Il mistero del mondo
La poesia riflette il mistero del mondo attraverso il mistero delle parole.
RAFFAELE LA CAPRIA, Letteratura e salti mortali
«“Je suis le Ténébreux, – le Veuf, – l’Inconsolé.” E poi come continua?» mi chiede.
La cerco su internet e leggo lentamente:
Je suis le Ténébreux, – le Veuf, – l’Inconsolé,
Le Prince d’Aquitaine à la Tour abolie:
Ma seule Étoile est morte, – et mon luth constellé
Porte le Soleil noir de la Mélancolie.
Dans la nuit du Tombeau, Toi qui m’as consolé,
Rends-moi le Pausilippe et la mer d’Italie.a
«Quel “Rends-moi le Pausilippe et la mer d’Italie” mi sembrava un fatto privato, rivolto a me solo che lì vivevo e c’ero nato.»
«Di cosa parla la poesia?»
«Ci sono la malinconia, un liuto, un osservatore nella sua torre fragile e diroccata, la nostalgia della bellezza, di un’età felice. Secondo lei chi è le Ténébreux, colui che sente di aver perso qualcosa, ma non sa quando è stato? Forse nemmeno rammenta di essere nato con la sensazione della perdita. Colui che ricorda, forse un tempo mai avuto cui aveva giurato tutto il suo amore, e non trova consolazione?»
Io. Je suis. Lo guardo negli occhi: è lui.
«Pronto? Pronto, signor La Capria? Mi ha chiesto di telefonarle prima di venire.»
Sono le dieci del mattino e Roma non è eccessivamente calda. Tira una brezza piacevole. Ci mettiamo d’accordo per vederci di lì a una mezz’ora. Mentre parlo al telefono passo e ripasso davanti a una bancarella di frutta, verdura e fiori, in una minuscola piazza che pare dimenticata e intatta e ospita un minuscolo mercato, anch’esso come lasciato lì per caso. Il mio sguardo salta di continuo da un mazzo di lavanda dall’aria selvatica a dei fiori di cui non conosco il nome, ma che somigliano un po’ a dei gigli, un po’ a qualcosa di totalmente differente, un fiore più vero e spontaneo di qualunque altro abbia mai visto. Sono di un giallo tenue e vario, screziati da intense venature rosa carminio, e i pistilli sporgono dalla corolla come se cacciassero dalla bocca tre lingue sottili. Mi presento con quelli alla porta della casa di La Capria. Già pentita di averlo fatto.
«Ah, che bei fiori selvatici» mi accoglie lui. «Manca solo un’ape per il mio prato.»
«Come, scusi?»
«“Per fare un prato occorrono un trifoglio e un’ape”» dice quasi cantilenando le parole. «“Un trifoglio e un’ape. / E il sogno. / Il sogno basterà se l’ape se ne va.”»
Lo guardo perplessa.
«È Emily Dickinson. Lei con quei fiori ha fatto poesia: mi ha aperto uno spiraglio sulla realtà e ha fatto sorgere il prato davanti ai miei occhi. Proprio come il trifoglio e l’ape della Dickinson, non crede?»
Mi siedo accanto a lui, apro il mio quaderno.
«Ma non bastano, sa?» aggiunge. «Ci vuole anche il sogno.»
«Cos’è il sogno?»
«È l’ispirazione. È il tramite della mente dello scrittore o del poeta. Vede, c’è un sistema della realtà, che esiste al di fuori e al di là di noi e delle nostre parole, e poi c’è un sistema delle parole, che è unicamente umano ed è controllabile. Sono due mondi totalmente differenti, che obbediscono a leggi diverse, dico proprio leggi fisiche. Eppure tra loro c’è un rapporto, perché accade che se un poeta pronuncia le parole “trifoglio” e “ape”, esso ricrei il prato così come il mondo fisico l’ha generato. Tra i due mondi c’è un rapporto, ma solo il poeta può scoprire questo rapporto.»
«E per farlo ci vuole il sogno?»
«Sì, è grazie al suo sognare che il poeta, con il crivello delle parole, apre uno spiraglio sul sistema della realtà.»
