«È la signora Giblet».
«Oh, no!». Così Cleo, la quale si alzò da tavola e uscì dalla stanza.
Tornai in sala da pranzo cinque minuti dopo; un ansioso «shhh» salutò il mio rientro. «Allora?» fece Harriet. Mi sedetti. Dissi a Fledge di versarmi un'altra tazza di tè. Poi riferii che la signora Giblet era stata informata dall'ispettore Limp dell'avvenuto ritrovamento della bicicletta nella palude. Ma la cosa, aggiunsi, non finiva lì. Ritenendosi qualificata a fornire un aiuto autentico alla polizia (della cui intelligenza, evidentemente, non era grande ammiratrice), la signora Giblet era approdata a Ceck e in quel preciso istante si trovava comodamente sistemata presso lo Hodge and Purlet.
Grido strozzato di Harriet. «Oh, santo cielo» esclamò, fissandomi con sincera angoscia. «Hugo, dobbiamo ospitarla? Certo, non se ne può fare a meno».
«Ho spiegato alla signora Giblet delle nostre tubature» risposi. «Le ho detto che sarebbe stata più a suo agio dov'era».
«Be', questo sì che è un sollievo» mormorò Harriet.
«Ciò nondimeno, mi sono sentito in obbligo di invitarla a cena da noi stasera».
«Sì, è chiaro» commentò Harriet. «Oh, povera cara. Probabilmente sarà angustiata quanto Cleo. Ma che dico, di più!». E sospirò. Così facendo, aveva già elargito tutta la sua solidarietà di donna e di madre a quella terrificante vecchia megera, a quel drago insediatosi fra noi, che senza alcun dubbio avrebbe eruttato fuoco, fiamme e fumi maleodoranti nelle vite di tutti quanti. Cercai rifugio nel fienile, riflettendo, non per la prima volta, che se avessi avuto un pur minimo sentore dei guai che Sidney Giblet ci avrebbe causato, non gli avrei mai e poi mai permesso di avvicinarsi a Crook entro il raggio di un miglio.
La sera dell'ultimo dell'anno eravamo in sette a tavola. Alla mia sinistra sedeva la signora Giblet. Era arrivata a Crook indossando un'immensa e informe pelliccia con le spalline imbottite e un cappello nero con la tesa tirata su da un lato, abbellita da ramoscelli di pizzo e ciliegie rosso cremisi. Con un braccio teneva stretto il cagnolino; con l'altra mano, il bastone da passeggio dalla punta gommata, quello con il teschio montato nell'incurvatura del manico. Portava un paio di guanti di raso nero e due grosse perle bianche ai lobi avvizziti e penduli. Fledge tentò di prenderle la pelliccia, ma lei insistette per tenersela indosso finché non si fosse «acclimatata». La vecchia furbastra si era subito resa conto che nella migliore delle ipotesi, in una casa come questa, i caloriferi sarebbero stati tutt'al più tiepidi. Visto che le tubature erano scoppiate, l'unica fonte di riscaldamento che avevamo era il fuoco; per giunta, Crook è una casa piena di spifferi.
L'ospite avanzò nell'atrio, controllando e annuendo a destra e sinistra con regale approvazione. La sua entrata in salotto fu solenne: Henry e Victor si alzarono in piedi entrambi e Harriet le andò incontro a braccia aperte. «Cara signora Giblet,» le disse calorosamente «com'è stata gentile ad accettare il nostro invito, nonostante il brevissimo preavviso!».
Era la cosa perfetta da dirle. «Ma Lady Coal, ci mancherebbe altro» ribatté lei, facendo le fusa compiaciuta. «Ah! Cleo!». Cleo venne avanti silenziosa e le sfiorò la guancia con le labbra. Dopodiché la signora Giblet sprofondò nella poltrona che Henry aveva lasciato libera accanto al camino e cominciò a frugarsi in tasca, cercando le sigarette. Harriet le presentò gli Horn e, profondendosi in scuse per il freddo che faceva, la invitò a prendere un bicchiere di sherry. La signora Giblet lo avrebbe accettato con molto piacere. Poi, senza nemmeno tentare di menare il can per l'aia, annunciò a tutti i presenti: «Ho conosciuto Limp. Sir Hugo,» aggiunse, voltandosi verso di me «mi sorprende che lei riponga fiducia in quell'uomo. A mio parere, è un assoluto incompetente».
Aggrottai la fronte. «Signora Giblet, gli indizi che ha in mano sono ben pochi» le risposi.
«La cosa è opinabile, Sir Hugo. Con i progressi che sta facendo, sarà una fortuna se riusciremo a vedere Sidney nella bara. Perdonami, cara,» - Cleo non aveva saputo trattenere un gemito - «ma è inutile nutrire speranze vane».
Con espressione lugubre, la signora Giblet aspirò una boccata di fumo. Cadde il silenzio. Nei suoi occhi si spense ogni luce e lentamente il suo viso si scompose, e in quel cedimento sembrava albergare una disperazione così immensa che in un attimo l'atmosfera divenne assai cupa. Harriet si affrettò a porre rimedio. «Signora Giblet,» esclamò «suvvia! Non c'è ragione di disperare, mi creda. Come continuo a dire a Cleo, il fatto che sia stata ritrovata una bicicletta non significa nulla».
La signora Giblet alzò gli occhi. Allungò la mano, prese quella di Harriet e la guardò con quel sorriso stranamente affascinante che le avevo visto a Londra. «Certo che no» disse. «Lady Coal, perdoni se con la mia malinconia ho contagiato la vostra casa. Mi chiedevo... sarebbe possibile avere un altro bicchierino di quello sherry? È davvero squisito». E mentre Fledge si occupava di lei, la signora Giblet, a quanto pareva un po' più «acclimatata», si aprì la pelliccia. «Grazie» disse poi, levando il viso verso Fledge quando quest'ultimo arrivò con lo sherry. «Per quanto mi riguarda,» proseguì «ho intenzione di setacciare la palude di Ceck a palmo a palmo. Può darsi che lei, Sir Hugo, abbia ragione a proposito di Limp, come può darsi il contrario. Io vorrei semplicemente convincermi che non sia stato trascurato nulla. Per caso, c'è qualcuno disposto a aiutarmi?».
Il breve silenzio che seguì a questo bizzarro invito fu rotto da Victor. «Sì, io!» esclamò pronto il ragazzino, schiudendo una parentesi comica pur facendo assolutamente sul serio. In salotto si diffuse un mormorio divertito; subito dopo Fledge annunciò che la cena era servita.
Avviandosi a tavola, la signora Giblet si abbarbicò a Harriet - verso la quale aveva chiaramente un «penchant» - e sbrigliò tutta la sua espansività. «Ma quanto legno, Lady Coal! Come dev'essere confortevole abitare in una casa con le pareti rivestite di... legno. È quercia, giusto? Solida quercia inglese. Ho sempre pensato che infondesse una sensazione di continuità con il passato. Lei, Lady Coal, è molto legata alla tradizione?».
«Be', credo di sì, signora Giblet» mormorò Harriet.
«Anch'io ho un animo profondamente conservatore» commentò la signora Giblet. «Da sempre. Il mio modello è Churchill. L'ho conosciuto, sa? Un tipo brillante, erudito, e parecchio, per giunta. E che spirito arguto!». La vecchia signora ridacchiò, dando qualche leggero colpetto sul braccio di Harriet, sul quale aveva posato il vecchio artiglio nodoso. «Una volta, ad esempio... Ma no, figuriamoci se avete voglia di ascoltare i miei racconti. Qui, accanto a Sir Hugo? Con estremo piacere. Grazie, Fledge».
Quella sera, come ho detto, eravamo in sette a tavola e la tavolata era piuttosto curiosa. Essendo spenta la caldaia, in casa faceva davvero molto freddo e di conseguenza avevo deciso che insieme all'abito da sera sarebbe stato lecito indossare una maglia. La scena, quindi, presentava un Henry Horn ridicolmente infagottato con un pesante maglione grigio da pescatore sotto lo smoking che, di concerto con la barba, lo faceva sembrare più che mai un lupo di mare. Hilary, Harriet e Cleo avevano tutte un'aria assai goffa, tutte con indosso il cardigan più pesante che erano riuscite a trovare e un fazzoletto in testa, legato sotto il mento. Victor, intrepido, portava soltanto la divisa della scuola e la signora Giblet, evidentemente acclimatatasi, ritenendo senza dubbio molto inopportuno, a prescindere dalle condizioni climatiche, cenare in una villa di campagna con la pelliccia, se l'era fatta scivolare giù dalle spalle, mettendo a nudo tutto lo splendore e la maestà del suo abito da sera.
Era questo un indumento di raso nero che senza meno, congetturai, aveva risieduto per quarant'anni buoni in qualche armadio di mogano di quella casa tetra nei dintorni del British Museum: un abito lucido, sbracciato, lungo fino a terra, che ricadeva in tante pieghe rigide e che, notai, frusciava a ogni suo movimento. Non appena la signora Giblet mi si sedette accanto, avvertii subito un netto olezzo di naftalina; ma non era quello l'unico odore che emanava. Al contrario, sopra quella specie di basso continuo si levava una vera e propria sinfonia di aromi, dei quali, per così dire, sosteneva la melodia un profumino pungente acquistato, come mi informò lei stessa (avendoglielo io chiesto), nell'anno 1934 a Strasburgo. Le caratteristiche di asprezza e astringenza del profumo, tuttavia, risultavano svilite (pur non essendo buono, il mio naso se ne accorse ugualmente) da una munifica applicazione di acqua di colonia da quattro soldi e all'insieme davano un'impronta vieppiù sgradevole gli odori terreni di sigarette e sherry, nonché gli effluvi affatto naturali di una carne vizza.
La signora Giblet aveva le spalle nude, e così le braccia, dalle quali la pelle penzolava a borse copiose e flosce. Per quella cena in campagna si era anche messa i gioielli: una tiara punteggiata da un paio di brillanti e un filo di perle che scivolava in maniera allarmante verso l'abisso spalancato del petto. I guanti di raso le arrivavano ai gomiti; come mi confidò lei stessa, si era chiesta se fuori Londra quei guanti non fossero un tantino troppo. Io le assicurai che, al contrario, in campagna non ci si poteva mai vestire troppo, la temperatura non lo permetteva. La signora accolse la battuta con buonumore. Mangiò di gusto, lasciando cadere di tanto in tanto qualche bocconcino alla bestia che teneva in grembo, e apprezzò oltremodo il mio chiaretto, che tracannò con evidente piacere dopo averlo assaporato rumorosamente nella bocca. Con mia sorpresa, cominciai a guardare con qualche simpatia quel vecchio avvoltoio, quel tacchino, e quando a proposito di un mio commento su un osso fossilizzato che all'epoca mi assorbiva molto lei cominciò a parlare della sua artrite, le dissi sottovoce che il signore vicino all'altro capo del tavolo, quello che lei aveva preso per un lupo di mare, era in realtà uno dei migliori chirurghi ortopedici del paese e dopo cena avrebbe dovuto esporre a lui i suoi problemi. Lei rispose che l'avrebbe fatto senz'altro. Henry, pensai io, ne sarà felice.
Venne servito il brodo, poi il secondo - con quel roast beef Doris aveva superato se stessa, e c'era anche il prosciutto -, ed eravamo ormai arrivati allo stilton quando Cleo non riuscì più a contenersi. Era stata piuttosto taciturna tutta la sera, ma, mentre la signora Giblet, accettato con contegno l'ennesimo porto che Fledge le offriva, sollevava il bicchiere in direzione di Henry - che aveva palesemente eletto a suo guaritore -, Cleo si alzò in piedi, visibilmente scossa dall'emozione, e puntò un dito tremante sulla vecchia signora. «Ma come può?» esclamò con una luce strana, innaturalmente feroce negli occhi. «Come può star qui a rimpinzarsi mentre Sidney è ancora là fuori al freddo, che soffre? Ah, lei mi fa schifo... No, mamma, non tentare di zittirmi, è la verità... Voi tutti ve ne state qui come se niente fosse, anche se in ogni momento là fuori» - e puntò il dito alla finestra - «accadono le cose più orribili! Là fuori! Voi non avete idea del male che esiste là fuori! Per voi un tubo scoppiato o un prosciutto troppo saporito è la cosa peggiore che possa capitarvi, ma in questo stesso momento, sotto il vostro naso, striscia sulla terra una creatura delle più sozze e abominevoli! Voi, però, non la vedete, voi vi coprite gli occhi perché sarebbe troppo seccante! Certo, se la vostra vita comoda ne fosse intaccata sarebbe diverso, ma il semplice fatto che una creatura orribile e nauseabonda, una creatura malvagia, si aggiri strisciando intorno a questa casa... no, questo non vi turba. Eppure c'è! C'è e lei la troverà, signora Giblet, la troverà nella palude! Ma farebbe meglio a andarci a notte fonda! Ah!» e piangendo fuggì dalla sala.
Cadde un breve, sbalordito silenzio. Poi Harriet si alzò e seguì Cleo, e così Hilary. Non provai a fermarle. Sospirando, la signora Giblet commentò: «Povera piccola. Le dirò che tutti quanti ci sentiamo come si sente lei. Ma ai giovani piace veder messi in mostra i sentimenti; non capiscono che con gli anni si impara a conservare le energie. Bisogna far così, non le pare, Sir Hugo?».
Avevo ascoltato lo sfogo di Cleo con i gomiti piantati sul tavolo, gli avambracci che formavano un arco e la bocca e il mento premuti sulle dita che si intrecciavano alla cuspide. Lanciai alla vecchia signora un'occhiata di traverso ma, sapendo quel che sapevo, non alzai il viso dalle mani per risponderle. Al mio posto parlò Victor. «Papà,» disse «secondo me è isteria, ma non sono sicuro di che tipo».
«Victor,» ribatté il padre «taci».
Gli Horn tornarono a Londra all'inizio di gennaio e temo che il loro soggiorno a Crook non fosse stato particolarmente festoso. Lo spettro di Sidney aveva continuato a aleggiare su tutti noi, specie su Cleo naturalmente, e in casa, per colpa delle tubature scoppiate, si era respirata un'aria non solo tetra, ma fastidiosamente fredda e irrigidita dagli spifferi. Hilary disse a Harriet di esser restia a andarsene, vedendo Cleo tanto infelice; ma Victor doveva pur ritornare a scuola. Harriet le assicurò che se la sarebbe cavata senz'altro da sola. Era una situazione molto penosa. Addirittura, poco prima di partire, Henry mi prese da parte e mi confidò che Cleo lo impensieriva parecchio; a suo parere, nel dolore della ragazza c'era qualcosa di morboso che lo preoccupava. Se nel giro di una settimana la depressione non le fosse passata, mi suggerì di telefonargli, che lui l'avrebbe «fatta vedere da qualcuno» in Harley Street. Lo ringraziai dell'interessamento ma, aggiunsi, ero certo che non fosse il caso di allarmarsi. Non lo sapeva, gli dissi, che tutti i Coal erano matti? Eppure doveva, avendone sposata una! Gli diedi una pacca sulla spalla con un gran sorriso stretto intorno al sigaro e poi gli domandai dove lo avrebbe portato il suo prossimo viaggio: quale remoto angolo della terra lo aspettava? Singapore? I Caraibi? O magari le rive orlate di pinete della Columbia Britannica, per un carico di buon legno da trasformare in carta?
«Hugo, dico sul serio» mi rispose lui.
«Dico sul serio anch'io, Henry» ribattei. «Non preoccuparti, con noi Cleo starà bene».
Mi dispiaceva che Victor se ne andasse; ero molto affezionato a quell'ometto. Senza farmi vedere dai suoi, gli allungai una banconota da dieci scellini e lo esortai a lasciar stare Freud; che leggesse Darwin, piuttosto. «Leggi L'origine della specie, ragazzo mio» gli dissi. «Scopri da dove provieni». Lui, con la frangetta folta che gli ricadeva davanti agli occhi, scoprì i bei denti sporgenti dei Coal in un gran sorriso, fingendosi offeso, e si passò un dito paffuto sulla gola. «Mai!» esclamò. Io gli mollai un paio di scappellotti, gli strinsi la mano e con passo pesante mi allontanai verso il fienile.
La signora Giblet mantenne la parola. Nei primi giorni dell'anno nuovo, una volta che si fu reinsediata nella sua stanza allo Hodge and Purlet, cominciarono a giungermi voci su di lei dal paese. A quanto pareva, dopo aver consumato la colazione alla locanda usciva e si faceva portare in automobile alla carraia che dalla strada di Ceck's Bottom conduce alla palude. Da lì proseguiva da sola e, raggiunta la palude, trascorreva la giornata avvolta nella sua immensa pelliccia ispezionando lentamente il terreno gelato fin verso le cinque, quando cominciava a calare il buio, ora in cui tornava sulla strada e aspettava che l'automobile venisse a riprenderla. La videro in parecchi da quelle parti, compresi Bill Cudlip e il vecchio John Crowthorne, che accennarono al fatto con una tranquilla espressione di disprezzo. Io, però, trovai stranamente commovente l'idea di quell'anziana donna, sola nella palude sotto il cielo freddo e grigio, in cerca di una traccia del figlio perduto. Immaginai che non avesse seguito il consiglio di Cleo di andarci a notte fonda, quando la «creatura strisciante e malvagia» si aggirava per quei luoghi: a notte fonda la palude di Ceck è un posto misterioso anche senza creature striscianti e malvagie; io stesso ci sono andato di notte, una volta.
Quanto a Cleo, si ritirò in camera sua nell'ala orientale, in uno stato di semiclausura che solo di rado interrompeva. Le rare volte in cui compariva da basso, era o arrabbiata, o depressa, o tutte e due le cose. «Dov'è finita la mia bambina ridanciana?» la rimproverai in un'occasione.
Lei mi guardò con occhi fiammeggianti e mi aggredì: «E perché dovrei ridere, papà? Di che cosa dovrei ridere?».
«Tesoro, calmati» mormorò Harriet. «Non essere così animosa». Allora lei si mise a piangere e Harriet dovette consolarla. Più tardi, Harriet tornò da me preoccupata e mi chiese se non ritenevo il caso di chiamare Henry e far «vedere» Cleo da qualcuno come aveva suggerito lui. Sciocchezze, le risposi, ce la farà da sola. È una cosa normalissima, non c'è motivo di allarmarsi. I Coal non vanno dai medici dei matti, le dissi. D'accordo, rispose Harriet, ma capii che non era del tutto convinta.
Malgrado ciò, quel che più mi aveva assillato da quando, il giorno di Natale, era rispuntata fuori la bicicletta di Sidney era la questione Fledge. Ormai non dubitavo che quella sera egli avesse teso un agguato al ragazzo mentre quest'ultimo si recava a Ceck, che lo avesse ucciso e poi ne avesse abbandonato il corpo nella palude. Ma il corpo, appunto, dov'era? Capite in quale brutta situazione mi dibattevo? Pur essendo certo di come fosse andata, non potevo mica andare alla polizia. Mi servivano dei fatti, delle prove: mi serviva innanzitutto un corpo! Avrei dovuto solo aspettare un altro po' e tenere sempre ben presente che stavo ospitando sotto il mio tetto un uomo disperato e violento: per la precisione, uno spietato assassino.
Gennaio fu, in apparenza, un periodo di calma e pur continuando a tener d'occhio Fledge con discrezione passai la maggior parte del tempo nel fienile, per dare gli ultimi ritocchi al mio discorso. Vi ho già detto in qual modo la palude di Ceck mi ispirasse un ragionare chiaro, specie nel travaglio della composizione. Ci andai un sabato pomeriggio verso la fine del mese e, come d'abitudine, parcheggiai la Morris sulla carraia che si staccava dalla strada di Ceck's Bottom.
Poiché aveva piovuto, il suolo era fangoso e il cielo appariva grigio e coperto. Affondai gli stivaloni nella melma e m'incamminai, ma a un certo punto, uscendo dal bosco, ebbi quasi uno spavento: sì, perché l'ampia distesa che mi aspettavo di trovare desolata e vuota era, invece, popolata di persone; nel paesaggio si muovevano alcune figure, figurette minuscole che si stagliavano in una lunga fila all'orizzonte. Lì per lì non riuscii a capirne il motivo: sapevo che la polizia aveva controllato la palude alla fine di dicembre, dopo il ritrovamento della bicicletta, ma non avendo scoperto altro aveva poi interrotto le ricerche. Un istante dopo, tuttavia, riconobbi una sagoma ben nota che arrancava ingobbita: pur lontana e vaga, non poteva appartenere ad altri che alla signora Giblet. E le figurette che marciavano lente davanti a lei nella malinconia del pomeriggio, be', erano senz'altro bambini!
Non andai oltre; se non riuscivo a trovarvi la solitudine che cercavo, la palude mi era inutile. Tornai alla macchina e mentre mettevo in moto cominciò a cadere una pioggerella dolce. Feci marcia indietro, riguadagnai la strada e voltai in direzione di Ceck's Bottom. La luce calava ormai a vista d'occhio, quando arrivai all'allevamento. Trovai George nel mattatoio, una baracca debolmente illuminata che puzzava di frattaglie, coperta da un vecchio tetto di lamiera ondulata sul quale la pioggia batteva piano. Era un posto buio e primitivo, il mattatoio di George, e lì trovai anche il vecchio John Crowthorne. Protetti entrambi da un grembiule lungo e sudicio, inzaccherato di sangue, i due stavano macellando il cadavere di un maiale appena ammazzato: una bestia enorme, che avevano appeso per le zampe a un gancio piantato nella trave soprastante, con il ventre aperto. Vicino al maiale, per terra, c'erano due secchi di sangue dai quali si levava un filo di fumo. George mi vide sulla soglia. Conficcò subito la mannaia in un blocco di legno pieno di tagli, dopodiché, asciugandosi le mani sul grembiule, uscì con me nell'oscurità umida del cortile. Quando gli raccontai che cosa avevo visto nella palude, le sopracciglia gli si corrugarono in un'espressione di collera; ma il fatto non lo sorprese. A quanto pareva, la vecchia signora stava impiegando nelle sue ricerche i bambini di Ceck, dando sei centesimi a ciascuno per una giornata di lavoro. Secondo la sua teoria, quando il terreno sgelava tendeva anche a smuoversi e, smuovendosi, a vomitare quanto conteneva, sempre che non fosse sepolto in profondità. Quel mese di gennaio c'era stato un breve disgelo; la signora Giblet si augurava che facesse riaffiorare ciò che era rimasto interrato durante le ricerche della polizia.
Fumammo; poi George si riavviò faticosamente al mattatoio nel letame che invadeva il cortile. La pioggerella lo bagnò e un'improvvisa raffica di vento gli incollò la camicia su rilievi e incavi della sua lunga schiena bozzoluta. Raggiunse la porta della baracca, si voltò e attraverso il velo di pioggia lo vidi alzare una mano verso di me e scoprire i grossi denti. Diedi un colpetto di clacson e ripresi la strada di Ceck's Bottom, nel momento stesso in cui cominciò a piovere sul serio. Ho raccontato di questo incontro solo per dimostrare che George non mi fece capire assolutamente che, in realtà, sapeva cosa ne era stato del corpo di Sidney. Ma non c'è da stupirsi: nel migliore dei casi, era un tipo scostante e enigmatico, e di sicuro sapeva tenere una cosa per sé.
Probabilmente fu perché nel pomeriggio ero andato alla palude che quella notte sognai un acquitrino mesozoico. Nel sogno era mattina molto presto e una specie di oscurità azzurrina pervadeva la scena. Nella nebbia bassa attanagliata alla superficie sfrecciavano ombrosi alcuni animaletti volanti con le ali palmate, coriacee e delicate, che scartando e planando andavano avanti e indietro in cerca di preda. La foresta tropicale che orlava l'acquitrino già fumava nel caldo umido dell'alba e salvo l'incessante ronzare, stridere e frinire degli insetti fra le sequoie e i pini giganteschi da presso, un silenzio pesante e assoluto incombeva sul luogo. Zolle e tappeti irregolari di muschio e i tronchi di enormi alberi caduti, resi indistinti dall'oscurità, con i loro monconi dentellati che artigliavano l'aria come grandi dita sul punto di annegare, si sgretolavano sul limitare dell'acquitrino, risprofondando nella melma primordiale dalla quale erano emersi. All'improvviso, da uno di questi tronchi immensi e senza vita sbuca fuori un minuscolo mammifero peloso. Si ferma con una zampa alzata e storce il musetto, poi beve con foga da una polla d'acqua nera e salmastra formatasi nel fango. Trepido e spasmodico, il musetto peloso torna su e l'animale corre svelto a rintanarsi nel suo tronco. Un attimo dopo giunge dalla foresta una specie di rimbombo sordo, lo schianto di corpi mastodontici che avanzano nella boscaglia.
La luce sta diventando più intensa. Nella palude tutto è immoto come la morte, mentre dalla foresta il fragore si fa sempre più vicino e tonante. E a un certo punto ecco che compaiono fra gli alberi, arrancando pesantemente in fila indiana, con le testine che ballonzolano da una parte all'altra sui colli lunghi e oscillanti e gli smisurati corpi a botte: sono un branco di Brontosauri, erbivori di modesta intelligenza venuti alla palude in una decina per dissetarsi. Hanno la pelle grigia e coriacea, maculata di chiazze e segni lievi color ruggine, e la coda lunga e affusolata si tende rigida di dietro, con la punta che nel cammino svirgola come una frusta. Con eleganza tenace e maestosa si dirigono verso uno specchio d'acqua al centro dell'acquitrino, affondando le zampe nella poltiglia con uno sciaguattio rumoroso. Una foschia bassa attanaglia ancora con riccioli e strie la superficie dell'acquitrino, dando agli animali un'aria vagamente spettrale. Ma il cielo sta diventando via via più luminoso, i grandi blocchi d'ombra che incorniciavano la palude svaniscono pian piano e gli alberi cominciano a farsi più nitidi. Il branco prosegue il suo pesante cammino sotto un cielo in cui adesso i rosa e i rossi carichi dell'alba colorano il fondo di una manciata di nuvole lanose.
Gli animali raggiungono lo stagno e si fermano a bere ai bordi. Le lunghe code ondeggiano ancora e in ogni momento una testa minuscola si alza sul collo serpentino a fiutare l'aria. I primi raggi del sole mattutino filtrano nella foresta e, battendo sul dorso gigantesco di uno dei mostri, mettono in luce la rugginosità riccamente screziata della sua pelle. E le teste continuano a alzarsi e abbassarsi senza posa, mentre dalla foresta arriva il grido stridulo di qualche bestia appena destatasi, seguito da uno scoppio prolungato di chiacchiericcio maniacale. Una lucertola volante si libra sopra gli alberi, poi svolta bruscamente e si allontana verso il sole nascente, sbatacchiando le ali. È a questo punto che si verificano tre eventi in rapida successione: il primo è il levarsi di una vivace brezza che spira da sud; da quella stessa direzione sopraggiunge poi il rumore di un grosso animale che avanza fra gli alberi; un istante dopo, il più grande dei brontosauri, un maschio massiccio di almeno trenta tonnellate, annusa l'aria con la massima concentrazione e lancia una specie di nitrito angosciato.
Tutti smettono di bere. I brontosauri si irrigidiscono, fiutando con la testa alzata le prime deboli esalazioni di carne putrida portate dalla brezza. Si ode uno strascichio di passi e qualcun altro nitrisce, riconoscendo il fetore inconfondibile di un carnosauro predatore; animali di questo genere puzzano immancabilmente del cadavere divorato durante l'ultimo loro pasto, perché restano distesi per settimane sulla carcassa in decomposizione, in un profondo torpore digestivo. E alla fine il predatore stesso compare ai margini dell'acquitrino: è un maschio adulto, maturo e perfettamente sviluppato, della specie Phlegmosaurus carbonensis.
A quella vista il panico s'impossessa dei timorosi brontosauri. L'alba è squassata da lancinanti barriti di terrore e gli animali si dibattono nel fango, tentando disperati di fuggire dall'acquitrino e rifugiarsi di nuovo fra gli alberi; ma nella loro isteria sembrano riuscire solo a impantanarsi ancor più nella mota.
