L’uomo col sacco da marina

A mezzogiorno le case e gli altri edifici di un paese sono immersi in una limpida acqua bollente. Sopra i tetti, dove le rosse tegole scaldano l’acqua, un osservatore può vedere il luccichio e il tremolio delle onde. Anche l’incandescenza del fumo trasparente sotto il quale in ogni abitazione cuoce la carne per il pranzo sommuove e increspa l’acqua. Sopra i tetti delle case, sopra l’asfalto e sopra i tetti delle auto parcheggiate l’acqua freme e si ondula sotto i colpi delle fiamme. L’acqua ingoia i rumori dei passi: il viso cotto e stravolto, il braccio levato in diagonale davanti agli occhi, chi è rimasto all’aperto avanza a passi pesanti contro la sua massa. Le labbra sono bianche e insensibili e scoprono i denti, le pupille sono nere come carboni, sopra la lingua gonfia l’acqua penetra nella bocca spalancata e raggiunge la gola senza che il camminatore, mentre cammina ininterrottamente, sia in grado di inghiottirla. Non cammina neppure: senza camminare viene lentamente sospinto dai flutti. Le sinuose strisce di polvere sulla strada sono alghe serpeggianti nell’acqua; sul fondo rotolano senza suono pallottole di carta e ciuffi di fieno sparsi da un carro; i bruchi, per quanto s’impennino e si estendano sull’asfalto, non muovono più da soli le loro membra, ma è la graticola su cui si trovano a farli inarcare e contorcere; il loro movimento è preso a prestito come il movimento della polvere, del fieno e della carta.

Qui, dove il camminatore si è ormai lasciato alle spalle il paese (poiché nell’abitato di un paese non ci sono animali che strisciano sulla strada), l’acqua bolle soltanto sopra l’asfalto al confine del cielo, che si allarga e si estende quanto più il viandante procede, nonché intorno al camminatore stesso, che è vestito di scuro e porta sulla spalla un sacco da marina nero e bordato di cuoio. Non può più volgere gli occhi; anch’essi sono cotti e sporgono dalle orbite rotondi e fissi. Non sente più il rumore dei propri passi; nessuno, neppure se gli si avvicinasse e tendesse l’orecchio, potrebbe sentirlo camminare sul manto stradale ammorbidito. Un osservatore lo vedrebbe andare silenziosamente alla deriva sul fondo dell’acqua come un pezzo di carta. L’uomo non potrebbe sedersi sul paracarro; anche da seduto non potrebbe chiudere le gambe divaricate dietro gli spigoli del paracarro per trattenersi: il flusso incontenibile, senza che l’uomo col sacco da marina se ne rendesse conto, trascinerebbe e spingerebbe oltre il suo corpo ancor prima che fosse seduto.

Nell’acqua bollente la carta non viene subito a galla; il fervido bollore la rosicchia a poco a poco e la riduce a brandelli roteanti che, presi dal vortice del risucchio, uno dopo l’altro risalgono dal fondo dell’acqua.

L’erba sul ciglio della strada è ammuffita; gli anelli di catrame intorno ai tralicci si squarciano e scorrono a rivoli; il ronzio all’interno dei tralicci si gonfia nelle orecchie fino a diventare uno zoccolo di cavalli.

Gli occhi bruciati sono ormai improtetti anche dietro gli sguardi: le immagini che la memoria ha prodotto dietro la retina a mo’ di baluardo protettivo sono state dissolte dalle fiamme; mentre il viandante cammina, il fuoco irrompe senza ostacoli nel suo cervello.

Dal basso gli s’irradia nelle suole. La breve ombra spessa e gibbosa che il sacco da marina ancora proietta sfarfalla impetuosamente dietro di lui. Se l’osservatore si degnasse di avvicinarsi, non sfuggirebbero al suo occhio le macchie di catrame incollate alle suole dell’uomo. Sembra che abbia il desiderio di camminare nella propria ombra fino al prossimo paese.

Quando il flutto gli rigetta sulla nuca il collo e la testa, si accorge che sopra di sé l’intera superficie dell’acqua arde di fiamme senza fine. Un’altra volta si accorge che il paese da cui sta passando giace immobile e morto in queste fiamme.

A mezzogiorno i batacchi delle campane battono sul legno.

Le macchine che frenano si smoccolano per strada con un sordo crepitio.