“Casta Diva, che inargenti queste sacre antiche piante.”
«Puoi reggerlo, per favore?» Eravamo nella terrazza di mia nonna, che sembrava un giardino. «Reggi così, ma non stringere» aveva detto mia nonna e mi aveva spostato la mano sulla corolla della rosa. Avevo spalancato la bocca. Quella sensazione liquida sulla mano, di qualcosa che liquido non era ma vellutato, fresco. Non avevo abbastanza parole per esprimere quella scoperta.
«Brava bambina» aveva detto mentre legava piano il collo sottile della rosa a un legnetto piantato nel vaso. «Che hai?» Mi aveva guardato.
Era quella musica che veniva da dentro casa – un’aria della Norma di Bellini –, una voce femminile, tersa, la A tenuta a lungo, modulata come non l’avevo sentita mai, sembrava cento vocali dell’alfabeto, mentre avevo appena imparato a scuola che le vocali erano cinque e solo una era la A. Troppe scoperte. La A infinita e poi quella rosa in mano così delicata, sembrava incredibilmente viva, come un canarino stretto nel palmo. Mi batteva forte il cuore. Le cose così vive facevano paura, sembravano ancora più fragili, come se avessero bisogno di più tempo per farsi una corazza. Quella musica e la rosa insieme mi avevano reso improvvisamente triste, ma non era la solita tristezza di quando avevo fame o sonno o i miei genitori partivano per lavoro. «È la rosa» avevo risposto a mia nonna.
«Che ha la rosa?»
“Mi sembra possa morire” avrei voluto dirle, ma non sapevo come. Era questa però la consapevolezza che avevo confusamente avuto per la prima volta, toccandola. In quel momento mi pareva tutto collegato, la sensazione sulla mano, quella musica e anche mia nonna illuminata dal sole, e sentivo che se la rosa era così fragile, ognuna di loro poteva morire. Ma non era l’idea della scomparsa a dispiacermi, per me troppo lontana, mai provata: era la loro bellezza in quel momento che mi faceva stare male, mi rendeva triste.
Mia nonna inaspettatamente aveva sorriso, mi aveva fatto sedere sul suo ginocchio. «Ti piace la musica?» aveva chiesto. Amava molto la lirica, i libri e i fiori. Io, dopo aver esitato un attimo, avevo annuito.
Mia nonna è morta in un letto antidecubito messo vicino al grande letto matrimoniale dove avevo dormito tante volte con lei, con mia madre e mia sorella. Quando ancora era cosciente voleva ascoltare la Tosca, “Vissi d’arte, vissi d’amore”. Cercava di cantarla con un filo di voce. Leggeva tutto quello che scrivevo, fin da quando ero piccola. Le portavo fogli su fogli che lei conservava in una cartellina di cartone nell’ultimo cassetto della sua consolle di legno. «Tu devi fare qualcosa che ha a che fare con la bellezza» mi aveva detto quando, a diciott’anni, ero corsa da lei disperata, perché non sapevo cosa dovessi fare, se seguire la me che mi tenevo in petto o quello che mi chiedevano di fare gli altri. Lei, dopo quella volta, non aveva voluto più parlarne. Poi era morta e avevamo venduto la casa, con la terrazza fiorita, i mobili e la consolle di legno. Io ogni tanto, dopo la sua morte, sognavo la cartellina di cartone sul fondo del cassetto. Mia madre mi aveva chiesto di andarla a recuperare, ma me n’ero dimenticata ed era troppo tardi, la consolle non esisteva più, né la casa né il cassetto.
“A noi volgi il bel sembiante senza nube e senza vel.” «Ascoltami bene, se ti piace questa rosa, puoi fare una cosa per lei.»
Mi ero sistemata meglio sul suo ginocchio.
«Ogni volta che risentirai questa musica, tu pensa alla rosa, proprio a questa, non a una rosa qualsiasi, e così anche quando non ci sarà più, potrai vederla.»