Il fango ribolle e schizza nell'aria trafitta dai barriti dei brontosauri che arrancano impacciati, battendo in ritirata. E allora il Phlegmosaurus si muove: guizza sopra l'acquitrino sulle robuste zampe posteriori, tenendo le anteriori strette al tronco muscoloso e la grossa coda rigida a mo' di timone, o stabilizzatore, di quel suo corpo raggomitolato e svelto. La testa sembra una sola, enorme mascella e avvicinandosi il Phlegmosaurus ringhia e mastica rumoroso. Ha già scelto la sua preda, un giovane cucciolo paffuto, più lento degli altri, che ora nitrisce penosamente, chiedendo protezione al branco; ma la protezione, in quest'ora di bisogno, non arriva. In un batter d'occhio, il Phlegmosaurus lo raggiunge. Evitando agilmente i colpi e le sferzate della grossa coda del brontosauro, lo affronta e con un balzo gli si avventa sulla spalla. Ecco levarsi una zampa posteriore, e per un istante il tremendo artiglio ricurvo scintilla al sole; poi, in un caos di schizzi di fango e brandelli di carne, l'artiglio squarcia ripetutamente la gola del brontosauro e l'immenso animale si accascia nella melma con un rantolio spaventoso, mentre dal collo strappato escono grossi fiotti di sangue. Continuando a ruggire infuriato, il Phlegmosaurus comincia a dilaniare l'animale morente, addentandogli un fianco fino a staccare un pezzo enorme di carne fumante, in preda a una frenesia che ancora non cessa mentre il brontosauro agonizzante scalcia in una pozza di sangue limaccioso. Il resto del branco si è dileguato nella foresta e dagli alberi sorge ora una cacofonia di grida, strida e cicalecci impazziti. E ai bordi dell'acquitrino stanno già radunandosi i primi saprofagi. Il giovane erbivoro giace finalmente immobile e il frenetico smembrare e sbranare si placa. Il Phlegmosaurus seguita a mangiare metodicamente, afferrando la carne con le zampe anteriori e facendola a pezzi con i grossi artigli. Ogni tanto alza la testa e si volta a destra e sinistra, gocciolando sangue dalla mascella. Poi, quando il sole è alto nel cielo e inonda l'acquitrino di luce e calore, si accascia sul cadavere lacerato e sonnecchia nel tepore della carne senza vita. Sul limitare dell'acquitrino, il piccolo mammifero peloso rispunta fuori dal suo tronco d'albero; sedendosi impettito sulle zampe posteriori, si asciuga il muso baffuto con ambedue le zampe anteriori e osserva con sguardo luminoso e vigile il dinosauro appisolato.
Di colpo, un urlo stridulo rompe il silenzio dell'acquitrino... e mi svegliai. Rimasi confuso un momento, pensando di trovarmi ancora lì, poi capii sconvolto che l'urlo era venuto dalla camera di Cleo; anche lei dorme nell'ala orientale. Il tempo di infilarmi vestaglia e pantofole e fui subito nella sua stanza. La povera piccola era angosciatissima. La trovai seduta sul letto, tutta rannicchiata, con il viso nascosto fra le mani; le tende erano socchiuse e la luna, insinuandosi dentro attraverso lo spiraglio, riversava sul letto una pozza di luce al centro della quale Cleo, in camicia da notte bianca, stava piangendo. Non appena le fui vicino, lei affondò il viso sulla mia spalla e mi abbracciò stretto. Il suo corpo esile e tremante era scosso da grandi singhiozzi, che le impedivano di parlare. La tenni così per parecchio tempo, finché a poco a poco lei non si calmò. Quando alla fine sollevò la testa, le diedi un fazzoletto. «Grazie, papà» mi disse, tirando su col naso. «Mamma mia,» aggiunse «che cosa orribile. Oh, che cosa terrificante».
«Tesoro, che cosa?» mormorai io, accarezzandole i capelli.
«Oh, papà» disse lei, guardandomi a lungo con occhi umidi e cisposi. «Papà, è tornato a trovarmi... ed è stato orribile, molto peggio dell'ultima volta».
«Chi, tesoro? Chi è venuto a trovarti?» le domandai, continuando a accarezzarle i capelli dolcemente.
«Sidney, papà».
«Sidney! Ma tesoro, non è possibile! Vuoi dire che Sidney si trova in questa casa?». E mi guardai alle spalle, come se Sidney potesse essersi nascosto nell'armadio di Cleo o accovacciato senza farsi vedere in fondo al suo letto.
«No, papà, non è qui, non puoi vederlo». Chinò lo sguardo e tirò su forte col naso varie volte. Quando tornò a guardarmi, il suo viso era irrigidito dall'orrore e dalla sofferenza. «Sidney è morto, capito?». La frase scatenò un altro fiume di lacrime.
Dopodiché, lentamente, venne fuori tutta la storia. A quanto pareva, era la seconda volta che Sidney le si presentava di notte. Queste «visite», insistette Cleo, non erano un sogno: lei ricordava chiaramente di essersi svegliata. La prima volta, raccontò, Sidney stava in piedi accanto al suo letto e aveva la pelle bianca come il gesso, traslucida, con una vaga sfumatura verdastra. Inoltre, aggiunse, mandava un odore dolciastro e sgradevole. Indosso portava l'abito con cui era uscito la sera della scomparsa: giacca e pantaloni alla zuava di tweed beige, con un motivo leggero a scacchi gialli e celesti. Quello che più l'aveva colpita, tuttavia, era il grosso squarcio rabbioso e sbrindellato che il ragazzo aveva sotto il mento: qualcuno gli aveva tagliato la gola.
A quanto sembra, Sidney le aveva parlato, ma lei non ricordava le parole esatte; la visita l'aveva talmente scioccata che era riuscita a concentrarsi soltanto sul lembo di carne incrostato di grumi neri che il ragazzo aveva al posto del collo. Sua intenzione, pare, era quella di metterla in guardia. Metterla in guardia da cosa? Dalla «creatura strisciante e malvagia» che a notte fonda si aggirava per la campagna in cerca di preda. Quella volta non aveva detto altro. Ma stavolta, disse Cleo, stavolta... Rabbrividì violentemente. «Papà, aveva una voce...» fece in un sussurro. «Ha perso le corde vocali, è rauco come un vecchio. Non parla, le parole le pronuncia ansimando con un rantolo spaventoso. E mi dice delle cose».
Le presi le mani nelle mie. A bassa voce, con molta dolcezza, le chiesi: «Tesoro, che genere di cose?».
«Dice che la creatura che lo ha sgozzato veniva da questa casa».
Tacqui. Lei mi fissò con occhi sgranati e atterriti. «Papà,» aggiunse sussurrando «dev'essere Fledge».
Le diedi uno scotch (ne tengo una bottiglia in camera) e in qualche modo riuscii a calmarla. Per un po' rimasi seduto accanto a lei e la guardai che dormiva, grazie a Dio, tranquillamente. Poi mi accesi un sigaro e al lume di una candela riflettei su quella strana rivelazione riguardante Fledge. Dunque, anche lei aveva intuito la sua malvagità. Ma questo cosa comportava? Continuai a meditare sulla questione fino alle prime ore del mattino, ma non conclusi nulla di soddisfacente.
Ero ancora immerso nelle mie meditazioni quando, il giorno seguente, seduto in una vasca d'acqua tiepida, gridai a Fledge di venirmi a strofinare la schiena. Non avevo ancora capito che nella sua campagna per usurparmi il posto era prevista la seduzione di Harriet, anche se a ripensarci, mettendo insieme i pezzi del mosaico da questa mia sedia a rotelle, direi che a quel punto - era ormai la fine di gennaio - Harriet aveva già fatto visita al suo prete. E non ho dubbi che egli condannasse la faccenda, prospettandole le fiamme dell'inferno e la dannazione eterna. Evidentemente non bastò. «Ma io sono una donna!» esclamò Harriet. «Tu sei una creatura di Dio» ribatté il prete. «Il mio matrimonio è stato solo una caricatura!» gemette lei. «E allora devi offrirlo in sacrificio» rispose lui. Harriet venne via nient'affatto persuasa, anche se forse non volle ammetterlo. In lei si era ridestato qualcosa che non si sarebbe lasciato soffocare facilmente. La volta successiva che Fledge le mise le mani addosso, lei lo respinse, ma senza troppa convinzione. Fledge sapeva che di lì a poco avrebbe ceduto.
Sì, conoscevo la mia Harriet e sapevo che avrebbe avuto bisogno di un periodo di riflessione prima di arrendersi. Ma mi chiedo, quando accadde di preciso? Forse era già accaduto e io, assorbito com'ero dal mio lavoro e - nei momenti trascorsi a casa - da Fledge, non avevo notato in lei alcun cambiamento. O forse - e questo mi sembra più probabile - è accaduto solo in seguito, mentre mi trovavo in ospedale. «Più forte, Fledge» gli dissi. Fledge mi stava strofinando la schiena con un corallo e a me piaceva farmi frizionare finché la pelle non diventava tutta rossa e formicolante; è una cosa che ti fa sentire meravigliosamente vivo. «Così va meglio» commentai, non appena cominciò a metterci un po' più di nerbo. Ma non era avventato, direte voi, rendersi tanto vulnerabile in presenza di un uomo che aveva già ucciso? No. Piuttosto, sarebbe stato avventato impedirgli da un giorno all'altro di entrare nel mio bagno; in tal caso avrebbe intuito che io sapevo e quello, sì, sarebbe stato pericoloso. Fledge si sentiva sicuro, sicuro che nessuno sospettasse di lui, e era appunto quello che volevo.
Uscii dalla vasca e rimasi gocciolante e scosso dai tremiti sul tappetino, mentre Fledge mi asciugava con un asciugamano. Ora mi domando a che cosa pensasse, eseguendo quel compito. Si rendeva conto, ad esempio, di quanto piacevole sia farsi strofinare e asciugare da un servo? Fremeva forse dal risentimento perché ero io, e non lui, che potevo permettermi di ordinare a qualcuno un trattamento simile? No, sono propenso a credere piuttosto che fosse animato dalla fredda certezza che nel giro di qualche mese sarebbe cambiato tutto, che lui sarebbe stato il padrone di Crook e io sarei... morto. E non era nemmeno la prima volta che meditavo su come Fledge, senza alcun dubbio, intendesse uccidermi. E questa consapevolezza, e il fatto che egli non sapeva che ne ero consapevole, mi davano quel pizzicore, quell'inimitabile frisson che l'uomo intrepido prova davanti a un pericolo reale. «Basta così, Fledge» dissi. «Mi dia la vestaglia». Nel bagno gelido e spoglio dell'ala orientale, il mio corpo piccolo e asciutto fu attraversato da un brivido. Voltandomi verso lo specchio, notai con piacere il rossore che mi coloriva la schiena sfregata energicamente, poi infilai le braccia nella vestaglia che Fledge mi teneva aperta. Mi legai la cordicella stretta intorno alla vita e gli dissi di portarmi uno scotch mentre mi vestivo per la cena, dopodiché uscii in corridoio, lasciando a lui il compito di raccogliere gli asciugamani bagnati e di pulire la vasca. Il fatto è che in quel periodo mi stimolava la sfida che egli rappresentava, il vigore del conflitto che con Fledge mi si offriva. Vestendomi, pensai con uno sbuffo di disprezzo che era un imbecille a credere di potermi giocare. Di lì a poco, tuttavia, le circostanze gli avrebbero dato la meglio, circostanze che non riuscii a tenere sotto controllo e che ebbero origine da quella vecchia impicciona della Giblet.
La prima metà di febbraio fu molto umida dalle nostre parti e per me, come ho detto, fu anche un periodo assai intenso e snervante. Sì, perché a parte il gioco complesso e delicato - e mortalmente serio - che stavo giocando con Fledge, ero anche impegnato nei preparativi per la conferenza del 7. Ogni giorno mi ritiravo nel fienile e ripetevo il discorso a un mucchio d'ossa coperte da teloni e al corvo rauco che se ne stava appollaiato fra le travi; ero stato costretto a coprire il Phlegmosaurus con incerate e lenzuoli vecchi perché entrava pioggia dal tetto. Camminando avanti e indietro, recitavo la mia tesi rivoluzionaria sulla classificazione tassonomica del dinosauro e dentro di me - confesso - mi crogiolavo nell'ondata di applausi e polemiche che pensavo di scatenare. Onestamente, mi aspettavo di arrivare ben presto a dominare il dibattito sulla storia naturale, o quanto meno il suo filone paleontologico, io, il naturalista per passione, il dilettante! Vedete, mia intenzione era quella di esaminare a fondo e con cura insieme al pubblico le testimonianze offerte dai fossili, dal basso verso l'alto, dimostrando come ai rettili primitivi fossero succeduti dei «rettili» evoluti - dinosauri con un corpo simile a quello degli uccelli - dopo i quali vennero degli uccelli primitivi dotati di dentatura come l'Archaeopteryx, poi degli uccelli evoluti con dentatura e infine i moderni uccelli senza denti. Avrei dimostrato come la struttura ossea del Phlegmosaurus e la sua postura eretta, da bipede, fossero spiccatamente aviarie, e non avrei mai accettato la tesi che, avendo esso perso la grande clavicola necessaria a tutti gli uccelli volanti, la sua parentela con gli uccelli fosse di conseguenza una parentela lontana. No, io sostenevo che nei geni flegmosauriani la potenzialità di uno sviluppo della clavicola esisteva ancora, ma che si trattava semplicemente di una potenzialità latente. Avrei avanzato l'ipotesi che il mio Phlegmosaurus, sfrecciando da un punto all'altro del paesaggio mesozoico, raggiungesse velocità abbastanza alte da riuscire a farsi trasportare dalle correnti d'aria. E che la selezione naturale avrebbe favorito con ciò qualsiasi mutazione attraverso la quale potesse ricomparire la clavicola precedentemente eliminata. La ricomparsa di caratteristiche già eliminate - i cosiddetti atavismi - non è poi così insolita come si potrebbe essere indotti a credere; ogni tanto capita che salti fuori una balena con le zampe, o un cavallo con le dita. Regressi di questo genere si verificano anche nella nostra specie, ad esempio in quei bambini nati con la coda. Chiamando in causa un atavismo, dunque, avrei dimostrato che il Phlegmosaurus carbonensis aveva sviluppato una clavicola, messo le piume e spiccato il volo. Di conseguenza, il Phlegmosaurus carbonensis non andava classificato fra i rettili, ma era il padre degli uccelli.
Harriet, ricordo, dava allora i primi segni che il mio umore molto più nero del solito cominciava a irritarla. La sua soglia di tolleranza nei confronti dell'asocialità biliosa è notevolmente alta, ma c'è un limite a tutto, e il piglio indispettito che le corrugava la fronte mi lasciava intuire che ben presto quella soglia sarebbe stata raggiunta. Avrei dovuto dirle che dopo la conferenza sarei cambiato, ma non me la sentivo. Ora, tuttavia, mi sorge il dubbio che quella sua irritabilità così atipica non dipendesse affatto dal mio comportamento, ma fosse bensì il sintomo di una sua lotta interiore, perché a quel punto in Harriet lo spirito e la carne, ne sono convinto, erano in guerra.
Cleo non era d'aiuto. Non voleva mangiare con noi, non voleva lasciar entrare Harriet in camera sua e si rifiutava nella maniera più assoluta di ritornare a Oxford. Avrei dovuto dire a Harriet di non preoccuparsi, che sarebbe «passata», un po' come la pioggia (a mio modo di vedere, i sentimenti sono come il tempo: basta aspettare, passano tutti), ma nemmeno lì me la sentivo; il mio dramma personale mi assorbiva troppo. Doris si dava ancora da fare; Fledge era imperscrutabile. Così si presentava dunque la situazione a Crook, mentre continuava a piovere sulle tegole invase dal muschio e in qualche punto addirittura dentro casa, specie negli ambienti sul retro, dove bisognò mettere dei secchi su scale e pianerottoli onde evitare che gocciolasse per terra. Svuotare i secchi era compito di Fledge. Una mattina lo vidi con un secchio in una mano e uno nell'altra, che scendeva giù dalla scala di servizio, e mi ricordò George quando andava a dar da mangiare ai maiali. Il contrasto fra i due non poteva essere più grande, rammento di aver pensato, anche se curiosamente, a denudarli entrambi, a toglier loro la divisa dell'identità sociale, per modo di dire, non si sarebbe rilevata, credo, una differenza granché pronunciata. Quanto a struttura ossea e costituzione fisica erano in generale assai simili; si sarebbero potuti dire addirittura fratelli, strana idea.
E nel frattempo la signora Giblet seguitava a aggirarsi per la palude, cercando tracce di un sommovimento, un osso nel fango con cui potesse finalmente mettersi l'anima in pace sulla scomparsa del figlio. La gente si sentiva a disagio. Il vecchio John Crowthorne me ne parlò un pomeriggio allo Hodge and Purlet, dopodiché sputò nel fuoco; chiunque lo conosca saprà dirvi che cosa significa se John Crowthorne sputa nel fuoco. Evidentemente, la pioggia non era un ostacolo per la vecchia signora, che anche col brutto tempo se ne stava lì, sotto un enorme ombrello nero, a sguazzare avanti e indietro nella mota; la sera mangiava sempre sola in fondo alla taverna, ma per fortuna quando ci andai io non c'era. Quanto a me, dormivo malissimo; può darsi che abbia fatto altri sogni, ma la mattina dopo non ne ho mai ricordato nessuno. Vicino a Pock, il Fling straripò e si portò via una pecora.
Per quel che ricordo, nulla indicava che il 5 febbraio sarebbe stato un giorno cruciale nell'evolversi di questa vicenda. Forse c'era già qualche indizio, qualche presagio o segno premonitore, ma io non lo vedevo. All'epoca nulla tangeva ancora il mio empirismo e può darsi che fosse quello a rendermi cieco di fronte a un eventuale avvertimento. Erano le due e mezza del pomeriggio e stavo bevendo un whisky nel fienile, quando Fledge mi consegnò un messaggio: la signora Giblet c'era riuscita, aveva trovato le ossa di Sidney. La notizia mi gettò in un'agitazione profonda: pensavo a Cleo, naturalmente, e alle ripercussioni che questo terribile evento avrebbe avuto su di lei.
A ripensarci adesso, non fu tanto il ritrovamento delle ossa che mi mise in agitazione quanto, credo, lo stato in cui furono ritrovate. Vedete, in vita mia ho riportato alla luce tante di quelle ossa che riesco a figurarmi perfettamente la scena che si svolse nella palude, anche se, certo, dai miei scavi ho sempre estratto ossa asciutte, mentre quelle erano bagnate; ma l'opera paziente del dissotterramento e del recupero la conosco bene. A quanto pare, la signora Giblet inciampò in un pezzo di costola - accadde a un paio di chilometri da dove era stata rinvenuta la bicicletta -, un pezzo di costola che la terra stava ributtando fuori dalle proprie viscere. Aiutandosi con una paletta da giardiniere che portava con sé, la vecchia signora fece riaffiorare l'intera gabbia toracica e, poco più avanti, il teschio. Come ho detto, quest'attività non mi è nuova. Ma quando venni a sapere che lo scheletro continuava a spuntar fuori un po' per volta, osso per osso, e che sulle ossa c'erano i segni di denti, ecco, là entrai in agitazione davvero, perché (experto crede) avevo proprio il presentimento che prima d'essere scaricato nella palude Sidney fosse stato fatto a pezzi e che nel frattempo qualcuno, o qualcosa, lo avesse ripulito ben bene di carne, cartilagine e tutto. In altre parole, prima era stato massacrato e poi rosicchiato.
Massacrato e rosicchiato. Limp e i suoi uomini arrivarono subito sul posto e, grazie a un'energica opera di scavo, prima di sera tirarono fuori lo scheletro intero. Gli orribili resti vennero portati in fretta e furia al laboratorio scientifico per essere analizzati e, nelle ore seguenti, le riflessioni che si fecero furono molte e approfondite, per non dire macabre. Il rapporto del laboratorio fu pronto l'indomani mattina e contribuì ben poco a calmare i miei timori. Sidney era stato effettivamente massacrato e rosicchiato: massacrato da esseri umani e rosicchiato da maiali...
Il vago senso di disagio che mi aveva accompagnato da quando erano ritornate alla luce le ossa assunse adesso una forma ben precisa, perché le implicazioni di quella scoperta mi furono subito chiare. Che ci trovassimo di fronte a un esempio tipico di pastrocchio poliziesco era assolutamente indubbio; ma il problema, vedete, stava nel fatto che l'allevamento di maiali di Ceck's Bottom - il mio allevamento di maiali - era anche l'unico nei paraggi della palude di Ceck e non ci voleva un genio per prevedere le successive mosse di Limp.
La sera del 6 andai alla taverna dello Hodge and Purlet e vi incontrai il vecchio John Crowthorne. Quel pomeriggio, mi riferì quest'ultimo, mentre stava attraversando il cortile dell'allevamento con un secchio di broda da una parte e uno dall'altra, due automobili della polizia erano entrate a tutta velocità dal cancello e si erano fermate con uno sguazzar di ruote sui ciottoli inzaccherati di letame (era un pomeriggio piuttosto umido e coperto). Dalla prima automobile era sceso Limp. «George Lecky?» aveva gridato.
«No» aveva risposto il vecchio John, che senza alcun dubbio dava al piccolo e affaccendato ispettore di polizia un'immagine di sé a dir poco malsana, con i suoi enormi basettoni scuri e il volto rigato dall'alto in basso di solchi profondi, che sembrano tutti pieni di terra. «No» aveva ripetuto poi, mentre un gruppetto di poliziotti grandi e grossi scendeva dalle auto.
«Lei è...?» gli aveva chiesto Limp.
«John Crowthorne. Salutiamo, Hubert» aveva aggiunto rivolto a Cleggie, il poliziotto di Ceck.
«E dove possiamo trovare George Lecky?» aveva domandato Limp. Poi, senza attendere risposta: «Bene, dobbiamo perquisire l'allevamento, abbiamo un mandato» - e ai suoi uomini: «Forza, entrate!».
Mentre ascoltavo, cominciai a sentirmi sempre più infastidito. La storia che i maiali avevano rosicchiato le ossa di Sidney, come ho detto, era una gran fesseria. E che quel piccolo bastardo invadente di Limp fosse andato giù all'allevamento - di mia proprietà, non dimenticate, faceva ancora parte della tenuta di Crook - e come mi riferì il vecchio John si fosse messo a perquisire il posto, finendo per portar via gli arnesi di George - coltelli, seghe e mannaie -, era intollerabile. «Cristo di Dio» dissi fra i denti, buttando il sigaro nel fuoco. «Che faccia tosta, quell'omuncolo maledetto!».
Il vecchio John socchiuse gli occhi e mi guardò con aria scaltra - fatto singolare, visto che di solito i suoi occhi guizzano incessantemente tra i muri e il soffitto di qualunque stanza in cui si trovi, suppongo per una specie di tic nervoso -, dopodiché si voltò verso il fuoco e fece partire un grosso sputacchio; dal camino si levò un breve sibilo. A quel punto mi raccontò cos'era successo in seguito, un episodio fra l'altro abbastanza drammatico. Subito dopo che la polizia ebbe caricato un mucchio di sacchi incrostati di sangue su una delle due automobili, dalla palude si udì arrivare una specie di potente ruggito e nell'oscurità comparve un occhio enorme e scintillante, che si avvicinò rapidissimo verso l'allevamento sulla strada di Ceck's Bottom. A quanto pare, Limp e gli agenti restarono impietriti, come radicati ai ciottoli, mentre tra sobbalzi e ritorni di fiamma la ciclopica creatura piombava nel cortile: naturalmente si trattava di George al volante del camioncino, il quale entrò a tutto gas e con un'ampia inversione a U girò il mezzo, costringendo i presenti a appiattirsi contro il muro. Conoscendo le dimensioni del cortile e le condizioni del camioncino, suppongo che debba aver sterzato e pestato sui pedali come un pazzo per fare una manovra del genere. Fra ruggiti e sbandamenti, proseguì il vecchio John, George uscì sferragliando dal cortile, continuando a scoppiettare rumorosamente, e ripresa la strada di Ceck's Bottom corse via verso il paese. Nell'aria rimase un vago odore di benzina e di olio bruciato; in sottofondo, si udiva ancora un basso continuo di grugniti porcini. «Era come se ci aveva fatto una fattura a venire così, giù all'allevamento» commentò il vecchio John con uno sguardo acceso, abbassando la voce. «La cosa strana, Sir Hugo, è che io l'ho visto in faccia quando mi s'è avvicinato, e George c'aveva paura, capito?, George c'aveva una paura boia!». Fu Limp, a quanto sembra, a spezzare la fattura. «Bene!» gridò. «In macchina! Andiamogli dietro!» e sotto lo sguardo perplesso del vecchio John Crowthorne le automobili della polizia erano schizzate fuori dal cortile a sirene spiegate, all'inseguimento di George.
La strada di Ceck's Bottom non è l'ideale per un inseguimento sfrenato fra automobili: è accidentata, piena di buche e solchi, disseminata di massi e letame, e ogni tanto ci passa una vacca randagia. La polizia non riuscì a raggiungere George e quando finalmente arrivò a Ceck aveva ormai perso ogni traccia della preda. Limp si precipitò allo Hodge and Purlet - questo me lo raccontò Bill Cudlip, che aveva assistito alla scena - e riuscì fuori di corsa. «Torniamo indietro!» gridò. «Dev'essersi nascosto nella palude». Grasse risate di Crowthorne e Cudlip, frattanto, per la facilità con cui George aveva seminato gli inseguitori, e dentro di me esultai anch'io. George aveva davvero cercato riparo nella palude, il camioncino era stato ritrovato lungo la carraia, e vedo benissimo i fari della polizia puntati sui parafanghi sudici, la ribalta lorda di broda, i bidoni sistemati sul fondo del camioncino ben noto. Al di là delle luci dei fari, tuttavia, gli alberi alzavano una cortina nera e impenetrabile. Probabilmente i poliziotti erano scesi dalle auto ed erano rimasti a ascoltare la palude, che si estendeva per chilometri dietro quegli alberi: una terra oscura e infida dove sarebbe stata una follia addentrarsi, a meno di non conoscerla bene. Sul posto regnava un profondo silenzio. «Scappa, scappa» mormorò Limp. «Tanto domattina mando qui cinquanta uomini».
Ma i cinquanta uomini di Limp non riuscirono a scovarlo, pur continuando a setacciare la palude con cura e metodo per parecchi giorni. Quella sera, tuttavia, la sera del 6, restai là a guardare il fuoco pensando al mio vecchio amico George, che in quel preciso momento si nascondeva da qualche parte nella palude di Ceck, sottraendosi alla legge. Ma perché? Che cosa aveva fatto? Di che cosa doveva aver paura? In un angolo buio della mia mente cominciò a prender forma un terribile sospetto: no, non volevo dargli peso, lo ricacciai lontano: no, quello no.
Vi racconto questi fatti stando seduto non nella mia grotta sotto le scale, bensì in cucina, mentre Doris e Cleo mi tagliano le unghie. Siamo alla metà di aprile ed è già più di un mese che sono tornato a casa dall'ospedale. Ora trascorro la maggior parte della giornata in cucina; Cleo è ancora lungi dall'essersi rimessa, ma per lo meno non se ne sta più rintanata nell'ala orientale a rimuginare; anche lei, adesso, passa le sue giornate ronzando intorno alla cucina e a Crook, e di conseguenza è occorsa una sorta di spaccatura, una demarcazione chiara tra il davanti e il dietro della casa, con Harriet e Fledge da una parte, Doris e Cleo dall'altra e io elemento neutro, che rotolo avanti e indietro fra i due campi come una palla da tennis. Dunque me ne sto qui in cucina a godermi il sole, nonché le attenzioni di Doris e Cleo, e cerco intanto di comporre a vostro benefìcio un resoconto, per quanto mi è possibile completo e coerente, di come sia andata a finire così. Perdonatemi se a volte sembro contraddirmi o violare in altro modo l'ordine naturale degli eventi che sto narrando; questa di scegliere e organizzare i propri ricordi in maniera tale da descrivere con precisione cosa accadde è un'impresa delicata e rischiosa e comincio a chiedermi se, in effetti, non vada oltre le mie capacità. Dal giorno dell'incidente, l'atteggiamento scientifico al quale ho mantenuto fede per decenni, con i suoi rigorosi princìpi di obiettività, eccetera eccetera, ha subito pesanti e ripetuti attacchi: sono comparse delle crepe e da quelle crepe spuntano sogghignando mostruose anomalie. Che non riesco a controllare. Sono diventato superstizioso. Vado soggetto a «visioni».
