggermente inamidata, chiusa al collo da un bottone.

Arrivato dietro al banco, spinse via il cameriere con un gesto svogliato della mano, afferrò una bottiglia di vino bianco e ne versò un po' in un bicchiere; poi vi mescolò dell'acqua minera­le e, rovesciata la testa all'indietro, iniziò a farsi i gargarismi.

A quell'ora nel locale c'erano solo clienti di passaggio che entravano a bersi un caffè in tutta fretta. L'unico seduto vicino alla finestra era Maigret, ma il padrone non si accorse di lui: si mise addosso un grembiule azzurro e poi si diresse verso la cassa a cui sedeva una ragazza bionda, addetta anche alla ven­dita dei tabacchi. Senza neanche rivolgerle la parola, come a­veva fatto con il cameriere, aprì il cassetto, consultò un taccui­no e alla fine si allontanò, ormai del tutto sveglio.

La sua giornata era appena iniziata, e la prima cosa che vide ispezionando il suo campo d'azione fu Maigret, che lo stava osservando tranquillamente. Non si erano mai incontrati. Eppure il padrone corrugò le sopracciglia, che aveva folte e nere. Era evidente che stava frugando nella memoria senza riuscire a trovarvi niente e ne era contrariato. Eppure non poteva certo prevedere che quel placido cliente sarebbe rimasto lì per ben dodici ore!

Come prima cosa, Maigret si avvicinò alla cassa e chiese alla ragazza bionda:

«Ha un gettone del telefono?».

La cabina si trovava in un angolo del caffè, sulla destra. Era chiusa solo da una porta a vetri smerigliati, e Maigret, vedendo che il padrone stava all'erta, formò il numero con gesti energici perché da fuori si sentisse.

Nel frattempo, però, con un coltellino che teneva nell'altra mano tagliò il filo nel punto esatto in cui fuoriusciva dal pavi­mento, cosicché nessuno se ne potesse accorgere.

«Pronto!… Pronto!…» gridava.

Uscì con aria imbestialita e chiese: «Il telefono è guasto?».

Il padrone guardò la cassiera, che replicò sorpresa:

«Fino a qualche minuto fa funzionava. Lucien ha telefonato per le brioche. Non è vero, Lucien?».

«Meno di un quarto d'ora fa» confermò il cameriere.

Pur non sospettando ancora nulla, l'uomo guardò di sottec­chi Maigret. Entrò nella cabina, cercò di ottenere la comunica­zione e ci si intestardì per dieci minuti buoni senza accorgersi del filo tagliato.

Intanto Maigret, imperterrito, era tornato al suo posto e a­veva ordinato un'altra birra. Si stava armando di pazienza, perché sapeva bene di dover rimanere per molte ore, seduto su quella sedia davanti al tavolino di finto mogano, a guardare il bancone di zinco del bar e il gabbiotto di vetro della cassa, do­ve la ragazza vendeva tabacco e sigarette.

Uscendo dalla cabina, il padrone la richiuse con un calcio, si diresse verso la porta del locale e sostò un momento lì a respi­rare l'aria della via. Era vicinissimo a Maigret, che non lo perdeva di vista, ma dopo qualche istante, sentendo quello sguar­do fisso su di sé, si voltò di scatto.

Il commissario non batté ciglio. Non si era neanche tolto il cappotto e il cappello, come se stesse per andarsene.

«Lucien! Va' qui di fianco a telefonare perché vengano a ri­parare l'apparecchio».

Il cameriere uscì di corsa, ancora con lo strofinaccio sporco in mano, e il padrone si mise a servire due muratori appena ar­rivati, che, ricoperti com'erano da uno strato di calce, sembra­vano due clown.

Quando, circa dieci minuti dopo, Lucien rientrò annuncian­do che l'operaio non sarebbe arrivato che l'indomani, il padro­ne non ebbe più dubbi, si voltò di nuovo verso Maigret e sibilò fra i denti: «Bastardo!».

Certo, l'epiteto poteva riferirsi all'operaio che non veniva, ma in buona parte era sicuramente indirizzato a quel cliente, in cui il proprietario aveva riconosciuto infine un poliziotto.