Ero rimasta a fissarla con un occhio chiuso, controluce, mi pareva che avesse un cerchietto di sole tutto intorno ai capelli.
«Sono due mondi che obbediscono a leggi diverse» sta dicendo La Capria, «eppure tra loro c’è un rapporto.» Ogni volta che sento per caso le parole di Casta Diva rivedo mia nonna, così com’era quel giorno.
«L’importante non è capire ma come si capisce» dice La Capria, mettendosi più comodo sulla poltrona. «Lei capisce per conoscenza di saggezza o per intuizione poetica? Mi spiego: è una che come tramite a questa conoscenza preferisce la poesia o la sapienza? Perché sono due tipi di persone, ma non necessariamente peggiore l’una dell’altra.»
Sono distratta. Mi accorgo che mi guarda con educazione. Attende. «Per intuizione, senza dubbio» rispondo precipitosamente, poi rifletto. «Una sorta di lampo di conoscenza che, quando si spegne, mi lascia con il compito per me difficilissimo di doverlo spiegare, anche a me stessa. E lei, invece?»
«“I concetti creano gli idoli. Solo lo stupore conosce.”»
«San Gregorio da Nissa.»
«Come lo conosce?»
«L’ho letto nei suoi libri.»
«Ah ecco.» Ride. «Mi piace tanto questa frase perché restituisce il valore della scoperta improvvisa, lo stupore, la meraviglia di stare al mondo. Vedere le cose per la prima volta, è questa la vera conoscenza.»
«È questo il tipo di stupore che c’è dietro la poesia?»
«Sì, anche.»
«E cos’altro?»
«La capacità di sistemazione. La poesia si regge sullo stesso ordine misterioso su cui si regge il mondo della creazione. Misterioso perché necessario ma inesplicabile. Poco male se si modifica l’ordine delle parole in una prosa, il senso rimane lo stesso. Ma provi a cambiare il miracoloso e arcano ordine delle parole dell’Infinito di Leopardi, per esempio. Tutto ciò su cui si regge e dai cui è retto, inspiegabilmente, crolla.»
«C’è un verso di William Stafford.»
«Stafford, certo.»
«Il verso dice: “Le cose che conosci prima di sentirle, queste sei tu, queste sono il motivo per cui sei al mondo”.»
«Molto bello.»
«Ecco, a me è sembrato un motivo.»
«Un motivo?»
«A volte, poche, mi è sembrato che questo verso mi rivelasse il motivo per cui non solo sono al mondo, ma sono al mondo per scrivere. Però poi resta il problema di trovare le parole adatte a trasmettere quelle cose.»
«Ma lei sbaglia a porsi il problema: non sono le cose che conosce che deve esprimere con le parole.»
«No?»
«Oh no, almeno è così per me. I concetti creano gli idoli, ricorda? I concetti sono astrazioni e le astrazioni sono il male. Questo, a parer mio, si dovrebbe far sentire attraverso le parole: che tu eri lì e in quel momento sentivi.»
«Ero sul lungomare questa mattina» avevo raccontato a La Capria. «Mi ero svegliata prima dell’alba e mi era venuta voglia di uscire. Di andare a vedere il mare. Non so come dirlo ma mi sembra quasi di aver assistito alla prima mattina del mondo.»
«Deve ritenersi fortunata» aveva detto lui. «Lei ha avuto una visione.»
«Una visione?»
«Non capita proprio tutti i giorni.»
«No, certo.» Avevo riflettuto in silenzio. «Quando ero ragazza mi capitavano spesso questi momenti, cui non sapevo dare nome. Li avevo poi chiamati “epifanie”, per quello che aveva esclamato mia madre, quando avevo provato a descriverglieli. “Hai avuto un’epifania!” aveva detto e io non capivo cosa significasse, ma sapevo che lei sì, aveva capito. Poi erano cessati. Non so dire di preciso quando. Fino a questa mattina.»
«Com’è che le ha chiamate?» mi aveva chiesto lui.
«Epifanie. Le mie epifanie. Attimi in cui mi sembra che il mondo si riveli a me sola nella sua intrinseca esultante bellezza.»
