Oro


È cosa risaputa che i torinesi trapiantati a Milano non vi allignano, o vi allignano male. Nell’autunno 1942 eravamo a Milano sette amici di Torino, ragazzi e ragazze, approdati per motivi diversi nella grossa città che la guerra rendeva inospitale; i nostri genitori, chi ancora li aveva, erano sfollati in campagna per sottrarsi ai bombardamenti, e noi facevamo vita ampiamente comune. Euge era architetto, voleva rifare Milano, e diceva che il miglior urbanista era stato Federico Barbarossa. Silvio era dottore in legge, ma scriveva un trattato di filosofia su minuscoli foglietti di carta velina ed era impiegato in un’impresa di trasporti e spedizioni. Ettore era ingegnere alla Olivetti. Lina faceva l’amore con Euge e si occupava vagamente di gallerie d’arte. Vanda era chimica come me, ma non trovava lavoro, ed era permanentemente irritata di questo fatto perché era femminista. Ada era mia cugina e lavorava alle Edizioni Corbaccio: Silvio la chiamava bidottore perché aveva due lauree, ed Euge la chiamava cugimo che voleva dire cugina di Primo, del che Ada si risentiva un poco. Io, dopo il matrimonio di Giulia, ero rimasto solo coi miei conigli, mi sentivo vedovo ed orfano, e fantasticavo di scrivere la saga di un atomo di carbonio, per far capire ai popoli la poesia solenne, nota solo ai chimici, della fotosintesi clorofilliana: ed in fatto l’ho poi scritta, ma molti anni più tardi, ed è la storia con cui questo libro si conclude.

Se non sbaglio, tutti scrivevamo poesie, salvo Ettore, che diceva che per un ingegnere non era dignitoso. Scrivere poesie tristi e crepuscolari, e neppure tanto belle, mentre il mondo era in fiamme, non ci sembrava né strano né vergognoso: ci proclamavamo nemici del fascismo, ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici.

Sopportavamo con allegria maligna il razionamento e il freddo nelle case senza carbone, ed accettavamo con incoscienza i bombardamenti notturni degli inglesi; non erano per noi, erano un brutale segno di forza dei nostri lontanissimi alleati: facessero pure. Pensavamo quello che tutti gli italiani umiliati allora pensavano: che i tedeschi e i giapponesi erano invincibili, ma gli americani anche, e che la guerra sarebbe andata avanti così per altri venti o trent’anni, uno stallo sanguinoso ed interminabile, ma remoto, noto soltanto attraverso i bollettini di guerra adulterati, e talvolta, in certe famiglie di miei coetanei, attraverso le lettere funeree e burocratiche in cui si diceva “eroicamente, nell’adempimento del suo dovere”. La danza macabra, su e giù lungo la costa libica, avanti e indietro nelle steppe d’Ucraina, non sarebbe finita mai.

Ciascuno di noi faceva il suo lavoro giorno per giorno, fiaccamente, senza crederci, come avviene a chi sa di non operare per il proprio domani. Andavamo a teatro ed ai concerti, che qualche volta si interrompevano a mezzo perché suonavano le sirene dell’allarme aereo, e questo ci sembrava un incidente ridicolo e gratificante; gli Alleati erano padroni del cielo, forse alla fine avrebbero vinto e il fascismo sarebbe finito: ma era affare loro, loro erano ricchi e potenti, avevano le portaerei e i “Liberators”. Noi no, ci avevano dichiarato “alri” e altri saremmo stati; parteggiavamo, ma ci tenevamo fuori dai giochi stupidi e crudeli degli ariani, a discutere i drammi di O’Neill o di Thornton Wilder, ad arrampicarci sulle Grigne, ad innamorarci un poco gli uni delle altre, ad inventare giochi intellettuali, ed a cantare bellissime canzoni che Silvio aveva imparato da certi suoi amici valdesi. Di quello che in quegli stessi mesi avveniva in tutta l’Europa occupata dai tedeschi, nella casa di Anna Frank ad Amsterdam, nella fossa di Babi Yar presso Kiev, nel ghetto di Varsavia, a Salonicco, a Parigi, a Lidice: di questa pestilenza che stava per sommergerci non era giunta a noi alcuna notizia precisa, solo cenni vaghi e sinistri portati dai militari che ritornavano dalla Grecia o dalle retrovie del fronte russo, e che noi tendevamo a censurare. La nostra ignoranza ci concedeva di vivere, come quando sei in montagna, e la tua corda è logora e sta per spezzarsi, ma tu non lo sai e vai sicuro.