Erano le due e mezzo, e quello fu soltanto il prologo di un'in­terminabile commedia, della quale nessuno si accorse. Il pa­drone si chiamava Louis. Alcuni avventori, che lo conoscevano, andavano a stringergli la mano e a scambiare qualche parola con lui. Raramente serviva ai tavoli; di solito se ne stava dietro al banco, fra il cameriere e la ragazza della cassa.

E intanto teneva d'occhio Maigret. Nessuno dei due dava se­gno di imbarazzo. La cosa poteva anche sembrare ridicola: due uomini adulti, grandi e grossi, che giocavano a chi ride per primo!

In realtà, sia l'uno che l'altro non erano per niente stupidi. Louis sapeva benissimo cosa stava facendo quando, di tanto in tanto, lanciava un'occhiata verso la porta a vetri con la paura di veder arrivare una certa persona…

A quell'ora in rue Fontaine si svolgeva una vita normale, come in una qualsiasi altra strada di Parigi. Di fronte al bar c'e­ra una drogheria italiana dove le massaie della zona andavano a fare la spesa.

«Cameriere! Un calvados».

La cassiera, una bionda dall'aria indolente, guardava Maigret sempre più sorpresa. Quanto al cameriere, aveva fiutato qualcosa di strano, e ogni tanto strizzava l'occhio al padrone.

Qualche minuto dopo le tre un'automobile chiara, di grossa cilindrata, si fermò vicino al marciapiede.

Ne scese un uomo alto, scuro di capelli, ancora giovane, con la guancia sinistra sfregiata da una cicatrice. Entrò nel bar e te­se la mano al di sopra del bancone di zinco.

«Salve, Louis».

«Salve, Eugène».

Maigret vedeva il padrone di faccia e il nuovo arrivato rifles­so nello specchio.

«Una menta, Lucien. Veloce!».

Era uno dei giocatori di belote, probabilmente il padrone del bordello di Béziers di cui aveva parlato Fernande. Portava biancheria di seta, abiti di buon taglio ed emanava anche lui un leggero profumo.

«Hai visto il…».

Non terminò la frase perché Louis gli aveva fatto capire con un cenno che qualcuno lo stava ascoltando. Allora Eugène alzò gli occhi, e nello specchio incrociò lo sguardo di Maigret.

«Uhm! Mettici un po' di seltz, Lucien».

Prese una sigaretta da un astuccio con le iniziali dorate e l'accese.

«Bel tempo, eh?».

Era stato il padrone a parlare, con fare ironico, e intanto continuava ad osservare Maigret.

«Bello sì. Però qui da te c'è uno strano odore».

«Che odore?».

«Puzza di bruciato».

Scoppiarono a ridere tutti e due, mentre Maigret seguitava ad aspirare con calma il fumo della sua pipa.

«Ci vediamo dopo?» domandò Eugène tendendo di nuovo la mano. Voleva sapere se più tardi ci sarebbe stata la solita riunione.

«Certo, a dopo».

La conversazione aveva ridato brio a Louis, che si avvicinò a Maigret con uno straccio sporco in mano e con un sorriso bef­fardo sulle labbra.

«Permette?».

Pulì il tavolo con tanta malagrazia che rovesciò il bicchiere versandone il contenuto sui pantaloni del commissario.

«Lucien! Porta un altro calvados al signore».

E aggiunse, in tono di scusa:

«Naturalmente, offre la casa!».

Anche Maigret aveva sulle labbra un vago sorriso.

Alle cinque furono accese le lampade, ma fuori c'era ancora abbastanza chiaro perché si potessero distinguere sul marcia­piede i clienti che stavano per entrare.

Così, nell'istante in cui Joseph Audiat posò la mano sulla maniglia della porta, Louis e Maigret si guardarono,quasi di comune accordo, e da quel momento in poi fu come se si fosse­ro detti tutto: non c'era più bisogno di parlare del Floria, di Pepito o di Cageot.

Maigret sapeva, e l'altro sapeva che lui sapeva.

«Salve, Louis!».

Audiat era di bassa statura, vestito di nero, aveva il naso un po' storto e le pupille sempre in movimento. Arrivato al ban­cone, tese la mano alla cassiera e disse: «Buongiorno, bellezza».

Poi, rivolto a Lucien: «Un pernod, giovanotto».