Era il momento che subito precede l’alba. L’aria era contratta, accartocciata come un foglio. Pareva se ne stesse chiusa tutta in se stessa, covando il giorno. Poi una miccia aveva preso fuoco e un filo di luce rosata, dal cammino lentissimo, aveva percorso l’orizzonte fino a gettarsi nel mare. Dall’acqua erano fioriti i raggi di una luce bianca ancora tenera come piume di uccello.
L’aria mattutina era diventata larga, fredda e limpida, fatta di vetro. L’orizzonte vasto e disteso. Ogni cosa aveva un aspetto nuovo e pulito, perfino i sacchi della spazzatura, lasciati in strada la sera prima e non ancora ritirati.
Io sentivo di essere ognuna delle cose che vedevo. Sentivo che tra me e loro non c’erano limiti, differenza, materia. Ero strada lucida, mare e cielo, il gabbiano che disegnava archi nell’aria, perfino il sacco della spazzatura su cui planava a ondate. “Tra un attimo” avevo pensato “questa luce cambierà e così tutte le cose, che ora vivono come fuori dal tempo, torneranno a essere nient’altro che quello che sono ogni minuto del giorno.”
«Pensavo che quegli attimi solitari fossero i rari momenti in cui la natura si toglieva la maschera che teneva su a celare la meraviglia. La indossava per non ferirci gli occhi, per non distoglierci dalla quotidianità e dall’urgenza delle nostre piccole preoccupazioni e dei nostri piccoli doveri.»
«Sarebbe quindi una sorta di spirito di conservazione della natura nei confronti della nostra specie?» mi aveva domandato La Capria.
«Sì, forse. Si può morire di inedia esistenziale per troppa contemplazione? Per troppa bellezza?»
Aveva sorriso. «Certe volte nella mia casa di Capri…» mi aveva detto, poi si era interrotto. «Avevo una casa a Capri» aveva continuato. «Duecento scalini. Alla mia età. C’era un che di eroico. E però l’ho voluta perché il mio sogno era possedere casa in uno dei miei luoghi dell’anima. Ognuno ha dei luoghi che gli hanno formato l’anima, è d’accordo?»
Avevo annuito.
«Quella casa aveva una terrazza che pareva proprio una zattera tra cielo e mare, in mezzo, dove non dovrebbe stare nessuna creatura vivente se non gli uccelli. E io sedevo lì con il cuore in gola. Non è facile, sa? Non è proprio facile vivere tutto il giorno a tu per tu con quel panorama. Senza niente di piccolo, nulla di consolatorio su cui riposare gli occhi. Bisogna essere esercitati e forti nello spirito per sostenerlo, mi capisce?»
Lo capivo. Ricordavo quella sensazione, come tutto fosse troppo per un solo cuore.
«Ma se uno riesce, se uno ce la fa» aveva continuato, «allora in un istante può avere l’illusione di esserne dentro anche lui.»
«Dentro?»
«Nel puzzle. Di esserne un tassello, brutto informe tagliato male, ma giusto. Il tassello che si incastra perfettamente nel grande puzzle dell’universo. E allora gli può anche capitare di percepire qualcosa, una minima cosa, del disegno arcano che tutto tiene insieme.»
«“Ritengo che non sia possibile una rappresentazione totale del mondo se non attraverso una intuizione poetica” ha scritto nel Fallimento della consapevolezza» gli dico.
«L’intuizione poetica è l’unica che può abbracciare la totalità. Essa sola ha la forza di farlo.»
«E la scienza? La filosofia? La storia?»
«Sono tutte conoscenze settoriali. Specialistiche. Vede, la scienza si basa sull’analisi. Ossia sulla separazione. Ognuna di quelle discipline per poter conoscere deve sezionare, dividere. Sono tutte necessarie, come è ovvio, ma nessuna potrà mai contemplare in tutta la sua pienezza la misteriosa armonia che regge il mondo e lo sottrae alla non-esistenza e al nulla.»
«Nessuna?»
«Tranne una. La poesia.»
«Come? Mi può spiegare?»