Ma venne in novembre lo sbarco alleato in Nord Africa, venne in dicembre la resistenza e poi la vittoria russa a Stalingrado, e capimmo che la guerra si era fatta vicina e la storia aveva ripreso il suo cammino. Nel giro di poche settimane ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni, e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata. Ci dissero che la nostra insofferenza beffarda non bastava; doveva volgersi in collera, e la collera essere incanalata in una rivolta organica e tempestiva: ma non ci insegnarono come si fabbrica una bomba, né come si spara un fucile.

Ci parlavano di sconosciuti: Gramsci, Salvemini, Gobetti, i Rosselli; chi erano? Esisteva dunque una seconda storia, una storia parallela a quella che il liceo ci aveva somministrata dall’alto? In quei pochi mesi convulsi cercammo invano di ricostruire, di ripopolare il vuoto storico dell’ultimo ventennio, ma quei nuovi personaggi rimanevano “eroi”, come Garibaldi e Nazario Sauro, non avevano spessore né sostanza umana. Il tempo per consolidare la nostra preparazione non ci fu concesso: vennero in marzo gli scioperi di Torino, ad indicare che la crisi era prossima; vennero col 25 luglio il collasso del fascismo dall’interno, le piazze gremite di folla affratellata, la gioia estemporanea e precaria di un paese a cui la libertà era stata donata da un intrigo di palazzo; e venne l’8 settembre, il serpente verdegrigio delle divisioni naziste per le vie di Milano e di Torino, il brutale risveglio: la commedia era finita, l’Italia era un paese occupato, come la Polonia, come la Jugoslavia, come la Norvegia.

In questo modo, dopo la lunga ubriacatura di parole, certi della giustezza della nostra scelta, estremamente insicuri dei nostri mezzi, con in cuore assai più disperazione che speranza, e sullo sfondo di un paese disfatto e diviso, siamo scesi in campo per misurarci. Ci separammo per seguire il nostro destino, ognuno in una valle diversa.

Avevamo freddo e fame, eravamo i partigiani più disarmati del Piemonte, e probabilmente anche i più sprovveduti. Ci credevamo al sicuro, perché non ci eravamo ancora mossi dal nostro rifugio, sepolto da un metro di neve: ma qualcuno ci tradì, ed all’alba del 13 dicembre 1943 ci svegliammo circondati dalla repubblica: loro erano trecento, e noi undici, con un mitra senza colpi e qualche pistola. Otto riuscirono a fuggire, e si dispersero per la montagna: noi non riuscimmo. I militi catturarono noi tre, Aldo, Guido e me, ancora tutti insonnoliti. Mentre quelli entravano, io feci in tempo a nascondere nella cenere della stufa la rivoltella che tenevo sotto il guanciale, e che del resto non ero sicuro di saper usare: era minuscola, tutta intarsiata di madreperla, di quelle che adoperano nei film le signore disperate per suicidarsi. Aldo, che era medico, si alzò, accese stoicamente una sigaretta, e disse: “Mi rincresce per i mei cromosomi”.

Ci picchiarono un poco, ci ammonirono di “non fare atti inconsulti”, ci promisero di interrogarci poi in un certo loro modo convincente e di fucilarci subito dopo, si disposero in gran pompa intorno a noi, e ci mettemmo in cammino verso il valico. Durante la marcia, che si protrasse per diverse ore, riuscii a fare due cose che mi stavano a cuore: mangiai pezzo per pezzo la carta d’identità troppo falsa che avevo nel portafoglio (la fotografia era particolarmente disgustosa), e, fingendo d’incespicare, infilai nella neve l’agenda piena d’indirizzi che tenevo in tasca. I militi cantavano fiere canzoni di guerra, sparavano col mitra alle lepri, buttavano bombe nel torrente per uccidere le trote. Giù a valle ci aspettavano diversi autobus. Ci fecero salire, sedere separati, ed io avevo militi tutto intorno, seduti ed in piedi, che non badavano a noi e continuavano a cantare. Uno, proprio davanti a me, mi voltava la schiena, e dalla cintura gli pendeva una bomba a mano di quelle tedesche, col manico di legno, che scoppiano a tempo: avrei potuto benissimo levare la sicura, tirare la funicella e farla finita insieme con diversi di loro, ma non ne ebbi il coraggio. Ci condussero alla caserma, che era alla periferia di Aosta. Il loro centurione si chiamava Fossa, ed è strano, assurdo e sinistramente comico, data la situazione di allora, che lui giaccia da decenni in qualche sperduto cimitero di guerra, ed io sia qui, vivo e sostanzialmente indenne, a scrivere questa storia. Fossa era un legalitario, e si diede da fare per organizzare rapidamente a nostro favore un regime carcerario conforme ai regolamenti; così ci mise nelle cantine della caserma, uno per cella, con branda e bugliolo, rancio alle undici, l’ora d’aria e il divieto di comunicare fra noi. Questo divieto era doloroso, perché fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù. Non tardai a convincermene, esaminando la mia cella palmo a palmo, poiché i romanzi di cui anni prima mi ero nutrito erano pieni di meravigliose evasioni: ma lì i muri erano spessi mezzo metro, la porta era massiccia e vigilata dal di fuori, la finestrella munita di sbarre. Avevo una lima da unghie, avrei potuto segarne una, forse anche tutte: ero talmente magro che forse avrei potuto uscire: ma contro la finestrella scopersi che c’era un robusto blocco di cemento a riparo dalle schegge dei bombardamenti aerei.