Suppongo che prima o poi sarò costretto a descrivere le circostanze in cui è avvenuto l'incidente. Francamente, preferirei farlo più poi che prima; la faccenda mi procura ancora forte imbarazzo e sofferenza perché, confesso, era presente anche Fledge: la sua presenza, anzi, è stata una causa scatenante. Sarà mia premura darne un resoconto completo a tempo debito; per ora basti sapere che, dopo aver ripreso conoscenza, ho attraversato un periodo di autentica malattia, perché è terrificante volersi muovere e restare inerte, ed è terrificante provare il senso di disordine che tale inerzia provoca. E benché col tempo abbia cominciato a intavolare una specie di rapporto con la realtà oggettiva, a adattarmi alla realtà oggettiva, durante i primi giorni in ospedale, fra tante cose, mi ha afflitto soprattutto un senso di fallimento. Me ne stavo disteso al buio, intrappolato nella prigione di un cranio che mi pulsava con la violenza di un martello pneumatico, e sforzavo ogni fibra del mio essere unicamente per alzare il dito mignolo della mano destra; spendevo tutte le mie risorse pur di sollevare di un millimetro quel dito dal lenzuolo. L'operazione acutizzava il mal di testa a tal punto che mi aspettavo di veder letteralmente esplodere questo mio cranio, ma il maledetto dito non voleva muoversi, e dopo qualche minuto mi prendeva dapprima un senso travolgente di disperazione e futilità, poi un senso di vergogna per aver fallito. Questo, come ho detto, è successo agli inizi, prima che abbia cominciato attivamente a accettare l'idea di essere un uomo senza un corpo. Più tardi, è ovvio, sono sceso a patti con la mia condizione; tuttavia, non è stato coraggio, ma istinto, puro istinto di conservazione, quell'istinto che condividono tutti gli organismi viventi. Prima di arrivarci, a ogni modo, ho attraversato un periodo in cui mi ero convinto che se non fossi più riuscito a muovermi sarebbe stata colpa mia, perché non mi ero sforzato abbastanza. Strano, quanto fossi riluttante a ammettere che la mia volontà cosciente non era in grado di controllare il mio destino. Le vecchie abitudini son dure a morire, immagino.
Oh, ma la porta di servizio è aperta! Gli uccelli cinguettano e il sole pomeridiano inonda caldo le antiche pietre grigie. È primavera e le giornate piovose di quell'orribile febbraio, ormai, sono passate. Cleo, noto, sta dedicandosi a un passatempo nuovo e singolare, colleziona unghie tagliate in una scatola da fiammiferi, mentre Doris, che manovra le forbici, si interrompe di quando in quando per buttar giù un sorsetto di sherry. Una scena di amena tranquillità domestica, dunque, e sinceramente ho qualche difficoltà a concentrarmi su ossa rosicchiate e cadaveri smembrati. «Adesso i piedi» mi dice Cleo e tutte e due si inginocchiano per togliermi scarpe e calze. Questo rituale, o meglio, in verità qualunque situazione in cui mi si tocchi, mi dà un piacere smisurato, anche se toccandomi i piedi mi fanno il solletico e riderei come un bambino, se solo ne fossi capace. «Ma che piedi puzzolenti hai, papi» mi fa Cleo. «Sembrano due forme di cacio stagionato, lei che ne dice, signora Fledge?».
Doris mi lancia il suo sorriso sbilenco. Cara Doris, penserei molto più volentieri a lei che al defunto Sidney e alle sue ossa rosicchiate dai maiali. Doris, adesso, è per me la fonte della vita. Mi sfama. Mi lava. Mi cambia e mi veste. Mi vezzeggia e mi riempie di ciangottii come una giovane e affettuosissima mamma. E io, privo come sono di qualsiasi altro contatto fisico col mondo, ho finito per desiderare e adorare la sensazione delle sue mani sul mio corpo, ho finito per amare tutto di lei, perfino il suo alito alcolico e i suoi armeggii sbronzi della sera. Certe volte, quando sono con lei, quando lei mi accudisce teneramente nella vasca o sul gabinetto, mi sciolgo in lacrime; ma a lei non viene mai in mente, come è successo invece a Cleo, che per un vegetale piangere dovrebbe essere impossibile. Questo, perché Doris non mi vede come mi vedono gli altri, pensando sempre al danno cerebrale. Io sono il suo bambino.
Cara Doris. Ma non vi ho ancora raccontato del mio ritorno a Crook, un ritorno che difficilmente definirei trionfale. Le mie condizioni, a quanto pareva, si erano «stabilizzate», o forse sarebbe stato meglio dire «fossilizzate»: riuscivo a star seduto sulla sedia a rotelle, a masticare e inghiottire, a defecare e a piangere; in termini di attività fisica, questo era quanto. Avevo però un'allarmante tendenza a digrignare i denti e di quando in quando il respiro mi si faceva oltremodo affannoso, tanto che pur essendo perfettamente desto attaccavo a russare. Ho notato che questo vizio di russare si manifestava quando mi soffermavo a riflettere su questioni penose, ad esempio su Fledge; di conseguenza, russavo gran parte della giornata, mentre a quanto sembra nel sonno me ne stavo quieto (nella mia vita di vegetale, rovesciamenti di tal genere erano comuni). Nei momenti di emozione intensa, i miei rumori diventavano sempre più affannosi e culminavano in un crescendo di rugli e grugniti, tanto che mi trovavo costretto a abbandonare i miei ragionamenti per concentrarmi sulla respirazione e riportarla sotto controllo, mentre le infermiere accorse al mio capezzale mi battevano violentemente sulla schiena. È stato questo fenomeno che ha indotto Walter Dendrite, il mio neurologo, a definirmi pubblicamente un maiale. Ma il punto è che Doris si è offerta di accudire il mostro russante che ero diventato di sua spontanea volontà; ha accettato di dedicare a me le cure di una madre e per questo io le voglio bene.
Harriet e Hilary hanno fatto con me il viaggio di ritorno a Crook nell'ambulanza. Ormai Harriet non scoppiava più in lacrime ogni qual volta mi guardava; i medici vi avevano posto rimedio, ho udito questi ultimi mormorare un giorno ai piedi del mio letto. In effetti, quella di vedere i miei familiari passare dal dolore e dalla compassione iniziali all'accettazione e a un'apparente indifferenza in un lasso di tempo straordinariamente breve è stata una delle esperienze più notevoli di quel primo periodo della mia vita di vegetale. Cosi, mi accorgo, si dimenticano i morti, così si rendono sopportabili le persone nelle mie stesse condizioni. Sì, perché chi mai riesce a guardare più di tanto una creatura il cui unico messaggio dice crudamente: vedi quanto sei anche tu vicino al grottesco? La nostra parentela con il grottesco è cosa da scansare, richiede un atto di rifiuto, di brusco allontanamento, e qui i medici sono stati disponibilissimi a collaborare, perché hanno consentito a Harriet e a tutti gli altri di rifiutare la mia perdurante umanità grazie a una sequela di paroloni astnisi che recavano l'imprimatur della... scienza! Della scienza! E questa non è certo l'ultima delle ironie di cui si condisce tanto generosamente questo mio racconto: la scienza propone - e così avevo vissuto io fin allora - ma, al tempo stesso, dispone. Perciò adesso mi trovavo impigliato, immobilizzato nelle maglie di una tassonomia medica come una mosca nella tela del ragno. La mia identità era diventata neuropatologica: non ero più un uomo, ero un caso clinico, e in quanto tale non potevo più suscitare la pena profonda che giustamente meritavo. A esser sinceri, non credo nemmeno che mi dessero tanto da vivere. Sapevano del cuore e dell'arteriosclerosi; fossi stato un eschimese, secondo me mi avrebbero semplicemente spedito fuori nella bufera e tanti saluti. Non che mi sarebbe dispiaciuto, o meglio, non mi sarebbe dispiaciuto se nella bufera avessi potuto portarmi dietro Fledge. Allora sì che sarei morto felice. Vi ho già detto che quando ho ripreso conoscenza mi sono visto ronzare intorno al letto il terrificante Patrick Pin? Pare che Harriet, temendo per la mia vita, mi avesse fatto dare l'estrema unzione. E non finiva lì: adesso sfoggiavo intorno al collo una catenina d'argento alla quale era attaccato un piccolo crocifisso. Comunque fosse andata, potevo almeno star sicuro dai vampiri. Ha!
A ogni modo, sta di fatto che il mio ritorno a Crook merita d'essere ricordato per quel che mi ha insegnato sulla natura della speranza. Vi prego di portare pazienza; l'opportunità di tali commenti vi sarà presto chiara. Vedete, Fledge mi aveva spinto dall'ambulanza fino a casa e dall'atrio in salotto, e nel frattempo mi era stato impossibile non notare la ripugnante aura di trionfo che lo avviluppava come un odore, che trasudava nauseabonda da tutti i suoi sciagurati pori. Poi mi aveva addossato al muro davanti al camino e là mi aveva lasciato.
Orbene, Crook, come tanto sagacemente aveva osservato la madre di Sidney la sera di Capodanno parlando con Harriet, è una casa di legno. E malgrado il fatto che stia cadendo a pezzi, conserva un suo carattere spiccato proprio perché è fatta di legno. Scale e pavimenti sono di quercia come la pannellatura alle pareti, che è scura e dà agli ambienti un'atmosfera calda e confortevole. Anche i telai delle porte sono di legno e terminano con un delizioso archetto basso, appena acuto al centro. La porta d'ingresso è divisa in pannelli borchiati, ma la decorazione è limitata alla fascia superiore della pannellatura a muro e allo zoccolo del pianterreno. Tutt'intorno al camino del salotto però - e la mia sedia a rotelle, come ho detto, era stata sistemata in maniera tale che gli sedevo proprio di fronte - c'è un elaboratissimo bassorilievo: un capolavoro, a dire il vero, un capolavoro di intaglio Tudor.
Stanno ai lati del focolare due colonne di quercia che sorreggono una sovrastruttura, o trabeazione, comprendente architrave, fregio e cornice. La sporgenza di quest'ultima fa da mensola del camino, al di sopra della quale si ripete tutto il disegno del camino stesso, naturalmente in dimensioni molto ridotte. Sopra la mensola, dunque, c'è un'eco del camino - mi seguite? - e mentre lo spazio fra le colonne inferiori ospita il focolare, nel bassorilievo sono raffigurati lo stemma della famiglia Coal (chimera, saliente, rosso in campo nero) e, sotto, il nostro motto: NIL DESPERANDUM.
Nil desperandum. Sin da bambino ho avuto la certezza che quelle parole fossero destinate a me. Nei momenti di crisi - per esempio, in Africa - mi hanno dato forza. Ed è sorprendente, no?, quanto conforto si possa trarre da due parole, letteralmente «non c'è ragione di disperare». Forse per me rivestono tanta importanza proprio perché invece ho una tendenza molto concreta a disperare. È una caratteristica ereditaria: Sir Digby Coal morì suicida e temo proprio che anche Cleo abbia un animo malinconico, preso da me, insieme ai denti. Da quattro secoli, tuttavia, le parole che campeggiano sopra il camino, forse in rapporto allegorico col fuoco di sotto, aiutano la mia stirpe nella sua lotta contro una propensione innata a abbandonare la speranza. Queste parole hanno scaldato il cuore dei miei avi, mentre le fiamme sottostanti hanno scaldato le loro ossa. Sono giunto alla conclusione che col tempo un edificio diventi in qualche modo immanente allo spirito di chi vi risiede, sicché può darsi che quella mattina, mentre me ne stavo seduto con lo sguardo fisso sul camino, le mie reazioni dipendessero anche da questo fatto. Strani sentimenti per uno scienziato, direte voi. Ma a quel punto, come penso vi sia ormai chiaro, stavo già perdendo il controllo di quella visione rigorosamente empirico-meccanicistica della natura alla quale ero stato fedele per anni.
Ebbene, mentre me ne stavo seduto con lo sguardo fisso sul camino, sullo stemma e, sotto lo stemma, sul nostro motto, si è verificato un evento del tutto inatteso: dentro di me si è ridestato qualcosa e per un breve istante mi sono sentito pervadere dall'euforia. Vedete, quelle parole immortali sopra il camino mi hanno ricordato che ero un Coal e che non mi sarei lasciato soppiantare da un servo. Inconsapevolmente, Fledge mi aveva fornito l'unico stimolo in assoluto capace di darmi forza e coraggio e per la prima volta dopo l'incidente ho ripreso animo. Magari, ho pensato d'un tratto, non c'è veramente ragione di disperare. Da quanto avevo udito all'ospedale, i medici non credevano che avrei mai riacquistato l'uso del corpo; nonostante ciò, ho deciso seduta stante di sperare comunque, e in quel fossile del mio corpo impietrito qualcosa ha preso fuoco ed è divampato.
Sì, il ritorno a Crook mi ha ridato vita e vigore e dunque, alla fin fine, è stato una specie di trionfo. A ripensarci ora, ricordo che lì per lì sono rimasto sconvolto dal fracasso che faceva la carrozzella sul vecchio assito del pavimento, dal rimbombo tonante che ha invaso l'atrio mentre io, al timone, guidavo l'arnese col naso proteso a mo' di prora e i miei vecchi artigli aggrappati ai braccioli; ma ricordo anche che nel giro di qualche minuto allo choc iniziale si è sostituito un feroce compiacimento all'idea che i miei spostamenti in casa avrebbero scatenato tanto rumore, che questo frastuono di ruote sull'assito avrebbe segnalato con tanto sonora enfasi i miei movimenti a chiunque si fosse trovato nei paraggi. Inoltre, indossavo di nuovo il mio completo di tweed. In ospedale ero dimagrito, sicché l'abito ora mi stava largo; ma era pur sempre il mio completo, il mio peloso completo di tweed con le toppe di pelle ai gomiti e le alette grosse perché non potesse cadere niente dalle tasche. Era un completo che mi ero fatto fare su misura da una sartoria di Londra riservata esclusivamente al gentiluomo di campagna, una sartoria che aveva vestito mio padre e, prima ancora, il padre di mio padre (nel frattempo, purtroppo, ha chiuso). Tutte queste cose hanno contribuito a scuotermi dall'orribile torpore in cui mi aveva sprofondato quel mese trascorso all'inferno. E benché dalla mia postura o dalla mia espressione non trasparisse un segno, neppure un barlume di tutto ciò, dentro di me era in corso una specie di celebrazione della vita. Hugo, nil desperandum, mi dicevo, nil desperandum, vecchio mio.
Oh, buon Dio, mi son lasciato trascinare dal discorso molto più avanti di quanto non dovessi. La mia cronologia è di nuovo tutta scombussolata. Dov'ero rimasto?
Dunque, George Lecky aveva cercato scampo nella palude di Ceck e gli uomini di Limp non erano riusciti a stanarlo. Fin qui niente di strano; George abitava vicino alla palude da venticinque anni, cioè da quando lo avevo portato con me dall'Africa, e probabilmente conosceva quei luoghi desolati meglio di chiunque altro, eccezion fatta per il vecchio John Crowthorne. Di conseguenza, non gli sarebbe stato difficile sfuggire alla polizia. E non fui sorpreso quando, tre giorni dopo, si presentò nel mio fienile. A dire il vero, anzi, lo stavo aspettando: a chi altri si sarebbe rivolto, se non al suo vecchio compagno d'Africa?
Stavo seduto nella mia poltrona di vimini a guardare il Phlegmosaurus, quando udii un tramestio nel sottotetto. Alzai gli occhi: George era in cima alla scala che portava al piano di sopra, la testa circonfusa da un fascio di luce invernale proveniente dalla finestrella del timpano alle sue spalle, sicché i suoi lineamenti restavano completamente nell'ombra. Per un momento nessuno di noi due parlò, nessuno di noi due si mosse. Era un momento importante, una specie di prova. Non ebbi esitazioni: balzai in piedi e tendendo le braccia verso di lui esclamai: «Santo cielo, amico mio, scendi giù. Starai morendo di fame!».
Abbracciai il mio vecchio compagno calorosamente, malgrado l'odore che emanava. Un uomo che abbia cercato di sopravvivere alla meno peggio nella palude di Ceck per vari giorni di seguito non può trovarsi certo in condizioni gradevoli. Aveva la giacca e i pantaloni infangati, ancora umidi sul fondo e sui risvolti, e gli erano rimasti attaccati addosso fili di paglia e altri resti vegetali. Aveva la testa scoperta, la barba lunga e un alito pessimo e l'abituale atteggiamento di calma stoica era scomparso dal suo viso, sostituito da un'espressione vigile, nervosa, impaurita. L'espressione di una preda. Lo feci sedere nella poltrona di vimini e gli diedi uno scotch. Lui ne bevve un sorso, tirò indietro le labbra a scoprire i denti e si strofinò la testa e gli occhi; dopodiché mandò giù un altro sorso. Mi resi conto che il whisky lo aveva riscaldato e vivificato, ma gli diedi ancora qualche minuto per ricomporsi. Dovevo andare in casa a prendergli qualcosa da mangiare? No, non ancora, prima voleva parlare. Finì il whisky e si piegò in avanti, con le mani sulle ginocchia e i gomiti in fuori, formando con le braccia due contrafforti rigidi per quel suo corpo teso e sfinito. Teneva gli occhi incollati per terra e respirava profondamente. «Insomma, George,» gli dissi infine «che succede?».
Vi ho mai parlato dell'inattendibilità della memoria? Guardarle a posteriori dà senz'altro un ordine alle cose, nessuno lo mette in dubbio; ma io mi domando se, in realtà, tale ordine non si consegua unicamente in quanto funzione della mente che ricorda, la quale per sua stessa natura tende a riordinare i fatti. Dico questo solo perché la conversazione che segue ebbe luogo mesi fa e nel frattempo sono accadute molte cose. Ma lo spirito di quella conversazione credo di averlo colto bene, e questo è l'importante.
George scrollò la testa. Continuava a portarsi una mano al collo e a strofinarsi forte uno sfogo fastidioso (conseguenza, presumo, del contatto con qualche pianta urticante della palude). Era evidente che l'irritazione gli procurava un prurito intenso, così presi mentalmente nota di portargli una pomata da casa. Senza sollevare gli occhi da terra, George cominciò a raccontare, e mi sorprese, perché nominò subito John Crowthorne e lo insultò, definendolo un vecchio imbecille. A dire il vero, avevo pensato che il vecchio John potesse aver avuto parte nella faccenda, ma non avevo dato seguito all'idea. George parlava a voce bassa, con tono esitante; a un certo punto, tuttavia, alzò la testa e mi fissò con uno sguardo carico di una rabbia impetuosa ma pateticamente vana, la rabbia di un uomo che sa di trovarsi in una situazione disperata, senza via d'uscita.
«Sì, ma il vecchio John che cosa c'entra?» lo spronai. Nel silenzio che seguì udimmo entrambi chiaramente un topo che zampettava veloce nel fieno in fondo allo stanzone. «Gli do il camioncino» disse infine George riabbassando gli occhi «e lui lo porta giù in fondo alla palude». Annuii. Il vecchio John, lo sapevo bene, prendeva il camioncino della broda quando le sue spedizioni notturne di bracconiere lo conducevano più lontano del solito. «Quando torna, non lo sento, poi però di notte c'è qualche cosa che mi sveglia, allora guardo dalla finestra e vedo una luce nella baracca. Allora apro la finestra e sento quel rumore».
Un altro silenzio. «Che rumore, George?» domandai io sottovoce, riempiendogli di nuovo il bicchiere.
Lui si sfregò il collo. «Il rumore della mannaia. Sento qualcuno con la mannaia dentro la baracca. Perciò ci vado».
Io annuii di nuovo; la baracca cui George faceva riferimento era il suo mattatoio. «Ci vado» ripeté. La sua voce si era svuotata, spogliata di ogni emozione, come fosse incapace di accogliere la minima comprensione di quel che stava raccontando. «Ci vado» ripeté ancora. «Esco in cortile e lo sento che fa a pezzi qualcosa dentro la baracca. Che sei tu, John? dico quando arrivo alla porta. Lui sta nella stanza dietro, che fa a pezzi qualcosa. Quel maledetto si volta e mi fa una risata da scimmia».
Tacque di nuovo. Teneva gli occhi fissi a terra, sgranati. «Non lo sapeva, chi era» mormorò un attimo dopo, e in quel momento ebbi una terribile folgorazione, e mentre George guardava fisso per terra il fienile sembrò rabbuiarsi all'improvviso e dentro la mia testa udii quei colpi tremendi vibrati nella notte, i tremendi colpi di mannaia che avevano scosso George dal sonno, e vidi il vecchio John ridere nell'oscurità della baracca, facendo a pezzi quello che aveva trovato nella palude. «Non lo sapeva» sussurrò George con voce piena d'orrore. «L'aveva trovato nella palude dentro un sacco e siccome non era uno di queste parti dice: be', allora glielo do da mangiare ai porci». Un altro silenzio; George abbassò il capo, si puntellò coi gomiti sulle ginocchia e di nuovo si strofinò il collo. «Gli ho tolto di mano la mannaia» borbottò «ma era troppo tardi».
«Troppo tardi?».
Un'altra lunga pausa. George non rispose, ma non importava granché; quel che intendeva lo avevo capito. «Ero così imbestialito che quasi quasi lo prendevo a pugni» mormorò. La sua voce sembrava avere una risonanza lontana, come se provenisse dalla fine di una galleria lunghissima. «Ma tanto non serviva». Altro silenzio. Fra le travi del tetto, il corvo si mosse e con gran sbatacchiare d'ali andò a appollaiarsi su un trespolo più alto. Mi alzai in piedi e ricominciai a camminare avanti e indietro; cosa fosse successo mi era ormai fin troppo chiaro. Proprio come avevo ipotizzato la sera di Natale, quella notte, nella palude, qualcuno aveva disturbato Fledge e aveva trovato il corpo di Sidney dentro un sacco; quel qualcuno era il vecchio John Crowthorne. «Toccava solo finire il servizio,» mormorò George qualche istante dopo «non c'era altro da fare». Poi sollevò lo sguardo e con voce limpida e ferma disse: «È stato John a sotterrare le ossa quando i porci hanno finito. Bel lavoro che ha fatto, eh? Eh?» aggiunse con una risata spaventosa, lugubre e disperata. «Ha fatto proprio una porcheria, eh? Oh, Cristo santo» e strinse forte i pugni, chiuse gli occhi e tirò indietro le labbra, scoprendo i denti in una di quelle sue smorfie terribili. Dalle travi giunse uno strido aspro e di nuovo uno sbatacchiare d'ali impacciato.
Per qualche minuto non dissi nulla. Intanto mi ero fermato dietro la poltrona dove sedeva lui; allora gli misi le mani sulle spalle e gliele strinsi con affetto. Capivo in quale brutta situazione si trovava. Non sarebbe mai andato alla polizia a raccontare quella storia: innanzitutto, aveva lavorato fianco a fianco con il vecchio John Crowthorne fin dal giorno in cui era approdato a Ceck, o quasi; inoltre, era chiaramente stato suo complice. In ogni caso, lasciai a lui la decisione e, come prevedevo, George fu inamovibile. Era un uomo di campagna e come tutti i campagnoli era più che sospettoso di polizia, agenti e istituzioni; lui seguiva la legge della natura, ma l'agghiacciante ironia della sorte era che la seguiva anche John Crowthorne. Gli dissi di continuare a stare nel fienile mentre pensavamo al da farsi; poi andai a casa a prendergli un po' di pane e formaggio e della pomata per lo sfogo che aveva sul collo.
Mentre attraversavo il viale d'accesso, cominciò a delinearsi davanti ai miei occhi una rete di colpe, una rete gettata da Fledge che aveva catturato il vecchio John Crowthorne, poi George e adesso anche me, visto che stavo proteggendo George dalla lunga mano della legge. Quando entrai in casa, Fledge stava uscendo dal salotto; trovarmelo di fronte proprio in quel momento mi fece un forte effetto, ma tentai di non darlo a vedere. Fledge mi seguì in cucina e si accinse a preparare il vassoio del tè per Harriet. «Abbiamo in casa qualche pomata, Fledge?» gli chiesi, dopo aver preso del pane e un pezzo di cheddar.
«Pomata, Sir Hugo?».
«Sì, pomata, unguento, crema... qualcosa per lenire un'irritazione» ribattei bruscamente. «Oh, lasci perdere,» dissi infine «me la cerco da solo». Di colpo, mi ero reso conto di quanto fosse precaria la situazione di George; sarebbe stato molto imprudente far sapere a Fledge che era qui. Uscii dalla cucina e andai a cercare la pomata, conscio dello sguardo curioso con cui egli mi seguì, continuando a apparecchiare il vassoio del tè pomeridiano di Harriet.
Rientrando nel fienile, trovai George ancora seduto nella poltrona di vimini, con la testa fra le mani. Stava calando il buio e intorno a lui si erano già radunate le prime ombre. George sedeva di fronte al Phlegmosaurus e i due formavano una scena singolarmente teatrale, lo scheletro dalla mascella forte che giganteggiava sopra la sagoma irrigidita sulla poltrona. George mangiò con voracità e bevve dell'altro whisky, ma prima di tutto si applicò la pomata sullo sfogo, che a questo punto, notai, si era esteso quasi tutto intorno al collo. «Dentro un maledetto sacco» disse fra i denti mentre mangiava. «Sir Hugo, chi è che l'ha fatto fuori? Chi ce l'ha messo dentro a quel sacco?».
Esitavo a dirglielo. Corrugando la fronte, mi alzai e accesi le luci. «No,» esclamò George riparandosi gli occhi con una mano «lasciatele spente!». Io spensi le luci e tornai alla mia sedia. Nel frattempo, George aveva finito di mangiare. Si pulì la bocca con la mano e mi guardò torvo. Aver mangiato lo rendeva più forte, molto più forte. «Chi l'ha fatto fuori, Sir Hugo? Voi lo sapete. Ditemelo».
Io esitavo ancora. Sarebbe stato meglio, per lui, sapere quel che sapevo io? L'idea di metterlo a parte della verità mi procurava una sensazione indefinita di profondo disagio. «Ditemelo» mi incalzò lui.
«Va bene, George» risposi, e glielo dissi. Lui ascoltò in silenzio. Quando ebbi concluso, disse che aveva voglia di fumare; io avevo soltanto sigari, perciò gliene diedi uno. Non fece commenti su quanto gli avevo rivelato; tuttavia, continuò a riflettere intensamente e fu così che d'un tratto rividi il vecchio George, l'uomo duro e taciturno che conoscevo bene, l'uomo che teneva i propri giudizi per sé. Il cibo, il whisky, il cupo riparo del mio fienile avevano fugato la paura che si era impossessata di lui nella palude. Di lì a poco, lo sapevo, avrebbe ripreso il controllo del proprio destino. Ma cosa significava questo per me? E per Fledge? All'improvviso provai un grande spavento, perché sentivo che la situazione mi stava sfuggendo di mano. Seguitammo a fumare entrambi, mentre il fienile si faceva via via più buio, sicché di lui non vedevo altro che un'ombra silenziosa, meditabonda e spettrale, curva sopra la punta incandescente di un sigaro.
Quella notte George dormì nel fienile, fra le ossa riposte nel sottotetto, e lo stesso la notte successiva, e continuò a riacquistare le forze. Ma diventando più forte, diventò anche più taciturno, e se pure aveva qualche piano in mente non mi informò di nulla. Ben presto rimpiansi di avergli detto di Fledge; cominciai a pensare che sarebbe stato meglio per lui costituirsi e rivelare alla polizia quanto sapeva, lasciando da parte ogni scrupolo. Ciò significava coinvolgere me e, naturalmente, Fledge. Sarebbe stata una faccenda oltremodo seccante per tutta la famiglia, specie per Cleo; ma in fin dei conti era stato commesso un omicidio. George avrebbe dovuto scontare una condanna e Fledge esser spedito sulla forca. O no? In realtà, non confidavo che sarebbe andata così. L'unica cosa che avevo in mano erano i miei sospetti, le mie convinzioni; ma di fatti empirici, incontrovertibili, concreti, niente. Forse, se fosse andato alla polizia, George non avrebbe fatto altro che infilare la testa nel cappio: la propria, o quella di John Crowthorne. Si poteva persuadere allora il vecchio John a andarci lui? Improbabile. Quanto a senso morale - era lampante - il vecchio bracconiere scarseggiava parecchio; Crowthorne era quello che, trovato un cadavere dentro un sacco, non essendo «uno di queste parti» l'aveva allegramente fatto a pezzi per sfamare i maiali. Malgrado ciò, ne ero sicuro, George non l'avrebbe tradito mai, perché nel corso degli anni avevo avuto ampie opportunità di constatare quanto radicato fosse in lui il senso di fedeltà, una volta che si impegnava con qualcuno. Vedete, erano venticinque anni che con tenacia, con discrezione e con intransigenza George Lecky era fedele. A me.