Parlava molto, e sempre con l'aria di un attore che stia reci­tando. Ma a Maigret bastò osservarlo pochi secondi per capire che sotto quell'apparenza si celava una sorta d'inquietudine, tradita peraltro da un tic nervoso: non appena il sorriso gli si spegneva sulle labbra, immediatamente lo recuperava con uno sforzo.

«Non è ancora arrivato nessuno?».

Il caffè era vuoto, tranne per due clienti che stavano in piedi davanti al banco.

«È passato di qui Eugène».

Il padrone ripeté la scena di prima e con un cenno gli indicò Maigret. Meno diplomatico di Eugène, Audiat si voltò con un movimento brusco, guardò il commissario negli occhi e sputò per terra.

«E a parte questo?…» chiese poi.

«Nient'altro. Hai vinto?».

«Un corno! Mi avevano passato una soffiata, ma quel brocco ha fatto cilecca. Avevo delle possibilità nella terza corsa, ma il cavallo non va a sbagliare la partenza? Dammi un pacchetto di Gauloises, bellezza».

Non stava fermo un momento, si appoggiava prima su una gamba, poi sull'altra, agitava le braccia e muoveva la testa.

«Si può telefonare?».

Nuovo sguardo di Louis a Maigret.

«Niente da fare. Quel signore là ha distrutto l'apparecchio».

Era guerra aperta. Audiat non si sentiva tranquillo. Ignoran­do quello che era successo prima, temeva di fare una gaffe.

«Ci vediamo stasera?».

«Certo, come al solito!».

Audiat bevve il suo pernod e se ne andò. Louis, invece, si se­dette al tavolo vicino a quello di Maigret, dove Lucien gli servì il pranzo che aveva preparato sul fornello del retrobottega.

«Cameriere!» chiamò il commissario.

«Eccomi! Fa nove franchi e settantacinque…».

«Mi porti due panini al prosciutto e un'altra birra».

Louis stava mangiando dei crauti riscaldati e due salsicce dall'aspetto invitante.

«C'è ancora prosciutto, signor Louis?».

«Forse ce n'è un vecchio avanzo nella ghiacciaia».

Mangiava rumorosamente, accentuando la volgarità dei suoi gesti. Maigret si vide mettere davanti due panini secchi e rag­grinziti, ma fece finta di non accorgersene.

«Cameriere! Della senape…».

«Non ce n'è».

Le due ore successive passarono più velocemente, perché il bar fu invaso da passanti che si fermavano a prendere l'aperi­tivo. Anche il padrone allora si degnò di servire ai tavoli. La porta si apriva e si chiudeva in continuazione, e ogni volta Maigret veniva investito da una corrente d'aria gelida.

Infatti cominciava a far freddo. Per un po' si videro passare degli autobus zeppi di passeggeri, alcuni dei quali appollaiati sulla piattaforma. Poi, a poco a poco, la strada si svuotò. Dopo le sette, al baccano seguì una calma inattesa, che preludeva all'animazione tutta particolare della notte.

L'ora più noiosa fu tra le otto e le nove. Ormai il caffè era vuoto. Il cameriere stava cenando anche lui. La cassiera bionda era stata sostituita da una donna sulla quarantina, che comin­ciò a impilare tutte le monete della cassa facendone tanti muc­chietti. Louis era salito nella sua camera e, quando ne ridiscese, aveva indosso una giacca e la cravatta.

Poco dopo le nove comparve per primo Joseph Audiat, il quale, dopo aver controllato se Maigret c'era ancora, si diresse verso Louis.

«Tutto bene?».

«Sì, tutto bene. Non c'è motivo perché vada male, no?».

Ma Louis aveva perso la bella disinvoltura che ostentava nel pomeriggio. Pareva affaticato, e guardava Maigret con minor sicumera. E anche il commissario sembrava stanco, ormai. Gli era toccato bere di tutto, dalla birra al caffè, dal calvados all'acqua minerale. Sul suo tavolino c'erano ben sei o sette sot­tocoppe, e gli toccava bere ancora!

«To'! Ecco Eugène ed il suo amico».

Dalla macchina azzurra, parcheggiata anche stavolta vicino al marciapiede, erano scesi due uomini. Nel bar entrò Eugène, che indossava lo stesso abito del pomeriggio, seguito da un ti­zio più giovane, un po' timido, che sorrideva a tutti.

