Nessuna parola è innocente

La tradizione è un albero.

RAFFAELE LA CAPRIA

Un filare di lettere nere attraversa la pagina e s’interrompe, non arriva a toccare l’altra sponda. Un ponte crollato a metà. I miei pensieri paiono tenere fino a un certo punto, poi d’improvviso si spezzano e non mi resta che guardarli precipitare. «Si alzi, vada fuori» mi aveva detto La Capria un giorno in cui, nel bel mezzo della conversazione, le parole mi avevano abbandonata. Una parola, in particolare, si era persa nelle pieghe della mia mente e non arrivava, mentre io mi sforzavo invano. «Si contrappone a quella…» stavo dicendo, e poi più nulla. Contemplavo il vuoto siderale nella mia testa. La fuga del lessico, che si nascondeva chissà dove. «Mi scusi, non mi viene la parola» mi ero arresa alla fine.

«Quando non viene è inutile sforzarsi di trovarne un’altra» aveva detto lui. «Ce n’è un’unica giusta. La sola cosa che le resta da fare è andare fuori, uscire.»

«Faceva così, quando scriveva?»

«Sì.»

«Cioè, quando non trovava la parola giusta lasciava tutto e se ne andava a passeggio?»

«Esattamente.» Aveva annuito, serio. «A guardare le nuvole. Si alzi, vada fuori.»

«Uno scrittore deve sapere che nessuna parola gli arriva innocente» dice La Capria, mentre il leggero vento estivo porta dentro i fruscii di diverse intensità delle piante sul terrazzo.

«Da dove arriva?»

«Da lontano, dalla formazione della lingua, recando con sé i sensi e i valori che le si sono attaccati addosso lungo il suo cammino.»

«Quindi è esistito un tempo in cui le parole degli uomini sono state innocenti?»

La Capria pensa in silenzio. «Non lo so» dice infine. «Credo di sì, ma si è perso nella stessa notte dei tempi dove si sono smarrite le prime piante, i primi fiumi e laghi, le prime emozioni umane di fronte a tutto questo, i tentativi di esprimerle. I primi fiori e cieli e frutti. Ecco, le parole sono come frutti.»

«Frutti?»

«I frutti si riempiono, si gonfiano nel tempo, cambiano, crescono, si arricchiscono o marciscono. E le parole, pure. Le parole sono cose vive, piene.»

«Chi li produce questi frutti?»

«La tradizione.»

«La tradizione?»

«La tradizione è un albero.» Mi guarda, si sofferma un attimo sull’espressione del mio viso. «Pensi alla parola “amore”. Guardi negli anni le metamorfosi che ha avuto. C’è l’amore classico, quello del dolce stil novo, l’amore dantesco, l’amore shakespeariano, l’amore dannunziano, l’amore impressionista, quello preraffaellita. “Amore” è una parola ma i significati che le sono cresciuti dentro nel corso del tempo sono migliaia.»

«E che deve fare uno scrittore davanti a tutto questo carico di significati?»

«Aggiungere il proprio, direi.»

“Si scrive sempre la propria storia” aveva detto una volta una scrittrice. Non importa quanto diversa possa parere agli occhi degli altri, uno scrittore sa che la storia che scrive è unica e si mostra e si dipana attraverso cento differenti forme.

«Quando la materia di cui si scrive è autobiografica» mi dice La Capria, quasi leggendomi nel pensiero, «è necessario trovare quale sia la cifra della nostra esistenza.»

«Ossia?»

«Una sorta di cifra ermetica che racchiude l’essenza di quello che noi siamo e l’esperienza della vita che abbiamo fatto fino ad allora, di cui abbiamo colto un aspetto che vogliamo narrare. Quel romanzo che non sta scrivendo…»

Alzo in fretta lo sguardo su di lui.

«Come si intitola?» mi chiede.

Quando guardo i suoi occhi calmi e limpidi ho come l’impressione di scorgerne il fondo al di là di un velo trasparente e mobile. “Resta sempre vicino all’idea del mare” gli aveva scritto una volta Annamaria Ortese in una lettera. “Cioè del mondo come acqua. Solo lì è gioia.” Chissà se queste parole le erano state ispirate dai suoi occhi. Se guardandoli aveva provato la stessa cosa.

«Per il tuo bene» mi sento rispondere.

«È un bel titolo.»

«Grazie.» Abbasso lo sguardo. Stupita di parlarne.