Nel fienile George passò due giorni e due notti. Gli uomini di Limp stavano ancora battendo la palude nel tentativo di stanarlo, anche se a detta dei giornali avevano fatto circolare la sua descrizione in tutto il Sud-est del paese sicché, si intuiva, la polizia aveva per lo meno preso in considerazione l'eventualità che egli si fosse spostato in un'altra zona. In casa si respirava un'atmosfera tesa, non ultimo perché io ero intrattabile. Infatti, a parte l'ansia che mi dava nascondere George, proprio in quel periodo mi toccò incassare quello che con ogni probabilità fu l'evento più umiliante in assoluto di tutta la mia carriera scientifica.
Sì, perché il 7 del mese avevo effettivamente tenuto la mia conferenza, l'avevo tenuta a un pubblico di quattro persone: Hilary, Victor, Sykes-Herring e un tale Sir Edward Cleghorn. Quest'ultimo è un tipo eccentrico, un originale, quello che Harriet chiama «l'uomo pterodattilo»; secondo lei, io e Cleghorn saremmo gli unici naturalisti per passione rimasti in Gran Bretagna. Francamente, la sua presenza era imbarazzante. Sykes-Herring venne perché doveva e, in un certo senso, lo stesso può dirsi di Hilary e Victor. Harriet e Cleo, invece, non avevano preso parte all'avvenimento perché le ossa di Sidney erano riaffiorate appena due giorni prima. Due anziani signori entrarono per sbaglio nella sala, credendo si trattasse di una conferenza sui coproliti, e subito uscirono. E per quello che avrebbe dovuto essere il coronamento della mia carriera di paleontologo, questo fu quanto.
Alla fine, una volta che ebbi esaminato il rapporto dinosauro-uccello dalla prospettiva anatomica e evoluzionistica, una volta che ebbi parlato diffusamente dell'artiglio e dell'anca flegmosauriani e delle implicazioni che tale artiglio e tale anca comportavano, una volta che ebbi arringato i presenti alla maniera di Thomas Huxley a proposito dell'Archaeopteryx, il più antico degli uccelli fossili, una volta che ebbi discusso di atavismi e sottolineato la necessità che ognuno di noi si domandasse se il dinosauro era davvero un rettile dal sangue freddo come impulsivamente si dava per scontato, una volta che ebbi detto questo e altro ancora, si udì nell'enorme aula deserta l'esile clap clap di otto mani che applaudivano. «Molto interessante» commentò Sykes-Herring, invitandoci a prendere un tè nella sala ritrovo dei soci. «Estremamente provocatorio». Non credeva a una parola di quanto avevo detto; dentro di sé, fischiava come un serpente. Cleghorn mi prese da parte e spruzzandomi di briciole di torta e saliva mi disse che sprecavo il fiato. «Non puoi toccarla, la tassonomia» sputacchiò. «La gente si spaventa. Le cose stanno così dai tempi del barone Cuvier e il barone Cuvier» - qui rischiò di strozzarsi con un boccone - «è morto nel 1832! Darwin aveva a malapena messo piede sulla Beagle!». Avrei fatto volentieri a meno di lui; Eddy Cleghorn è piuttosto instabile, anzi, direi senz'altro pazzo. Il piccolo Victor, invece, si dimostrò entusiasta e almeno quello, suppongo, era qualcosa. Forse avrebbe seguito le mie orme e rivoluzionato la paleontologia; in fin dei conti, era un Coal. Ma perché, mi domandai, la comunità scientifica professionista mi aveva ignorato in maniera così compatta? Era perché, come suggeriva Cleghorn, sentir attaccare la classificazione consolidata dei dinosauri la metteva in agitazione? «Non puoi toccarla, la tassonomia» aveva detto il vecchio strampalato. «Guarda cosa succede a un libro archiviato male: cessa di esistere. Se tu sovverti l'ordine, sovverti il mondo intero. Hugo, credi a me, la gente si spaventa. Tu sei un estremista». Pezzo di idiota. In realtà, cominciavo a sospettare che la vera causa della mia umiliazione fosse proprio Sykes-Herring, che cioè Sykes-Herring non avesse pubblicizzato la conferenza. Non era venuto nessuno, penso, semplicemente perché nessuno ne sapeva niente. Insomma, mi si stava perseguitando di nuovo. Vedete, non era quella la prima volta; Sykes-Herring, anzi, mi aveva praticamente rovinato la carriera. E allora mi resi conto che, se mai avessi voluto insegnare al mondo la lezione flegmosauriana, non mi restava che raggirarlo. Sykes-Herring era un reazionario oscurantista e malevolo. Se volevo giocarlo, dovevo fare molta attenzione e usare tutta la mia astuzia. Dopotutto, era il segretario della Royal Society. Ha! Non immaginavo certo che di lì a poco qualsiasi manovra scientifico-politica mi sarebbe stata preclusa per sempre...
Fu difficile, molto difficile, tornare alla paleontologia dopo quell'episodio. In un certo senso, quindi, fu una fortuna che nei giorni seguenti dovessi preoccuparmi del benessere di George, altrimenti avrei rischiato di soccombere alla depressione. Per due giorni e due notti George dormì fra le mie ossa e riprendendo le forze cominciò a emanare una silenziosa risolutezza che mi mise davvero molto a disagio. Cercai di parlare con lui, ma non c'era verso di tirargli fuori una parola; se ne restava seduto per ore a fumare nella mia poltrona di vimini, con la fronte corrugata e lo sguardo assorto, e di tanto in tanto pestava uno stivalone per terra. L'atmosfera domestica non era meno tetra: al rinvenimento delle ossa di Sidney, Cleo aveva reagito rannicchiandosi ancor più dentro il suo guscio e con gran pena di Harriet non si presentava mai a tavola. Naturalmente, era oppressa dalla convinzione che Fledge fosse la creatura malvagia colpevole di aver ucciso Sidney nella palude e, poiché noi continuavamo a tollerare la sua presenza in casa, dimostrava verso me e Harriet una notevole ostilità. Harriet mi disse che se non mi fossi affrettato a farlo, ci avrebbe pensato lei a chiamare Henry Horn. Sia nel fienile che in casa, dunque, si respirava un'aria di animosità pensosa e tormentata che ben presto degenerò in una specie di esasperazione incandescente, pronta a esplodere da un momento all'altro.
L'unica persona non direttamente coinvolta nella faccenda era Doris, che però ne avvertiva i segnali e a questi inconsciamente reagiva. La manifestazione forse più impressionante di tale suo stato d'animo fu l'episodio del pesce crudo.
Il fatto avvenne il venerdì di quella settimana, a pranzo. Essendo Harriet cattolica, il venerdì si mangiava sempre pesce e quel giorno era in programma un bel piatto di halibut, alias Hippoglossus hippoglossus (letteralmente cavallo-lingua cavallo-lingua). L'halibut inizia la propria esistenza in posizione verticale, con un occhio su ciascun lato della testa, ma nella prima giovinezza prende la strana abitudine di stendersi sul fondo del mare e ricoprirsi di sabbia; di conseguenza, l'occhio della parte inferiore, che è sempre la sinistra, resta privo di scopo, sicché migra sulla parte superiore, orbita e tutto. Sì, l'halibut ha proprio un occhio migratore. Mangiatore vorace, ingurgita qualunque tipo di pesce diverso da sé, nonché qualche occasionale uccello marino, e adora le immondizie, tale e quale ai maiali.
Ma torniamo a noi. Fledge posò dunque una teglia di terracotta davanti a Harriet e, quando Harriet sollevò il coperchio, il pezzo di halibut era lì pelle, pinne e tutto, completamente crudo. Non aveva visto né coltello, né forno; non si era neppure fatto finta di cucinarlo! Harriet è un pezzo di pane, ma questa scoperta la mandò su tutte le furie. «Ma cosa diamine si è messa in testa, quella donna?» mormorò. E a quel punto, lo ricordo bene, proprio quando a rigor di logica avrebbe dovuto interpellare Fledge e chiedere spiegazioni... non lo fece. Si nettò le labbra con il tovagliolo, si alzò da tavola e uscì dalla sala senza dire altro. Ci fu un attimo di silenzio. «Lo porti via, Fledge,» dissi io «e mi porti il carrello dei formaggi». Immaginavo che Harriet fosse andata in cucina a parlare con Doris; poiché, però, non fece più ritorno in sala da pranzo, mi viene da pensare adesso che forse non ci si avvicinò nemmeno. Non solo: mi viene anche da pensare che era una dimostrazione bell'e buona di imbarazzo provato da una donna di fronte al suo maggiordomo. Era accaduto qualcosa? Che Fledge le avesse di nuovo fatto delle avances e, come avevo previsto, fosse stato respinto, ma senza troppa convinzione? Io penso proprio di sì.
La situazione precipitò quel pomeriggio stesso. George era seduto nella poltrona di vimini; io misuravo a grandi passi lo stanzone, tentando di farmi dire che cosa avesse in mente. Quanto tempo ancora, volli sapere, intendeva starsene «rintanato» nel mio fienile? Doveva agire, gli dissi. Risentivo anch'io della tensione e può darsi che sia stato più veemente del necessario. Ma George taceva. E continuava a starsene seduto là, ostinato, a fumare i miei sigari e a grattarsi lo sfogo, che la pomata, peraltro, non aveva lenito granché. Tutti i giornali riportavano il suo nome. Il «Daily Express» lo aveva ribattezzato «il mostro di Ceck», accennando all'«abominio» delle «ossa sepolte nella palude» che aveva sconvolto questo «paesino tranquillo» della campagna «sperduta». La stampa dava per scontato che il responsabile dell'abominio fosse lui e ne invocava a gran voce la pronta cattura. Ceck brulicava di cronisti e in quello stesso momento cinque, sei di quegli animali stavano radunati davanti al cancello di Crook. Erano già arrivati a John Crowthorne, ma questo si era fatto passare per il classico sempliciotto rustico, asserendo di non saperne nulla - come d'altronde aveva detto alla polizia - e lasciando George, il povero George, a sostenere l'assalto da solo. Che piano aveva? gli chiesi io. Cosa intendeva fare? A ogni modo, aggiunsi, mi auguravo proprio che non coinvolgesse me in quella faccenda.
In quell'istante bussarono alla porta del fienile. George si alzò di scatto. Mentre andavo ad aprire, gli feci cenno di tornare nell'ombra. Ma la porta si spalancò: incorniciato dal rettangolo di luce c'era Fledge. Lì per lì non successe niente. Distolsi lo sguardo da Fledge e vidi George che spariva sotto il dinosauro. Ma anche Fledge lo aveva visto, non ho dubbi, perché senza nemmeno comunicarmi il messaggio che era venuto a recarmi uscì bruscamente dal fienile e la porta si richiuse di botto alle sue spalle.
Titubante, indugiai un attimo; George era svanito nell'oscurità. «Resta lì!» gli gridai e di corsa presi anch'io la porta, che è bassa e inserita in uno dei due grandi battenti ad arco con i cardini di ferro borchiati. Uscii e, d'impulso, la chiusi a chiave. Fledge stava avvicinandosi rapidamente a casa. Lo raggiunsi prima che infilasse il portico e lo afferrai per un braccio. «Fledge,» gli dissi boccheggiante «lei non ha visto niente! Capito? Niente!». Lui non mosse un muscolo, non batté ciglio, ma io me ne accorsi lo stesso: mi accorsi lo stesso dell'improvvisa fiamma d'esultanza - del trionfo - che si accendeva in lui. Fledge mi aveva in pugno e lo sapeva, glielo lessi in faccia, in quella faccia lunga e inespressiva, in quei sopraccigli rossastri che, forse, si inarcarono di un millimetro, sdegnati, in quelle labbra sottili ed esangui che forse, ora che ci penso, tradirono un lievissimo, impercettibile tremolio di scherno, come a soppesare con quanta dabbenaggine avessi fatto il suo gioco, con quanta inettitudine gli avessi dato partita vinta. E poi il leggero inchino, il gesto scaltro di sprezzante deferenza. «Molto bene, Sir Hugo» mi rispose. Gli tenevo ancora stretto il braccio. Diedi un'occhiata intorno e in quel momento vidi Harriet alla finestra del salotto che ci guardava attentamente, perplessa.
Fledge ritornò in casa e io nel fienile. «George!» gridai. «George!». Ma George se ne era andato, fuggendo da sotto l'asse allentata in fondo al fienile che aveva forzato tre giorni prima.
Nel giro di un quarto d'ora, Limp era già a Crook con quattro auto cariche di agenti. Si riversarono tutti nel fienile e in casa, nei giardini e nel frutteto. Quando George, una mezz'ora dopo, spuntò da dietro gli alberi che costeggiano il viale, stretto fra vari poliziotti, mi trovavo in salotto con Harriet. Gli agenti lo avevano ammanettato. Mai prima d'allora avevo visto una collera così furibonda sul volto d'un uomo. Mentre lo spingevano sul sedile posteriore di una macchina, George alzò gli occhi a guardare Crook e sputò per terra sulla ghiaia. Fledge non era alla finestra con noi a osservare la scena.
Come ho detto, sto rievocando questi eventi dalla cucina e mi accorgo di voler rimandare il più possibile il racconto di quanto accadde in seguito. Sì, perché il momento dell'incidente che mi ha ridotto a un vegetale, condannandomi a questa carrozzella - a questa carrozzella maledetta! -, si sta avvicinando a grandi passi. Doris, finito di lavare i piatti, viene a sedersi davanti a me e versa a entrambi un bicchiere di vino. Cara Doris. Francamente, preferirei di gran lunga parlare di lei. Adesso beve molto più di quanto non abbia mai bevuto prima - ho avuto ampie opportunità di notarlo -, dal momento che prima non si lasciava mai andare all'eccesso finché la giornata di lavoro non era terminata. Ora, invece, Fledge sembra aver allentato il suo rìgido divieto in proposito e chiude un occhio quando lei, come al solito, sbaglia i calcoli e alle sei già non connette. Non deve più nascondere il fatto che beve, mi ha confidato lei stessa durante una delle nostre «chiacchierate», e benché ciò sottragga una buona dose di piacere all'attività lei ha deciso di approfittare del nuovo regime permissivista. Col risultato che quando Fledge si presenta in cucina prima della cena, trova di solito sua moglie davanti ai fornelli, piuttosto malferma sulle gambe, con una pentola di verdure crude o carbonizzate fra le mani. «Ho quasi fatto» dice Doris ad alta voce non appena lo sente entrare, tentando di non barcollare; al che lui, corrugando la fronte in silenzio, prende in mano le redini della situazione, rimedia in qualche modo e va a servire il pasto. Allora Doris si accascia sulla sua sedia accanto alla stufa e, non essendo più in grado di lavorare ai ferri come soleva fare in giorni migliori, si sbronza, scivolando dolcemente nell'oblio.
Queste «chiacchierate» che ci godiamo io e Doris si svolgono in cucina, normalmente di sera, ma spesso anche prima, e prevedono il consumo da parte di Doris di almeno due bottiglie di sherry, borgogna o bordeaux. Non è una grande intenditrice, Doris; però di un vino sa apprezzare due cose: quantità e mordente. E le cantine di Crook largamente rifornite da parecchie generazioni - per noi Coal bere è un piacere - le offrono abbondanza di vino con abbondanza di mordente. La cosa si svolge così: lei mi avvicina la carrozzella al tavolo, mi mette davanti un bicchiere e lo riempie. Poi, accomodatasi all'altro lato del tavolo, riempie il suo. Mentre io me ne sto seduto lì a fissarla, lei leva il calice e beve alla mia salute; dopodiché, passa coscientemente e loquacemente a rincretinirsi d'alcol. E dall'inizio alla fine rivolge a me tutte le sue «chiacchiere», arrivando addirittura a ribattere alle risposte immaginarie che ho dato alle sue sciocchezze. Ma perché, vi chiederete voi, Fledge le permette di comportarsi così? L'interrogativo mi ha tenuto avvinto per qualche tempo. Poi ho capito: perché Fledge è al piano di sopra, a fornicare con Harriet nella sua stanza da letto nell'ala occidentale, e fa assai comodo a entrambi che Doris sia «fuori uso». Anzi, proprio per questo motivo, Fledge al momento addirittura la incoraggia a bere.
Così Doris beve e chiacchiera; ormai riconosco bene le fasi successive che attraversa sulla via dell'oblio. Doris è una di quelle persone in cui il primo bicchiere della giornata riesce a suscitare un senso di sommo appagamento, che non trova pari nell'insieme delle gratificazioni umane. Doris sa anche che solo nella soddisfazione di un desiderio illecito ci è dato conoscere il piacere nella sua pienezza; perciò si riempie il bicchiere fin quasi all'orlo e già prima che lo abbia assaporato il profumo dolce del vino, il suo color rubino, sono - lo vedo - una festa per lei e il suo sensorio. Si porta il bicchiere colmo alle labbra socchiuse e ansiose, ma di nuovo si ferma, prolungando per un ultimo, delizioso istante la pregustazione. Dall'atrio e dalla scala non giungono rumori; nelle sue narici sale l'odore forte, appena muschiato, del vino. Doris inclina il bicchiere. Trangugia in una lunga sorsata estatica metà del contenuto, dopodiché, crollando sulla sedia con un sospiro profondo, afferra la bottiglia e la esamina, ricavando una specie di piacere supplementare dalla sua forma e dall'etichetta, segni esteriori dell'essenza che vi è racchiusa. In altre due mosse finisce quel primo bicchiere e per qualche istante resta seduta così, lasciando che la vampa salga dal ventre al cervello. Poi, quando l'annebbiato e ben noto calore comincia a ravvivarsi, si complimenta con me per l'ottima cantina.
Mi domandavo: vi è mai sovvenuto che fra il bere e il suicidarsi è possibile cogliere una certa analogia? A me che non posso più valermi di nessuna di queste due forme di liberazione e resto invece letteralmente imprigionato nella mia carne, l'analogia appare molto chiara. Ma quella che il bevitore sdegnerebbe senz'altro è la morte repentina, la cessazione repentina e benedetta dell'esperienza e la liberazione dal sé che il suicida, al contrario, brama; il bevitore aborrisce la morte repentina, perché l'avvicinamento al vuoto dev'essere graduale, dev'essere attenuato. Sicché vedo Doris che si stuzzica, che si gingilla con i primi tre quarti della prima bottiglia, e a volte consuma persino una fetta di pane e una cipolla cruda, per ritardare, per procrastinare (bella parola, procrastinare, dal latino cras, domani) il delizioso inizio e il conseguente progresso della sua ubriachezza. «E adesso dritta in piedi, Doris, vecchia mia» mormora a se stessa alzandosi impacciata per scolarsi il mio vino e riempirmi di nuovo il bicchiere - beve lei per tutti e due - ma, così facendo, urta contro il tavolo e rovescia un po' di vino rosso sulle vecchie assi levigate. La porta di servizio è ancora aperta e da fuori giungono i suoni e gli odori della prima sera - il canto degli uccelli, l'odore di letame, il latrato di un cane da una fattoria lontana - e Doris, con l'orecchio teso per udire l'eventuale arrivo di Fledge dal corridoio, se ne sta seduta a bere insieme a me e parla degli anni in Kenya, guardando con occhi velati in qualche invisibile recesso della memoria. Chissà a che cosa pensa, mi domando in queste occasioni, pur sapendo che a rigor di termini la sua mente non pensa, ma si lascia andare alla deriva in quella vaghezza oceanica di associazioni che la mente fa quando sciaguatta oltre il linguaggio e si arrende all'alcol. Ne so qualcosa anch'io.
Fuori cala il buio e dalla strada varca il cancello di Crook il trrrat-tat-tat di un trattore. Doris ha stappato la seconda bottiglia; la sua coscienza oceanica si sta annebbiando, intorpidendo, e i suoi occhi hanno acquistato una fissità vitrea non dissimile dalla mia. Ciocche di capelli argentei le si sono sfilate dalla crocchia e nei suoi gesti, benché se ne stia accasciata scompostamente sulla sedia, si nota una certa precisione meccanica: solleva il bicchiere, e sembra un automa.
Alla fine si alza e va con passo lento e cauto alla porta di servizio, la chiude e mette il catenaccio per la notte. Non ci sono ancora luci accese; la luna diffonde nella cucina un debole chiarore argenteo e al di là delle sue dita fredde le ombre si infittiscono, anneriscono, raggrumano. Doris riprende posto rigida dall'altra parte del tavolo e mi fissa. Che aspetto avrò, mi chiedo, seduto là impalato, con la luna che riluce sul gran becco che ho per naso e questi occhi infossati nelle orbite, due meri puntini luminosi nell'oscurità della sera? Quello di un essere grottesco, un essere grottesco rinchiuso nella grotta delle sue ossa. «Sir Hugo,» mormora Doris in quel momento «oh, Sir Hugo». Poggia la testa sulle braccia e comincia a singhiozzare piano al buio e io, immobile ma commosso, continuo a guardar fisso dalla finestra della cucina il giardino illuminato dalla luna, al di là delle sue spalle che si alzano e si abbassano senza rumore. È allora che vorrei piangere anch'io; però non posso. Non posso, non perché la mia capacità di piangere sia bloccata come tutto il resto, ma perché sono troppo vecchio per imparare a farlo davanti a un'altra persona. E questa è un'altra di quelle ironie, di quei rovesciamenti di situazione dello stato vegetale cui accennavo. Vedete, per non piangere in pubblico io mi sono allenato a lungo, col risultato che adesso l'unico mezzo che ho per comunicare al mondo che sono mentalmente vivo e riesco a provare delle emozioni, ecco, non posso usarlo. Non posso usarlo perché ormai è impossibile spezzare quell'abitudine all'autocontrollo coltivata tutta una vita. Ed è per questo che, quando non sono nell'intimità ombrosa della mia grotta, mantengo lo stesso atteggiamento di fortitudine virile e l'occhio asciutto di... un fossile.
Come tornano vividi i ricordi, mentre seduto qui, nella cucina buia, ascolto Doris che piange fino a addormentarsi! Sì, perché mentre lei piange rivedo la sera - fu subito dopo la prima neve - che compromisi questa donna, che riversai su di lei i miei istinti sessuali da tempo sopiti, e riprovo il disgusto che mi suscitarono la bassezza, la volgarità e l'intemperanza del mio comportamento.
Accadde durante la festa di Natale di Harriet. Harriet ne organizza una ogni anno, alla quale invita la piccola nobiltà locale; è una cosa che bisogna fare, dice lei, una delle «convenienze». Mi estorce la promessa di essere cordiale e normale e io, invariabilmente, prendo posto accanto all'albero e mi sincero che lo scotch continui a arrivare a ritmo costante. Quella volta si fece un tremendo mucchio di chiacchiere e ero riuscito a sopportare una decina di minuti di cosiddetta conversazione con Freddy Hough quando, all'improvviso, mi domandai che fine avesse fatto Cleo (rientrata da Oxford quello stesso giorno). Rendendomi conto di non averla vista, abbandonai Freddy su due piedi e andai subito a cercarla in cucina. Cleo non c'era, ma al suo posto trovai Doris intenta a sistemare un antipasto di salsiccette su un vassoio.
In cucina faceva caldo, Doris lavorava sodo e aveva il viso madido di sudore; sulla fronte le si erano incollate ciocche di capelli bagnati. Quel giorno indossava una divisa nera con colletto, grembiule e polsini bianchi fresca di bucato, che fasciava comodamente la sua figura magra. Mi sedetti e, accendendomi un sigaro, osservai con un certo gusto la scena di lei che si affaccendava tra forno e tavolo. «Signora Fledge,» le dissi «scommetto che un bicchierino le farebbe piacere». Dalla sala giungevano i rumori della festa, lontani e attutiti.
«Un bicchierino mi farebbe molto piacere, Sir Hugo,» rispose lei senza quasi fermarsi «ma ci sono da preparare le salsicce e poi devo aprire altre sardine».
«L'aiuto io» mi offersi. «Un tempo ero un apritore esperto di sardine. In Africa» aggiunsi.
Stavolta Doris si interruppe e, stupita, si tolse i capelli da davanti gli occhi. «Oh, no, Sir Hugo» esclamò. «Non potrei mai».
«Sciocchezze» dissi. «La divisione del lavoro è intrinsecamente ingiusta e io intendo abolirla. Mi dia le sardine, signora Fledge!».
Le scatolette di sardine, come saprete, si aprono mediante una specie di chiave dotata di una fessura nella quale si inserisce la linguetta metallica che sporge dal bordo della scatola medesima; girando la chiave, si toglie il coperchio e in questo modo si portano alla luce i tesori oleosi al suo interno. Se, tuttavia, la linguetta si spezza, il compito diventa molto più complicato. Fu appunto quello che successe: la linguetta si spezzò e io mi tagliai un dito. «Cavolo!» esclamai.
Doris si avvicinò, aggrottando la fronte preoccupata. Io ero seduto al tavolo. Mi sollevò la mano e scrutò il minuscolo taglietto, dal quale era spuntata un'unica gocciolina di sangue; la avvolgeva un vago odore di salsiccette misto a sudore. Come un idiota, feci scivolare la mano lungo l'interno della sua coscia, e sentii la trama ruvida della calza di nylon. «No, Sir Hugo» sibilò lei, indietreggiando con gli occhi sgranati dall'orrore. Ma io le andai dietro. Incredibile, no? Eppure lo feci. Pur sapendo che Fledge sarebbe sicuramente comparso in cucina da un momento all'altro, le andai dietro. «Sir Hugo!» sibilò lei di nuovo, battendo svelta in ritirata verso i fornelli dal lato opposto della cucina. Chissà che spettacolo singolare e ripugnante presentavo in quel momento, con lo sguardo stralunato dal whisky, il dito sanguinolento e la più lampante mancanza di autocontrollo. Comunque, la intrappolai in un angolo. Doris è più alta di me di una testa e visto che col mento le sfioravo appena la spalla il bacio che tentai di stamparle sulla bocca mancò completamente il bersaglio. Nondimeno, riuscii a metterle una mano su un seno, che sotto l'aderente divisa nera sentii piccolo e sfrontatamente appuntito. Fu lì che accadde esattamente quello che già sapevo: dalla porta arrivò un colpo di tosse tanto forte quanto fasullo ed ecco là Fledge con un vassoio d'argento vuoto stretto fra le mani, che mi guardava con quella che, per lui, era ira furiosa. Doris sgattaiolò via dall'angolo e, tirando su col naso un paio di volte, a occhi bassi, si accinse a riempire di salsiccette il vassoio. Io mi ravviai i capelli; avevo la mano imbrattata di sangue, notai, e altrettanto insanguinato era il grembiule di Doris. «Ha!» esclamai disinvoltamente. Eppoi: «Bene!». Dopodiché, chiamando a raccolta tutta la mia dignità, uscii spigliato dalla cucina, abbottonandomi lo smoking e raddrizzandomi il papillon. «Con permesso» dissi guardando Fledge e mi schiarii la voce piuttosto sonoramente. Lì per lì, lui non si mosse; poi si fece da parte, gettando un'occhiataccia alle mie dita sporche di sangue mentre io ritornavo alla festa.
Come ho detto, ebbi una reazione di profondo disgusto verso me stesso. L'indomani mattina, a colazione, Harriet attaccò a chiacchierare vivacemente di chi alla festa si fosse o non si fosse divertito, di un'anziana vedova che aveva vomitato nel grammofono e del perché, dopo l'accaduto, nessuno avesse più voluto toccare il prosciutto. «Però le salsiccette sono state un gran successo, no? Mi sembra che a te, Hugo, siano piaciute».
Non volli onorare il commento di una replica. Nella fredda luce della sobrietà stavo contorcendomi dalla vergogna e ero assolutamente incapace di guardare Fledge negli occhi, malgrado quel che sapevo di lui. Sicché non me la sentivo proprio di far conversazione sugli antipasti di salsiccette. Finito di mangiare, mi rintanai nel fienile. L'unico, fievole barlume di speranza era che di lì a qualche giorno sarebbero arrivati gli Horn; in casa, mi dicevo, ci sarebbe stato allora un trambusto tale che la faccenda avrebbe avuto la possibilità di «sgonfiarsi». Ha!