«La poesia è difficile da spiegare.»
«Perché?»
«Perché non è nella natura di quanto esiste nella realtà. La poesia non appartiene a un oggetto o a un paesaggio. È un modo sublime di accostarsi alle verità della vita, non una qualità intrinseca delle cose.»
«Un modo sublime.»
«Sublime nel senso che va oltre il loro limite. La poesia è qualche cosa che vive dell’indicibilità della bellezza.»
Il sole, nella stanza all’ultimo piano, scotta sul viso come fossimo all’esterno. Mi alzo per accostare gli scuri. «Stavo pensando a quello che ha detto poco fa» dico, ancora alla finestra, «al fatto che la poesia non sia nelle cose, ma in chi le contempla. E se la poesia non fosse neanche nella poesia?»
La Capria mi guarda perplesso.
«Una volta, a un seminario di lettura della biblioteca in università, venne un poeta» gli dico, mentre aggiro il divano per tornare a sedermi. «Era un poeta locale, ancora poco noto. Viveva sempre chiuso nel suo paesino di pochi abitanti. Aveva quegli occhi sporgenti, tristi e acquosi, come di un animale. Aveva anche mille idiosincrasie, mille paure. Scriveva poesie sulla morte, per lo più. Eppure erano poesie di uno struggimento per la bellezza che ti attanagliava. Venne accompagnato dalla moglie, perché aveva anche la fobia di leggere le sue opere davanti a un gruppo di ragazzi. La moglie era una signora semplice, dimessa. Poco dopo aver iniziato a leggere una delle poesie del marito, prese a tremare, la voce le si rompeva. Era come in un’altra dimensione, dove nessuno di noi, neppure il poeta, poteva raggiungerla. Quando si interruppe, mi accorsi che stava piangendo. Anche il poeta piangeva e tutto intorno era silenzio, un silenzio che sentivo fin dentro di me. Poi il docente del seminario ringraziò la donna e lodò la poesia, parlando della composizione e della musicalità. Quindi invitò il poeta a commentare. Il poeta si asciugò gli occhi e, senza smettere di guardare la moglie, come aveva fatto per tutto il tempo della lettura, disse: “La bellezza è in chi legge”. E nient’altro. Fu il suo unico commento in tutto l’incontro. E a me, non so perché, quel momento folgorò come una verità che avevo sempre saputo. La bellezza non è nell’oggetto della scrittura e non è neppure nella scrittura stessa o nell’occhio del poeta. La bellezza è nell’incontro tra tutti questi elementi. È qualcosa che si forma in quell’insieme di reazioni fisiche, chimiche e nervose, comunque le si voglia definire, qualunque ne sia l’origine.»
«“Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale / siccome i ciottoli che tu volvi, / mangiati dalla salsedine; / scheggia fuori del tempo, testimone / di una volontà fredda che non passa.” Lo sente?» mi chiede.
«Cosa?»
«Montale. Lo sente fin dentro di lei?»
«Credo di sì.»
«Io la prima volta che lessi Montale non lo capii. Eppure, lo sentii in tutto me stesso. Ero giovane, cresciuto a Pascoli e Carducci. La poesia era quella, capisce? E poi mi capitò tra le mani lui. Non so se può intendere cosa fosse quella lingua di Montale nel contesto del tempo. Tutto intorno a noi giovani c’era solo poesia roboante, retorica dei politici, frasi fatte ripetute da tutti fino a farle diventare prive di ogni senso, menzogne sui giornali e per le strade…»
«Posso capire.»
«L’italiano dei poeti era una lingua “in costume”, pesante ambigua vuota. E poi a un certo punto mi capita di leggere queste parole: “scabro”, “essenziale”, “ciottolo”. Conoscevo perfettamente quelle cose fin nella loro più intima essenza. Io le avevo viste.»