«Non è male, proprio non è male» dice lui, quasi tra sé e sé.

“Bene.” A vent’anni ero andata a cercare la parola nel dizionario per chiarirmi le idee, ma anche chi lo aveva redatto mi pareva in difficoltà. Cercavo di figurarmi quale potesse essere la mia idea di bene, e come gli adulti potessero essere tanto certi della sua esistenza, delle sue sembianze. Io non ci riuscivo. La definizione iniziava con un assoluto che a me affascinava, come una di quelle creature mitiche e immacolate che popolavano la terra prima degli uomini: “1. Ciò che è buono in sé, cioè perfetto nella compiutezza del suo essere o nel suo valore morale”.

Mi chiedevo se esistesse un pensiero o un’azione umana che lo fosse, buono in se stesso. Mentre a me pareva che il valore delle cose umane potesse esprimersi solo rapportandolo ad altro: altre azioni, altri pensieri, altre conseguenze, altri uomini.

Avevo scartato quel primo significato, non mi sembrava ce ne si potesse appropriare con un aggettivo possessivo così misero, così personale, come era “tuo”. Quel significato non poteva avere a che fare con me o con nessun altro di noi.

La seconda estensione di senso della parola era: “2. Ciò che è di utilità, di vantaggio”.

Eccolo, il significato di “bene” che loro applicavano alla mia educazione, alla mia vita, quando dicevano: “È per il tuo bene” e l’accompagnavano con le loro costrizioni e i loro veti. Non potevo contestarlo, la strada che mi proponevano era senza ombra di dubbio corrispondente alla loro idea di bene, ma non sapevo dire allora se fosse davvero anche il mio. Loro sì, loro sembravano convinti e me ne convincevano con la sicurezza con cui qualcuno descrive una figura che ha davanti agli occhi. Se l’immagine era così chiara a loro, doveva esistere da qualche parte ed ero io che non la vedevo, come non vedevo null’altro in quel momento della mia vita, in cui avvertivo che i miei sensi mi confondevano e si confondevano.

Mi sentivo triste ed eccitata come tristi ed eccitati mi pareva dovessero essere i vent’anni. Sentivo come fosse in atto una faticosa ma necessaria ricerca del progetto e delle fondamenta della costruzione su cui mi sarei issata per vedere finalmente cosa c’era oltre: il mio bene, miracoloso e potente come un sole al di là delle montagne.

Intanto io e gli altri ventenni parlavamo. Non facevamo che parlare. Chissà se nelle altre età della vita si parla così tanto, ci chiedevamo. Chissà se le parole si usano come ora per quel loro straordinario potere, da rito magico, di farti forza mentre cerchi qualcosa che ti somigli nella vita, o se invece ti costringono ad assomigliare alla vita che altri hanno pensato per te.

A me pareva, a vent’anni, di non sapere più niente dell’esistenza, come se mi ci avessero gettato dentro in quel momento e fossi neonata impotente ma con la coscienza già formata. Tutto quello che pensavo di sapere, tutto quello che avevo osservato, valutato, immaginato non aveva alcun valore. Nulla di ciò che stavo vivendo collimava con l’idea che mi ero fatta dell’età adulta.

Ricordo però che avevamo fede. Più nell’atto stesso di parlare che nelle parole, che in bocca agli altri sembravano tradirci. Appena rimanevamo a gruppi di due o tre si tiravano le nottate, perché ci sembrava che in quei discorsi si risolvesse parte della nostra esistenza. Quelle parole dette tra noi ci partorivano di nuovo, ci restituivano la vista e la concentrazione, mentre i vent’anni ci sembravano un’età così perennemente distratta in avanti. Le parole nella notte, invece, le gettavamo giù come zavorre ed era bellissimo ritrovarci tutti lì per terra, quando fino a quel momento ci eravamo costretti a navigare alto, lontani. Ed era allora, tra di noi, che ci riposavamo dal nostro futuro.

Mi pareva che la vita avesse un perenne movimento ondulatorio, in cui gli eventi, le esistenze, le persone si univano e si allontanavano, come se qualcuno ci stesse suonando la fisarmonica. E mi sentivo in balia di mutamenti che per me avevano la stessa insensatezza che hanno i cambiamenti di accordi nelle partiture.

