Il “cane nero” non mi dà pace
Arrivai a Torino dopo un viaggio scandito da umori contraddittori e da un’inquietudine che tanto scompiglio aveva temporaneamente e stranamente alleviato. Ero stordito e avrei voluto che quel volo finisse subito o non finisse mai. All’aeroporto, mio padre, ansioso, mi aspettava. Mia madre lo aveva avvertito del mio ritorno, cercando di spiegargli il perché. Quando i miei genitori si rividero, si abbracciarono e mia madre pianse. Grazie a me si sarebbero riconciliati e questo fu il miracolo del mio rientro. Anche mia sorella era felice.
Pensai per la prima volta alla capricciosità degli eventi, alla provvisorietà di tutto. Erano passati solo quattro mesi e io mi trovavo di nuovo a casa. La notte non dormii per l’emozione, per la sicurezza e il conforto che mi dava la vicinanza dei miei cari, ma la mattina all’alba, come un beffardo, atroce dispetto del destino, il fantasma di Babette riprese corpo. La ragione, quel po’ di ragione che mi restava, mi ripeteva che niente era successo, che la mia bella parigina, avventuriera dell’amore, non solo non era annegata nella Senna, ma tornata dal marito si erano raccontati tutto (o quasi) e avevano ripreso la normale vita parigina (lei, di stilista; lui, di avvocato. Questo almeno lo sapevo).
L’indomani con mia madre andai da uno psichiatra che confermò la diagnosi fatta ad Ann Arbor. Mi prescrisse un paio di farmaci a base di benzodiazepine da assumere due volte al giorno, la mattina, al risveglio, e la sera, prima di andare a letto. Un letto di spine che mi trafiggevano, non mi davano pace, mi torturavano l’anima, mi agitavano la coscienza sempre più in subbuglio per il rimorso di avere costretto Babette a buttarsi nella Senna. Il medico aumentò la dose ma io continuavo a stare male, sempre peggio.
All’alba, la sofferenza toccava l’acme e io mi domandavo fino a che punto avrei resistito a quel tormento. Se chiudevo gli occhi nell’inutile disperato tentativo di rilassarmi, una legione di mostri, serpenti, avvoltoi, corvi e altri animali spaventosi che non avevo mai visto e che s’incrociavano continuamente fra di loro, si affollavano sopra e intorno a me, quasiché volessero dilaniarmi e divorarmi. Un nodo mi serrava la gola e una specie di garrota mi stringeva il collo fin quasi a iugularmi. Mi giravo e rigiravo nel letto, prendevo uno dei miei livre de chevet che sempre portavo con me e che in altri momenti mi avevano consolato o comunque lenito le mie ambasce. Un atroce senso di oppressione mi gravava sul petto, come quando un infarto è in agguato. Mi alzavo, accendevo il giradischi e ascoltavo il mio amatissimo Bach. Ma nemmeno Seneca, con le sue splendide Lettere a Lucilio, nemmeno il divino Cantor di Lipsia avevano il potere di mettere fine o almeno di rendere più tollerabile quell’orribile agonia. I miei genitori mi spronavano a distrarmi, a fare lunghe passeggiate al Valentino, ma il Po, con le sue alterne correnti, lungi dal rinfrancarmi, esercitava su di me una perversa quasi ipnotica attrazione. Quella di buttarmi nei suoi mulinelli e nei suoi gorghi e di farla finita. La stessa sorte, farneticava la mia mente malata, di Babette nelle acque della Senna.
Non ero mai stato così male e nessuno capiva perché. Nemmeno io. I miei amici non mi riconoscevano, mi esortavano a non essere ridicolo e a farmi forza. Si trattava di un momento difficile, poi tutto sarebbe tornato come prima. Lucrezia, temendo, quando ci lasciammo, che non sarei più tornato da lei e con lei, si era fidanzata con un compagno d’università, era rimasta incinta e a maggio (eravamo ai primi di novembre) si sarebbe sposata. Ragazze ne conoscevo tante e svogliatamente ricominciai a frequentarle. Avrei potuto fare sesso con loro, ma non avevo voglia di niente, neanche di questo meraviglioso passatempo. Andavamo qualche volta al cinema, ma non m’interessavano nemmeno quei film di spionaggio e di guerra che prima di partire per il Michigan amavo tanto. Il sabato, a ballare al Principe o al Faro, dove s’esibiva Fred Buscaglione e suonava Hengel Gualdi. Non lasciavo mai il mio posto, davanti all’immancabile bottiglietta di Coca-Cola che sorseggiavo, senza gusto e senza piacere.
Inappetente di tutto, insofferente di tutto, mi sentivo l’uomo più infelice e più inutile del mondo. Nei momenti di acuzie la mia salivazione aumentava e le extrasistole sovvertivano i battiti del cuore.
A tavola non aprivo bocca e rispondevo a monosillabi alle domande che i miei genitori e mia sorella mi facevano più per intrattenermi e distrarmi che per ricevere una risposta. Che, comunque non gli avrei mai dato perché niente – ripeto – m’interessava. Solo la pioggia (ma non il temporale) aveva il potere d’infondermi un po’ di serenità. Guardavo dalla finestra le gocce saltellare sull’acquoso selciato e cercavo anche di contarle. Oppure indossavo l’impermeabile e il cappello, e senz’altro riparo andavo in corso Francia, il lungo viale che da Torino porta a Rivoli, piantonato da alberi secolari che sembravano sentinelle. A terra, migliaia di foglie gialle e zuppe che prendevo a calci con monotona lentezza. Foglie che, se non fossero cadute, avrei accarezzato. Mi tornavano alla mente le note di Settembre sotto la pioggia, di Fumo negli occhi, di Polvere di stelle anche se il cielo era coperto di nuvole gonfie di pioggia.