E mentre ripenso a quella sera, Fledge entra silenzioso in cucina. A questo punto Doris è abbandonata inerte sulla sedia, con la testa rovesciata all'indietro e la bocca spalancata, e russa forte, puzzolente di vino. Prima di destarla, lui si sofferma un attimo sul collo lungo, bianco e scarno di lei, sulla gola tesa e invitante, e guardandolo in faccia vedo le sue labbra contrarsi in uno spasmo al ritorno di una certa, ben nota tentazione; ma Fledge, vedete, non cede mai, perché lui ha un suo piano, e tiro a indovinare che Doris non verrà eliminata dalla scena che dopo la mia morte. Non sapremo mai se avrò avuto ragione o torto; se potessi parlare, però, le direi: fuggi, donna, fuggi se vuoi aver salva la vita!
Alla fine la sveglia e mentre lei, dopo un po', se ne va barcollante a letto, io resto seduto sulla mia sedia a rotelle a fissare le ombre sul soffitto, sperando di addormentarmi. Dentro di me vedo Fledge che si aggira per la casa buia, che serra porte e spegne luci e, infine, sale le scale con una candela in mano e si lascia alle spalle una prima finestra, poi una seconda, finché non raggiunge l'ala occidentale e una camera da letto dove ancora arde una lampada. Passa una decina di minuti. Tutto tace. Fuori, nella campagna, la consueta ricchezza di rumori notturni: una folata di vento che s'infila improvvisa fra gli alberi, una volpe che abbaia alla luna. Nella camera di Harriet, adesso, brilla solo una candela; gli abiti del maggiordomo sono sistemati con ordine su una sedia, sotto la quale le sue scarpe traforate di minuscoli puntini neri luccicano nella semioscurità tremula, con le calze appallottolate e ficcate per bene dentro la sinistra. Le coperte sono ripiegate in fondo al letto e Fledge, nudo, sta disteso sul lenzuolo bianco appoggiato a un gomito e il lume della candela gli sfiora il corpo con un bagliore ombroso. Dal centro preciso del petto all'ombelico corre una riga di peli fini, castano-rossicci, che si allarga leggermente al basso ventre per finire inghiottita dalla fitta seta dei peli del pube. Sul petto e sull'addome è evidente una lieve rotondità, un lieve accenno di appesantimento in un uomo che altrimenti conserva tutta la snellezza della gioventù. Fledge ha lunghe gambe ben modellate, ricoperte da una folta peluria rossiccia che gli lambisce le caviglie accavallate e ricompare sotto forma di sottilissimi riccioli sul collo dei piedi eleganti. All'inforcatura, il pene sonnecchia sul sacco testicolare; un raggio di luna errabondo ne inargenta la punta scura e intorno all'asta fittamente venata si apre come le ali di un elfo un soffice manto di pelo fulvo. Con gli occhi socchiusi e languidi, Fledge guarda in direzione della finestra, dove Harriet, la mia Harriet, con una vaporosa camicia da notte bianca e una cascata di capelli sciolti sulle spalle, tira le tende per non far entrare la luna. Poi si volta e si avvicina al letto, credendo di andare da un uomo, e non vede che è un mostro.
Sì, un mostro. Cos'altro dovremmo considerare, se no, quella creatura ambigua e crudele, due volte invertita? Tutto quel che ottiene per mano sua, Harriet se lo merita, perché in questa storia ci si è buttata sapendo a cosa andava incontro. A dire il vero, non credo proprio che Fledge tenga a lei in maniera particolare. Credo invece che soffra di un acuto senso di inferiorità, il quale si manifesta in una gelosia patologica del sottoscritto. Da qui il suo interesse per Harriet. Volendo dirla tutta, ritengo che dal punto di vista clinico Fledge sia uno squilibrato, per la precisione uno schizofrenico paranoico. Ma a preoccuparmi, adesso, è il modo in cui tratta Doris, l'insensibilità con cui trascura e tradisce quella brava donna, che mi fa sentire fuori di me dalla rabbia, anche se certo sarebbe difficile aspettarsi qualcosa di meglio da un omosessuale. Sì, Fledge è un omosessuale e della peggior specie. E se vi resta ancora qualche dubbio in proposito, consentitemi di descrivervi le circostanze in cui ebbe luogo il mio incidente cerebrale.
Occorre tornare indietro alla metà di febbraio, ai giorni immediatamente successivi all'arresto di George. La polizia, com'è ovvio, mi aveva interrogato, ma non mi erano ancora state mosse accuse riguardanti il fatto che avevo nascosto un fuggiasco, sottraendolo alla giustizia. Incapace di sopportare l'atmosfera domestica, avevo trascorso giornate intere nel fienile, tentando di riprendere i miei studi paleontologici. Un pomeriggio mi trovavo appunto nel fienile quando, verso le due e mezza, bussarono alla porta. Ora riesco fin troppo bene a figurarmi il vaso sanguigno affaticato che mi si era gonfiato nel cranio e la perdita coagulata sulla sottile parete interna che, mentre l'eco dei colpi alla porta moriva, cedeva sempre più rapidamente alla pressione martellante del sangue. «Avanti!» gridai. Era Fledge.
Fledge si richiuse la porta alle spalle e si avvicinò alla mia poltrona con un vassoio sul quale era apparecchiato il mio pranzo, perché dopo aver consumato la colazione non avevo più rimesso piede in casa. «Lo posi lì, Fledge» gli dissi, indicando con gesto vago il tavolino. La sua presenza suscitava in me un'ostilità considerevole, essendo passato qualche giorno appena da quando, del tutto intenzionalmente, aveva ignorato il mio appello per George. Ho già accennato all'aura di trionfo che mi era parso emanasse udendo quel mio appello, il tacito gusto con cui accoglieva il fatto che, per così dire, gli avevo dato partita vinta. Quel pomeriggio ebbi la sensazione che trasudasse la medesima esultanza vendicativa; ma per il momento non avevo ancora elaborato un piano soddisfacente per «fargliela pagare». Vedete, non potevo certo rimproverarlo di aver informato la polizia che nella tenuta di Crook si nascondeva un ricercato, senza rivelare con ciò fino a che punto fossi coinvolto nella faccenda. «Non c'è altro, Fledge» aggiunsi, senza nemmeno voltarmi.
Lui diede un colpetto di tosse. «La sua giacca, Sir Hugo» mi disse, visto che indossavo ancora il camice marrone con cui ero solito lavorare.
«Ah, sì» risposi io. Mi alzai e mi feci aiutare a sfilarlo. Fledge poggiò il camice sullo schienale della sedia e mi tenne aperta la giacca di tweed mentre me la infilavo. Poi mi diede un paio di leggere pacche sulle spalle e la spazzolò con il taglio della mano. «Non si affanni troppo, Fledge» gli dissi seccamente. «Basta così».
«Benissimo, Sir Hugo» mormorò lui e, fatto un mezzo giro intorno alla sedia, mi spostò il tavolino davanti. «Vino, Sir Hugo?».
«Sì, certo» risposi io, rimettendomi seduto. Lui stappò una bottiglia di borgogna e me ne versò un bicchiere, poi mi restò accanto mentre iniziavo a mangiare. «Va bene così, Fledge» gli dissi irritato, lanciandogli un'occhiata da sotto in su con una patata in bocca. «Può andare».
«Ehm... Sir Hugo?» disse lui.
«Cos'altro c'è, Fledge?». E buttai giù la patata con un sorso di borgogna.
«Stamane è venuto un giovanotto del paese; voleva sapere se per caso ha bisogno di un nuovo giardiniere».
«Di un nuovo giardiniere? Gesù Cristo onnipotente, stanno già arrivando gli avvoltoi? Ma figuriamoci. Conto di riavere presto George Lecky fra noi».
«Benissimo, Sir Hugo». Ciò nonostante, Fledge non accennava a ritirarsi, anzi, continuava a incombere sul tavolo come un cameriere.
«Non c'è altro, Fledge. Può andare».
«Sì, Sir Hugo». Mi versò dell'altro vino, poi si chinò e raccolse una moneta da tre penny da sotto la mia sedia e la mise sul tavolo.
A quel punto posai rumorosamente forchetta e coltello sul piatto. «Sant'Iddio, si può sapere cos'altro c'è, adesso? Perché seguita a ronzarmi intorno? Che cosa vuole?».
«Sir Hugo, volevo soltanto dirle quanto mi dispiaccia di tutte le cose che sono successe».
Io replicai con uno sbuffo ironico. «Stento a crederci» aggiunsi. E lo guardai: Fledge aveva un'espressione diversa, sulla sua maschera vacua era comparsa una specie di sottile ombra di scherno. Difficile dire come me ne accorsi; gliela vedevo nel luccichio degli occhi, penso, nel tremolio beffardo agli angoli della bocca.
«No, sul serio, Sir Hugo» disse lui in tono molto sommesso, molto vellutato, dopodiché allungò una mano e me la posò su una spalla!
Mi alzai dalla sedia di scatto e così facendo finii per rovesciare il tavolino. Vetri e porcellana si schiantarono a terra e gridai: «Come osa toccarmi?».
Lui indietreggiò un poco. Mi guardava intento, con la testa appena china, premendosi una mano su un labbro che evidentemente si era morso quando lo avevo spinto via, poiché aveva la bocca insanguinata. Io ero furibondo; stringevo i pugni, mandavo lampi dagli occhi e fumavo come un piccolo bantam rabbioso. Mai in vita mia avevo subito un tale affronto: non c'erano né sì né ma, quell'uomo doveva andarsene! Fledge mi si avvicinò di un passo. «Indietro, bastardo!» gli gridai. «Finiscila con queste luride manfrine!».
Lui non ci badò. Avanzò verso di me, minaccioso, con una smorfia beffarda sulle labbra insanguinate. I fumi del vino che avevo rovesciato mi stavano avvolgendo e mi facevano girare la testa. Nella tempia sinistra avevo un dolore martellante e fortissimo. «Non provarci, Fledge» lo misi in guardia. Mi sentivo ribollire il sangue; la violenza stava per esplodere, me ne rendevo conto, e maledetto me se mi fossi lasciato battere da quell'uomo. All'improvviso i suoi denti brillarono sotto la luce, la sua bocca si aprì in un largo sorriso e a quel punto Fledge mi assalì, mi prese per i capelli con una mano e mi afferrò il polso con l'altra. Tenendomi stretto, cadde su un ginocchio e per quanto io mi dibattessi e lottassi come un pazzo mi costrinse a abbassarmi con lui, finché non finii lungo disteso per terra, immobilizzato in una goffa posa da granchio, con la testa sulla sua coscia inarcata e le dita di lui intrecciate ancora ai miei capelli. In balia di una collera impotente, potevo fare ben poco, se non guardarlo in faccia. Fledge aveva cambiato espressione di nuovo, perché gli lessi sul volto solo una sorta di fame spietata, una luce fredda negli occhi spenti e un sorrisetto freddo e piuttosto nervoso sulle labbra sottili e esangui, dove restava ancora un leggero segno di sangue. Nella lotta gli si era sciolta una ciocca di capelli rossi, che adesso gli ricadeva sulla fronte in una virgola floscia. Non potei far nulla per resistere, quando chinò il viso sul mio; poi i suoi lineamenti sorridenti riempirono per intero la mia visuale. Chiusi gli occhi, con un dolore ormai orribilmente lancinante in testa. Un istante dopo la sentii, e potete ben immaginare il mio disgusto: la sua bocca sulla mia.
A quel punto il mio corpo sembrò prosciugarsi di ogni energia. Quando Fledge sollevò finalmente il viso da quel bacio scellerato, gli fiammeggiavano gli occhi; mi guardò con una specie di brio divertito, poi, di colpo, sentii la morsa delle sue dita stringersi intorno ai miei capelli e la mia testa che veniva rovesciata con violenza all'indietro, e varie cose successero contemporaneamente. Ora avevo lo sguardo puntato sul soffitto del fienile e nell'ombra vidi il corvo volare da una trave a un'altra. Nello stesso tempo avvertii un'esplosione infocata di dolore cocente dentro la testa e all'improvviso qualcuno bussò alla porta. «Papà?» udii Cleo chiamare da fuori. «Papà?».
Fledge sollevò il capo dalla mia gola all'istante e si girò verso la porta. Le sue dita allentarono la presa e per un momento restò ancora in ginocchio, dritto e all'erta, concentrato sulla voce proveniente da dietro la porta. Dopodiché parve dimenticarmi del tutto: mi lasciò andare, si alzò in piedi e dalla sua coscia il mio corpo scivolò per terra come una bambola di pezza. E intanto che così giacevo, quella vena stanca e sfibrata della circonvoluzione frontale inferiore del mio emisfero sinistro scoppiava. Mentre la tenebra mi travolgeva, riuscii a afferrare soltanto il rumore dei passi di Fledge che arretravano verso la porta, dietro la quale la voce di Cleo continuava a ripetere: «Papà?».
Quanto tempo sono rimasto là per terra? Cosa è accaduto sulla soglia del fienile? A quanto pare, non lo saprò mai. Ma è impossibile non pensare a come potrei stare adesso se Fledge avesse dato subito l'allarme, se non mi avesse semplicemente lasciato là a morire. È dunque tanto irragionevole da parte mia prendere questo oscuro attentato alla mia vita come prova indiscutibile della sua colpevolezza in relazione alla fine di Sidney?
Cleo si trova a suo agio in cucina. Qui può parlare liberamente, senza essere oppressa (come è sempre in salotto) dalla convinzione che Fledge sia la creatura strisciante e malvagia colpevole dell'uccisione di Sidney, e che Harriet sia sua complice. Doris non rappresenta certo una figura minacciosa e io, Hugo, come la stessa Cleo si è resa conto, sono il suo alleato perfetto, perché pur capendo tutto quel che dice - e lei sa che capisco - non la rimprovererò mai né, peggio ancora, le dimostrerò la compassionevole partecipazione che Harriet esibisce immancabilmente nei suoi confronti. Di conseguenza, Cleo si è pian piano aperta con me e, mentre Doris sbriga le sue faccende e pela le patate fischiettando una melodia monocorde fra un sorso e l'altro di sherry, se ne sta seduta qui accanto a fare quei suoi elaborati e interminabili ghirigori sul tavolo di cucina con un mucchietto di unghie tagliate, mie e sue insieme, fumando e chiacchierando a ruota libera di qualunque cosa le passi per la mente, purché non riguardi Sidney, Harriet o Fledge. Era per l'appunto presa da tale occupazione il giorno in cui Harriet è entrata in cucina e ha detto: «Signora Fledge, sono costretta a chiederle una cortesia. La signora Giblet verrà a trovarmi giovedì, ma Fledge non ci sarà. Potrebbe per caso sostituirlo lei?».
«Sì, signora» ha risposto Doris docile.
«Oh, bene. Mille grazie. Cleo...».
Niente. La ragazza stava alla finestra e guardava assorta il giardino. Non si è voltata. Benché Harriet non rientrasse nella mia visuale, mi è riuscito fin troppo facile immaginare la smorfia di irritazione preoccupata che tale comportamento ha provocato. «Signora Fledge» ha aggiunto Harriet «desidererei molto che di pomeriggio non bevesse. Le fa male alla salute» dopodiché se ne è andata. Ma l'importante era che la vecchia signora avrebbe senz'altro portato notizie di George. Erano già passati due mesi dal suo arresto e da allora non ne avevo saputo più nulla.
Il giorno in cui è venuta la signora Giblet, Fledge non era a Crook - la ragione della sua assenza sarà chiarita a tempo debito - sicché è stata Doris a annunciarne l'arrivo. Io mi trovavo in salotto a fissare il camino; Harriet sedeva accanto al fuoco e leggeva un romanzo. Se non ricordo male, era un pomeriggio fresco e piuttosto umido e avevo sulle gambe il mio plaid da cavallo. Harriet ha tirato un sospiro e, dopo aver lasciato giudiziosamente il segno nel libro con un fiammifero usato, si è alzata in piedi. In quel momento la signora Giblet ha fatto il suo ingresso, avvolta nell'immensa pelliccia, e le ha preso entrambe le mani. «Cara Lady Coal,» ha rantolato con voce roca «che tempi difficili per tutti noi».
«Com'è vero, signora Giblet» ha risposto Harriet. «Ma la prego, si sieda. Signora Fledge, per cortesia, ci porti il tè».
Anziché sedersi, tuttavia, la signora Giblet si è voltata verso di me; Harriet l'ha imitata e tutte e due mi hanno fissato mentre io, a mia volta, fissavo loro. La vecchia signora era venuta senza cagnolino, ma aveva con sé il bastone e, continuando a guardarmi intensamente, ha stretto gli artigli intorno al manico e vi si è appoggiata. I suoi occhi mi hanno trafitto come due punte di trapano e via via che passava il tempo è stato chiaro che Harriet si sentiva sempre più a disagio. Infine, posando una mano sul braccio dell'ospite, le ha ripetuto: «La prego, signora Giblet, si sieda».
«Pover'uomo» ha commentato quest'ultima, frugandosi nelle tasche della pelliccia in cerca delle sigarette. Ma ancora non si sedeva. «Che cosa terribile, Lady Coal,» - si è girata verso Harriet - «quale angoscia sarà per lei. E pensare che, a modo suo, era un uomo tanto vivace...».
«La vita continua, signora Giblet» ha mormorato Harriet. Dover render conto dei propri sentimenti, lo so, le riusciva sgradevole. Ormai per lei ero diventato un motivo di imbarazzo.
«E dicono che non ha speranze?». Gli occhi della signora Giblet mi fissavano di nuovo. «Non riacquisterà più le facoltà mentali?».
«A quanto pare, no, signora Giblet».
«Ma continuerà a campare comunque, Lady Coal?».
Harriet ha accolto il brutale candore della domanda con un sussulto. «Non si sa» ha mormorato. «Non ci resta che sperare e pregare per il meglio, signora Giblet».
«Quale che sia questo meglio... Ma che tragedia. E pensare che è ancora giovane».
«Hugo ha cinquant'anni suonati» ha precisato Harriet sottovoce.
La signora Giblet ha sbuffato ironica. «Significa che è giovane, Lady Coal, creda a me!». A questo punto era riuscita a infilarsi la sigaretta fra le labbra. Si è visto il bagliore di un fiammifero e una nuvola di fumo azzurrino. «Ma può ancora fumare, no?».
«Santo cielo, signora Giblet, non me l'ero mai chiesto!» ha detto Harriet e, abbandonando evidentemente il tentativo di far sedere l'ospite, ha ripreso posto nella sua poltrona. Un sigaro, in effetti, l'avrei gradito assai; ma era la prima volta che qualcuno ci pensava e la signora Giblet, purtroppo, non ha dato seguito all'idea. Strisciando i piedi, ha raggiunto l'altra poltrona e abbassandosi rigida si è messa a sedere davanti a Harriet. «Che tristezza perdere un marito prematuramente» ha detto. «Anche lei, Lady Coal, è ancora giovane. Certo, non giovane com'ero io... persi il padre di Sidney che avevo appena trent'anni, sa?».
«No,» ha risposto Harriet «non lo sapevo. Ah, signora Fledge». Doris era comparsa con il vassoio del tè.
«Fu investito da una locomotiva a Victoria Station. Ma torniamo a noi. Lady Coal, stamane ho parlato con gli avvocati. Temo che non ci siano buone notizie. Lecky rifiuta di sostenere l'infermità di mente».
«Oh, Signore» ha esclamato Harriet, che non era veramente preparata a affrontare una situazione del genere.
«Oh, Signore, proprio» convenne la signora Giblet. «Dobbiamo riflettere bene e capire cosa sia meglio fare, Lady Coal. Ho paura che se Lecky manterrà la sua versione finirà sulla forca».
Sulla forca!
«Ma signora Giblet, io sono convinta che dica la verità! George Lecky non è affatto un tipo così violento».
«Oh, sono d'accordo con lei» ha risposto la signora Giblet. «Ma se ho ben capito quel che dice Sir Fleckley» ha spiegato, riferendosi all'avvocato Sir Fleckley Tome «non gli crederanno. Questa faccenda, Lady Coal, ha suscitato forte emozione nell'animo popolare. A suo giudizio, anche una parziale ammissione di colpa farebbe pendere il piatto della bilancia a favore di Lecky».
«Ma George deve dire la verità» ha ribattuto Harriet. «Basterà quello, no? Dopotutto, siamo in Inghilterra...».
La sua fede era commovente.
«Mia cara Lady Coal,» ha detto la signora Giblet «la sua fede è commovente. Ma vede, daranno per scontato che un uomo capace di inciampare in un cadavere e darlo in pasto ai suoi maiali sia anche capace di uccidere. In un caso del genere non si bada mai tanto alle sottigliezze». Sembrava incredibile che stesse parlando di suo figlio.
«Sì, signora Giblet, capisco. Però...».
«L'opinione pubblica gli è già tutta contro, Lady Coal. Li ha letti, i giornali?».
«Oh, signora Giblet, no, non li ho letti. Mi da troppa angoscia. Pensare che George Lecky... No, è un'ipotesi insopportabile. Ma quello che dice lei, signora Giblet, è spaventoso! Significa che se George dirà la verità verrà impiccato e che se mentirà lo risparmieranno, è così?».
«Sì» ha risposto la signora Giblet.
C'è stato un silenzio. «E allora, cosa bisogna fare?» ha chiesto Harriet infine.
«Questa» ha risposto la signora Giblet «è appunto la ragione per cui sono venuta a parlarle. Il mio interesse verso questo caso, Lady Coal, è molto semplice. Forse sarà inutile dirlo ma, al pari suo, nemmeno io credo che George Lecky abbia ucciso mio figlio. Se tuttavia lo mandano sulla forca...».
«La prego, signora Giblet...» l'ha interrotta Harriet. Era evidente che l'espressione la turbava.
«Se tuttavia viene giudicato colpevole, Lady Coal, l'assassino di Sidney resterà impunito. E io desidero con tutte le mie forze che ciò non avvenga».
«No,» ha convenuto Harriet «certo che no».
«Lady Coal,» ha detto la signora Giblet «glielo domando senza tanti giri di parole: chi ha ucciso Sidney?».
«Oh, signora Giblet, se lo sapessi...».
«Mi confidi i suoi sospetti, Lady Coal, e non si faccia scrupoli se le sembrano bizzarri».
«Ma non saprei proprio, mi è difficile pensare...».
«Le è mai venuto in mente, Lady Coal, che suo marito potesse essere coinvolto in qualche modo?».
«Balle!». La porta si è spalancata ed è comparsa Cleo: aveva origliato tutto dal corridoio! La ragazza è entrata come una furia, mandando lampi dagli occhi, ed è andata dritta verso il camino, dove si è sistemata con la schiena al focolare fra le due donne sedute che la fissavano a bocca aperta, aggrappate alle rispettive tazze di tè. «Balle!» ha ripetuto sibilando, avvoltolata come uno scorpione nel suo cardigan nero sformato. «Lurida vecchia,» ha aggiunto con voce carica di rabbia e sdegno «vecchia, orribile megera! Piomba qui come una balena fetida e si mette a accusare mio padre... Ma come osa! Chi gliene dà il diritto? Fuori di qui, lei e le sue sporche menzogne! Mi ha sentito? Fuori di qui!».
«Mia cara ragazza...» ha esordito la signora Giblet, irrigidita dalla collera.
«Cleo!» ha sussurrato Harriet.
La voce di Cleo ha perso ogni controllo. «Ha sottomesso Sidney da quando è nato!» ha gridato. «L'ha deriso e terrorizzato, ha cercato di farne il suo schiavo! Incredibile che ne fosse rimasto qualcosa, dopo che era cresciuto con lei!».
«Sidney era un debole» ha ribattuto la signora Giblet con un certo disprezzo. «Con quel ragazzo occorreva aver polso».
«Aver polso!» ha esclamato Cleo. «E quello che lei gli ha fatto lo definirebbe "aver polso"?».
«Forse, ragazza mia,» ha replicato la vecchia signora «un po' di polso avrebbe fatto bene anche a lei».
«Vecchia strega maledetta!» ha urlato Cleo e roteando le braccia rigide in quella maniera goffa che usano le donne quando tentano di prendersi a pugni ha fatto per colpirla. Harriet è balzata in piedi con un grido e, mentre cercava di allontanare Cleo dall'ospite, una tazza è caduta dal tavolo finendo in mille pezzi. La confusione di fendenti e urla sfrenate è durata ancora parecchio, finché non si è udito un sonoro paff! e Cleo, attonita, ha fatto un passo indietro verso il camino con una mano sulla guancia mentre Harriet, accalorata come solo di rado l'avevo vista, la guardava furente in un'autentica posa churchilliana e la vecchia signora Giblet, premendosi un artiglio nodoso sul petto opulento e ansante, tentava di ridarsi un contegno e si toccava nervosa il viso e i capelli con l'altro, come per sincerarsi che nell'alterco non le si fosse staccata nessuna appendice.
«Cleo, per cortesia, domanda scusa» ha detto Harriet con il fiato grosso. Dissipatasi d'un tratto ogni rabbia, Cleo ha chinato il capo con quell'atteggiamento di muta sfrontatezza che ha adottato di recente. Harriet le è subito piombata addosso. «Domanda scusa» ha ripetuto e nella sua voce c'era un tono nuovo, il tono di un'autorità sommessamente pericolosa. Cleo ha tentato di passarle davanti, ma Harriet non ha voluto saperne: l'ha afferrata per i polsi e, per la terza volta, le ha ordinato di scusarsi. «Mamma, mi fai male» ha esclamato Cleo piagnucolando, ben diversa dalla ragazza indomita di un tempo. Ma l'ira di Harriet non si era placata, sicché la presa non si è allentata fin quando Cleo, girandosi verso la vecchia signora, ha mormorato: «Mi scusi, signora Giblet».
Quest'ultima, che intanto era riuscita bene o male a dominarsi, s'è impennata sulla poltrona dov'era piombata a sedere e con gli artigli stretti intorno al bastone, il mento levato e i bargigli traballanti, ha lanciato alla fanciulla sconfitta un'occhiata di genuina e regale indignazione. «Ragazza,» le ha intimato «guai a lei se oserà ancora toccarmi con un dito. Chiaro?».
«Sì» ha borbottato Cleo.
«Come?».
«Sì» ha detto Cleo.
«Allora, d'accordo» ha concluso la signora Giblet ammansita. «Accetto le sue scuse».
«Cleo, per cortesia, siediti» ha detto Harriet con fermezza. «Prendiamo il tè. Signora Fledge?». Da quanto tempo, mi chiedo, Doris si trovava nella stanza? Aveva assistito per intero allo squallido incidente? «Signora Fledge, la prego, sgombri il tavolino e ci porti dell'altro tè. Dunque, signora Giblet, dov'eravamo rimaste?».
Ma la vecchia megera, era lampante, non intendeva correre di nuovo il rischio di diffamarmi. «Ho richiesto l'autorizzazione per far visita a George Lecky in carcere» ha detto «e la settimana prossima incontrerò il deputato della mia circoscrizione. Le viene in mente qualcos'altro, Lady Coal?».
No, nient'altro.
Andata via la signora Giblet - anche stavolta aveva preso una camera allo Hodge and Purlet e non c'era stato verso di persuaderla a rimanere a Crook, cosa d'altronde non sorprendente, visto il modo in cui Cleo l'aveva aggredita - Harriet è tornata in salotto e si è messa seduta davanti a Cleo. «Tesoro,» le ha detto con aria grave «ti sei comportata in modo orribile. Scandaloso. Non credo di essermi mai sentita così in imbarazzo. Ma cosa ti è preso?».
Cleo aveva assunto di nuovo il suo atteggiamento da salotto: testa incassata fra le spalle, silenzio scontroso. «Cleo!» ha esclamato Harriet seccamente. «Rispondimi!».
Allora la ragazza ha alzato la testa e nei suoi occhi stralunati e gonfi di lacrime ha fiammeggiato un lampo. «Ma mamma, non l'hai sentita? Non hai sentito quello che ha detto di papà?».
«Certo che l'ho sentito, tesoro» le ha risposto Harriet con tono un poco ammorbidilo. «Ma tu devi capire che la signora cerca solo di dare un aiuto».
«Un aiuto? Dicendo che papà è un assassino? Per te sarebbe un aiuto?».
«Non ha detto che papà è un assassino. Oh, tesoro, lo so...» - tutto il suo potere stava pian piano dileguandosi; Harriet riusciva a dimostrarsi veramente autoritaria soltanto quando si disdegnavano le convenienze - «io ti capisco, te l'assicuro, ma nulla giustifica un comportamento simile. Nulla».
«Ma mamma, come puoi dire una cosa del genere? Ha accusato papà di essere coinvolto nell'omicidio di Sidney e tu te ne stai lì seduta senza far niente. E intanto papà è qui che ascolta e non può difendersi».