Il bisogno di partire, per esempio. Che avevamo tutti, quasi tutti. Un bisogno di mettersi alla prova col mondo o di mettere alla prova il mondo. Di sfogare le attese che avevamo accumulato fino ad allora. Chiedetelo a chiunque, chiunque avrà voluto andare via a vent’anni. C’è troppa aspettativa in quella vita da ventenni e troppa responsabilità verso se stessi, sfiducia negli dei o nel destino. Tutti i ventenni avevano smesso di credere agli dei. E gli dei sembravano aver smesso di dare fiducia ai ventenni.

La sensazione di essere magmatici. Di camminare continuando a cambiare forma mollemente: a ogni passo sciogliersi rialzarsi sciogliersi senza mai solidità, senza mai qualcosa di definitivo. L’instabilità dell’anima che cadeva e si riformava e si stupiva di ogni cosa, come della vita.

Così eravamo a vent’anni, quando ci chiedevano di credere al nostro bene o di immaginarlo e programmarlo da noi.

Mi ero fermata, allora, nella lettura della definizione di “bene”, non oltre la seconda accezione di senso che gli attribuiva il vocabolario.

Per il tuo bene. “Non è male, proprio non è male” aveva detto La Capria. “Come mai ha scelto questo titolo?” mi aveva chiesto subito dopo.

Ho ripreso in mano il vocabolario in questi ultimi giorni. Lo stesso: largo e pesante, decine di risme di carta con migliaia di parole chiuse tra due copertine rigide di tessuto, ruvido al tatto. Ho cercato di nuovo il lemma. In fondo, dopo molte righe di costrutti e locuzioni, c’era un terzo significato che a vent’anni non avevo creduto di dover leggere: “3. Amore, affetto” c’era scritto. E, subito dopo, una frase esemplificativa: “Per il bene che io ti porto”.

“Il primo libro non bisognerebbe mai averlo scritto.” Sono le parole di Calvino che La Capria cita a commento di una riedizione del suo primo romanzo, Un giorno d’impazienza. Mi risuonano in testa insieme a quelle che in seguito aveva scritto lui: “Ogni primo libro è una falsa partenza”.

«Non è una frase molto incoraggiante per gli scrittori che stanno scrivendo il primo libro» gli dico.

«Invece dovrebbe. Li incoraggia a fallire.»

«Ah.»

«Faulkner diceva che gli unici metri per giudicare un libro sono l’importanza e la magnificenza del suo fallimento. Senta che splendido incoraggiamento a scrivere!»

Sono andata a cercare una vecchia intervista in cui Faulkner, senza mettere in discussione la grandezza di Hemingway, lo criticava perché non aveva mai osato andare oltre quello che sapeva sicuramente fare. Per lui, per Faulkner, più importante che fare bene era fallire: “Tentare qualcosa che è superiore alle proprie forze perché è impossibile, e nonostante ciò tentare ugualmente, e fallire e riprovare ancora – questo è importante per me, questo è il vero coraggio di un artista”. E io mi sono ritrovata a pensare che l’arte deve sempre essere qualcosa di superiore alle proprie forze, altrimenti non sarebbe tale.

«Lo sa cosa vuol dire “sublime”?» mi domanda. «Sub limen, ossia che bisogna arrivare fin sotto la soglia più alta per superarla» dice poi senza aspettare. «Se ci contentassimo dei nostri limiti, dei nostri confini, non sentiremmo neppure il bisogno di fare arte.»

«Perché ha scritto Un giorno d’impazienza, il suo primo libro?»

«Perché nella letteratura di allora non esisteva nessun libro che parlasse di me. Non c’era nessuno come me, con i miei dubbi, la mia storia, il mio sentire, la cultura che faceva parte della mia vita e la determinava.»

«Si è quindi scavato un proprio posto nella letteratura? Un posto a forma di sé?»

Ride di gusto. «Sì, un prototipo… Il prototipo La Capria.» L’idea sembra divertirlo molto.

Penso a Un giorno d’impazienza, all’irrequietezza che percorre il libro come un tremito, un’energia nervosa trattenuta a stento dalle pagine. «Da dove arrivano i primi libri?»

«Chissà. Ogni primo libro arriva non so da dove, da quello che uno lontanamente è. E poi dai libri di cui siamo formati. La nostra materia, la memoria immaginativa di uno scrittore, non è solo quella che ci viene dall’esistenza vissuta, ma anche da tutti i libri che abbiamo letto.»

«Mi sembra» dico, esitando «ci sia come una sorta di ineluttabilità nel primo libro. Come se ci fossimo costretti e non lo scegliessimo veramente, ma in qualche modo si separasse da noi.»