Se tendi l’orecchio, puoi sentire il sole che sbadiglia di vacuità.

Prima di prendere il bollore, l’acqua essuda dal fondo della pentola le perle scintillanti: l’acqua perleggia, è l’espressione usata.

Con le ombre si restringono anche i pensieri.

 

 

L’ultimo proverbio il padre l’ha mischiato alle sue maledizioni mentre percorreva il corridoio.

La stanchezza

Talvolta, mentre siedo qui, mi prende la stanchezza. Ho fatto in tempo a sentire sotto di me, lungo le braccia abbandonate, i braccioli tondi della poltrona; il legno pizzicava la plica di pelle tra l’indice e il pollice; ho fatto in tempo a sentire lo scricchiolio dell’armadio; lo scarico puzzava di formiche bollite; la stanza viene descritta come relativamente fresca; fuori uno sciame di uccelli si è levato dalla staccionata e ha frullato sopra il tetto in volo radente. Ma subito dopo, senza il mio intervento, le gambe si stendono lentamente sul pavimento, mentre il tacco incide nell’assito i gesti della stanchezza; la testa ricade pesante sullo schienale.

A un tratto il corpo viene tappato con la cera. Sconosciuta risuona dal tetto la risata degli uccelli, lo scricchiolio dell’armadio è diventato un digrignar di denti e un mormorare, i fili ammutoliti dell’elettrodotto, a cui prima l’orecchio si tendeva, sono ora così muti che il loro silenzio non mi tocca più. I rumori e gli odori si radunano sulla pelle senza tuttavia penetrarvi. Il corpo è tappato dalla cera, è immobile di stanchezza. Mentre siedo affiorano in me delle riflessioni; siccome non so dove sono, siccome ho dimenticato che sono nella stanza in attesa che mi chiamino a tavola, siccome ho dimenticato me stesso, per il fatto che niente di esterno riesce più a entrarmi dentro e perciò a stabilire dove si trovi il mio corpo, e siccome nessun rumore mi trattiene più, i pensieri mi trascinano alla deriva nella terra di nessuno; non sono pensieri che mi faccio venire, ma pensieri che mi vengono.

Vedo passare attraverso di me luoghi e vedute che non ho veduto mai; le bucce nere di una banana su un sentiero polveroso mi sconcertano; mi meraviglio delle fibre ingiallite nella superficie interna delle bucce e dell’ombra, svolazzante nel medesimo luogo, di un uccello dalla pancia bianca.

Ma non ho ancora dormito. Nelle onde dell’aria i rumori, ripetendosi e diventando più forti, s’infrangono contro la pelle ermeticamente chiusa, duri e freddi come teste di mosche. Li sento, mentre siedo qui, come rumori senza origine, separati dalla bocca, o da qualunque cosa sia, che all’esterno li produce. Poi c’è una grandinata di pietre nel vuoto in cui siedo; i rumori proiettano in avanti la testa, allontanandola dalla spalliera e facendola precipitare sul collo da grande altezza, tanto che nella lunga caduta della testa l’aria fischia alle orecchie.

Anche i rumori che prima si erano depositati sulla pelle ora penetrano nel corpo. Sono rumori che dapprima scivolano via, ma poi si abbarbicano alla pelle e di lì, penetrando più appuntiti e più duri, si conficcano ardenti nel corpo. Il rumore fonde la cera e infrange la stanchezza. Ora è così vicino che l’orecchio lo distingue come un suono che significa il mio nome. I richiami rialzano la testa dalla spalliera e staccano le mani dai braccioli della poltrona; sembrano ancora piatti; quando (adesso) la porta del corridoio si apre, si dilateranno in tutte le direzioni e invaderanno la stanza.