C’era una spiaggetta a Capri dove si recava ogni mattina. Era nascosta in un’insenatura, la si raggiungeva solo alla fine di una discesa irta, oppure via mare. Quella spiaggetta racchiudeva come in uno scrigno centinaia di sassi lisci che il mare faceva strisciare tra loro, con un rumore di sottofondo granuloso e costante. Ognuno di quei sassi era levigato, duro e compatto. Senza imperfezioni, senza residui. Armonioso e perfetto come il guscio di un uovo. Quei sassi erano le parole di Montale. Improvvisamente, mi disse La Capria, aveva appreso che la spiaggetta della sua giovinezza era stata il primo breviario di estetica della sua vita.
«La lingua di Montale era una terra nuova e sconosciuta» dice, «ma i suoi versi sentivo di contenerli, nel senso che erano già dentro di me, proprio con quelle esatte parole e con il loro ritmo. E mi dicevano, con la mia stessa voce: “Basta con la retorica. Basta con l’assoluto, altissimo, linguaggio che non scende a toccare il cuore delle cose, quelle reali, che contano. E alla fin fine non dice niente”.»
«“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” Questi sono due versi di Montale che, come dice lei, ho sempre sentito di contenere già in me.»
«Una poesia che mi è cara. Che è cara a tutta la mia generazione. Non sa quanto ci aveva animato, a noi cresciuti durante il fascismo. Eravamo in una specie di 1984 di Orwell. Tutto, intorno a noi, sembrava deciso da forze imponderabili e incontrollabili. Noi – avevamo quindici, sedici, diciassette anni – non sapevamo niente, sapevamo solo che non era quello che volevamo, che noi non eravamo ciò che ci costringevano a essere. Immaginavamo che Montale l’avesse scritta per noi, per quello stesso stato d’animo. Pensi che colpo quando, ormai cresciuti, apprendemmo da una sua intervista che in realtà quella poesia l’aveva scritta molti anni prima del fascismo. Ma alla fine non cambia molto. La sua era una poesia del rifiuto, non importa quale.»
«A cosa serve la poesia?»
«Oh, a niente. Proprio a niente.» Sorride della mia espressione. «Non può avere alcun fine, perché è sublime, ricorda? Avere un fine ne limiterebbe la portata. Però un compito lo svolge, anche se, attenzione, lo adempie senza minimamente proporselo.»
«Che compito?»
«“Schiarite l’aria! Pulite il cielo! Lavate il vento!”» declama, senza preavviso, a voce molto alta. «È Eliot» aggiunge. «“Separate pietra da pietra, separate la pelle dal braccio, / separate il muscolo dall’osso, e lavateli: lavate la pietra, / lavate l’osso, lavate il cervello, lavate l’anima, / lavateli, lavateli!”» continua con la stessa esultanza nella voce. «Pare proprio che la poesia sia una grande impresa di pulizia.»
Rido. «Sono versi meravigliosi» dico. E mi sembra riduttivo. All’improvviso ho voglia di correre fuori nel sole, a guardare di nuovo ogni cosa, guardare e nient’altro.
«Il linguaggio è la cosa più preziosa che abbiamo» dice, tornando serio. «Spesso lo si dimentica. “Non si abita un Paese, si abita una lingua” scriveva Cioran. Il linguaggio è la nostra identità, siamo noi stessi. È espressione di tutto quello che siamo in quanto individui ma anche in quanto comunità, in quanto uomini accomunati da una storia, una cultura, una tradizione. Il linguaggio subisce le nostre stesse trasformazioni, nel bene e nel male. A volte si logora, si distorce, si inquina. Lo accerchiano e lo infettano tutti quei gerghi lì, brutti incrostati e freddi: politici, burocratici, televisivi, tecnici. È una cosa molto pericolosa, perché io sono convinto che quando si degrada il linguaggio, ci degradiamo anche noi che lo parliamo, la nostra moralità, il nostro spirito. È come se tutto si abbassasse di livello.»
«Pensavo il contrario.»
«Come?»
«Ho sempre pensato il contrario: che quando si degrada la società, si degrada anche il linguaggio. Mi sembrava una conseguenza. Invece lei ha invertito i termini di causa ed effetto. Lei dice che se il linguaggio si degrada, si degrada chi lo parla.»
«Non è d’accordo?»
