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La musica martellante rimbombava nella tromba delle scale. Avanzai con cautela, scavalcando gambe e corpi. Gli altri si accorsero a malapena del mio passaggio, presi com’erano dal loro sballo, completamente abbandonati alla musica o all’abbraccio di una nuova conquista.

Io ero alla ricerca di Spider.

«C’è un party da Baz, sabato sera» aveva detto il giorno dopo la morte del senzatetto. Eravamo di nuovo giù al canale e stavamo tirando sassi a una lattina. «Io ci vado di sicuro. Che fai, vieni anche tu? Dalle dieci in poi. Terzo piano, Nightingale House.»

Mi aveva preso alla sprovvista. L’aveva buttato lì in modo naturale, ma un invito a una festa di sabato sera assomigliava pericolosamente a un appuntamento, e io non avevo nessuna intenzione di impelagarmi in una storia. Mi ero a malapena abituata all’idea di essermi fatta un amico... trovare perfino un ragazzo sarebbe stato un passo troppo grande per me. E comunque, se avessi voluto mettermi con qualcuno sarebbe stato una persona decente. Quando ci pensavo (e mi capitava di rado) mi figuravo un ragazzo carino, magari non da dieci e lode, ma almeno da otto. Non certo uno spilungone irrequieto come Spider, per di più con seri problemi di igiene personale. E con tre settimane scarse di vita davanti.

Però ero curiosa di scoprire se mirava davvero a questo: forse, dopotutto, quei deficienti a scuola avevano visto giusto. Mi ero imposta di stare molto attenta, però, per mettere le cose in chiaro senza sembrare scema da una parte, e senza che lui ci rimanesse male dall’altra. Non sono così bastarda.

«Spider?»

«Che c’è?»

«Sai, riguardo a quello che è successo a scuola, con Jordan... Perché l’hai fatto? Perché gli sei saltato al collo a quel modo?»

Spider aveva aggrottato la fronte. «Quello ti aveva mancato di rispetto, Jem. Si capiva che quello che stavi dicendo era vero, che era quello che provavi sul serio. Non aveva il diritto di prenderti in giro.»

«Sì, lo so già che è un idiota, ma tu che cosa c’entravi? Bella figura hai fatto. Bella figura mi hai fatto fare.»

«Be’, bisognava fargliela pagare, no?»

«Non mi serve un prode cavaliere. So badare a me stessa.»

Un sorrisetto gli era spuntato sulle labbra.

«Non c’è niente da ridere. Hai solo peggiorato la situazione» spiegai con calma. «Adesso le chiacchiere su noi due si sprecano. Battutine, commenti maliziosi...»

Spider aveva distolto lo sguardo e lo aveva abbassato sulle sue mani. Le ferite alle nocche erano quasi guarite.

Mi si era seccata la bocca, però avevo voluto chiarire bene tutto. «Tu lo sai che non c’è nessun “noi”, vero, Spider?»

Lui aveva alzato lo sguardo. «Eh?»

«Noi non... non stiamo insieme. Siamo solo amici, ok?»

«Certo, ovvio. Solo amici. Giusto.»

Ma, dal modo in cui lo aveva detto, era facile capire che in realtà provava ben altro. Avevo sentito una fitta allo stomaco e avevo maledetto il giorno in cui lo avevo incontrato sotto il ponte. Era così difficile avere a che fare con la gente... Perché mi ero lasciata coinvolgere?

Spider si era alzato in piedi e mi era venuto incontro. «Oh, no!» avevo pensato. «Adesso mi abbraccia! Ma non ha sentito quello che ho detto?»

Invece aveva chiuso la mano a pugno e mi aveva colpito piano sulla spalla. «Ascolta, lo so come sei. Ti ho già promesso che non ti avrei più detto niente di carino e, adesso che hai chiarito bene tutto, prometto che nemmeno farò niente di carino, ok? Se qualcun altro ti mancherà di rispetto, non alzerò un dito. Se ti aggrediscono per strada, farò finta di niente. E se ti vedessi affogare, mi godrei la scena. Contenta?»

Avevo ridacchiato, più rilassata. Così andava meglio: un po’ di ironia, un po’ di distanza. Aveva ragione, cominciava a conoscermi. Nessuno era mai stato capace di prendermi in giro a quel modo, strappandomi un sorriso. Dopo aver fatto di tutto per allontanarlo da me, mi era quasi venuta voglia di abbracciarlo. Quasi. Comunque, naturalmente, non lo avevo fatto.

Allora ci eravamo picchiati le nocche con le mani chiuse a pugno.

«Bella, sorella.»

«Bella, Spider.»

«Allora ci vieni, sabato? Non è un appuntamento, scema, è solo una festa. Tra amici

«Non lo so. Vedremo.»