«Tesoro, papà non capisce cosa sta succedendo» le ha detto Harriet con voce sommessa. «E sono sicura che la signora Giblet non intendeva ipotizzare che papà avesse una parte in quel che è accaduto a Sidney».
«E invece sì! È proprio quello che intendeva! E comunque papà sa perfettamente quello che succede. Capisce tutto».
«Cleo, cara,» qui è subentrato un tono reciso «i medici sono stati piuttosto chiari al riguardo. Hugo non è consapevole di quel che gli succede intorno».
«E invece ti dico di sì!».
«Tesoro, no. Lo abbiamo fatto visitare più volte dai migliori neurologi del paese e di una cosa sono tutti assolutamente certi: Hugo ha subito un grave danno cerebrale e non ha vera coscienza di quel che lo circonda. Non pensa».
«E invece pensa, eccome».
«Cleo, ora mi fai arrabbiare. Credi che per me sia stato facile accettare la situazione? Credi che non abbia sperato fino all'ultimo? Tesoro, mi rincresce dovertelo ripetere ancora, ma la realtà è questa: papà non è in grado di pensare».
«Invece sì».
«Cleo, ti stai comportando da sciocca. Inventi le cose. Perché dici così?».
«Perché lo so».
«Ma tesoro, chi te lo dice, chi?».
«I suoi occhi».
«Oh, Signore...». Harriet ha sospirato.
«E certe volte piange».
«Questo è vero, tesoro. Piangere, però, non significa nulla. Papà piangeva anche in ospedale, ma è una reazione autonoma, hanno detto i medici... un processo di pulizia».
«Non m'importa. Io lo so che papà sa tutto quello che succede».
«Basta, non voglio più discutere con te di questa faccenda. Tesoro, le tue sono tutte fantasie. So che vuoi bene a papà, ma devi accettare quanto è accaduto. Ho dovuto accettarlo anch'io e Dio solo sa se non è stato difficile anche per me. Ora, per cortesia, va' in cucina ad aiutare la signora Fledge».
Cleo si è alzata adagio ed è uscita dalla stanza, lanciandomi un lungo sguardo affettuoso. «A dopo, papi» ha detto. Quando la porta si è richiusa, Harriet ha tirato un profondo sospiro e ha fatto una cosa che si concedeva assai di rado: ha preso una sigaretta dal portasigarette sulla mensola del camino ed è andata a fumarsela alla finestra, guardando il laghetto davanti a casa; di quando in quando, mi sentivo addosso i suoi occhi, che mi osservavano con leggera perplessità. Finito di fumare, ha buttato la cicca nel fuoco, è uscita dalla stanza e mi ha lasciato solo. Ma era come se le sue parole mi echeggiassero nelle orecchie e mentre me ne stavo seduto lì a fissare il camino, lo stemma e il motto di famiglia, l'ho udita di nuovo appellarsi a fonti certe e insistere sul fatto che ero incapace di pensare. Ma se davvero fossi incapace di pensare, questo cosa sarebbe? Un parto della fantasia di Cleo?
La mattina seguente ho patito un altro trauma. Non avevo ancora avuto la possibilità di assimilare bene gli avvenimenti del pomeriggio precedente, e da assimilare c'era molto, riguardo non solo a George, ma a me stesso. Sì, perché, pur non avendo un motivo logico per provare turbamento di fronte all'insistenza con cui Harriet aveva sostenuto la mia incapacità di pensare - si vede a occhio nudo, in fin dei conti, che ci riesco -, ciò nondimeno ne ero rimasto scosso, scosso nel profondo. Come se la mia identità fosse semplicemente un riflesso, o una costruzione mentale, delle opinioni altrui... Sicché mi ero sorpreso a vacillare, a tenermi sulla difensiva, costretto com'ero a affermare il mio io a me stesso e confermare che, in effetti, ero ancora vitale. Capite? È stato in questo stato d'animo di insicurezza estrema, in questo stato di instabilità ontologica, per così dire, che mi è toccato accogliere le implicazioni della visita della signora Giblet nonché della tentata metamorfosi di Fledge.
Sì, metamorfosi, perché con il consenso, pare, di Harriet (o forse, mi sovviene adesso, su sua istigazione?) Fledge aveva smesso il suo abito da mattino, cioè la tradizionale divisa da maggiordomo, per adottare al suo posto una giacca di tweed con pantaloni di tessuto spigato. Era andato a Londra in propria persona, un maggiordomo, e ne era tornato travestito da gentiluomo. Ma temo di aver fatto un po' di confusione fra i due avvenimenti - la visita della Giblet e gli abiti nuovi di Fledge -, perdendo il filo di causa, effetto e precisione empirica.
Probabilmente, quindi, sarebbe meglio se cominciassi a descrivere con maggior dovizia di particolari l'aspetto di Fledge quando quel mattino l'ho visto in cucina. La giacca che indossava, come ho detto, era di tweed e non diversa dalla mia: leggermente pelosa, di color marrone-verdastro, con un disegno fine a spina di pesce, toppe di pelle ai gomiti e bordo di pelle in fondo alle maniche; stretta in vita e svasata sui fianchi, aveva i revers larghi, le spalle quadrate, due spacchi dietro, i bottoni rivestiti di pelle e le tasche con le alette. I pantaloni, invece, erano di uno spigato beige, con la piega affilata e i risvolti che si frangevano in bella maniera sul collo di un paio di scricchiolanti e lucidissime oxford marroni. Camicia sportiva di buon taglio con un motivo discreto a scacchi e cravatta marrone scuro con una riga gialla diagonale. Così, dunque, si presentava Fledge quando, elegante e azzimato, è entrato in cucina a prendere il vassoio della colazione di Harriet. Come ho detto, fingeva di essere un gentiluomo. E ci voleva un naso da gentiluomo, come il mio, per sentir l'odore di zolfo.
Ho accennato al fatto che Fledge aveva qualcosa di indefinibile, dovuto - presumevo - alla sua natura guardinga e reticente. Poteva essere «chiunque», dicevo, e solo la presenza di Doris al suo fianco consentiva di identificarlo e di assegnargli una collocazione. Be', mi sbagliavo. Guardandolo mentre preparava il vassoio con la colazione di Harriet, mi sono reso conto che Fledge non era un camaleonte, che un cambiamento di costume non lo trasformava - come egli chiarissimamente ambiva - in un gentiluomo. Mancava un elemento sostanziale, una certa increspatura del viso, credo, a denotare uno scetticismo affabile e un'attesa di deferenza; cose del genere un gentiluomo ce le ha scritte in faccia. Fledge, invece, sembrava un amministratore, oppure un fattore, uno che ha quasi fatto il salto, ma è rimasto sospeso. Un uomo di mezzo. Non aveva un'aria ridicola, ma indeterminata sì, come se non sapesse qual era il suo posto.
Meditando sul nuovo Fledge, ho formulato un'ipotesi: ho immaginato che vestendosi ogni giorno nella camera da letto di Harriet, nella penombra dell'alba, avesse finito per detestare la consuetudine di indossare la divisa del servo che il suo abito da mattino rappresentava. Sì, perché nel letto di Harriet (dal quale si era appena alzato) Fledge aveva un posto di favore: nel letto di Harriet era un uomo erotico essenziale, laddove non appena s'infilava quell'abito da mattino tornava a essere servo; senz'alcun dubbio era questo che si celava dietro la sua trasformazione improvvisa e drastica. Trasformazione, dico adesso; ma allora l'ho vissuta come una trasgressione, come un vero e proprio sovvertimento nell'ordine delle cose, e questo senso di disordine ha accresciuto in qualche modo il subbuglio in cui mi aveva gettato la visita della signora Giblet, intensificando al livello di un russare vulcanico la collera scatenata in me dall'evidenza che la pessima situazione di George, la mia comprensione sempre più vacillante dei fatti, in breve l'intera galleria di sconvolgimenti trovasse fonte e origine nella silente, spietata e violenta ambizione di quell'intruso volpino. Gli scossoni convulsi che mi ha provocato quell'ira muta sono stati tali che hanno dovuto battermi forte sulla schiena.
Ha piovuto tutto il giorno - in quel periodo ci sono state parecchie piogge dalle nostre parti — e in cucina aleggiava un'atmosfera cupa e spenta. Nessuno ha fatto cenno agli abiti nuovi di Fledge. Cleo aveva gli occhi cerchiati e un'aria terribile, e ero certo che avesse passato una notte insonne. Povera bambina, accorsa a difendermi con tanto ardore, che cosa non aveva dovuto soffrire per mano delle due donne più mature! Era chiaro che l'episodio l'aveva prosciugata di ogni forza. Non saprò mai dire quanto fossi rimasto commosso dalla devozione con cui aveva preso le mie difese, il mio piccolo elfo ardimentoso. Come George, Cleo era di un'integrità inamovibile e incorruttibile; come lui, ora che non potevo più combattere le mie battaglie, conservava nei miei confronti una fedeltà protettiva e tenace. Dopo pranzo, una volta che Doris ha finito di lavare i piatti ed è salita al piano di sopra a «rifare» la camera di Harriet, la ragazza è rimasta seduta accanto a me al tavolo di cucina e ha attaccato a parlare. Lì per lì non ho capito di cosa, o meglio, di chi stesse parlando: ha detto che era «molto arrabbiato» con lei e allora, benché non lo chiamasse per nome, mi sono reso conto che si riferiva a Sidney. E ho capito anche perché lo ritenesse arrabbiato con lei: il giorno prima Cleo aveva usato il suo nome. La qual cosa, a quanto pareva, era proibita.
Povera, cara, ossessionata Cleo. Era disperatamente sola, ma io non potevo far altro che starmene li seduto con lo sguardo fisso, rigido come un manico di scopa, con un sorriso a trentadue denti stampato sulle labbra. La pioggia cadeva leggera nel giardino sul retro, cadeva da un cielo plumbeo gravido di nubi basse, pesanti e opprimenti. Cleo mi sedeva accanto, fumando una sigaretta dopo l'altra, e mentre le lacrime le rigavano il viso ha continuato a borbottare di Sidney, che non era più, sembrava, l'orrida creatura esangue dall'odore vagamente dolciastro che la ragazza aveva evocato in un attacco di pianto isterico una notte di febbraio: i suoi lineamenti ormai erano irriconoscibili, ha detto, per la copiosa fuoriuscita dalle carni di una sostanza viscosa e giallastra, mentre gli occhi, le orecchie e la bocca gli brulicavano di vermi. Per la bambina erano incubi terrificanti e il fatto che Harriet, nella sua infatuazione per Fledge, lasciasse che sua figlia soffrisse in quel modo mi ha fatto montare talmente in collera che, temo, ho ricominciato a sbuffare forte. La cosa ha avuto per lo meno l'effetto di scuotere Cleo dai suoi borbottii morbosi e incoerenti, perché a quel punto ha dovuto alzarsi e battermi sulla schiena come aveva visto fare Doris in più d'una occasione, finché non ho ripreso a respirare normalmente.
Poco dopo, tornata da basso, Doris si è messa a preparare il tè; Cleo è ricaduta in silenzio. Quando Fledge è entrato a prendere il vassoio, ho notato che c'erano sopra tre tazze e tre piattini. Aspettavamo nuove visite? Che la vecchia Giblet venisse a buscarne delle altre? Sollevando il vassoio, Fledge ha mormorato alla moglie che mi si doveva portare in salotto. Cleo si è alzata stancamente dal tavolo di cucina - era rimasta seduta lì da dopo pranzo - e lo ha seguito. Il sottoscritto chiudeva rintronando il corteo, spinto da Doris, e nella tetraggine di quel pomeriggio umido e deprimente ho visto, alla testa, il vapore che usciva dal beccuccio della teiera e saliva su verso il soffitto a piccoli sbuffi riccioluti. In salotto ardeva il fuoco; sono stato sistemato nella mia solita posizione, addossato alla parete di fronte al camino; Cleo si è sprofondata nella sua solita poltrona e Harriet si è seduta come sempre accanto al tavolino e ha versato il tè. Mi interrogavo ancora su chi sarebbe stato il destinatario della terza tazza, ma non mi si è tenuto a lungo in sospeso: quando Cleo ha ricevuto la sua, Fledge ha preso una tazza e, messi due cucchiaini di zucchero, si è seduto davanti a Harriet e ha cominciato a conversare con lei a voce talmente bassa da non essere udibile. Cleo ha accolto tale sviluppo lanciando un'occhiata ai due; per me, tuttavia, è stata la dimostrazione chiara e sconvolgente di quanto stesse diventando assurda tutta la situazione. Che razza di casa era quella, se un maggiordomo omicida che non indossava più l'abito da mattino sedeva a bersi il tè con la padrona?
Il tempo ha continuato a essere di un piovoso deprimente. Pur vedendo Fledge ogni giorno, non riuscivo a abituarmi ai suoi abiti nuovi, né al suo nuovo ruolo a Crook, che mi era impossibile definire: per certi versi egli si comportava ancora da domestico, per altri come una specie di ospite. E sebbene non mangiassi più in sala da pranzo, ho finito per sospettare che ormai, a pranzo e a cena, il mio posto a capotavola lo occupasse lui.
Harriet era evidentemente soddisfatta della piega che avevano preso le cose. La sera beveva un brandy in salotto con Fledge e gli offriva uno dei miei sigari; lei stessa, a quest'epoca, fumava già parecchio. Ora me la figuro benissimo, la piccola messinscena nauseante che facevano ogni volta! Harriet prendeva una sigaretta dall'astuccio che lui le porgeva e poi, seduta sull'orlo della poltrona, con la sigaretta fra le dita un po' tremanti, si protendeva corrugando la fronte verso l'uomo alto e azzimato in giacca di tweed a spina di pesce che si piegava rigido in avanti e sollevava col pollice il coperchio dell'accendino; una fiammella sottile scattava in alto come la punta dorata di una minuscola lancia e gli occhi di Harriet guizzavano verso quelli di lui (in questo toccante quadretto, i due si stagliano sullo sfondo del camino acceso). Lei prolunga l'operazione un istante più del necessario; quindi, espirando una boccata di fumo con fare inesperto, mormora: «Grazie, Fledge» e si appoggia allo schienale della poltrona, prendendo il suo bicchiere di brandy e riscaldandolo nella mano con un atteggiamento a me del tutto sconosciuto.
Per caso, ho già accennato al fatto che mi sarebbe tanto piaciuto tornare al fienile e ritrovarmi un poco in compagnia del Phlegmosaurus? Lo ammetto, sentivo nostalgia di quella vecchia canaglia e mi domandavo sovente come se la passasse. Be', un pomeriggio, proprio in quel periodo, evidentemente Cleo mi ha letto nel pensiero perché di sua spontanea volontà ha proposto a Doris di portarmi nel fienile, loro due insieme. «Tanto per fare un giretto» le ha detto. «Sono sicura che le sue ossa gli mancano; non pensa anche lei, signora Fledge?».
Aveva ricominciato a piovere. Harriet era andata a Ceck e Fledge si trovava da qualche parte per conto suo, probabilmente nell'office. Dunque non c'era nessuno nei paraggi che potesse proibire la spedizione. Cleo si è procurata impermeabili e ombrelli e Doris mi ha rimboccato ben bene le coperte. Per fortuna, appesa a un chiodo nel retrocucina c'era una chiave del fienile.
Siamo usciti dalla porta di servizio e passando per il giardino abbiamo raggiunto il cancello che dà sul viale d'accesso. Doris mi spingeva e Cleo reggeva l'ombrello. Ci siamo fatti strada nella ghiaia fra sobbalzi e scricchiolii, sotto la pioggia, mentre Cleo alimentava un allegro torrente di chiacchiere. Erano mesi che non vedevo il fienile e guardandolo ora, mentre Cleo armeggiava per aprire il lucchetto, ho provato un tremore d'ansia all'idea di cosa avrei scoperto. La porta si è spalancata, la sedia a rotelle ha varcato d'un balzo la soglia e nei brevi istanti che Cleo ci ha messo a scovare l'interruttore, ammirando la sagoma familiare che giganteggiava dentro mi sono sentito pervadere da un familiare moto d'orgoglio misto a soggezione, malgrado il puzzo di fieno marcio e tela di sacco umida che soffocava lo stanzone. Ma poi, per quanto incerte, le luci si sono accese e così ho potuto rendermi conto del danno che gli elementi avevano inflitto allo scheletro in mia assenza. Proprio come temevo: il mio dinosauro era infestato da un fungo.
Il problema era l'umidità. Nessuno aveva pensato a coprire le ossa e la pioggia continuava ormai da settimane a gocciolare dentro dal tetto. La muffa verdastra endemica in questa zona del paese era dovunque: era ammassata in grumi spugnosi negli incavi delle ossa, fuoriusciva all'esterno con dita chiazzate e sottili, penzolava dalle mascelle, dai lunghi artigli e dal bacino della bestia in tanti merletti delicati. Constatare fino a che punto e con quanta rapidità si era diffusa fu un trauma e non ci voleva un genio per capire che fine avrebbe fatto il Phlegmosaurus restando qualche altro mese al buio e all'umidità: si sarebbe ridotto a un'enorme carcassa vivente di muffa, a un mucchio d'ossa tramutate in mera armatura, in mera impalcatura per un fungo vorace. La cosa mi ha fatto piombare in una depressione profonda e mentre Cleo, evidentemente affascinata dalla creatura, seguitava a gironzolarle intorno, mi sono sentito oppresso dall'amarezza e dalla mortificazione. Sicché sono stato contento quando Doris ha proposto di rientrare in casa, perché non mi buscassi un raffreddore.
Immagino sia stata la visione del Phlegmosaurus infestato dal fungo la causa scatenante del sogno che ho fatto quella notte, sogno in cui scoprivo con orrore che la mia sedia a rotelle era un'escrescenza dell'assito vivente di Crook, della quale io stesso ero il fiore senziente e alla quale mi stavo unendo, anzi, nella quale mi stavo incarnando, prossimo a trasformarmi in una specie di pianta gigantesca. Benché non fossi in grado di accertarmene, sapevo in un modo o nell'altro che dalla schiena, dal deretano, da braccia, gambe e piedi, mi erano spuntati tanti germogli verdi e frondosi, gemme e viticci che si erano congiunti con il legno e il vimine della sedia a rotelle e, strisciando per terra, avevano raggiunto le zampe dei tavoli, i pomelli delle porte e i fili elettrici, ai quali si stavano avvinghiando, e sapevo anche che col tempo essi avrebbero colonizzato e infine sgretolato l'intera struttura; allora sarei diventato un tutt'uno organico con Crook e insieme a essa sarei marcito su quella collina che dominava dall'alto la valle del Fling. Dio solo sa quale mostruosità sarebbe sbocciata dalla composta dei nostri resti.
L'idea del crollo e dello sfacelo mi è tornata spesso in mente, in quei giorni piovosi di fine aprile. A ripensarci ora, mi sovviene che il mio era forse un semplice tentativo di cogliere nel mondo esterno un'eco di quel che, intuivo, stava accadendo nel mio corpo. Forse c'è una soglia, un limite, a ciò che un uomo può sopportare quando intrattiene col mondo un rapporto puramente passivo; forse il mondo comincia pian piano a soverchiarlo, se non ha il potere di reagire. Possibile? Vi ho raccontato di Harriet, dell'insistenza con cui sosteneva la mia incapacità di intendere e di come quel suo attacco mi avesse indebolito. Dal momento che George, Cleo, Doris e il Phlegmosaurus mi erano tutti cari, il crollo di ciascuno di loro contribuiva anch'esso a indebolirmi, perché dentro di me avvertivo dolorosa la consapevolezza di non poter intervenire in alcun modo. Assistere allo sfascio di quel che ci circonda, mi sono reso conto, esige un tributo; finiamo noi stessi per tendere allo sfascio. Quando qualche giorno più tardi si è aperto il processo a George, non ero nemmeno pronto a dargli, pur da lontano, quel sostegno spirituale di cui aveva disperato bisogno; a quanto pareva, prevedendo come sarebbero andate le cose (della vicenda si è discusso perfino nella cucina di Crook, il che mi ha consentito di tenermi al corrente degli sviluppi), potevo soltanto appellarmi a una specie di rassegnazione costernata e impotente. Per lo meno conservavo integra l'immaginazione, usando la quale ho tentato di farmi una vaga idea di quel che stava attraversando il poveretto. Che poi tale attività abbia fatto del bene a lui, o a me, dubito fortemente.
Sì, passato quel triste periodo di pioggia e giunta la primavera vera e propria, in cima ai miei pensieri c'era quasi sempre George. Anch'io al pari suo ero imprigionato, recluso in una gabbia d'ossa, e tale motivo rendeva ancor più vivo il sentimento di solidarietà che nutrivo per lui, chiuso nella sua galera di mattoni e acciaio. Quell'uomo taciturno e buono era stato per me una specie di braccio destro fin dal nostro primo incontro sulla costa orientale d'Africa, in un piccolo bar afoso e fetido con il tetto di lamiera e una miriade di mosche nell'aria, e per questa ragione, nonostante la catalessi, mi sentivo ora profondamente coinvolto nelle sue traversie, comunque fossero andate a finire.
Lo vedevo sul banco degli imputati, fra due secondini dall'aria truce, nerovestiti, le sopracciglia unite dalla concentrazione intensa con cui si apprestava a raccogliere le poche risorse morali che gli rimanevano per la dura prova imminente. Sotto di lui, sul banco dei difensori, alcuni illustri avvocati in parrucche ricciolute di un biancore innaturale mormoravano fra loro, mentre alla sua sinistra troneggiava il banco dei testimoni e, dietro quello, la giuria. Di fronte a George, anch'egli in posizione rialzata, sedeva il giudice, un anziano magistrato di nome Congreve che nella mia fantasia esaminava l'aula con occhi velati e stanchi, stringendo fra le dita ossute il martelletto che infine batteva tre volte per richiamare all'ordine i presenti. Quando arrivava il momento, George saliva alla sbarra e con voce profonda, roca e sfrontata, ruggiva: «Innocente». La cosa non faceva buona impressione; tutt'altro. Il signor giudice Congreve ne aveva visti tanti sul banco degli imputati e gli bastava un'occhiata per sapere che quello lì sarebbe finito sulla forca.
Perché dico così? Perché mai già allora avevo la certezza che George fosse spacciato? Forse perché ero spacciato anch'io e non potevo fare a meno di legare il suo fato al mio. Abbiate pazienza, ve ne prego, ma le occasioni in cui riuscivo a osservare gli eventi intorno a me con un residuo di obiettività stavano diventando sempre più rare. In verità, anzi, cominciavo a rendermi conto che gli unici eventi che riuscissi davvero a documentare con qualche precisione non erano quelli che si verificavano intorno a me, bensì le operazioni della mia mente, sollecitata dai pochi frammenti che costituivano adesso la mia realtà. E fra queste, una delle operazioni più perniciose era la tendenza, per così dire, a gettar reti di pensieri miei su quanti mi erano vicini, vedendoli non separati e distinti da me, bensì come un prolungamento o una manifestazione di certi miei disegni mentali. George, in altre parole, stava diventando parte di me nella misura in cui riuscivo ormai soltanto a immaginare le sue esperienze, disponendo oltretutto di elementi assai lacunosi per saggiare la veridicità delle mie proiezioni a fronte della realtà. Lo stesso, benché in misura minore, mi succedeva con Cleo e Doris. Stranamente, gli unici che riuscissi a vedere con la massima chiarezza erano Harriet e Fledge.
Perdonatemi se vi appaio tendenzioso. Per sincerità, tuttavia, ho considerato opportuno mettervi in guardia sulle distorsioni cui va soggetta una mente passiva e isolata, e di questo vi invito a tener conto, dovessi finire inconsapevolmente per assumere posizioni anomale o contraddittorie. George stava sul banco dei testimoni - qui non invento, mi limito a parafrasare il «Daily Express» -, teso come una corda, aggrappato alla sbarra con forza tale che le nocche gli erano sbiancate e sembravano altrettanti nodi d'osso livido. Era stato chiamato come primo testimone della difesa. Sir Fleckley Tome, al quale l'imputato aveva proibito di ipotizzare l'infermità di mente, è stato costretto a sostenere che tutte le prove erano indiziarie. L'aula intera ha ascoltato attenta l'esposizione garbata e precisa della versione resa da George su quanto era accaduto quella notte nella palude di Ceck e il suo ragionare era tanto mellifluo e perfettamente sensato che già si percepiva un cedimento della giuria, la qual cosa dev'essere senz'altro un'esperienza esaltante per un avvocato difensore, quantunque Sir Fleckley Tome, è ovvio, fosse un penalista troppo consumato per compiacersi apertamente delle proprie capacità oratorie. È stato dunque così che George, sotto lo sguardo collettivo di un'aula zeppa di gente, da mostro con sembianze umane si è trasformato pian piano in un semplice e onesto uomo di campagna, un uomo che aveva commesso un errore sciocco, mancando di denunciare alla polizia il ritrovamento del corpo di Sidney; ma un errore sciocco, sottintendeva Sir Fleckley, non equivaleva certo a un assassinio punibile con la pena capitale. George Lecky era un uomo sciocco e ostinato, ma non un assassino. E a questo punto Sir Fleckley si è seduto.
Come ho detto, traduco tutto ciò da quello spaventoso genere di «prosa» imposto a un pubblico volgare e credulone da organi di stampa come il «Daily Express». A ogni modo, il timore cui accennavo sopra che George finisse sulla forca (qualunque ne fosse la causa) è stato in parte dissipato dal resoconto che mi ha letto Cleo di quella prima seduta mattutina. Nel pomeriggio, però, tutte le speranze sono svanite senza rimedio. Sono svanite perché l'accusa, rappresentata da un gagliardo avvocato di nome Humphrey Stoker, ha controinterrogato George con tale vigore da cancellare qualunque aureola d'innocenza avesse cominciato pur fievolmente a rilucergli intorno. Per quale motivo, ha voluto sapere Stoker, George aveva mancato di denunciare il ritrovamento di un cadavere nella palude? Con sdegno fulminante ha smantellato la spiegazione mezzo sgrammaticata resa da George e se ne è fatto beffe, sottintendendo che egli era un bugiardo, dopodiché si è dato a sfruttare finché poteva la faccenda dei maiali, tanto che ben presto il povero George è ripiombato di nuovo sotto una luce ripugnante e terribile. Un brivido d'orrore ha attraversato più volte l'uditorio quando l'avvocato Stoker si è soffermato sugli avvenimenti di quella notte - parecchie donne sono impallidite e hanno dovuto abbandonare l'aula - e benché Sir Fleckley si alzasse ripetutamente per obiettare alle domande del suo dotto amico, il signor giudice Congreve ha respinto invariabilmente le obiezioni. George è diventato sempre più teso e i secondini se ne sono accorti. «Calma e sangue freddo, George» gli hanno mormorato; ma non era proprio una situazione in cui George potesse mantenere la calma e il sangue freddo, proprio no.
«Io le dico» ha esclamato l'avvocato Stoker, caricatosi a tal punto da prorompere in un accesso di indignazione «che lei, spinto da qualche rozzo motivo difficile da capire per gente incivilita, ha architettato l'assassinio di un giovane innocente, ha messo in atto il suo piano disumano e quindi ha eliminato senza pietà il cadavere nella maniera da lei stesso descritta!».
«Non è vero, maledetto!» ha gridato George, non riuscendo più a trattenersi, e sportosi dalla sbarra ha battuto il pugno sui pannelli del banco. «Non l'ho ammazzato, vi dico!».
Nell'aula è rintronato il martelletto del signor giudice Congreve. «Silenzio!» ha gridato il vecchio, mentre una baraonda di chiacchiere eccitate esplodeva dal pubblico, soffocando le grida di George. «Silenzio!». E allora, a un cenno di capo proveniente dall'alto, i due secondini hanno afferrato George e stringendogli le braccia lungo i fianchi lo hanno portato via che ancora gridava, per rinchiuderlo in una cella sottostante. L'avvocato Stoker, che naturalmente aveva voluto provocare apposta uno sfogo del genere, si è asciugato la fronte con un fazzoletto niveo e, sedendosi, ha guardato con un sopracciglio alzato Sir Fleckley, il quale gli ha restituito una smorfia di disappunto. Il titolo a tutta pagina sotto il quale è comparso l'articolo recitava: IL MOSTRO SI SCATENA: LECKY FURIOSO TRASCINATO VIA DALL'AULA.
Ma se anche finora era andata male, il peggio doveva ancora venire. Sì, perché quando l'indomani mattina George è salito di nuovo sul banco dei testimoni, Humphrey Stoker gli ha strappato la sconvolgente rivelazione che, una volta dato Sidney in pasto ai maiali, George aveva macellato le bestie, preparato la carne e mandato quella stessa carne a Crook!