Ogni tanto ci venivano a chiamare per gli interrogatori. Quando ad interrogarci era Fossa, andava abbastanza bene: Fossa era un esemplare d’uomo che non avevo ancora mai incontrato, un fascista da manuale, stupido e coraggioso, che il mestiere delle armi (aveva combattuto in Africa e in Spagna, e se ne vantava con noi) aveva cerchiato di solida ignoranza e stoltezza, ma non corrotto né reso disumano. Aveva creduto ed obbedito per tutta la sua vita, ed era candidamente convinto che i colpevoli della catastrofe fossero due soli, il re e Galeazzo Ciano, che proprio in quei giorni era stato fucilato a Verona: Badoglio no, era un soldato anche lui, aveva giurato al re e doveva tener fede al suo giuramento. Se non fosse stato del re e di Ciano, che avevano sabotato la guerra fascista fin dall’inizio, tutto sarebbe andato bene e l’Italia avrebbe vinto. Mi considerava uno sventato, guastato dalle cattive compagnie; nel profondo della sua anima classista, era persuaso che un laureato non poteva essere veramente un “sovversivo”. Mi interrogava per noia, per indottrinarmi e per darsi importanza, senza alcun serio intento inquisitorio: lui era un soldato, non uno sbirro. Non mi fece mai domande imbarazzanti, e neppure mi chiese mai se ero ebreo.

Invece erano temibili gli interrogatori di Cagni. Cagni era la spia che ci aveva fatti catturare: spia integrale, per ogni grammo della sua carne, spia per natura e per tendenza più che per convinzione fascista o per interesse: spia per nuocere, per sadismo sportivo, come abbatte la selvaggina libera chi va a caccia. Era un uomo abile: aveva raggiunto con buone credenziali una formazione partigiana contigua alla nostra, si era spacciato per depositario di importanti segreti militari tedeschi, li aveva rivelati, e si dimostrarono poi artificiosamente falsi e costruiti dalla Gestapo. Organizzò le difese della formazione, fece svolgere minuziose esercitazioni a fuoco (in cui fece in modo che si consumassero buona parte delle munizioni), poi fuggì a valle, e ricomparve alla testa delle centurie fasciste designate per il rastrellamento. Era sulla trentina, di carnagione pallida e floscia: incominciava l’interrogatorio posando bene in vista la Luger sullo scrittoio, insisteva per ore senza riposo; voleva sapere tutto. Minacciava continuamente la tortura e la fucilazione, ma per mia fortuna io non sapevo quasi nulla, ed i pochi nomi che conoscevo li tenni per me. Alternava momenti di simulata cordialità con scoppi di collera altrettanto simulati; a me disse (probabilmente bluffando) di sapere che ero ebreo, ma che era bene per me: o ero ebreo, o ero partigiano; se partigiano, mi metteva al muro; se ebreo, bene, c’era un campo di raccolta a Carpi, loro non erano dei sanguinari, ci sarei rimasto fino alla vittoria finale. Ammisi di essere ebreo: in parte per stanchezza, in parte anche per una irrazionale impuntatura d’orgoglio, ma non credevo affatto alle sue parole. Non aveva detto lui stesso che la direzione di quella stessa caserma, entro pochi giorni, sarebbe passata alle Ss?