«Je suis moi-même la matière de mon livre. “Sono io stesso la materia del mio libro”» dice lui.

«Montaigne?»

«Montaigne scrive cose per noi fondamentali, tutt’altro che semplici e ordinarie, come va schermendosi in quel suo prologo. Pensi a questo: C’est ici un livre de bonne foi. Bonne foi, “buona fede”: che espressione bellissima. Tutti i libri dovrebbero essere libri di bonne foi, non crede?»

«Lei ha scritto che ogni primo libro ti condiziona, perché quelli che verranno in seguito, anche se lo contraddicono, non potranno più prescinderne.»

La Capria ha un sorriso accennato e a me dà l’impressione che lo stia trattenendo per una sorta di rispetto dei miei timori.

«Il primo libro condiziona tutti quelli che verranno in seguito, sì. Ma non è così terribile come sembra. Nessun libro è sciolto da legami. Ognuno proviene da un altro e questo da un altro ancora, creando una lunga catena nel tempo in cui sono legati tra loro e si spiegano l’uno con l’altro. Questo è ciò che intendo io per tradizione. Nessuno scrittore può mettersi al di fuori di essa, neppure se lo volesse.»

«Quindi non ci potrà mai essere qualcosa di veramente nuovo?»

«Non ho detto questo. Uno scrittore può essere davvero nuovo solo se non ignora la tradizione, ma anzi la indaga, la conquista, la esplora, la combina con quello che lui stesso è, con la propria materia viva, col proprio talento. Può anche rifiutarla, opporsi a essa, negarla, ma per farlo deve conoscerla. Altrimenti la sua originalità e la sua differenza sarebbero casuali e gratuite, dunque prive di qualsivoglia valore.»

Mi guardo intorno. Dalle pareti mi pare che i libri si sporgano a fissarmi, che tutti loro ricambino il mio sguardo. E mi sembra di vedere, dietro ognuno, altri libri ancora, invisibili, che l’hanno preceduto e in qualche modo covato: ultimo e più recente frutto di un albero genealogico che, nell’intreccio delle radici, lega ogni scrittore a cento altri, in un dialogo che non ha bisogno di contemporaneità, udito, vista e voce. Un dialogo che risveglia anche i morti e li chiama al cospetto dei vivi o, al contrario, si volge intorno ai vivi e li trasporta in un limbo dove morte, spazio e tempo sono nient’altro che concetti poveri di vita.

«La tradizione non è statica, sa?» riprende La Capria. «Non è che se ne sta lì ferma e inamovibile. Non deve vederla come un grosso monolite calato sulle spalle del futuro scrittore. La tradizione è mobile. Cambia. È più come un quadro.»

«Che genere di quadro?»

«Un quadro mai finito. In cui ogni pennellata, anche minima, impercettibile, modifica il disegno generale. Ogni scrittore, ogni nuova aggiunta alla tradizione, non la modifica solo nel punto che tocca ma in tutto l’insieme. La sua voce rinnova e fa mutare tutta la tradizione precedente, retroattivamente.»

«Lei lo ha fatto? Pensa di aver apportato quell’aggiunta?»

«Sì. Ma non solo io, tanti altri l’hanno fatto. Il talento individuale non sarebbe niente se non si accostasse alla tradizione. Come lei non sarebbe se stessa senza il suo passato. Nella tradizione, come nella lettura, come in lei, convivono contemporaneamente passato, presente e futuro.»

«Se lei fosse un albero cresciuto sui libri che ha letto avrebbe i libri letti nell’infanzia e nell’adolescenza alla base, diciamo nelle gambe; il tronco sarebbe fatto dei libri amati in età adulta, la testa da quelli letti in vecchiaia e nelle mani e sulla punta della lingua terrebbe gli ultimi che ha visto e sfogliato» gli dico, il giorno seguente.

La Capria ride di questa immagine. «Lei ha preso la faccenda dell’albero troppo alla lettera» risponde divertito.

Sorrido anch’io. «Non crede però che sia limitante essere radicati nella tradizione? Preferirei più essere un uccello che la foglia di un albero» dico, osservando il riflesso del cielo nel vetro della finestra.

«Niente al mondo esiste senza passato» ribatte lui. «E la letteratura è la nostra memoria, una speciale memoria individuale e collettiva.»

«Perché speciale?»