Cleo è stata colta da un attacco di riso isterico, Doris è diventata bianca come un cencio e io mi sono reso conto che durante tutto l'autunno e l'inverno avevamo continuato a mangiare la carne di Ceck's Bottom. E non eravamo soltanto noi Coal a essere coinvolti: la piccola nobiltà locale aveva divorato voracemente salsicce e panini col prosciutto alla festa di Natale data da Harriet; Patrick Pin e i cattolici erano venuti a Crook la mattina del 25 a bere il mio sherry e a mangiare anch'essi panini col prosciutto; gli Horn avevano mangiato prosciutto con noi l'ultimo dell'anno e così la signora Giblet. Indirettamente, e inconsapevolmente, c'eravamo mangiati Sidney tutti quanti.
E allora mi sono tornati in mente i satiri di Ceck seduti nella cucina di George la sera del 25, davanti alle bottiglie di birra scura e al quarto di maiale arrosto, e d'un tratto, ricordando i loro scoppi di rude e rustica allegria, mi è venuto da chiedermi se loro, a differenza di noi, sapessero. È un interrogativo che tuttora mi sconcerta. Ma sono propenso a credere che la risposta sia sì.
Ho cominciato a sentire qualche fitta dolorosa dalle parti del cuore. Avevo per caso già detto che soffro di arteriosclerosi delle coronarie? Cuore malato, pompa difettosa. È successo inoltre che mi si sono tirati alcuni muscoli del viso, che ora stanno raggelati in una smorfia alquanto orribile: un sorriso feroce, involontario, che ormai non mi abbandona più, a prescindere dallo stato d'animo in cui mi trovo. Spesso nel sottoscala mi capita di sorridere e piangere contemporaneamente; il mio respiro stertoroso è costante e nel complesso, dunque, sono proprio un soggetto sgradevole. Perciò non mi sorprende che quel giorno Fledge abbia voltato la mia sedia a rotelle verso il muro, anche se certo il suo gesto aveva implicazioni ben più profonde.
Sia come sia, ci eravamo lasciati alle spalle le giornate piovose di marzo e aprile e faceva abbastanza caldo perché mi si potesse mettere qualche ora fuori, dietro casa, dove me ne stavo seduto a ascoltare il cinguettio degli uccelli (dei piccoli dinosauri!), sorridendo feroce al cancello che si apriva in fondo, nel vecchio muro di mattoni. In altre occasioni sedevo invece sulla terrazza, davanti alle portefinestre del salotto, e elargivo la mia messe di sorrisi alla piccola giungla che era diventato ormai il giardino. Una volta, vicino al laghetto ho visto George. Quel giorno il giardino era un tripudio di colori e così anch'io: intorno al cranio portavo una corona di foglie di quercia, dalla quale facevano capolino un paio di piccole corna bianche con le punte smussate. Mi si era abbassata la fronte, avevo gli occhi allungati verso l'alto e le sopracciglia unite in cima al naso sembravano un manubrio di peli. Quanto alla bocca, era irrigidita in un sorriso largo e lascivo. George stava inginocchiato tra i fiori e quando mi ha visto si è alzato in piedi ed è rimasto lì con un trapiantatoio in mano, riparandosi gli occhi dal sole che splendeva su di lui da un cielo azzurro e terso, la qual cosa mi ha ricordato l'Africa e i tempi in cui, prima di mettersi in cammino per la costa, levava gli occhi e mi guardava dai piedi dell'altura. Il sole era forte e George sembrava brillare come brillava il suo riflesso nel laghetto nero quando qualche pesce rosso saliva a catturare una larva di mosca sul pelo dell'acqua. George indossava la sua camicia azzurra da poliziotto scollata e i vecchi pantaloni di velluto marrone, ma non gli scarponi, ho notato, perché ora aveva i piedi fessi, o meglio, gli zoccoli fessi, e una frangia di peli ruvidi gli lambiva le caviglie caprine con riccioli irti e folti. Un fantasma, è ovvio, proiezione di una mente in sfacelo; ma va anche detto che avevo la testa scoperta, esposta al sole, perché Doris si era dimenticata di mettermi il cappello.
Un'altra volta, nel giardino ho visto Fledge e l'ho visto morire. Giaceva nudo sul prato. Vi ho già descritto com'è Fledge svestito: ha un corpo lungo e magro, con un accenno di pinguedine su petto e ventre, il colorito chiarissimo e una riga di peli rossastri gli scende fino al pube da un punto a metà fra quelle sue mammelle paffute. Cleo, in nero dalla testa ai piedi, stava strisciando verso di lui con un coltello tra i denti; il sole era allo zenit e brillava con una lucentezza tale che la lama sembrava una scheggia d'argento fuso. D'un tratto Cleo si è messa in ginocchio e gli ha piantato il coltello scintillante nel cuore. Il corpo di Fledge si è inarcato e dalla bocca è schizzato fuori un grosso fiotto di sangue e altri fluidi. Per qualche istante ha continuato a tremare in preda alle convulsioni e gli si è aperta la bocca; gli occhi fissavano il sole. Poi, con un lungo rantolo, si è placato ed è rimasto a terra inanimato. Un'altra volta ancora, nel momento in cui Cleo alzava il coltello, Fledge si è tirato su improvvisamente e le ha afferrato i polsi e i due hanno cominciato a lottare con violenza, prima inginocchiati, poi a terra, dibattendosi fra l'erba. Questi avvenimenti, se posso chiamarli tali, mi turbavano molto, perché quantunque sapessi che erano del tutto illusori mi sembravano, invece, del tutto reali: li sentivo reali. Eppure si trattava di semplici allucinazioni, sintomatiche di quelle fughe o forse deragliamenti ai quali la mia mente è andata sempre più soggetta verso la fine della primavera. A ogni modo, là in giardino vedevo soprattutto George. Me ne stavo seduto davanti a una portafinestra e guardavo la pioggerella primaverile che scendeva piano come un velo sul prato, dove le erbacce trascurate si accalcavano intorno ai fiori nati dai bulbi che aveva piantato lui in autunno. Siepi e cespugli si rovesciavano disordinati su aiuole e vialetti e sotto quella pioggia brumosa verdeggiavano con una brillantezza singolare, con una specie di fulgore virente che trovavo di una bellezza strana e selvaggia. L'odore del giardino, l'odore umido e forte della vegetazione lussureggiante e incontrollata mi saliva alle narici e mentre contemplavo quella giungla nebbiosa, e il laghetto delle ninfee tempestato e avvolto dalla pioggia delicata e incessante, sorridevo feroce al fantasma del mio compagno recluso che lavorava la terra.
Il processo è durato cinque giorni appena e Harriet si è trattenuta a Londra dall'inizio alla fine, essendo stata convocata dalla difesa per testimoniare sul carattere dell'imputato. Da ciò si arguisce quanto fosse precaria la posizione di George; si reggeva solo sulla natura indiziaria delle prove e sulla testimonianza di Lady Coal. E perfino questa gli si è ritorta contro, perché dopo che Harriet, su domanda di Sir Fleckley, ha definito George un uomo degno di fiducia, onesto e incapace di commettere violenza, Humphrey Stoker si è alzato e, esaminandosi le unghie con noncuranza, le ha chiesto disinvoltamente che rapporti avesse di preciso con l'imputato.
«È il mio giardiniere» ha risposto Harriet.
«E questo cosa significa, Lady Coal?» l'ha interrogata Stoker, togliendosi gli occhiali e pulendoseli distrattamente con l'orlo della toga.
«Be', niente di particolare» ha risposto Harriet. «Io gli dico cosa ci serve quanto a fiori, ortaggi e via dicendo e lui mi fa sapere se... be'... se dobbiamo procurarci una carriola nuova o quel che è. Cose riguardanti il giardino».
«Ho capito» ha detto Stoker con voce grondante di ironia. «Dunque, Lady Coal, i suoi rapporti con l'imputato consistono nel fatto che lui la informa se e quando dovete procurarvi una carriola nuova».
«Obiezione» ha detto Sir Fleckley stancamente, alzandosi.
«Respinta» ha ribattuto il signor giudice Congreve.
«Non ho altre domande, giudice» ha detto Stoker sedendosi.
Per un attimo Harriet è sembrata sul punto di scoppiare in lacrime, rendendosi conto di esser stata messa in ridicolo a spese di George.
Ricordo che quella sera, dopo cena, Doris ha bevuto una bottiglia di bordeaux. Il vino scendeva gorgogliando nel bicchiere, un grosso bicchiere da vino con la bocca larga e lo stelo robusto. Trascinando i piedi, Doris è andata alla porta di servizio e l'ha spalancata e io, ricordo, l'ho guardata fissare il giardino al crepuscolo, mentre dagli alberi vicini al fienile gli uccelli intonavano il loro coro vespertino. Poi ha appoggiato la schiena allo stipite e allora ne ho visto il profilo, la silhouette: quella di una donna alta, alta e magra, dal lungo naso appuntito e il mento sfuggente, con i capelli spazzolati all'indietro, stretti in una crocchia sulla nuca. Mentre la sua figura si stagliava nitida sullo sfondo dell'ultima luce, Doris si è portata il bicchiere alle labbra e ha bevuto. Il collo lungo che saliva e scendeva, la spina dorsale leggermente concava, i piedi appiattiti sulla soglia e una mano lunga che le penzolava inerte lungo il fianco... tutto il suo corpo è parso arrendersi completamente al bicchiere inclinato. Dopo averlo vuotato, è rimasta ancora qualche istante nella stessa posa, con la testa poggiata all'indietro sullo stipite, mentre i suoni e gli odori del crepuscolo entravano adagio; poi, voltando la testa verso di me, ha tirato un sospiro profondo. «Ah, Sir Hugo,» ha detto piano «ce lo siamo giocato». Io le ho sorriso feroce, pensando: è così, è proprio così.
Harriet, naturalmente, era ospite degli Horn e la sera del quarto giorno in quella casa avevano tutti la faccia scura. L'indomani mattina gli avvocati dovevano tenere i discorsi conclusivi, poi il giudice avrebbe tirato le somme e la giuria si sarebbe ritirata in giudizio. Victor aveva seguito attentamente il caso sui giornali ed era molto turbato. Quanto meno, così immagino io, perché George Lecky gli stava simpatico e i due si erano ritrovati spesso nel giardino di Crook a chiacchierare di calcio, dell'Africa, di dinosauri e della guerra; da parte sua, so che George, pipa fra i denti e intento al lavoro, derivava sempre un forte e silenzioso piacere dalle domande curiose e dall'ingegno vivace del ragazzo. Victor era stato amico di George fin dalla più tenera età e rammento ancora un pomeriggio d'autunno, quando dalla finestra della mia camera da letto vidi George attraversare il giardino dietro casa spingendo una carriola piena di foglie secche e Victor, seienne rotondetto appollaiato in cima al mucchio, che ballonzolava su e giù gridando di gioia, con il forcone a tre punte di George stretto in mano come un piccolo dio marino, come un Poseidone fanciullo ricondotto alla dimora nel suo carro sulla cresta dell'onda. Victor sapeva che George era incapace di uccidere; perché allora i giornali dicevano che era stato lui?
«Perché certi giornali» gli ha risposto il padre «cercano in continuazione di rendere le cose peggiori di quel che sono. Così vendono di più».
«Be', se la gente lo sa» ha commentato Victor «non ci farà caso e il signor Lecky sarà assolto».
«Magari fosse vero» ha detto Henry.
E così si è arrivati all'ultimo giorno. Humphrey Stoker ha passato anzitutto in rassegna le prove, dimostrando come incriminassero George in maniera schiacciante. Dopo aver sostenuto le sue tesi con relativa razionalità, ha tirato fuori il suo animo d'istrione e ha detto alla giuria con una certa passione che un mostro in grado di commettere un atto di tale disumana brutalità contro un giovane che aveva ancora tutta la vita davanti - un giovane, ha sottolineato, che stava avviandosi a una promettente carriera letteraria -, ebbene, un mostro del genere meritava la pena più severa che potesse esigere la legge. Lui, ha aggiunto, non sarebbe riuscito a dormire sonni tranquilli finché non fosse stato sicuro che George Lecky non avrebbe mai più messo piede su questa terra da vivo. Ha implorato la giuria di non tirarsi indietro, di non esitare davanti al dovere, e il suo dovere, il suo terribile dovere, ha detto con voce sommessa, egli credeva umilmente di aver precisato qual era: raggiungere un verdetto di colpevolezza, dichiarare l'imputato colpevole di omicidio di primo grado. Dopodiché si è seduto.
Allora si è alzato Sir Fleckley Tome. Il suo dotto amico aveva perfettamente ragione, ha esordito. «Se riterrete al di là di ogni ragionevole dubbio che George Lecky abbia ucciso Sidney Giblet, dovrete senz'altro esprimere un verdetto di colpevolezza. Ma io, signore e signori della giuria, mi domando se in questo caso non si possa dire effettivamente che un ragionevole dubbio, nevvero, esiste...». Quindi ha analizzato per esteso, e in maniera particolareggiata, il carattere indiziario delle prove, riconoscendo che George aveva commesso un errore, un grave errore, a non denunciare la scoperta del cadavere alle autorità; ma quell'errore, ha ripetuto, non equivaleva a un omicidio punibile con la pena capitale. E se dunque restava loro un dubbio, anche un solo dubbio, come egli era certo che fosse, loro dovere era dichiarare l'innocenza dell'imputato. Tirando le somme, il signor giudice Congreve ha ribadito il medesimo concetto: le istruzioni che ha impartito alla giuria, anzi, ruotavano proprio intorno a questo punto, perché nessuna delle prove addotte era stata contestata. Con occhi lacrimosi e voce tremula, l'anziano ometto ha quindi mandato la giuria a deliberare e la corte ha aggiornato la seduta.
Ci sono voluti quarantatré minuti perché la giuria arrivasse a un verdetto e sono stati quarantatré minuti di tensione, perché l'arringa conclusiva di Sir Fleckley era risultata tanto convincente e il giudice aveva sostenuto con tanta enfasi le sue argomentazioni che nel cuore di Harriet e Hilary era spuntata una speranza nuova. La signora Giblet le ha raggiunte nella saletta, adiacente alla sua, che Sir Fleckley aveva messo a loro disposizione e per quarantatré minuti le tre donne sono rimaste lì in angosciosa attesa. All'improvviso, con le falde della toga che gli svolazzavano intorno ai pantaloni gessati, Sir Fleckley è ricomparso sulla porta comunicante con il suo ufficio. «Sono rientrati in aula» ha annunciato.
«Colpevole di omicidio di primo grado» ha detto il capo dei giurati e George ha aperto la bocca, ha tirato indietro le labbra, ha stretto i grossi denti e si è coperto gli occhi con una mano. Sì, ha risposto poi al signor giudice Congreve, aveva qualcosa da dire prima che fosse pronunciata la sentenza: lui era innocente, aveva detto la verità e, se fosse morto per quel crimine, sarebbe morto ingiustamente. Nient'altro. Harriet e Hilary non erano le uniche in aula a avere le guance bagnate di lacrime. Il signor giudice Congreve ha indossato molto lentamente i guanti bianchi e il tocco nero. Il suo collo cascante e il volto minuto, tentennante e avvizzito, sembravano brandelli di carne troppo sottili e cedevoli per sostenere la ponderosa maestà di quelle vesti rosse, di quella parrucca gloriosa con il copricapo calcato sul cocuzzolo. La sua voce era la voce di un uomo vecchissimo, indicibilmente stanco, che anelava la morte.
«George Kitchener Lecky, lei è stato giudicato colpevole di un crimine terribile. Questa corte la condanna a essere tradotto da qui a un carcere regolare e da tale carcere a un luogo di esecuzione, dove le sarà data la morte per impiccagione, successivamente alla quale la sua salma verrà sepolta entro i confini del carcere in cui sarà stato detenuto fino al giorno dell'esecuzione. E che il Signore abbia pietà della sua anima».
«Amen» ha detto il cappellano del tribunale, che era in piedi alle spalle del giudice, a sinistra.
L'ombra lunga e sinistra del patibolo è giunta fino a Crook e nei giorni seguenti è scesa sulla casa una quiete arcana. La signora Giblet telefonava spesso a Harriet e da qualche conversazione tenutasi in salotto ho capito che l'unica speranza rimasta era una richiesta di clemenza presentata al ministro dell'Interno: ultimo appiglio cui potesse aggrapparsi George, che con occhi infossati e un macigno sul cuore languiva nella sua cella solitaria in fondo a una delle grandi carceri più vecchie d'Inghilterra. A Crook, come ho detto, lo sentivamo tutti, il peso schiacciante di quella condanna a morte; persino Fledge ha tradito almeno una volta l'emozione, quando una sera dopo cena ha avuto a che fare con Doris in cucina. È stato sicuramente un segno della pressione intensa cui era sottoposto, considerato che - come ho già avuto modo di sottolineare - Fledge aborriva esprimere qualsiasi emozione. Non la passione, però, mi affretto a precisare: non la passione, che riusciva a esprimere e di fatto esprimeva ogni notte. E questo, immagino, ha aiutato Harriet a distrarsi, impedendole di rimuginare costantemente sulle sorti di George. Tant'è che ben presto si è ripresa la routine instaurata nelle settimane successive al mio incidente. Doris se ne andava a letto ondeggiando molto prima di mezzanotte, talvolta dopo aver messo a letto me, prima di cadere secca lei; allora Fledge faceva un giro intorno alla casa, poi chiudeva a chiave la porta e senza far rumore saliva le scale di servizio al lume di una candela.
Harriet e Fledge erano arrivati a un punto tale della loro relazione che, nonostante le tensioni insite nella situazione in cui vivevano, andavano ormai soggetti a un desiderio fisico reciproco pressoché incontrollabile. Una mano sfiorata, uno sguardo casuale, un certo tono di voce... ed ecco che rimanevo solo in salotto, mentre i due sgattaiolavano via, diretti senza dubbio all'office di Fledge o in camera di Harriet. Credo che in un'occasione lui l'abbia addirittura posseduta in sala da pranzo, subito dopo cena, sul pavimento, incurante dell'eventualità che entrasse Doris. Vedete, una volta abbandonato ogni scrupolo morale e religioso Harriet era arrivata a adorare la visione del bel pene di Fledge che si ergeva duro e lievemente palpitante dalla morbida lanugine rossiccia del pube. Bagnata lei stessa, con le cosce già umide di secrezioni liquide sintomatiche di un'eccitazione intensa, sollevava le mani paffute e scioglieva le voluminose e pesanti spire di capelli color rame che teneva arrotolate sul cranio; guardava l'uomo con un'immensa, disumana voracità e finalmente - dolce amplesso! - tendeva le mani verso di lui, lo prendeva fra le braccia e ricopriva di baci il suo corpo diafano.
Seguiva qualche momento di languido torpore, ma poi - oh, quanto conoscevo bene la mia Harriet! - il suo viso si rannuvolava e i suoi pensieri correvano dal maggiordomo disteso nel suo letto al giardiniere rinchiuso nella cella lontana. E così, persino nel rifugio dell'amore finiva per spuntare lo spettro della morte.
La data dell'esecuzione è stata fissata al 24 maggio, più o meno tre settimane dopo la condanna. A questo punto, una volta indagato, analizzato e inquadrato da polizia e avvocati, da una giuria di suoi pari e persino dalla comunità psichiatrica, George è diventato proprietà esclusiva di giornali della peggior specie e del loro pubblico di lettori. La stampa lo ha definito un bruto, un maniaco e un mostro, illuminandolo come uno schermo con le sue proiezioni abominevoli; quando Cleo mi leggeva gli articoli sul mio vecchio compagno d'Africa, mi piangeva il cuore. Ma non era solo la stampa a tenerlo implacabilmente sotto esame: nella sua cella, George era ormai sorvegliato da decine d'occhi. E l'ho visto anch'io, nei miei pensieri, un pomeriggio di metà maggio: stava seduto sull'orlo di una cuccetta bassa di calcestruzzo, con i gomiti puntati sulle ginocchia, le lunghe mascelle chiuse fra i palmi e le dita sugli occhi.
«Lecky».
George porta l'informe divisa carceraria, con un numero stampato sulla tasca della casacca. Le dita gli scendono sulle guance e per un istante gli tendono la pelle delle orbite. Il sole filtra tra le sbarre della finestra e cade a strisce sul pavimento della cella, rigando anche la sua sagoma ingobbita. In alto, vicino al soffitto, una coppia di mosche gira in tondo senza posa. Poggiando le mani appiattite sulle ginocchia, George drizza adagio la schiena e si volta verso la porta; avendo la luce alle spalle, è scuro d'ombre in faccia. Da questa oscurità giunge un suono sordo, a malapena riconoscibile come la voce roca che un tempo aveva George Lecky.
«Che c'è?».
La chiave gira nella toppa e la porta si spalanca.
«Hai visite».
«Chi è?».
«Re Giorgio VI, no? Forza, in piedi».
George si alza stancamente. Ha i capelli tagliati ancor più corti di quanto ricordassi e sul viso lungo e tetro, specie intorno agli occhi e nello spacco fra le sopracciglia folte, si legge un cedimento di quel carattere tutto d'un pezzo, segno inconfondibile dello sfinimento e della disperazione. George sembra svigorito, sfibrato, snervato. Si avvia alla porta strascicando i piedi, tirandosi su intorno ai fianchi stretti i pantaloni sformati e cascanti della divisa, e leggermente ricurvo esce in corridoio.
Il secondino chiude la porta e si infila dentro una tasca profonda dei calzoni il grosso mazzo di chiavi che tiene legato alla cintura con una catenella. «Andiamo, Lecky» dice e, mentre i due si incamminano con passo pesante verso l'ufficio in fondo al braccio, le loro ombre avanzano oscurando i nitidi scacchi di sole che filtrano dalle porte delle celle e dai lucernari.
In fondo al braccio li aspetta un secondino più anziano. «È venuta a trovarti una persona, George» gli ha detto. È un uomo maturo, bonario e paternalista. «Ce l'hai un po' di tabacco, sì?».
George ha annuito.
«Bene. Allora vai». Ha aperto un cancello a grata che dava su una ripida scala a chiocciola di ghisa. Mentre George e l'altro sorvegliante scendevano, il cancello si è chiuso sbattendo alle loro spalle e l'aspro cigolio metallico della chiave che girava nella serratura ha echeggiato sonoro giù per la tromba delle scale. In fondo a queste, George ha aspettato che si ripetesse la stessa procedura, quindi ha imboccato un corridoio breve ed è entrato infine in una stanzetta quadrata che aveva in alto un'unica finestra con le sbarre. I muri erano tinteggiati fino all'altezza del petto di un verde smorto, che da lì in poi diventava avana sporco. Al centro della stanza c'era un robusto tavolo di legno tutto rovinato da bruciature di sigaretta, con un portacenere di latta sudicio; dal soffitto penzolava una lampadina con un paralume di latta smaltata verde. La stanza era illuminata da strisce e scacchi di sole e a ciascun lato del tavolo c'era una sedia di legno. Quando George è entrato, una donna anziana seduta su una delle sedie si è voltata verso di lui e, chiudendo le mani intorno al manico del bastone da passeggio, lo ha scrutato attentamente. Era la signora Giblet.
In questo periodo, in questo periodo tardo di Crook - così lo vedo io -, mi sorprendo spesso a chiedermi cosa di preciso io rappresenti per Fledge. Lui, naturalmente, non mi dà a intendere quasi nulla e questo dal giorno in cui mi ha voltato la sedia a rotelle contro il muro. No, flemmatico come sempre, non lascia trapelare alcun segno che, per esempio, il suo riuscito tentativo di sedurre e dominare Harriet lo riempia d'orgoglio e di piacere. Chissà, mi domando, oltre che astuto e guardingo di natura sarà anche superstizioso? Crede forse che esternare un sentimento porti sfortuna, crede che vi siano degli dèi o un fato a controllare dall'alto le faccende dei mortali e che queste entità soprannaturali godano del fallimento dei nostri progetti? (Certo è che io ho cominciato a nutrire tali sospetti riguardo alla mia vita). È dunque per scongiurare una loro eventuale intromissione che egli tiene chiuse le labbra e vacuo lo sguardo, cioè adotta tutto quel repertorio di gesti rigidi e formali dal quale sembra non allontanarsi mai? È per questo che si comporta così? Sta tentando di realizzare le sue ambizioni senza farsi notare e sfidare dagli dèi? Secondo me, è molto probabile.
Ma io, allora, cosa sono per lui? È ovvio che ormai non costituisco più una minaccia, dal momento che Crook, a questo punto, la definirei sostanzialmente sua. A pensarci bene, credo che per Fledge io rappresenti una specie di trofeo, più o meno come la testa di cervo appesa nell'atrio davanti all'orologio. Forse mi vede come una conquista e, quindi, come un simbolo della sua potenza (date le mie attuali condizioni, d'altronde, potrei benissimo essere imbalsamato e appeso al muro). Ma tra me e Fledge sta succedendo anche qualcos'altro, benché per dire questo mi basi unicamente su un'intuizione da osservatore malato cronico e passivo quale sono. Sì, perché non bisogna dimenticare che Fledge ha preso l'abitudine di vestirsi in maniera molto simile alla mia. Quando mi lancia un'occhiata dal caminetto e mi vede sorridergli feroce con una giacca di tweed indosso quasi uguale alla sua per colore e disegno, un paio di calzoni di spigato della stessa identica sfumatura di beige (e la piega altrettanto affilata) e con un paio di oxford dalla suola di cuoio e la mascherina traforata anch'esse non diverse dalle sue, ebbene, cosa vede? Quanto alla cravatta, quella che porta lui potrebbe essere sorella della mia; ho notato che da qualche tempo Fledge fa libero uso della mia riserva personale e dentro di me ho maledetto Harriet per avermi tradito così a fondo.
Sì, eccolo là accanto al camino, alto, eretto, elegante, azzimato e bello, che guarda dall'altro capo della stanza e vede... se stesso. Ma è un se stesso trasformato, un suo riflesso rachitico con un sorriso feroce stampato in faccia, quasi che avesse davanti uno specchio deformante e ci si vedesse tramutato in un essere grottesco. Io sono il suo sosia grottesco, in me Fledge vede esternata la sua corruzione, io sono l'esteriorizzazione, la manifestazione, la rappresentazione in carne e ossa della sua vera, intima natura, che è una roba deforme e vizza. Lui se ne rende conto e questo fatto, questo vedere la sua anima che gli sorride feroce da un angolo della stanza, lo affascina. Lì per lì lo choc di riconoscersi è stato intenso - è stato quello il giorno in cui mi ha voltato la sedia a rotelle contro il muro, ora capisco perché l'ha fatto -, ma col tempo ha cominciato a trarre una sorta di narcisistico e sinistro piacere dal contemplare l'immagine della propria essenza grottesca. Ed è per questo che penso a me stesso come alla sua coscienza avvizzita: io sono il ricordo atrofizzato del bene, che in questo stesso momento impallidisce, rinsecchisce e si spegne sotto i suoi occhi. Sì, perché mentre io affondo, lui emerge; consapevole di ciò, Fledge mi vede come una specie di rovescio di se stesso, il negativo del suo positivo. L'ironia sta nel fatto che in realtà è lui a essere il negativo mio, perché in me il bene persiste e malgrado tutti i miei difetti - non pretendo, né mai ho preteso d'essere perfetto, anzi, sono stato un cattivo marito e un padre indifferente -, malgrado, dicevo, tutti i miei difetti non ho mai rinunciato ai valori morali. Contrariamente al cinismo palese, alla violenza e alla perversione di Fledge, io, essere grottesco, riesco ancora a intravedere il bene. Da uomo diabolico qual è, Fledge gode di fronte allo spettacolo del mio disfacimento in scena nel suo salotto. E come la gargouille di una cattedrale gotica era un demone sconfitto costretto a fungere da fogna, io, viceversa, sono costretto a fungere da gargouille in questa anticattedrale, in questa demoniaca dimora che Fledge ha fatto di Crook. È Fledge l'essere grottesco, non io!
A questo pensiero, comincio a sbuffare fragorosamente e Harriet accorre a sconquassarmi la colonna vertebrale incurvata e fragile. Prima o poi, qualcuno mi darà una pacca così forte che questa maledetta colonna si spezzerà in due e allora, grazie a Dio, per Sir Hugo sarà la fine.