Il racconto della sorella

Quando aveva visto la luce della jeep roteare sulla parete, era corsa dabbasso nella stanza grande dove le donne richiamate dalla notizia recitavano le loro preghiere sul fratello morto, a cui viso e corpo erano già stati lavati e vestiti con l’abito della festa; tuttavia non aveva detto nulla ai dolenti della jeep che si avvicinava; distogliendo il viso si era avvicinata al cataletto e, intinta la ventola in un bicchiere un tempo usato per bere, aveva asperso l’acqua a casaccio sul lenzuolo gibboso che copriva le spoglie mortali del fratello annegato. Mentre si ritraeva verso la panca appoggiata alla parete e mentre sedeva sulla panca con le ginocchia serrate e a occhi sbarrati guardava la porta, le donne intorno al tavolo dicevano quello che dicevano muovendo appena le labbra in su e in giù senza che queste si toccassero, talché le parole della loro preghiera, prive dei suoni delle labbra, e tanto più perché le donne parlavano in coro, non sembravano salmodiate da esseri viventi, ma come da esseri morti e sepolti sotto terra; le mani, mentre le donne parlavano, posavano contratte sul tavolo e nell’andirivieni del loro movimento, uniforme e senza voce come quello del coro, spandevano sul legno del tavolo, strofinato col sale, gli anelli lasciati dalle tazze di tè.

Senza avere ancora indossato le vesti scure e senza essersi legate intorno al capo i fazzoletti di seta nera, si erano assembrate intorno al tavolo, munite di alte soprascarpe di gomma incrostate di fango, macchie di fango sulle calze di lana; ricevuta la notizia avevano piantato lì tutto e con le gonne e i fazzoletti svolazzanti erano accorse dalle case vicine attraverso la neve che cadeva sempre più fitta, per far visita al morto e provvedere ai suoi bisogni; sbrigato ciò e venuto il buio, sedevano in cerchio intorno al tavolo e pregavano: una di loro domandava e le altre, ciascuna a suo modo, alzavano la testa e mormoravano confuse risposte, finché la prima, che durante la risposta aveva chinato il capo, rialzando il capo riprendeva le sue domande.

Lei fissava la porta, disse mia sorella, mentre evidentemente nessuna delle donne aveva sentito la jeep fermarsi; malgrado ciò si era aspettata che interrompessero subito la loro preghiera e che, gettandole sguardi furtivi, unissero le teste per mormorarsi a vicenda parole normali. Ma niente del genere: sprofondate nella loro preghiera non si erano accorte di ciò che si verificava in cortile. Davanti alla porta i membri della potenza belligerante, palesemente ostacolati da un imprevisto che lì per lì non era riuscita a chiarire, avevano differito il loro ingresso forse per il tempo di una breve discussione, tanto che lei aveva erroneamente creduto di essersi sbagliata; ma di lì a poco i soldati, dopo essersi spolverata la neve dagli stivali, erano entrati nel corridoio con passo pesante.

La porta della stanza grande in cui si trovavano tanto i dolenti quanto mia sorella era verniciata di marrone; storta e malferma, chissà per quale motivo, la chiave era appesa nella serratura dal lato interno della porta.

I soldati avevano strusciato contro il muro i gomiti e la barella, ma neppure questo udibile rumore aveva strappato le preganti al loro raccoglimento.

Ero io quello che portavano lungo il corridoio. Una voce, disse mia sorella, che indicava il cammino ai portatori, l’aveva talmente colpita col suo timbro che si era velocemente alzata dalla panca e si era diretta verso la porta; anzi, precisò: la porta o la vista della porta che stava per spalancarsi l’aveva, non le era chiaro il perché, per così dire attirata. Nel frattempo, raccontò, anche un terzo e un quarto soldato si erano spazzolati le calzature all’ingresso.

Tu cosa faresti, mi domandò, se stai tendendo la mano verso la maniglia, o addirittura hai già la maniglia in pugno, e a un tratto ti viene abbassata dall’esterno insieme al pugno, e la chiave malferma cade dalla porta?

 

 

La donna è entrata e senza parole mi ha invitato a tavola.