Ci avevo pensato a lungo. Il dilemma di andare o meno a quel party mi aveva assillato più o meno ogni cinque minuti da quando ero stata invitata a quando mi trovai a salire quelle scale, due giorni più tardi. Avevo deciso di rinunciare alla festa almeno un centinaio di volte. Andarci era una pessima idea per svariati motivi: primo, la gente non mi piaceva e io non piacevo alla gente; secondo, Baz era un noto flippato, un tipo pericoloso dal quale era meglio tenersi alla larga; terzo e ultimo, Karen non mi avrebbe mai dato il permesso di rimanere fuori fino a tardi.

D’altro canto era la prima volta che qualcuno mi invitava a una festa e parte di me voleva accettare e comportarsi da persona normale, almeno per una sera. Alla fine mi ero detta che ci sarei rimasta solo per un po’, tanto per vedere com’era. Nessuno mi costringeva a restare, se non mi divertivo, no? Quanto a Karen, non poteva opporsi né preoccuparsi, se non le dicevo niente.

Ero uscita da camera mia con le scarpe in mano, per evitare di fare rumore sulle scale, ed ero sgattaiolata fuori dalla cucina mentre Karen guardava la televisione in soggiorno. Mi ero allontanata in fretta, protetta dal bozzolo del mio cappuccio. Nella tasca della felpa stringevo il manico di plastica di un coltello che avevo preso in cucina, tanto per sicurezza. Non che avessi intenzione di usarlo (non sono un tipo né aggressivo né violento), ma avevo pensato che un coltello, in caso di rogne, avrebbe tenuto a bada gli eventuali aggressori per il tempo sufficiente a darmela a gambe. E poi il solo fatto di averlo con me mi aveva dato il coraggio di oltrepassare la soglia di casa e di avventurarmi al buio. Era un mio piccolo segreto per aiutarmi a sopravvivere.

Era stato facile trovare l’appartamento di Baz: il volume della musica aumentava man mano che salivo le scale e i ragazzi sulle rampe erano sempre più pigiati.

Speravo di scorgere Spider sul pianerottolo, ma non fui così fortunata: mi toccava cercarlo dentro... e data la quantità di gente che avevo incontrato salendo, qualcosa mi diceva che entrare nell’appartamento non sarebbe stato una passeggiata: avrei dovuto farmi strada a gomitate. Considerando che non conoscevo nessuno e che detestavo il contatto fisico era chiedere un po’ troppo, ma a quel punto tanto valeva andare fino in fondo. Per fortuna, essendo piccola, riuscii a sgusciare in mezzo alla gente senza che nessuno facesse caso a me.

All’interno era molto peggio di come mi ero immaginata: si scoppiava di caldo, la musica era talmente a palla che non ci si sentiva pensare, c’era una calca pazzesca e ogni tanto mi arrivava una zaffata d’ascella, per non parlare della puzza stagnante di fumo, hashish e sudore. E i numeri delle persone continuavano a comparirmi davanti agli occhi. Vie di fuga, zero.

Si dice che l’aspettativa di vita si sia allungata, ma a quanto pare la statistica non vale per i ragazzi di questi quartieri. La maggior parte sarebbe arrivata al massimo a quaranta, cinquant’anni; ben pochi avrebbero compiuto i sessanta. Vittime dello stile di vita, suppongo. Incidenti stradali, alcol, droga, disperazione... Avrei preferito non avere conferme a riguardo, ma purtroppo non avevo un interruttore per spegnere i numeri a mio piacimento.

Avevo fatto circa tre metri quando rimasi intrappolata tra un tizio con la maglietta fradicia di sudore e la sua ragazza inondata di lacca e profumo. Panico. Non c’era la minima possibilità di avanzare e lo spazio dietro di me si era richiuso. Mancava l’aria. Il rumore era talmente forte che sembrava provenire direttamente da dentro la mia testa ed esplodermi fuori dalle orecchie, dagli occhi, dal naso. Stordita com’ero, le mie gambe cedettero per un attimo, ma mi resi conto che non servivano: ero sorretta da quelli che mi stavano intorno.

Poi, attraverso un minuscolo spiraglio tra i corpi, intravidi un disegno conosciuto su una maglietta gialla che saltellava su e giù a ritmo di musica. Spider!

Feci un respiro profondo e mi tuffai in un mare di gambe. Poco dopo riemersi accanto a Spider e gli battei sulla spalla.

Si voltò a metà, sorrise e mi passò il suo lungo braccio intorno alla vita, a dispetto della nostra bella chiacchierata sulle distanze da tenere. Non feci obiezioni. Stretta al suo fianco, il suo odore familiare era quasi un sollievo e, sorretta dal suo braccio, potevo rilassarmi e tirare il fiato.