«No, cioè sì, credo di sì. Mi piace questo modo di vederla. È come se desse una responsabilità molto maggiore a chi con il linguaggio ci lavora. Agli scrittori, anche. Però allo stesso tempo c’è una speranza: se salviamo il linguaggio, forse ci possiamo salvare.»
«Le dirò di più, anche le emozioni si logorano, come il linguaggio che le esprime. Di solito, per lo più, per assuefazione. E la prima a offuscarsi, la più fragile di tutte, è anche la più importante: l’emozione primaria di esistere. La poesia è come se le rimettesse al mondo. Restituisce al linguaggio e all’emozione la meraviglia.»
«Perché vuole scrivere?» mi aveva chiesto lo psicologo. Ancora quella domanda. Mi ero sforzata di rispondere, come sempre, controvoglia, mi sforzavo di rispondere a quello che mi domandava.
«Perché le mie emozioni diventino emozioni universali, perché le mie esperienze escano finalmente da me e vadano a mischiarsi un po’ con il mondo. Sono stanca di tenerle sempre in me.»
«Lei non sta parlando sinceramente» aveva detto lo psicologo guardandomi. «Sta comunicando. Manipola la realtà. Mi dica veramente perché scrive.»
Avevo abbassato le spalle. «Per paura forse» avevo risposto. «Paura di non essere più, di scomparire. Paura di accorgermi alla fine di non essere mai stata. Non pensi che io sia una vigliacca, o se vuole lo pensi pure, è vero.»
«Lei mente ancora.»
«No.»
«Allora mente anche a se stessa.»
«Può darsi. Se uno vuole ingannare gli altri deve ingannare prima se stesso, suppongo.»
«E perché mai vorrebbe ingannare gli altri?»
«Perché voglio essere una scrittrice. E “il poeta è un fingitore”, non lo sa? Gli scrittori scrivono di emozioni e sentimenti così vivi che poi uno si aspetta di provarli davvero. Mentre gli scrittori lo sanno che sentimenti così non sono nelle cose, negli uomini, non sono nemmeno in loro, ma nel linguaggio e nelle parole che ti carezzano mente e cuore fino all’orgasmo. E non provano i sentimenti di cui scrivono, anche se poi finiscono per autoingannarsi, per credere di averli veramente provati. La verità è che quando fiutano odore di sentimenti, gli scrittori non sono più uomini ma penne dotate di antenne e, mentre credono di provarli nella loro realtà, in verità li stanno già scrivendo, li stanno già mutando in parole.»
«Non crede di essere troppo severa? A quanto ha detto, gli scrittori sarebbero» controlla i suoi appunti «dei bugiardi, illusi, sentimentalmente frigidi. Lo pensa davvero?»
Guardo fuori dalla finestra, sospiro. «No, mi scusi. Non lo penso affatto. Se girasse una foto di lei nudo, ma col volto coperto, ammetterebbe che quello nudo è lei oppure farebbe di tutto per mascherarlo?»
«Ma la foto di sé nudo l’ha fatta girare lui, lo scrittore» mi obietta lo psicologo.
Lo guardo. «Sa cosa penso che siano gli scrittori? Dei timidi esibizionisti. Timidi esibizionisti che se la devono sempre vedere col proprio senso del pudore.»
«Lei cita spesso nei suoi saggi un verso di Pessoa che dice: “Il poeta è un fingitore”.»
«“Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente”» conclude lui. «È così, non crede? Si deve fare per l’arte. Ricreare qualche cosa che è vero, ma che si ha bisogno della finzione per ricostruirlo. La poesia è di sicuro un artificio, “la costruzione di un oggetto fatto di parole” diceva Montale. Ma di un tipo speciale. Perché ciò che ricostruisce artificialmente, con le parole, è in realtà qualcosa di vero: la verità di un sentimento spontaneo. Ma per dire un’emozione, un’emozione reale, occorrono più parole della semplice verità. Devi inventare quel momento accaduto. E per inventare quel momento occorrono molta fantasia e molte parole.»