L’inizio del pasto

Il cranio sprofondato nel giornale, seduto in cucina senza leggere, mio padre custodisce muto la sua rabbia. Io, respingendo il tavolo dalla panca con le ginocchia per poter passare, mi infilo al posto di fronte al suo. La donna va e viene e senza badare alle dita dell’uomo e al giornale sollevato spiega con noncuranza la tovaglia bianca sul tavolo. Mio padre, muto, tira fuori braccia e giornale e la osserva a occhi torti mentre distende e liscia la tovaglia. Quando la donna fissa le mollette lungo gli spigoli, lui riappoggia sul tavolo braccia e giornale e tende il foglio col pollice, finché sento la piega centrale che si straccia; allora molla la presa e lascia che il giornale si afflosci e mi si adagi sulle mani. Pian piano estraggo furtivamente le dita, di modo che il foglio che lui finge di leggere scivola giù e si appiattisce sul piano del tavolo. Ciò deve indurlo o a chinarsi sul tavolo per poter decifrare i caratteri e compitare le cifre, o a sporgere ulteriormente le mani ripiegando verso di sé la sua lettura e avvicinandosi di più al tavolo con la sedia, se non vuol dare la meschina impressione di uno che a furia di leggere ha perso ogni contatto col mondo; decide di puntare i gomiti sul giornale e di impedire alla testa di cadere sostenendosi il mento coi pugni. I piatti sulla palma della mano col pollice sopra, la pentola della minestra nell’altra mano, la donna avanza verso il tavolo come camminando sul filo. Le tendo il braccio alla cieca e lo depongo col piatto davanti a me. L’uomo, rimestando in cuor suo un’ira funesta, fruga accanitamente il giornale a caccia di notizie, mentre la donna gli spinge sotto i fogli il piatto per la minestra. Lui tuttavia tace; si limita a raddrizzarsi sulla sedia e con udibile schiocco ingoia le parole non dette. Udendo questo, seguo il suo esempio e come lui raccolgo a me le gambe. La donna depone sul tavolo il tondo di legno, indi depone la pentola sul tondo. Ma l’uomo non si lascia distogliere dal suo giornale da alcun gesto, non importa quale; sopporta in silenzio anche il vapore che gli sale in viso. Ora lei si accinge a versare la minestra nei piatti; col mestolo pieno aspetta sopra il giornale; poi, siccome il padre non fa niente, tira fuori il piatto e vi ribalta il mestolo. Quantunque le gocce schizzino il panciotto dell’uomo, ancora egli non prende la parola; non dà neppur segno di voler desistere dalla sua occupazione finché non senta gli altri mangiare attorno a sé. La vista di due persone che banchettano chine sui piatti mentre per coerenza lui deve fare il broncio non è fatta per aiutarlo a perseverare. Come, dovrà stare a guardare mentre si rimpinzano a sue spese? Dunque alza il giornale, lo piega in due e si guarda intorno alla ricerca di qualcosa. La donna si alza, prende i fogli e li mette sulla credenza. Sotto il tavolo io afferro le frange della tovaglia, che il bucato e l’inamidatura hanno incollato a ciuffi. Nel frattempo lei torna a unirsi a noi in silenzio. L’uomo avvicina il corpo al piatto; ora, quando affonda il cucchiaio nelle fauci, il vapore gli entra negli occhi; nel bel mezzo della minestra immobilizza la posata e di nuovo si guarda attorno cupo e minaccioso. Anche la donna raccoglie le gambe, tanto che le dita dei piedi graffiano il pavimento. Tutti, ora pronti a mangiare, hanno ritirato i piedi sotto di sé: nel triangolo dei piedi è iscritto uno spazio libero al cui centro c’è un magnete a due raggi. L’uomo immerge il cucchiaio nella minestra e la attinge dal piatto con la mano ricurva mediante una pressione del pollice. Noi facciamo come lui. Nello stesso tempo, in cortile, tra il piede del muro e la finestra della cucina si muove in ondulante corteo la marcia delle formiche; siccome già inghiottiamo, e per giunta l’uomo è ancora arrabbiato, nessuno di noi spiccica una parola.

La cessazione della rabbia

Può sussistere la rabbia in uno che mangia?

Abitualmente la rabbia passa col tempo. Nell’arrabbiato che mangia, mangiando la rabbia crescerà o resterà sempre uguale o col tempo tornerà a diminuire, senza che il mangiare possa influenzare la rabbia, oppure, mangiando, la rabbia passerà perfino più in fretta del tempo; infine un buon cibo può addirittura soffocarla all’istante, e il viso dell’ex arrabbiato si distende in un’espressione di contentezza.

Se l’arrabbiato mangia del pane, e il pane è già duro e muffito, tanto che le briciole e la crosta maltrattano le gengive, tanto più energicamente e selvaggiamente egli comincerà a masticare sotto occhi cupi e minacciosi. La più energica deglutizione del collo segnala il crescere del suo sentimento; le dita fanno impennare nelle scarpe l’irriducibile piede. Ma adesso per fortuna l’arrabbiato non mangia di questo pane, bensì la minestra aromatizzata a puntino; per giunta avviene che lo spazio in cui mangia non sia quasi toccato dai rumori degli altri, di coloro con cui costituisce un’intima società; affinché non si irriti fuor di misura, essi si sforzano di mangiare la minestra silenziosamente. Così è costretto ad ascoltare i propri rumori, mentre tuttavia si sforza d’essere il più arrabbiato possibile.