Mi stava dicendo qualcosa, ma non riuscivo a sentire niente. Allora si chinò e urlò: – Potenti, i bassi! Tieni! –. Con l’altra mano mi porse una canna.

Rintronata e dolorante per il solo fatto di essere arrivata fin lì, la presi senza pensarci.

– Fai un tiro! – mi gridò nell’orecchio. – Roba buona!

Osservai le volute di fumo azzurro levarsi dal mozzicone tra le mie dita. Era solo erba, niente di pesante. Poi pensai a mia madre e a come l’avevo trovata. Aveva cominciato così? Con un innocuo spinello? Be’, non avevo nessuna intenzione di seguire le sue orme. Restituii la canna a Spider.

– Che c’è?! – chiese.

– Niente! Troppo caldo, qui dentro! Devo bere qualcosa!

– Levati la felpa, Jem! O finisce che ti squagli!

Non aveva tutti i torti: sentivo rivoli di sudore colarmi sulla fronte. Mi sfilai la felpa dalla testa, cercando di non colpire nessuno con i gomiti. Naturalmente mi ero dimenticata del coltello, che cadde per terra. Trattenni il fiato, in attesa delle reazioni. Ma i pochi che se ne accorsero si limitarono a sghignazzare.

Qualcuno si chinò a raccogliere il coltello da terra e me lo restituì. – Ehi! A che ti serve?! Anche tra farabutti c’è un codice d’onore!

– Che paura la tua amica, Spider! – esclamò un altro.

Dalla strizzatina d’occhi fu chiaro che mi stavano prendendo in giro. Avevo quindici anni ed ero alta un metro e cinquanta scarso. Decisamente non rappresentavo una minaccia per nessuno.

Spider sogghignò. – Già, è Jem! Non fatela arrabbiare! Piccola, ma pericolosa!

Di solito non mi piace essere al centro dell’attenzione, ma in quel pigia pigia sembrava che stessero parlando di qualcun altro e non mi importava.

A quel punto apparve un tizio grande e grosso che scambiò due parole con Spider. Era ricoperto di tatuaggi. Non esagero: ne era ricoperto, senza un centimetro libero, dalla testa ai piedi. Quelli sulla faccia erano particolarmente impressionanti. Non avevo mai visto un look così estremo.

Spider si chinò a urlarmi nell’orecchio: – Lavoretto da sbrigare! Torno subito!

Rimasi ad arrovellarmi mentre lo guardavo sparire con il suo “collega” in una stanza. Quel tizio tatuato mi aveva squadrata, mentre si avvicinava a Spider, e il suo numero continuava a frullarmi in testa. Non riuscivo a capirne il senso. Anche se non avevo dato neanche un tiro allo spinello, probabilmente stavo respirando ugualmente quella roba: il mio cervello non funzionava a dovere, era più lento del solito. 10122010. Che cosa significava? Poi, a un tratto, riacquistai la lucidità. Il dieci dicembre di quell’anno era la data di morte del tatuato. Quattro giorni prima di Spider... Oh, merda, che stava succedendo?

Senza Spider accanto a me e con quella storia dei numeri a friggermi nel cervello cominciai a sentirmi nervosa. Rimasi insieme agli amici di Spider, ma non conoscevo loro e loro non conoscevano me. Chiusi gli occhi fingendo di abbandonarmi alla musica. Quanto avrei resistito ancora in quel posto? Spider se ne sarebbe accorto se me ne fossi andata? Gliene sarebbe fregato?

A un certo punto qualcosa mi costrinse ad aprire gli occhi: forse un rumore diverso o una pressione improvvisa, non saprei. In ogni caso, l’atmosfera dall’altra parte della stanza si stava surriscaldando: dei ragazzi, tra cui il tizio tatuato, stavano spintonando qualcuno con mani, spalle, gomiti. In mezzo, Spider svettava su tutti. Non c’erano dubbi: ce l’avevano con lui.

Spider teneva alzate le mani come per dire loro di stare calmi, mentre quelli lo accerchiavano e lo pressavano come iene. Era penoso assistere a quella scena. Spider è bello alto, ma è magro come un chiodo, e sembrava così indifeso...

Poi qualcun altro spuntò dalla stanza in fondo, con un cappellino da baseball calcato in testa e un paio di occhiali da sole scuri. Non l’avrei notato, se non fosse stato per il suo modo di atteggiarsi. Non c’era bisogno di presentazioni: quello era Baz, lì dentro il capo era lui. Bastò una sua parola perché gli altri smettessero all’istante di dare addosso a Spider, che manifestò la sua riconoscenza in maniera fin troppo plateale. Ci mancava solo che si mettesse a scodinzolare.