Sapete, adesso ballano, Harriet e il grottesco, in genere come preludio al sesso. Lui mette un disco sul grammofono, poi prende Harriet fra le braccia e con lei si lancia spudoratamente in un foxtrot per il salotto. Le portefinestre sono aperte e gli odori dolciastri e nauseanti del mio giardino straripante d'erbe entrano lenti insieme ai cinguettii, ai mille cinguettii degli uccelli. Le luci non sono ancora accese, nella penombra della sera aleggia forte un olezzo di fiori muschiati e lui, talvolta, la conduce persino fuori in terrazza, perché sento il rumore delle scarpe sulle pietre. Fledge, naturalmente, balla bene e porta Harriet con grazia agile e sinuosa; si tratta, come ho detto, di un preludio al sesso, perché una decina di minuti dopo ecco che immancabilmente sgattaiolano via nell'office, dove lui, immagino, si mette a sedere sulla sedia accanto al bancone da lavoro con i calzoni e le mutande tirati giù e la verga dritta come uno stinco. Lei, che nella sua fretta vogliosa si sarà già tolta le mutande per le scale, si alza la gonna e gli si mette a cavallo. Cominciano a muoversi su e giù, dapprima piano, ma acquistando via via velocità. Lei gli si aggrappa, gli stringe le spalle, il collo, i capelli, e poi, col piccolo mento sollevato, gli occhi chiusi, i capelli che pian piano si sciolgono e le ricadono in massa sulle spalle, lancia qualche gridolino e qualche strido, sobbalzando malferma verso il primo orgasmo della serata. Finisce che ha le guance rigate di lacrime e con una pioggia di baci bagnati inonda il viso di quell'uomo meraviglioso che la sorte le ha fatto trovare.
Nel frattempo, io me ne sto in salotto a ascoltare straziato il disco di foxtrot che appena arriva alla fine ricomincia subito da capo, e seguita a girare all'infinito.
A Londra, nella prigione, George ha ascoltato in stoico silenzio la notizia che il ministro dell'Interno ha rifiutato di sospendere l'esecuzione. Stava in piedi in fondo alla cuccetta, con la finestra alle spalle. Il sovrintendente si è fermato sulla soglia della cella e gli ha comunicato la notizia con voce cupa. «George, mi dispiace» ha aggiunto. George gli era simpatico. George era simpatico a tutti.
A questo punto, il suo cambiamento si presentava drammatico. In prigione, George aveva perso molto peso e era già magro quando lo avevano rinchiuso. La mascella lunga e bluastra, le guance scavate e il cranio rasato gli davano un'aria assai macilenta. I mesi di reclusione avevano trasformato la falcata gagliarda dell'uomo di campagna in un passo strascicato, curvo e incerto, e la necessità di fare costantemente appello alla propria forza di volontà lo aveva caricato di una tensione per lui inconsueta. George si appellava alla forza di volontà per non perdere il controllo; perdere la vita, al confronto, gli sembrava un'alternativa preferibile. Il sovrintendente e i secondini l'avevano capito, che George si rifiutava di cedere al terrore, e per questo lo rispettavano. Ormai fumava quasi in continuazione.
Quanto lo conoscevo bene, quel brav'uomo, e che tempra! A consumarlo era più d'ogni altra cosa la privazione dell'aria fresca, della terra e degli alberi. George aveva sempre vissuto all'aria aperta; era stato agricoltore e prima ancora soldato, per giunta un soldato in gamba, mentre adesso, da mesi, aveva appena un lembo di cielo a ricordargli che il mondo non era fatto solo di mattoni e acciaio. Ogni giorno lo lasciavano fuori in cortile quaranta minuti, da solo; ma così era quasi peggio che niente. Lui si trascinava pesantemente sulle pietre polverose, con la pipa stretta fra i denti grandi e forti, per fortuna inconsapevole degli occhi che lo fissavano da ogni finestra affacciata sul cortile. E aggiungete a quelli i miei, gli occhi della mia immaginazione, perché anch'io dentro di me lo sorvegliavo, quantunque a differenza degli altri provassi per lui soltanto affetto, pietà e compassione. Un'amarezza profonda gli stava divorando le viscere e sempre più spesso, ormai, questa depressione, questo progressivo oscuramento del suo spirito veniva esacerbato dalle ondate di panico puro e vertiginoso che gli scatenava la prospettiva della morte. In quei momenti egli mordeva furiosamente il bocchino della pipa e serrava i pugni fino a far sbiancare le nocche. La sua mente si comportava in maniera irrazionale: era arrivato a amare il tavolo e la sedia della sua cella, il letto e il vaso da notte, la finestra e il piccolo quadratino azzurro dì cielo; si aggrappava a tutto come se stesse affogando. Poi, bastava un istante e i suoi pensieri guizzavano in avanti, tentando di trafiggere il buio e sapere cosa sarebbe successo... dopo. George non era religioso ed evitava il cappellano della prigione, che si faceva vivo tutti i giorni e gli lasciava un paio di letture. A terrorizzarlo non era la perdita dell'anima, bensì la perdita dei sensi, del mondo sensibile; da qui gli improvvisi e violenti raptus d'amore per la sedia rozza su cui sedeva, per l'aroma del tabacco nero, per il calore sicuro della voce di un secondino che si chiamava Bert. Quando poi l'ondata passava, gli restava dentro quel dolore sordo che pulsava sardonico dietro ogni pensiero e che egli teneva a bada soltanto fumando la pipa. Con Bert giocava interminabili partite a domino e le ore parevano a volte arrancare con lentezza penosa, altre volte volare via a una velocità terrificante. George pensava al processo, con un senso di assoluta prostrazione; pensava spesso a me e chiedeva mie notizie. Capiva perché lo avevo abbandonato? Voglia Iddio di sì. Il medico della prigione è andato a visitarlo e lo ha dichiarato in buona salute. D'un tratto egli si è reso conto di aver avuto la sua parte; agli altri, ormai, non rimaneva che abbatterlo e creare una morte. Aveva quarantanove anni e in fondo alla prigione gli avevano già scavato la fossa.
Nello stesso periodo la signora Giblet ha continuato a far pressioni su di lui, a mio danno. Per questo motivo era andata a trovarlo in prigione. Che ragione c'era, altrimenti, di visitare l'uomo che le aveva propinato maiale ingrassato con le carni di suo figlio? La Giblet stava tramando contro di me, tentava di persuadere George a tradirmi lasciandogli intendere in maniera subdola e indiretta, ovvero dicendogli col massimo candore, che se mi avesse accusato si sarebbe potuto salvare. Per il momento, tuttavia, non stava avendo successo, perché George sin dai tempi dell'Africa mi era profondamente fedele. In tutta questa faccenda, però, bisogna tener presente un altro importante fattore e cioè l'intensa solitudine che prova un uomo nella situazione in cui si trovava George. Avere davanti la prospettiva di una morte imminente - e parlo adesso per esperienza personale - mentre il resto dell'umanità guarda noncurante agli anni, ai lustri, agli incalcolabili decenni futuri, è una realtà che ti separa dagli altri. Ogni viaggiatore che si chiude alle spalle la porta di casa viene toccato da una specie di solitudine, da una malinconia che si cela in fondo all'eccitazione o allo scopo del suo viaggio. Si prenda allora quella malinconia - sarà la paura primordiale del cacciatore che si avventura fuori della caverna, la paura di non far più ritorno o di trovare, al ritorno, una casa deserta o in rovina? -, si prenda, dicevo, quella malinconia e la si ingrandisca mille volte: così sono la tristezza e l'isolamento del condannato. Io lo so. E sospetto che la signora Giblet fosse abbastanza sagace da saperlo anche lei e da capire, di conseguenza, quanto fosse vulnerabile George.
Sì, perché George - adesso me ne rendo conto - le era pateticamente grato di quelle visite. Per lui, un uomo che il mondo considerava un mostro, le visite di quell'anziana donna, madre addirittura della sua presunta vittima, rappresentavano l'unico sostegno esterno grazie al quale egli potesse tenere in piedi il suo senso di identità sempre più fragile. La signora Giblet era per George quello che Cleo era per me: con la loro fede ci tenevano a galla, consentendoci di andare avanti; ci restituivano un riflesso di noi che non era grottesco, né mostruoso; ci permettevano di vederci ancora come esseri umani, come uomini. Nel caso della signora Giblet, tuttavia, quel sostegno aveva un prezzo.
Il tempo passava e il logorio diventava ogni giorno più estenuante. I pensieri di George ruotavano incessantemente intorno alla stessa, brutale idea: mi manderanno sulla forca per qualcosa che non ho fatto. George ha cominciato a nutrire qualche dubbio. Finora aveva parlato con la signora Giblet soltanto perché sembrava volerlo lei; più che dal conversare, il profondo senso di gratificazione che derivava da quelle visite dipendeva semplicemente dal fatto che la donna era andata a trovarlo. Quasi quasi, non c'era nemmeno bisogno di vedersi; gli bastava sapere che c'era andata. Ma se lei desiderava parlare, lui avrebbe parlato, avrebbe parlato in quella maniera brusca e smozzicata da campagnolo, che era poi l'unica che conosceva. Così le ha parlato di Crook, del tempo che aveva fatto l'inverno precedente, dello stato in cui versava il giardino, dello stato in cui versava il terreno. E quando lei gli ha chiesto di me, o meglio, quando lei gli ha detto che cosa sospettava di me, ebbene, George ha succhiato il bocchino della pipa guardando il soffitto.
I giorni scivolavano via e la data del 24 maggio si profilava sempre più gigantesca all'orizzonte, come fosse un animale enorme che avanzasse verso di lui e lui non riuscisse a muoversi, bloccato impotente sul suo cammino. George misurava la cella a grandi passi, tirando boccate furiose dalla sua pipa masticata e rimasticata, sordo ormai a qualsiasi proposta di giocare a domino gli facesse Bert, che perciò se ne stava seduto in quieto silenzio, mentre lui continuava il suo andirivieni su e giù per la cella angusta. La divisa grigia della prigione sventolava come un sudario intorno al suo corpo ossuto.
Alla fine George ha preso una decisione. Si è seduto al tavolo di fronte a Bert e lo ha guardato dritto negli occhi. «Bert,» gli ha detto «lo sai chi l'ha fatto fuori, il giovane Giblet?».
Un'ombra di disagio è passata sul viso di Bert. Che non ha aperto bocca.
«Be', te lo dico io» ha proseguito George. Nella sua voce c'era un raschio velato. Per quanto malvolentieri, la cosa andava fatta, e subito. «È stato Sir Hugo, Bert. Non io, Sir Hugo».
Ecco, l'aveva detto. Anche lui mi aveva tradito. Atterrito al pensiero di rimetterci la vita, aveva tradito il suo vecchio compagno. È rimasto seduto e ha aspettato la reazione di Bert. Il secondino lo ha guardato in faccia; fra le sue sopracciglia biondorossicce si era incisa una piccola ruga. Da lontano si è udito il fragore di una porta metallica che sbatteva e il tintinnio di un mazzo di chiavi. Era sera. Alla fine Bert ha rotto il silenzio. «Non ti agitare, George» ha mormorato. «Adesso non ti far prendere dal panico, non è il caso».
George lo ha fissato a bocca spalancata. Pervaso da un malessere nauseante, da una sensazione vertiginosa di stordimento, è stato folgorato dall'idea che non gli avrebbero dato ascolto. Ha cominciato a protestare, ma già sapeva, già sapeva per certo che non sarebbe servito. Aveva parlato troppo tardi: troppo, troppo tardi.
Povero George. Anche dopo quello che ha fatto, ho provato per lui lo stesso affetto e la stessa compassione.
Il pomeriggio del 23 maggio Cleo ha portato Herbert in cucina. Sì, il mio vecchio amico rospo era ancora vivo e vegeto, abitava ancora in una vasca di vetro sistemata nel mio studio e di quando in quando veniva anche sfamato. La cara ragazza si è seduta al tavolo di cucina e gli ha messo davanti un piattino di rigaglie di pollo tagliate a dadini, mentre io guardavo la scena con quel maledetto, onnipresente sorriso stampato in faccia. Avendo messo mano al gin un po' prima del solito, quel pomeriggio Doris non si reggeva tanto bene in piedi. Per lei, il gin era una specie di novità e la sua sensibilità agli effetti del liquore saltava penosamente agli occhi: stava dall'altra parte del tavolo che ondeggiava avanti e indietro, con una grossa mannaia affilata in mano e, sul tagliere, un pollo spennato.
Essendo l'aria tiepida, tenevamo la porta di servizio aperta e a parte l'ondeggiamento di Doris suppongo che fosse tutto piuttosto tranquillo. Presa com'era da Herbert, Cleo evidentemente non ci ha fatto caso e io, credo, mi ero appisolato, perché è stato con un brusco spavento, come se mi avessero svegliato nel bel mezzo di un sogno, che tutt'a un tratto ho udito Doris urlare dal dolore. Ho aperto gli occhi e l'ho vista: era lì con la mannaia nella destra che si guardava attonita la mano sinistra, tenendola alta davanti agli occhi. Si era troncata di netto metà del dito indice. Il mozzicone giaceva sul tavolo accanto al tagliere; tutt'intorno, una quantità notevole di sangue, anche sul pollo. Cleo, senza prestare la minima attenzione all'accaduto, se ne stava con le mani appiattite sul tavolo e il mento poggiato sopra e fissava Herbert, che dal piattino di rigaglie era saltato al dito mozzo di Doris e stava lappando il sangue intorno con la sua linguona guizzante di anfibio. Doris è ricaduta a sedere ed è rimasta tramortita sulla sedia a guardare il sangue che gocciolava denso dall'altro mozzicone. Poi, sotto il mio sorriso feroce, ha allungato la mano buona, ha preso da terra la bottiglia di gin e se ne è fatta un bicchiere liscio.
George, intanto, camminava avanti e indietro nella sua cella di condannato. Avanti e indietro, avanti e indietro senza fermarsi. Bert era deluso; aveva creduto che George avesse più nerbo. E venuto il cappellano perché, essendo il 23 maggio, il condannato aveva ormai un solo giorno di vita. George ha detto anche al cappellano che Sidney Giblet l'avevo «fatto fuori» io; era più forte di lui, nel suo terrore della morte avrebbe detto qualsiasi cosa. Il cappellano ha cercato di farlo riflettere piuttosto sulla condizione della sua anima immortale, ma invano. È venuto il medico e anche quest'ultimo è stato sottoposto a un'arringa appassionata. Come succede in questi casi, nella prigione è corsa subito voce che George Lecky era crollato. Era un fatto che rattristava tutti. Perché in un certo senso George moriva per tutti loro.
Quando quel pomeriggio è andata a fargli visita, la signora Giblet lo ha trovato in uno stato d'animo alquanto diverso dalla bruschezza laconica che aveva imparato a aspettarsi. Era stata anche messa in dubbio l'opportunità di concedere a George quella visita, che tuttavia, alla fine, è stata approvata; ma i secondini avevano ricevuto l'ordine di riportare George in cella se si fosse anche minimamente agitato. E prima di esser portato giù, George ne era stato avvisato.
Appena seduto al tavolo della squallida saletta delle visite, ha afferrato le mani della signora Giblet e ha attaccato a parlare. Credo che nessuno, me compreso, avesse mai sentito parlare George come senz'altro avrà parlato quel pomeriggio. Alla fine, la signora Giblet è uscita in fretta e furia dalla stanza, ha fatto parecchie telefonate dalla segreteria della prigione, dopodiché ha preso un taxi per Waterloo Station. Stava venendo a Crook.
Difficile dire quanto tempo sono rimasto seduto in cucina a guardare Doris che beveva gin, mentre il mozzicone del suo dito indice continuava a sanguinare sul pollo: una ventina di minuti, o forse più, forse un'ora. Alla fine, sulla porta è comparso Fledge. Con gli occhi che guizzavano dal laghetto di sangue sul tavolo a Doris, a Cleo, a me, poi di nuovo al sangue, ha afferrato rapidamente la situazione. Troppo facile comprendere la fulminea smorfia di disprezzo che gli ha sfiorato le labbra. La moglie ubriaca guardava intontita il sangue che seguitava a gocciolare su un pollo spennato e a osservare la scena, nella passività più totale, sorridente, avvizzito e scheletrico come un mucchio di stecchi in un vestito ormai troppo grande per il suo fisico smunto e cadente, sedeva il padrone di casa. Fossi stato al posto di Fledge, anche a me sarebbe sorta spontanea una smorfia di disprezzo. Ah, esser ridotto a tanta flaccida inerzia! A questo punto, lo so, avevo gli occhi infossati e cerchiati di ombre; gli zigomi mi sporgevano aguzzi da un viso che presentava tutta la friabile e giallastra consistenza della cartapecora; in più avevo la barba lunga, sbavavo e ero tutto impataccato. Un piccolo bruco sudicio che si aggrappava torvo all'esistenza dal suo bozzolo di tweed. E senza far niente: io e Cleo, il mio elfo e suo padre, stavamo là seduti senza far niente. Era come se uno dei miei occhi, al pari di quello dell'halibut, fosse migrato, come se si fosse spostato nel cranio di Fledge per contemplare in quale stato c'eravamo ridotti.
Da quel momento gli eventi si sono susseguiti velocemente. Con prontezza e competenza Fledge ha disinfettato e fasciato la ferita di Doris, poi ha telefonato al medico. Mentre riattaccava, hanno bussato forte alla porta d'ingresso. Ho udito i passi di Fledge nell'atrio e visto la porta che si apriva: sulla soglia c'era la signora Giblet. Si è levato un oscuro mormorio di voci, dopodiché i rumori sono passati in salotto. Un attimo dopo Fledge è ricomparso in cucina, ha agguantato i manici della mia sedia a rotelle e mi ha spinto fuori. Sono stato addossato alla parete del salotto dirimpetto al camino; la Giblet e Harriet stavano in piedi al centro della stanza, Harriet turbata, la vecchia signora in preda a una certa impazienza. Fledge si è ritirato, chiudendosi la porta alle spalle.
«Lady Coal, abbiamo pochissimo tempo» ha esordito la signora Giblet. «Temo che per stavolta dovremo saltare i convenevoli... Ne va della vita di un uomo».
«Ma signora Giblet, cosa è successo?» ha detto Harriet. «Non vuole almeno sedersi? Una tazza di tè?».
«Lady Coal, vengo direttamente da Wandsworth. George Lecky mi ha raccontato che cosa è accaduto la notte in cui è scomparso Sidney».
Ho avvertito un dolore al petto, un dolore bruciante e vivo che mi si è allargato dentro come un ventaglio di tentacoli, tentacoli di fuoco. «Ma si sapeva già, no...?» ha mormorato Harriet.
«Lecky non aveva detto la verità» ha annunciato la signora Giblet. «Voleva proteggere suo marito, Lady Coal».
«Ma proteggerlo da cosa, di preciso, signora Giblet?». Harriet mi ha fissato, poi si è lasciata cadere su una poltrona e si è voltata verso la signora Giblet intrecciando le mani in grembo, con una piccola ruga incisa fra le sopracciglia.
«Dalle conseguenze delle sue azioni, Lady Coal. Quella notte Sir Hugo andò alla fattoria di George Lecky; era in uno stato pessimo».
«Pessimo?» ha ripetuto Harriet con un filo di voce.
«Era scioccato, sovreccitato. E aveva bevuto. Gli disse che c'era stato un incidente e che George doveva tornare con lui a Crook. George acconsentì e seguì Sir Hugo con il camioncino della broda. Parcheggiarono a metà del viale d'accesso. Sir Hugo gli fece strada fra gli alberi. In un avvallamento del terreno, seminascosto sotto un mucchio di foglie, c'era il corpo di mio figlio, Lady Coal. Con la gola tagliata».
«Oh, buon Dio!» ha esclamato Harriet. Portandosi di scatto le mani sulla bocca, si è voltata verso di me e mi ha guardato con occhi sgranati, inorriditi.
«Trascinarono Sidney fino al camioncino e lo pigiarono dentro un bidone, Lady Coal, poi caricarono anche la bicicletta. Il taglio era così profondo, ha detto George, che temeva gli si staccasse la testa». La sua voce era ferma e salda come una roccia: non un tremore, né un'incrinatura. «Dopodiché ritornarono a Ceck's Bottom e fecero insieme quello che al processo George ha detto di aver fatto da solo».
Il dolore al petto si era improvvisamente placato, sostituito da una specie di intorpidimento formicolante diffuso in tutto il tronco. Povero George: una volta crollato, avrebbe detto qualsiasi cosa pur di sfuggire al patibolo. Il fatto penoso è che Harriet evidentemente se l'era bevuto tutto fino in fondo, questo magro esempio d'orrore al chiaro di luna, e ha continuato a fissarmi con tanto d'occhi come se mi vedesse allora per la prima volta. Ma a questo punto ero così stanco, così pronto a mollare, che ho provato a malapena una fitta d'onta per come Harriet mi vedeva, senza che avessi possibilità alcuna di metterla a parte della verità.
«Ma perché?» stava dicendo Harriet. «Perché mai Hugo avrebbe assassinato Sidney?».
Il dolore al petto era scomparso; restava solo l'intorpidimento. «Secondo Lecky,» ha risposto adagio la signora Giblet, lanciandomi uno sguardo intenso «Sir Hugo veniva ricattato da mio figlio, Lady Coal».
È caduto un breve silenzio, durante il quale ciascuno di noi tre ha riflettuto su tale stravagante insensatezza. Oh, com'era disperato il poveretto, a distorcere la verità in questa maniera! Che Fledge fosse arrivato anche a lui? Non mi importava più. Il dolore al petto mi era passato, ma in quel momento ho avvertito le prime convulsioni di un attacco di sbuffi che cominciava a scuotermi dalla testa ai piedi. Nel giro di qualche secondo avevo già raggiunto uno stato di impotente parossismo e Harriet, travolta da un'ondata di sollecitudine coniugale che aveva soffocato qualunque involontaria sensazione d'orrore le suscitassero le parole della vecchia signora, è accorsa al mio fianco e mi ha battuto la schiena. La signora Giblet continuava a fissarmi intensamente.
Superata la crisi, mi è sembrato che Harriet avesse recuperato il suo buonsenso, perché si è seduta in poltrona e ha detto: «Ma è incredibile. Perché mai Sidney avrebbe dovuto ricattare Hugo? Per quale motivo? E perché lei, signora Giblet, dice queste cose? A che servono ormai queste... queste accuse pazzesche?».
Con riluttanza la signora Giblet ha distolto lo sguardo dalle mie fattezze e si è lasciata cadere sulla poltrona davanti a Harriet. Stringendo gli artigli intorno al manico del bastone, ha tirato un sospiro di stanchezza profonda. È seguito un lungo silenzio, durante il quale ho avuto la netta impressione che la donna fosse combattuta fra dar voce a altri suoi grotteschi sospetti o tacere. «Forse a niente,» ha mormorato infine «forse a un bel niente. Ne va della vita d'un uomo, Lady Coal» ha ripetuto. «Mi era venuto in mente che forse, in qualche modo, messo di fronte a quanto Lecky mi ha giurato essere la verità, Sir Hugo si sarebbe sbloccato».
«Sbloccato?» ha detto Harriet lentamente. «Sbloccato? Ma signora Giblet, non è possibile, lo so da fonti più che certe e Dio solo sa...».
«Senz'altro, Lady Coal, senz'altro. Ma non riuscivo proprio a escludere la possibilità che la paralisi di Sir Hugo fosse di natura isterica».
«Isterica!».
La signora Giblet si è voltata a guardarmi un istante, poi si è frugata nella pelliccia in cerca di sigarette. «Evidentemente non lo è» ha concluso con voce pacata.
Proprio allora è sopraggiunto il medico.
Ho passato la notte in gran pena, non ultimo perché colpito di nuovo e a più riprese da quel dolore bruciante al petto. Io, ricattato da Sidney? Io, l'invertito? Io, l'assassino? Ma che assurdità! Che assurdità bell'è buona! Voi conoscete i sentimenti che nutro nei confronti di Fledge. Io incarno semplicemente la sua mostruosità, metto in rilievo la sua deformità interiore, rispecchiando con ciò la sua natura.
George è stato impiccato la mattina seguente poco dopo le otto. Spero che abbia trovato pace; Dio solo sa quanto poca ne avesse avuta dal giorno che era crollato. A Crook aleggiava un'atmosfera tetra; Cleo si era ritirata in camera sua e Doris, col dito avvolto da una fasciatura fitta e il braccio appeso al collo, se ne stava seduta in cucina a guardare dalla finestra la giornata fresca e ventosa. Il medico non aveva nemmeno tentato di ricucirle il dito; a quanto pare, era rimasto staccato troppo a lungo. Per pranzo abbiamo mangiato delle uova strapazzate fatte da Harriet, dopodiché sono stato portato in salotto e sistemato davanti alle portefinestre. Il dolore al petto era svanito di punto in bianco, come il giorno prima, per esser sostituito da un intorpidimento diffuso. È stato allora che ho visto George in giardino.
Di queste visioni vi ho già parlato. Lo so, si tratta di fantasmi, di proiezioni; ciò nondimeno, sembrano reali. Stavolta George non era solo: stava a capo di una folla, una folla che riempiva il giardino e da ogni lato premeva contro i muri. La gente si faceva largo a spintoni, strascicando appena appena i piedi, e tutti quanti senza eccezioni tenevano gli occhi fissi su di me, che ero seduto in terrazza davanti alle portefinestre. Per qualche motivo, l'aria pullulava di uccelli, di tordi e passeri, e c'era persino qualche corvo. Una leggera brezza agitava gli alberi oltre il muro di cinta e una manciata di sottili nuvole bianche avanzava lenta e capricciosa in cielo. Chi era quella gente? George indossava gli abiti da lavoro, la vecchia giacca logora a righine e i pantaloni di velluto a coste marroni, e così gli altri, assiepati intorno a lui. Erano gente di campagna, agricoltori, e la loro presenza silenziosa e strascicata in giardino mi riusciva incomprensibile.
Ricordo di aver letto da qualche parte che i vivi sono soltanto una specie rara di morti. Io non la vedo così. Per me i vivi sono larve dei morti, corpi morti in una fase iniziale di sviluppo. Ma perché adesso mi tornava in mente questa cosa? Che la folla accalcata in giardino fosse una folla di morti? Harriet e Fledge si erano portati il caffè in salotto e stavano seduti accanto al camino a parlare sottovoce di George, credo. Qualche minuto dopo ho udito Fledge alzarsi e andare a aprire l'armadietto dei liquori: tirava fuori il brandy, suppongo, e sicuramente ne aveva ben donde, visto che il caso Sidney Giblet era stato chiuso. Fledge l'aveva fatta franca e, ormai, era il padrone indiscusso di Crook. Anch'io, al posto suo, avrei festeggiato con un brandy.
Quanto a me, verrò sepolto nel cimitero di Ceck accanto a mia madre e al mio funerale assisterà, immagino, un numero di persone poco più folto del pubblico presente alla mia conferenza. I paleontologi detestano i sotterramenti, specie se di ossa, e sono sicuro che non c'è bisogno di spiegarvi perché. Non altrettanto bene sarà andata al povero George, messo a riposo in un'anonima fossa di calce entro le mura della prigione. Chi mi preoccupa è Cleo. Come vi ho detto, noi Coal abbiamo la tendenza a farci prendere dalla disperazione e una volta uscito io di scena ho paura che questa tendenza possa avere il sopravvento su di lei. Ho paura che Cleo se ne andrà così come se ne andò Sir Digby.
Fledge ha acceso il grammofono e chiede a Harriet se ha voglia di ballare. Quell'intorpidimento del tronco mi sembra adesso una luce forte che si diffonde in tutto il corpo. In giardino, George ha cominciato a sollevarsi da terra. Sale molto lentamente, fino a un'altezza di tre metri, tre metri e mezzo, e salendo apre molto lentamente le braccia. Continuano tutti a fissarmi, ma dagli occhi di George, dalle sue orecchie, dalla bocca e dalle parti del cuore si riversa adesso una specie di radiosità argentea che mi abbaglia e mi riempie di una sensazione di pace immensa, oceanica, di un senso di beatitudine inusitato. George è circondato da un frullio di uccelli a malapena visibili in questa luce meravigliosa e accecante. Cosa mi sta succedendo? Nil desperandum, sento me stesso mormorare, mentre alle mie spalle Harriet e Fledge si mettono a ballare il foxtrot e così fino alla fine di questo pomeriggio scombussolato, quando il vento rinfresca e soffia lamentoso sulle cime spioventi di Crook, spirando da sud.
FINE