Dapprima mangia come è solito fare, chinandosi sul piatto e aspirando con le labbra il contenuto del cucchiaio nella cavità orale non appena la mano l’ha parzialmente estratto dalla minestra; ma adesso, poiché c’è quasi silenzio, sente la minestra che ricade dal cucchiaio sciabordare fastidiosamente nel piatto; gli schiocchi delle labbra lo torturano perfidamente; infine anche il russare e grugnire della sua gola a ogni deglutizione della laringe inducono l’uomo a più miti consigli.

Può dunque sussistere in lui la rabbia quando mangia? La pena che gli causano i rumori nella stanza quasi silenziosa non lo distoglierà dai sentimenti aggressivi?

Andrà a finire che l’uomo, affinché gli altri non percepiscano più le sue deglutizioni, ingoierà la sua vendetta, si raddrizzerà sulla sedia e intavolerà con loro una conversazione, per esempio a proposito della formica alata che, entrata svolazzando dalla finestra aperta e caduta sul pavimento della cucina, ora si adopera per tuffare il proprio corpo in una fessura e tornare alla terra, quantunque sotto la cucina non vi siano che argilla e detriti.

Le formiche

Ogni estate viene un giorno in cui escono dal terreno; prima e dopo quel giorno può al massimo capitarti di vederne un paio, una dietro l’altra lungo le loro strade murali. Sei appena sceso in cortile dal davanzale della finestra lasciandoti sdrucciolare sull’intonaco; sulle mani e sul fondo dei calzoni non hai percepito alcuna traccia di esse; ma prima di andartene le senti sciamare dalla terra attraverso la fessura orizzontale. Ti guardi attorno: vedi del catrame fluido schizzare sul muro dal basso in alto, nel catrame vedi nuotare dei sassolini grigi e piatti, vedi i sassi sul dorso dello sciame brulicare verso la finestra; anche se ti fai avanti non distingui nello sciame i singoli animali, a parte quelli con le ali, e sotto di loro non vedi neanche un granello di muro. Facendo un passo indietro fissi lo sciame, che senza sosta risale il muro e vi si spande; guardi e guardi, finché non riesci più a distogliere gli sguardi e resti lì ipnotizzato. La finestra della cucina è ancora aperta. Se chiami verrà qualcuno. Quello che è venuto alla finestra posa le mani sul davanzale e si sporge; dato che è ancora stanco dopo il pasto, le braccia gli hanno conficcato le mani nel davanzale al punto che non può più estrarle; si sporge coi pugni inchiodati; quando le vede arrivare fa erompere quel suono dalla gola. Nel frattempo loro gli hanno già afferrato le dita e si aprono la via tra i radi ciuffi di pelo delle dita, sopra l’infossatura che ne separa le articolazioni, lungo le vene e contro il pelo dell’avambraccio, muovendo all’assalto delle maniche arrotolate della camicia. Ti aspetti che balzi all’indietro, che agiti le braccia per tutta la cucina e che le strofini in tutti i sensi sullo stipite della porta e sul tavolo e sulla stanga del fornello. Ma lui mantiene la posizione in cui si trova; si limita a spalancare le braccia annerite e brulicanti e a chiudere così la finestra. Nel frattempo lo sciame, senza fermarsi, si insinua sotto le maniche della camicia; quelle con le ali si levano e gli ronzano in viso. Adesso puoi vedere che quelle rimaste fuori si accumulano sul muro e sul davanzale della finestra: montano l’una sulle spalle dell’altra; quelle di dietro spingono quelle davanti fino a rizzare un bastione davanti al vetro; le zampe che sdrucciolano, il contraccolpo delle teste, lo zampillare di quell’acqua animalesca, lo strofinio delle ali, tutto ciò ti perviene all’orecchio come un lieve ribollire, come il sibilo dell’aria nell’erba corta e bagnata. Innalzano davanti al vetro una montagna nerastra. Né puoi guardare in cucina, né puoi sentire alcunché là dentro: sei ipnotizzato dallo spettacolo. Quando la porta di casa cede verso l’interno, col tuo sguardo fisso vedi solo un’ombra che cammina, che avanza lungo il muro verso la finestra. Scrolli allora la testa più e più volte, di modo che davanti ai tuoi occhi l’ombra si definisce; distingui delle mani che reggono una pentola di smalto marrone, distingui sopra le mani la camicia dalle maniche abbassate, e nel viso assalito da quelle con le ali distingui, sotto il naso che sbuffa, i baffi che ti sono ben noti. L’uomo non regge la pentola tra le due mani curve