«E Oscar?».

«Arriverà di sicuro».

Eugène strizzò l'occhio indicando Maigret, avvicinò due tavolini e prese da uno scaffale il tappeto rosso e le fiches.

«Cominciamo?».

Insomma, ognuno recitava la sua parte. Ma a condurre il gioco erano Eugène ed il padrone del locale, soprattutto il pri­mo, che essendo appena arrivato era ancora fresco di forze. Aveva i denti di un bianco splendente, e una carica di genuina vitalità che doveva aver fatto impazzire più di una donna.

«Stasera, almeno, ci vedremo meglio!» disse.

«Perché?» chiese Audiat che, da quel momento in poi, era destinato a capire sempre le cose per ultimo.

«Perché abbiamo uno che ci regge il moccolo, no?».

Alludeva ovviamente a Maigret, che si stava fumando la pipa a neanche un metro da loro.

Louis, con gesto rituale, prese la lavagnetta e il gesso. Era lui, infatti, che abitualmente teneva il punteggio. Tracciò le co­lonne ed in cima a ciascuna segnò le iniziali dei giocatori.

«Cosa prendete?» chiese il cameriere.

Eugène socchiuse gli occhi, guardò il bicchiere di calvados di Maigret e rispose:

«Quello che ha preso il signore!».

«Acqua minerale con sciroppo di fragola» fece Audiat, un po' a disagio.

Il quarto giocatore aveva l'accento di Marsiglia e doveva es­sere arrivato a Parigi da poco. Imitava in tutto e per tutto Eugène, per il quale sembrava nutrire una profonda ammirazio­ne.

«Senti un po', Louis, la caccia non è ancora chiusa, no?».

Questa volta neanche il padrone capì.

«E cosa ne so, io? Perché me lo chiedi?».

«Perché pensavo a quelli che tornano a mani vuote».

Anche quest'ultima battuta era riferita a Maigret. E subito dopo, mentre venivano distribuite le carte a ogni giocatore che le disponeva a ventaglio nella mano sinistra, arrivò la spiega­zione.

«Poco fa sono andato a trovare quel signore».

Il che significava: «Sono andato ad avvisare Cageot».

Audiat alzò la testa di scatto.

«E cosa ha detto?».

Louis aggrottò le sopracciglia, probabilmente perché pensa­va che si stesse andando troppo in là.

«Si diverte un sacco! A quanto pare, si sente come a casa sua e sta preparando una festicciola…».

«Atout di quadri… Terza alta… Basta?».

«QURftR».

Si capiva che Eugène era su di giri e non pensava minima­mente al gioco, ma stava meditando nuove frecciate.

«Quelli di Parigi» mormorò tutt'a un tratto «vanno a passare le vacanze in campagna, per esempio nella Loira. La cosa ridi­cola è che quelli della Loira vengono a passare le vacanze a Pa­rigi!».

Finalmente ce l'aveva fatta! Non aveva resistito alla tenta­zione di far capire a Maigret che era al corrente di tutto. Ma lui continuava a fumarsi la pipa, scaldando il bicchiere nell'incavo della mano prima di sorseggiare il suo calvados.

«Sta' attento a come giochi!» lo rimbeccò Louis, che di tanto in tanto guardava verso la porta con aria preoccupata.

«Atout… E ratatout. Venti di belote e dieci di chiusura».

Entrò un nuovo personaggio, che aveva l'aspetto di un pic­colo bottegaio del quartiere, strinse la mano a tutti e senza dire una parola si sedette fra Eugène ed il suo amico marsigliese, un po' più indietro.

«Tutto bene?» chiese Louis.

Il nuovo arrivato aprì la bocca, ma non ne uscì che un filo di voce: era completamente afono.

«Sì, tutto bene!».

«Hai visto?» gli urlò nell'orecchio Eugène, lasciando inten­dere che l'uomo era anche sordo.

«Visto cosa?» rispose l'altro con voce flebile.

Qualcuno dovette pestargli un piede sotto al tavolo, perché il sordo finì per volgere lo sguardo verso Maigret, fissandolo poi a lungo. Infine abbozzò un sorriso.

«Ho capito».

«Atout di fiori… Passo…».

«Anch'io…».