Alla fine tornò da me. – Vieni, Jem! – urlò. – Ora di andare!

Mi afferrò per un braccio e io mi lasciai condurre docilmente verso l’uscita. Non vedevo l’ora di scappare da quel posto. Mi ero pentita di esserci andata.

– Stai bene? – chiesi.

– Certo. È tutto ok. Tutto sotto controllo. Dai, sbrighiamoci.

Continuò ad annuire e a borbottare tra sé e sé mentre attraversavamo la ressa. Non c’era più bisogno di farsi largo: tutti si scansavano per lasciarci passare. Il trambusto nell’angolo non era sfuggito a nessuno, ormai Spider era marchiato.

Sul pianerottolo la temperatura era agghiacciante, dopo la sauna dell’appartamento di Baz. Scendemmo le scale in silenzio. Dato che Spider non dava il minimo segno di volermi spiegare quello che era accaduto, alla fine glielo domandai senza mezzi termini. – Che cazzo sta succedendo?

– Niente.

– Non sono stupida, Spider. All’improvviso ti ritrovi con un impianto stereo nuovo di zecca, un mucchio di soldi e un invito alla festa di Baz, che appena tre settimane fa non ti cagava neanche di striscio. Ho visto quella gente che ti stava intorno. Con chi ti sei messo? In che casino ti sei cacciato?

– No, Jem. Nessun casino. Niente che non si possa risolvere, comunque. Quelli volevano solo... assicurarsi che non facessi il furbo. E non l’ho fatto. Non lo farò. Tutto sotto controllo. Devo solo consegnare un pacchetto e ritirarne un altro.

– Un pacchetto? –. Sentii una stretta al cuore. – Spider, cosa ti hanno costretto a fare?

– Mi limito a dare una mano, niente di più.

Stavamo attraversando la strada principale, quando Spider si diede una rapida occhiata alle spalle prima di infilarsi nell’androne di un negozio. Lì mi fece segno di seguirlo con aria da cospiratore. Il suo modo di fare furtivo era ridicolo. Se in quella strada c’era qualcuno che sembrava sul punto di combinare qualcosa di losco, quello era Spider.

Mi strinsi al suo fianco. Lui aprì il giubbotto e una zaffata del suo odore mi investì all’istante.

– Che stai facendo?

Con il sorriso di chi muore dalla voglia di confessare un segreto, infilò una mano nella tasca interna ed estrasse una busta. Poi si chinò verso di me e sussurrò: – Ci sono duemila sterline, qui dentro.

Io sbirciai nella strada. Non c’era nessuno a portata d’orecchi. – Stai zitto!

Spider sbuffò dal naso. – Ma ti rendi conto? Duemila sterline. Si fidano di me, Jem. Si sono fidati a dare i soldi a me.

– Ma che bravo! E se qualcuno ti scippa o ti succede qualcosa mentre hai addosso quel malloppo, sai cosa ti fanno, quelli?

Il suo ghigno brillò nel buio. – Andrà tutto bene, finché ci sarai tu a proteggermi con il tuo coltello. Mi farai da guardia del corpo.

– Vaffanculo – sbottai. Mi sentivo una deficiente ad aver portato con me quel coltello. – È solo che non mi sentivo sicura a uscire da sola di notte.

– Non ti sto criticando! Anzi, è forte. Ne ho uno anch’io.

– Senti, metti via quella maledetta busta, prima che qualcuno la veda, e andiamocene di qui.

La ripose nella tasca interna e riprendemmo a camminare. Adesso avanzava tutto gasato, con l’aria di un gatto che ha appena catturato un topo.

Non mi piaceva guastargli la festa, ma dovevo farlo ragionare prima che fosse troppo tardi. – Baz ti sta usando, Spider. Anche se devi fare solo una consegna per lui, se non fosse stata una cosa rischiosa l’avrebbe sbrigata da sé, no? Ora quello che rischia di farsi beccare sei tu. Vuoi farti sbattere dentro?

– Tranquilla, filerà tutto liscio. Starò attento. Dammi qualche mese, al massimo un paio d’anni, e dirò addio a tutto questo. Si va molto lontano, con una bella mazzetta di grana in tasca.

Rabbrividii. «Non andrai da nessuna parte, amico. Non ti restano neanche tre settimane da passare in questo buco, tutto qui.»

Quel pensiero mi riempì di tristezza. Stava succedendo una cosa strana, tra me e Spider. Per la prima volta non accettavo di essere una semplice spettatrice, ormai ero coinvolta. Speravo che il suo numero fosse sbagliato, che fosse solo un frutto della mia immaginazione... ma era tutto vero. In un modo o nell’altro, tra poco più di due settimane Spider sarebbe morto. Eppure volevo proteggerlo. Anzi, salvarlo.