Nella mia cella c’era una sola lampadina fioca, che rimaneva accesa anche di notte; bastava appena per leggere, ma ugualmente leggevo molto, perché pensavo che il tempo che mi rimaneva era poco. Il quarto giorno, durante l’ora d’aria, mi misi in tasca di nascosto un grosso sasso perché volevo tentare di comunicare con Guido ed Aldo, che erano nelle due celle contigue. Ci riuscii, ma era estenuante: occorreva un’ora per trasmettere una frase, battendo colpi in codice sul muro divisorio, come i minatori di “Germinal” sepolti nella miniera. Origliando al muro per cogliere la risposta, si udivano invece i canti giulivi e rubesti dei militi seduti a mensa sopra i nostri capi: “la vision de - l’Alighieri”, o “ma la mitragliatrice non la lascio”, oppure, struggente fra tutte, “vieni, c’è una strada nel bosco”.

Nella mia cella c’era anche un topo. Mi teneva compagnia, ma di notte mi rosicchiava il pane. C’erano due brande: ne smontai una, ne ricavai un longherone, lungo e liscio; lo misi verticale, e di notte gli infilavo la pagnotta sulla punta, però un po’ di briciole le lasciavo in terra per il topo. Mi sentivo più topo di lui: pensavo alle strade nei boschi, alla neve fuori, alle montagne indifferenti, alle cento cose splendide che se fossi tornato libero avrei potuto fare, e la gola mi si chiudeva come per un nodo.

Faceva molto freddo. Bussai alla porta finché venne il milite che fungeva da sbirro, e lo pregai di mettermi a rapporto con Fossa; lo sbirro era proprio quello che mi aveva picchiato al momento della cattura, ma quando aveva saputo che io ero un “dottore” mi aveva chiesto scusa: l’Italia è uno strano paese. Non mi mise a rapporto, ma ottenne per me e per gli altri una coperta, e il permesso di riscaldarci per mezz’ora ogni sera, prima del silenzio, vicino alla caldaia del termosifone.

Il nuovo regime ebbe inizio la sera stessa. Venne il milite a prelevarmi, e non era solo: con lui c’era un altro prigioniero di cui non conoscevo l’esistenza. Peccato: se fosse stato Guido o Aldo sarebbe stato molto meglio: comunque, era un essere umano con cui scambiare parola. Ci condusse nel locale caldaia, che era fosco di fuliggine, schiacciato dal soffitto basso, ingombrato quasi per intero dalla caldaia, ma caldo: un sollievo. Il milite ci fece sedere su una panca, e prese posto lui stesso su una sedia nel vano della porta, in modo da ostruirla: teneva il mitra verticale fra le ginocchia, tuttavia pochi minuti dopo già sonnecchiava e si disinteressava di noi.

Il prigioniero mi guardava con curiosità: - Siete voi, i ribelli? - mi chiese. Aveva forse trentacinque anni, era magro e un po’ curvo, aveva i capelli crespi in disordine, la barba mal rasa, un grosso naso a becco, la bocca senza labbra e gli occhi fuggitivi. Le sue mani erano sproporzionatamente grosse, nodose, come cotte dal sole e dal vento, e non le teneva mai ferme: ora si grattava, ora le strofinava una sull’altra come se le lavasse, ora tamburellava sulla panca o su una coscia; notai che gli tremavano leggermente. Il suo fiato odorava di vino, e ne dedussi che era stato arrestato da poco; aveva l’accento della valle, ma non sembrava un contadino. Gli risposi tenendomi sul generico, ma non si scoraggiò:

- Tanto quello dorme: puoi parlare, se vuoi. Io posso fare uscire notizie; poi forse esco fra poco.

Non mi sembrava un tipo da fidarsene molto. - Perché sei qui? - gli chiesi.

- Contrabbando: non ho voluto spartire con loro, ecco tutto. Finiremo col metterci d’accordo, ma intanto mi tengono dentro: è male, col mio mestiere.

- È male per tutti i mestieri!

- Ma io ho un mestiere speciale. Faccio anche il contrabbando, ma solo d’inverno, quando la Dora gela; insomma, faccio diversi lavori, ma nessuno sotto padrone. Noi siamo gente libera: era così anche mio padre e mio nonno e tutti i bisnonni fino dal principio dei tempi, fino da quando son venuti i Romani.

Non avevo capito l’accenno alla Dora gelata, e gliene chiesi conto: era forse un pescatore?

- Sai perché si chiama Dora? - mi rispose: - Perché è d’oro. Non tutta, si capisce, ma porta oro, e quando gela non si può più cavarlo.

- C’è oro nel fondo?