«Perché non registra date, nomi ed eventi. La letteratura è memoria di ciò che gli uomini hanno da sempre sentito, sognato, immaginato, da oggi andando a ritroso fino a Shakespeare, a Dante e a Saffo, e poi a Omero e a prima ancora di Omero. È l’unica scienza dei sentimenti, la sola storiografia delle emozioni. E poi» aggiunge, volgendo lo sguardo alla finestra «sono piuttosto sicuro che anche gli uccelli abbiano la loro tradizione, quella che ha coniato nel tempo i versi, i voli, le formazioni di picchiata, le rotte delle migrazioni.»

Annuisco. Un gabbiano si è posato sul tetto di fronte e affonda a più riprese il becco nell’intercapedine dell’ala che tiene leggermente scostata dal corpo, come fosse il lembo di una giacca e rovistasse nella tasca interna.

«Per molto tempo» gli dico «mi sono sentita come un arto.»

«Un arto?»

«Un arto del corpo o un ramo o una foglia, è la stessa cosa. Qualcosa di non distinto, non indipendente dal resto della mia famiglia. Da bambina immaginavo spesso di morire e l’idea della mia assenza aveva come un peso più reale della mia esistenza. Lo spazio vuoto della mia mancanza era… non so come dirlo. Mi sembrava l’unica cosa che mi desse il senso di essere me.»

Mentre ne parlo in quel modo concitato, dentro di me sono lucida, calmissima, e mi domando solo di sfuggita perché lo stia dicendo proprio ora, proprio a lui.

La Capria si limita ad annuire, serio. E di quella estrema serietà gli sono infinitamente grata.

«Per il tuo bene è un romanzo familiare, vero?» chiede.

Annuisco e, senza saperlo spiegare, mi sento in imbarazzo.

«Non se ne deve vergognare. Siamo sempre così poco sicuri della nostra interiorità. Io sono arrivato a volte a dubitare di averne una, mi creda. Così passiamo il tempo a tentare in qualsiasi modo di liberarla.»

«Da cosa?»

«Oh, da tutto. A partire da quell’identità collettiva che è, per esempio, la famiglia, o anche, come nel mio caso, la città in cui si è nati.»

«E cos’è che la libera?»

«Soprattutto l’affermazione della propria differenza. Si ricordi, uno scrittore esiste per la sua differenza, per quanto piccola essa sia. La differenza è tutto se stesso, tutto quello che è o può essere, che lo distingue da ogni altro scrittore. È la cosa più preziosa che ha. La conquista faticosamente e deve combattere palmo a palmo per il suo riconoscimento, per non vedersela negata.»

«Come può essergli negata?»

«È piuttosto facile che succeda. Questi, poi, sono gli anni delle piccole differenze, talmente impercettibili che a volte pare addirittura complicato comprendere la differenza tra ciò che è arte e ciò che non lo è. Pensi, per fare un esempio vicino a lei, alle scrittrici, accomunate indistintamente l’una con l’altra solo in virtù del loro genere. O agli scrittori del Sud, omologati nel loro “sudismo”. O anche solo agli scrittori napoletani.»

«Che hanno gli scrittori napoletani?»

«Niente hanno, se non il fatto che spesso viene loro negato ogni diritto alla differenza. La differenza è tutto. Vive la différence! dico io.» Il suo è quasi un grido liberatorio.

Rido, mio malgrado. «Chi nega loro la differenza?» gli chiedo.

«Certi critici, certi lettori. I fan del marchio di fabbrica. Uno scrittore napoletano è made in Naples, quindi ci si aspetta certe cose da lui e, anche se non le ha o non le vuole esprimere, gliele si attribuisce, solo unicamente in base al fatto che è stato bollato come scrittore napoletano.»

«Quindi è un torto fatto particolarmente alla letteratura napoletana?»

«Non esiste una letteratura napoletana. C’è sempre qualcosa di fasullo in questa definizione.»

«Mi scusi. Avevo dimenticato.»

«È un torto che viene fatto ogni volta che in letteratura si indulge a generalizzazioni, schematizzazioni, concettualismi. La letteratura napoletana è solo un gruppo ben nutrito e vario di poveri scrittori che, come i loro colleghi di tutto il mondo, agognano alla loro piccola differenza. E invece, senza curarsi degli anni che li separano, dei diversi stili, mondi poetici, linguaggi, vengono spesso messi tutti insieme nel gran calderone della napoletanità. Le loro voci rischiano di essere soffocate dalle voci ben più potenti provenienti dalla città. Ma, come ho sempre detto, di Napoli bisognerebbe parlare e non esserne parlati, che è il rischio cui va incontro chiunque ne scriva.»