e verticali: ha invece avvolto il manico in un fazzoletto e in questo modo regge il recipiente nel pugno un po’ aperto; quando inclina il beccuccio della pentola, vedi l’aria arricciarsi sopra di essa; ma tuttora non ne scaturisce né vapore né acqua, ti sembra che il liquido sia tenacemente incollato all’interno. Finalmente il getto schizza fuori e penetra nel bastione. Subito l’uomo rialza la pentola e l’allontana da sé, mentre a capo chino osserva la finestra. Puoi vedere lo sciame fumare e splendere; l’odore dei corpi bolliti, per te nuovo, ti s’insinua in gola; inghiotti e guardi, finché vedi che l’assalto alla finestra torna a ingrossarsi e che quelle di sopra, che sono morte, cadono giù da quelle di sotto che si accalcano. L’uomo si fa da parte, allunga all’indietro il braccio col recipiente, prende lo slancio dal basso e scaglia l’acqua bollente al di sopra del muro fino a metà del vetro, in direzione dell’esercito in marcia. Poi gli vedi percuotere il vetro col pugno, e vedi l’avanguardia dello sciame contorcersi e staccarsi dal vetro e raggiungere le altre sul davanzale. L’uomo ti si rivolge e ti ordina, gettando indietro la testa, di correre in casa. In cucina ti imbatti in una donna armata di mestolo, già intenta, con pacata circospezione, a travasare l’acqua dal fornello nella grande caldaia da bucato; prendi una tazza dal tavolo e la aiuti. Fasciati i manici col canovaccio e con un brandello di tendina fuori uso, vi chinate e incespicando trascinate la caldaia in cortile, dove l’uomo l’aspetta. Solo dopo essere uscito ravvisi i granelli raggrinziti negli incavi rotondi del fornello, i granelli infilzati e calpestati nelle fessure del pavimento, e nei piatti e nelle fondine traboccanti di cibi prelibati, a malapena toccati dalle fameliche, i lacerti arrostiti e smembrati dei corpi, simili a merda di topo dal sapore acidulo, e da tutte le parti le ali divelte degli individui alati. Deponete la caldaia davanti alla finestra, tu levi il canovaccio dal manico. Quando ti accingi a usarlo per picchiare sul muro, vedi queste membra schiacciate anche nelle pieghe del panno; inoltre l’uomo ti ordina con lo sguardo di tirarti indietro. Dunque ti ritiri sui gradini; ti siedi e guardi l’uomo attentare alla vita dello sciame. Quando tuffa la pentola nella caldaia col fondo all’ingiù, quando ritira la pentola rigurgitante, quando il braccio con la pentola sibila nell’aria, quando l’ondata schiocca sulla parete, senti che lo sciame sta ancora assaltando i vetri, credi di sentire che il bastione laggiù stia ancora stridendo e ronzando, inghiotti ancora nella gola serrata, in qualunque modo respiri, questo odore acidulo e tagliente. Vedi la donna che assiste: non guarda; non guarda verso di te: immobile, le mani, come suol dirsi, sui fianchi, non guarda da nessuna parte, oppure, se guarda da qualche parte, non sa dove. Adesso potrebbe bastare, dice all’uomo; lui potrebbe lasciar perdere. Ma lui non desiste: senza modificare il movimento, di modo che questo, quanto più viene eseguito, tanto più si separa da lui e s’incapsula in se stesso e s’irrigidisce, china la testa sopra la caldaia, preme la pentola nell’acqua, schiocca l’ondata sul brulichio, e daccapo preme la pentola nell’acqua e di nuovo schiocca l’ondata sul brulichio. Due di quelle alate (o anche di più) puoi intanto vederle aggrappate al suo viso, che non sembra né d’accordo né contrario: le altre fluiscono e nuotano nelle cascate e nelle rapide giù per il muro, rientrando piccine e sbriciolate nelle fessure della terra. Coi suoi movimenti tranquilli la donna si interpone tra l’uomo e la finestra. Sebbene egli interrompa il suo altalenare e aspetti, proprio per questo il suo irrigidimento si scioglie. Guardandola la interroga; poiché lei non risponde, ma strofinando in cerchio la tendina appallottolata asciuga le pozze dal davanzale grondante, l’uomo abbandona la pentola e la lascia cadere nella caldaia vuota. Riempie le fessure spingendo con la scarpa la sabbia del cortile verso il muro; preme la sabbia e la schiaccia e la calpesta, finché il terreno è prosciugato. Esegue l’operazione badando ai piedi della donna, per non illividirglieli: me ne accorgo prima che venga dalla mia parte con le formiche sul viso e si sieda alle mie spalle sul gradino più alto.