Dopo un’ora di cammino riprendevo la via di casa dove mi aspettava la cena e l’ottima pasta e patate che nessuno cucinava meglio di mia madre. Non uscivo quasi mai con gli amici. Qualche volta guardavo svogliatamente la televisione, ma tutto mi era indifferente, anche il calcio e le sorti della mia squadra, il Torino. Più spesso andavo a letto, terrorizzato dalla notte incombente. Raddoppiai, su consiglio dello psichiatra, la dose di sonniferi. Ma l’induzione di questi farmaci sortiva un effetto devastante. Gli incubi aumentavano, i mostri assumevano sembianze sempre più deformi e allucinanti. Accendevo la luce e riprendevo in mano Seneca. Leggevo e non capivo niente. Avevo la mente altrove. Riascoltavo Bach e non ne coglievo minimamente le splendide armonie.
Cercavo di non pensare, ma avevo perso il controllo della mente, mentre il ricordo di Babette e la triste fine che aveva fatto nella Senna acuivano la mia angoscia. Perché – mi domandavo – non le avevo chiesto l’indirizzo e il telefono parigino? Perché ci eravamo lasciati così precipitosamente? A letto, dove le donne sono finalmente sincere e gli uomini confidano i loro segreti, dovevamo dirci qualcosa ma lei urlava di piacere, mentre io con il cuscino sul suo viso cercavo di soffocarne le grida. Nessun dialogo: solo sfrenata lussuria, al cui confronto quella di Semiramide e di Sardanapalo sembrava patetici gemiti di voluttà.
Ma ero ormai prigioniero e vittima del mio passato, del mio egoismo, del mio cinismo. Allora, sempre più disperato, mi mettevo a piangere, impaziente di riprendere sonno e preoccupato di riaffidarmi alle lame aguzze delle Erinni, sempre più invadenti, sempre più crudeli, fino alla spietatezza. Guardavo le finestre e, per fortuna, pioveva. Una volta mi rivestii in fretta, rindossai l’impermeabile e il cappello e in piena notte (dovevano essere le due) uscii e raggiunsi un’altra volta (e non sarebbe stata l’unica) corso Francia.
Dopo un’ora rientrai e mi rimisi a letto. Lì per lì l’insolita passeggiata sembrava avere alleviato i feroci tormenti dell’anima. Poi, con ancora più orripilante protervia, le Furie ripresero ad accanirsi contro di me. All’alba ero già sveglio: le occhiaie che sembravano più profonde di un canyon, lo sguardo perduto, il passo incerto, quasi un automa, uno zombi che si muoveva per casa senza parlare, senza ascoltare, senza speranza e senza l’illusione di ritrovarla.
Mia madre, su consiglio dello specialista, decise di mandarmi in analisi da una psicologa che, in un momento difficile della vita, aveva cercato di “curare” anche lei. Ne aveva tratto un buon giovamento e forse, pensava, sarebbe stata utile anche a me. Era una signora di mezza età, premurosa e affettuosa, che mi accolse come un figlio. Io le ispiravo tenerezza; lei, quella fiducia che rende più facile e benefico il rapporto fra medico e paziente, preda di una depressione così drammatica.
Era l’ultima chance di salvezza ma io, sperimentata ogni cura, temevo che anche questa fallisse. Fu un lungo e circostanziato interrogatorio che mi rassicurò sulla professionalità della psicologa.
Le raccontai di Babette, scendendo anche negli intimi particolari, affermando la convinzione razionale (ma avevo perso la ragione) che fosse un’avventuriera dell’eros e che la sua minaccia era fine a se stessa. Faceva parte dello spregiudicato libertinaggio di una donna che, invece della stilista, avrebbe dovuto fare l’attrice. «Stia tranquillo: la sua Babette è tornata a Parigi sana e salva. Non si è mai sognata di buttarsi nella Senna o nei suoi affluenti e mentre noi parliamo, alle tre del pomeriggio di sabato, sta fra le braccia del marito a fare quello che ha fatto con lei alla Locanda del Camionista.» Mi era difficile darle torto perché, nei sempre più rari momenti di lucidità, lo pensavo anch’io. Ma mi era difficile prestare fede alle sue parole, che, se vere, e accertate personalmente da me, avrebbero cercato e trovato un’altra spina irritativa, un altro spunto di angoscia.
La depressione è una vera e propria malattia, una malattia terribile, la più terribile.
È il “male oscuro”, come il mio vecchio, indimenticabile amico Giuseppe Berto definì la depressione, di cui per dieci anni soffrì come un condannato a morte cui veniva sadicamente rinviata l’esecuzione.
Un giorno ricevetti una telefonata di Montanelli, al corrente di tutte le mie traversie. Mi disse che questa malattia, predatrice e distruttrice del nostro Io, ogni vent’anni, ciclicamente, colpiva anche lui. L’aveva ereditata dalla madre, le sofferenze che ora provavo le aveva provate lui.
«Pensai» mi confidò «anche al suicidio. Ne uscirai» mi rincuorò, «ne uscirai e ne uscirai più forte, più maturo, più responsabile, più riflessivo di prima. È curabile, basta stringere i denti, serrare i pugni, tendere fino all’ultimo palmo la volontà.»
Mi chiese se potesse fare qualcosa per me. Gli risposi che non avevo bisogno di niente perché avevo perso interesse per tutto. Continuavo a leggere il “Corriere della Sera”, i suoi splendidi articoli, a chiosarli, ritagliarli e archiviarli.
Mi congedò dicendomi: «Ci penso io».