- Sì, nella sabbia: non dappertutto, ma in molti tratti. È l’acqua che lo trascina giù dalla montagna, e lo accumula a capriccio, in un’ansa sì, in un’altra niente. La nostra ansa, che ce la passiamo di padre in figlio, è la più ricca di tutte: è ben nascosta, molto fuori mano, ma ugualmente è meglio andarci di notte, che non venga nessuno a curiosare. Per questo, quando gela forte come per esempio l’anno scorso, non si può lavorare, perché appena hai forato il ghiaccio se ne forma dell’altro, e poi anche le mani non resistono. Se io fossi al tuo posto e tu al mio, parola d’onore, ti spiegherei anche dov’è, il nostro posto.

Mi sentii ferito da quella sua frase. Sapevo bene come stavano le mie cose, ma mi spiaceva sentirmelo dire da un estraneo. L’altro, che si era accorto della topica, cercò goffamente di rimediare:

- Volevo dire insomma che sono cose riservate, che non si dicono neppure agli amici. Io vivo di questo, e non ho altro al mondo, ma non cambierei con un banchiere. Vedi, non è che d’oro ce ne sia tanto: ce n’è anzi molto poco, si lava tutta una notte e si tira fuori uno o due grammi: ma non finisce mai. Ci torni quando vuoi, la notte dopo o dopo un mese, secondo che ne hai volontà, e l’oro è ricresciuto; e così da sempre e per sempre, come torna l’erba nei prati. E così non c’è gente più libera di noi: ecco perché mi sento venire matto a stare qui dentro.

Poi, devi capire che a lavare sabbia non sono capaci tutti, e questo dà soddisfazione. A me, appunto, mi ha insegnato mio padre: solo a me, perché ero il più svelto; gli altri fratelli lavorano alla fabbrica. E solo a me ha lasciato la scodella, - e, con la enorme destra leggermente inflessa a coppa, accennò al movimento rotatorio professionale.

- Non tutti i giorni son buoni: va meglio quando c’è sereno ed è l’ultimo quarto. Non saprei dirti perché, ma è proprio così, caso mai ti venisse in mente di provare.

Apprezzai in silenzio l’augurio. Certo, che avrei provato: che cosa non avrei provato? In quei giorni, in cui attendevo abbastanza coraggiosamente la morte, albergavo una lancinante voglia di tutto, di tutte le esperienze umane pensabili, e imprecavo alla mia vita precedente, che mi pareva di avere sfruttato poco e male, e mi sentivo il tempo scappare di fra le dita, sfuggire dal corpo minuto per minuto, come un’emorragia non più arrestabile. Certo, che avrei cercato l’oro: non per arricchire, ma per sperimentare un’arte nuova, per rivisitare la terra l’aria e l’acqua, da cui mi separava una voragine ogni giorno più larga; e per ritrovare il mio mestiere chimico nella sua forma essenziale e primordiale, la “Scheidekunst”, appunto, l’arte di separare il metallo dalla ganga.

- Non lo vendo mica tutto, - continuava l’altro: - ci sono troppo affezionato. Ne tengo un po’ da parte e lo fondo, due volte all’anno, e lo lavoro: non sono un artista ma mi piace averlo in mano, batterlo col martello, inciderlo, graffiarlo. Non mi interessa diventare ricco: mi importa vivere libero, non avere un collare come i cani, lavorare così, quando voglio, senza nessuno che mi venga a dire “su, avanti”. Per questo soffro a stare qui dentro; e poi, oltre a tutto, si perde giornata.

Il milite diede un crollo nel sonno, e il mitra che teneva fra le ginocchia cadde a terra con fracasso. Lo sconosciuto ed io ci scambiammo un rapido sguardo, ci comprendemmo al volo, ci alzammo di scatto dalla panca: ma non facemmo in tempo a muovere un passo che già il milite aveva raccattato l’arma. Si ricompose, guardò l’ora, bestemmiò in veneto, e ci disse ruvidamente che era tempo di rientrare in cella. Nel corridoio incontrammo Guido e Aldo, che, scortati da un altro sorvegliante, si avviavano a prendere il nostro posto nell’afa polverosa della caldaia: mi salutarono con un cenno del capo.

Nella cella mi riaccolse la solitudine, il fiato gelido e puro delle montagne che penetrava dalla finestrella, e l’angoscia del domani. Tendendo l’orecchio, nel silenzio del coprifuoco si sentiva il mormorio della Dora, amica perduta, e tutti gli amici erano perduti, e la giovinezza, e la gioia, e forse la vita: scorreva vicina ma indifferente, trascinando l’oro nel suo grembo di ghiaccio fuso. Mi sentivo attanagliato da un’invidia dolorosa per il mio ambiguo compagno, che presto sarebbe ritornato alla sua vita precaria ma mostruosamente libera, al suo inesauribile rigagnolo d’oro, ad una fila di giorni senza fine.