Rue Fontaine aveva ripreso a vivere. Erano state accese le insegne luminose dei locali, e sui marciapiedi i portieri erano pronti ai loro posti. Quello del Floria venne a comprare delle sigarette senza che nessuno lo degnasse di uno sguardo.

«Atout di cuori…».

Maigret aveva caldo. Si sentiva tutto il corpo anchilosato, ma non lasciava trasparire niente, e aveva la stessa identica e­spressione di quando, diverse ore prima, aveva occupato la sua postazione.

«Senti un po'» gridò all'improvviso Eugène al suo vicino du­ro d'orecchi, nel quale Maigret aveva riconosciuto il proprieta­rio di un bordello della rue de Provence. «Come chiameresti un fabbro che non fa più serrature?».

Il buffo di quella conversazione era che Eugène doveva urla­re, mentre l'altro rispondeva con voce soave:

«Ma che fabbro?… Non lo so…».

«Io lo chiamerei una nullità».

Tirò una carta, raccolse le altre e tirò di nuovo.

«E un poliziotto che non fa più il poliziotto?».

Il suo vicino finalmente capì. Si illuminò in viso e, con una vocina ancor più flebile, rispose:

«Una nullità!».

Allora scoppiarono a ridere tutti quanti, persino Audiat, la cui risata però si smorzò quasi subito. C'era qualcosa che gli impediva di partecipare all'allegria generale. Si capiva che era preoccupato, nonostante la presenza degli amici, e non soltan­to per via di Maigret.

«Léon!» gridò al cameriere che faceva il turno di notte. «Por­tami un'acquavite».

«Ti dai all'acquavite, adesso?».

Eugène aveva notato che Audiat stava cedendo e lo osservava con occhi severi.

«Forse è meglio che non esageri».

«Esagerare cosa?».

«Quanti pernod hai bevuto prima di cena?».

«Merda!» ribatté Audiat con aria proterva.

«Calma, ragazzi!» intervenne Louis. «Atout di picche!».

A mezzanotte la loro allegria si era ormai appannata.

Maigret se ne stava sempre immobile, con la pipa in bocca e il cappotto ancora addosso. Sembrava che facesse parte del mobilio, o addirittura della parete. Soltanto il suo sguardo era vivo, e passava con calma da un giocatore all'altro.

Audiat fu il primo a dare segni di stanchezza, ma anche il sordo non tardò a manifestare una certa impazienza e finì per alzarsi.

«Devo andare a un funerale, domani. È ora che vada a letto».

«Ma va' all'inferno!» fece Eugène sottovoce, sicuro di non essere sentito. E lo disse così, tanto per dire qualcosa pur di te­nersi in forma.

«Rebelote… Atout… E ancora atout… Passate le vostre car­te…».

Nonostante gli sguardi che gli lanciavano i compagni, Audiat aveva bevuto tre bicchieri d'acquavite ed era diventato pallido, con i tratti scavati e la fronte madida di sudore.

«Dove vai?».

«Me ne vado anch'io» disse alzandosi.

Era evidente che stava male. La terza acquavite, che aveva bevuto per riprendersi, in realtà gli aveva dato il colpo di gra­zia. Louis e Eugène si guardarono in faccia.

«Sembri uno straccio» disse alla fine il secondo.

Era l'una passata. Maigret preparò delle monete e le posò sul tavolino. Eugène spinse Audiat in un angolo e gli parlò a vo­ce bassa ma con una certa veemenza. Audiat resisteva, però al­la fine si lasciò convincere.

«A domani!» fece allora, con una mano già sulla maniglia della porta.

«Cameriere! Quant'è?».

Quando il ragazzo le contò, le sottocoppe caddero rumoro­samente l'una sull'altra. Maigret si abbottonò il cappotto e si diresse verso l'accendino a gas vicino al bancone per accende­re la pipa che aveva appena caricato.

«Buonanotte, signori».

Una volta uscito, seguì il rumore dei passi di Audiat. Eugène, invece, raggiunse il padrone dietro al banco, come per dirgli qualcosa. Louis capì immediatamente e, con discrezione, aprì un cassetto. Eugène ci infilò una mano, poi se la mise in tasca e si avviò alla porta in compagnia del marsigliese.

«Ci vediamo dopo!» disse prima di scomparire nel buio della notte.