«Roberto Saviano, ma anche altri prima di lui, è stato accusato di averne parlato troppo e di averne parlato male. Di aver rovinato l’immagine di Napoli.»

La Capria fa un gesto di fastidio e il suo tono diventa amaro. «Era già rovinata l’immagine di Napoli da tante parti, e superata anche. Si farà un favore a Napoli quando le si permetterà di uscire dal mito di se stessa, riportandola nel mondo e nel tempo presenti.»

«Io credo di scrivere la mia storia familiare per lo stesso motivo per cui lei ha scritto di Napoli» dico alla fine. «Per parlare del passato e non esserne parlata.»

Mi guarda ma sembra altrove. Mi domando dove sia andato e mi ritrovo a pensare di voler essere lì con lui.

«Lo sa perché la maggior parte di quello che ho scritto è autobiografico?» mi chiede a un certo punto.

«No, non saprei.»

«Me stesso, la mia biografia, erano mezzi. Mezzi e forme di conoscenza. Quella che chiamavo l’autobiografia alta, il mio genere, che poi è dato da un’unione di differenti generi, mi serviva per arrivare a un punto di vista più vasto e, paradossalmente, meno personale. Sa cosa direi a un giovane scrittore se mi chiedesse di dargli un consiglio su questo mestiere di scrivere?»

«Mi darebbe un consiglio sul mestiere di scrivere?»

Sorride. «Deve trovare un modo, il suo modo, di passare dal soggettivo all’universale. Il punto in cui il suo essere se stessa, essere uomo, diventa essere ogni uomo.»

«Come?»

«Esiste già il responso alla sua domanda ed è stato dato agli uomini di molti secoli fa: Gnōthi seautón, conosci te stesso, l’unico vero monito dell’Oracolo di Delfi che ritengo tuttora valido per chiunque. Ma ancor più per uno scrittore.»

«E come si arriva a conoscersi?»

«Tutta la vita ci vuole.»

«Cosa si deve fare?»

«Innanzitutto armarsi della sincérité envers soi-même, della sincerità verso se stessi, come diceva Jacques Rivière. Non bisogna mentire a se stessi. Bisogna scovare dentro di sé i propri piccoli meccanismi di menzogna. Smascherare l’innocente ingannevolezza delle parole. Le pare niente?»

«Lei c’è riuscito?»

«Per fortuna no. Altrimenti avrei smesso di scrivere molto tempo prima. L’importante, io credo, è che possa raccontare me stesso senza avvertire in me nessuna contraddizione. Mi accontento di questo umanissimo traguardo. Ed è quello che auguro anche a lei.»

All’improvviso avverto un peso sullo sterno, mi si chiude il respiro. «Bisogna farlo per forza?» riesco a chiedere a La Capria.

«Cosa?»

«Gli scrittori, non c’è altro modo? Bisogna per forza…»

Penso alla fatica, allo strazio di certe giornate di scrittura. A Orwell che diceva che scrivere un libro è una lotta tremenda, spossante, come un periodo di lunga e penosa malattia. Al modo in cui la scrittura ti tiene ostaggio di te stesso e della tua interiorità, ti costringe ad avanzare mentre spinge, ogni giorno, a ogni frase, il tuo obiettivo più avanti, più dentro, allontanandolo dalla tua portata. Alla frustrante sensazione di inseguire qualcosa che avverti che c’è ed è lì, ma sempre alla fine ti sfugge. Perché se non sfuggisse, a che pro cercare di raggiungerla? All’arrovellarsi notte e giorno sul modo di liberarlo. Cosa? Da cosa? Masse, incrostazioni di te, di sentimenti fasulli, di parole svianti. “Bisogna per forza?” chiedo e mi vorticano nella testa molte parole, tutte inadeguate: darsi, rivelarsi, spogliarsi, squarciarsi. In questo modo così spericolato, così, in fondo, disarmato.

«Sì» risponde La Capria senza aspettare che finisca la frase. «Altrimenti non sarebbe vera letteratura. Lo scrittore è un’ostia» dice con sguardo insolitamente fermo. «Si offre al lettore sotto forma di pagina e dentro di lui si fa carne e sangue. Questa è la sola, necessaria, transustanziazione della scrittura.»