“È un prestigiatore, un illusionista. Si dice così.”
“Ripetilo.”
“Illusionista. Tu lo sai cos’è un’illusione?”
Sono rientrata a casa. Apro un libro di La Capria, come tutte le sere. È La neve del Vesuvio. Il primo racconto. C’è un bambino, Tonino, che si accorge che le cose scompaiono e non tornano più. Poi, un giorno, va al circo e lì, per la prima volta, vede un mago che fa scomparire gli oggetti ma poi incredibilmente li fa riapparire. Allora, la notte a letto, chiede alla madre chi fosse quell’uomo.
“È un prestigiatore, un illusionista. Si dice così” risponde la madre.
“Ripetilo.”
“Illusionista. Tu lo sai cos’è un’illusione? Quando ti pare di vedere una cosa che c’è, e poi non c’è, ma è come se ci fosse. […] Insomma un illusionista è uno che fa i trucchi.”
“E che sarebbero ora questi trucchi?”
“Una specie di imbroglio, uno ti fa apparire e sparire le cose e tu non ti accorgi mai come fa.”
“Ma le cose ci sono davvero o è un trucco?”
“Quali cose?”
“Tutte le cose.”
“Certo che ci sono, come ci sono io, qui, accanto a te. Non è sicuro?”
“Sì, ma tu dammi la mano.”
Chiudo il libro e mi ritrovo a pensare a quel giorno dallo psicologo. Anch’io vorrei la certezza di sapere che le cose fuori e dentro di me esistono, che non è un trucco. Anch’io vorrei che qualcuno mi dicesse che è sicuro. Che mi desse la mano.
Dal filo degli scuri traspare un geroglifico di luce che gioca coi piedi di La Capria come fosse il gatto di casa. Lui l’osserva con uno strano sorriso sulle labbra.
«Mi faccia una cortesia» dice. «La faccia entrare, la luce.» Indica la finestra.
Mi alzo, apro gli scuri e rimango a guardare per un attimo la gloriosa giornata estiva che si stende sopra e sotto di noi. Inspiro. «Che bella giornata.»
«La vecchiaia è, ahimè, l’età del déjà-vu» dice La Capria da dietro le mie spalle.
Mi giro.
«La meraviglia della prima volta è sparita dal mondo, non esiste più se non nel ricordo. Tutto è un non-più. “Quel vento che ti sfiora, e mai, mai più ripasserà”, come ha scritto Ungaretti.»
Ha uno sguardo basso e malinconico che non gli avevo mai visto. Alza gli occhi su di me e sorride come per scusarsi. «Mi perdoni, ho sempre cercato di non essere una persona che si lamenta.»
«Perché?»
«Perché sono noiose. Non ho mai sopportato granché tutti quegli animi dolenti.»
Mentre lo ascolto mi vengono in mente le parole di una delle ultime lettere che gli mandò Parise. Parise era in montagna. La lettera aveva un tono allegro, spigliato, ma alla fine, dopo la firma, quasi dovesse essere l’ultima volta che si sentivano, aveva aggiunto: “Continua a scrivere sempre del tuo doloroso capire tutte le cose”.
«Non c’è bisogno di loro per lamentarsi, non crede? C’è già il lamento interiore che tutti i poeti sentono» dice infine.
Ride. Rido anch’io.
Rimaniamo in silenzio per un po’.
«A cosa sta pensando?» gli domando.
«Al verso di una poesia di Nerval che ho sempre amato: “Je suis le Ténébreux, – le Veuf, – l’Inconsolé”. Io sono il tenebroso, il vedovo, l’inconsolabile… E poi come continua?» mi chiede.
a. “Io sono il Tenebroso, – Vedovo, – Sconsolato, / Principe d’Aquitania dalla Torre abolita: / L’unica Stella è morta, – e sul liuto stellato / È impresso il Sole nero della Malinconia. // Nel buio del Sepolcro, / Tu che mi consolasti, / A me rendi Posillipo e l’italico mare.” Gérard De Nerval, Le chimere, in Chimere e altre poesie, Einaudi, Torino 1972.