Inaspettatamente sento poi le stesse persone parlare da un altro luogo; lui ha qualcosa sulla fronte, sta dicendo la donna. L’uomo non tace ancora. Dopo però lo percepisce sulla pelle: una formica, gli sento dire da un altro luogo. Tuttavia non si azzarda a posare sul bordo del piatto il coltello con cui ha appena tagliato la carne e a battersi la fronte col dorso della mano; non continua neanche a masticare; non muove neppure gli occhi, anche se l’oscillazione delle pupille non trascinerebbe la pelle con sé. Il boccone che ha nella guancia gli fa un viso montuoso; le ossa rilucono con lo scialbo colore delle case prima del temporale. Non si azzarda a muovere le palpebre o ad alzare le sopracciglia verso la fronte; il boccone non mangiato proietta un’ombra immobile verso il suo orecchio; il luccichio sullo zigomo evapora. Per quanto tempo potrà restare seduto senza che la saliva gli faccia scivolare il boccone in gola e che questo movimento induca in tutto il viso quel movimento che potrebbe spaventare e irritare l’insetto? Perché non è una formica, disse mio fratello.

 

Smettila, dissi.

No, disse lui.

Sì.

No.

Sì, dissi.

No.

Sì!

Sì, disse lui.

No, dissi io.

Smettila, disse lui.

No.

 

Siccome continua a mangiare, siccome continua a parlare «come se niente fosse successo», siccome la sua voce, mentre si portava la mano alla fronte, si alterò appena e si fece solo più lenta, di sicuro si è tolto dal viso solo la punta riarsa di un filo d’erba.

Le porte

«In quella casa c’erano cinque porte.»

In quella casa c’erano e ci sono cinque porte da cui sono passato, da cui passo per arrivare in camera mia. La casa era ed è costruita sopra la città; dalla città salgo alla casa. Per prima c’è la porta nel muro da cui entro in cortile e vado dal portiere; indi attraverso il cortile ed entro in casa dalla porta di casa; adesso sono nell’atrio. Per terza segue la porta a vento da cui, lasciando l’atrio, entro nel corridoio che corre in cerchio attorno al pianterreno; mediante questo lungo corridoio raggiungo la porta a vento che mi fa accedere dal pianterreno alla tromba delle scale; da ultimo percorro il corridoio dell’ultimo piano fino alla porta della mia camera.

Dal tram giù in città salgo dunque il pendio che conduce alla porta nel muro. Ho con me una borsa di cuoio di cui non distinguo il colore, ma che ritengo scura, perché il sole sotto cui cammino le comunica un opaco ardore. Cammino passo a passo, metto un piede davanti all’altro, porto il bastone e la borsa nella stessa mano, con le dita libere mi tengo, mentre cammino, al lembo inferiore della giacca. Prima di arrivare al portone sento che uno passa e mi supera. Dato che cammina svelto e che preme i piedi sul sentiero con energica sicurezza, ne deduco che ci vede. Mi sorpassa, è un uomo, forse non della città o di una zona molto popolata, indossa degli scarponi rigidi con le suole chiodate, puzza di capra e di letame. Sarà al portone prima di me; perciò cammino più adagio e per giunta, la borsa incastrata sotto il mento, tiro fuori le linguette dalle fibbie della borsa e mi metto a frugarci dentro, percorrendola con la mano in tutti i sensi e così facendo credere all’altro di cercare qualcosa, dimodoché, mentre cerco, naturalmente cammino anche più piano. Tuttavia sento poi che l’uomo, quantunque abbia già aperto il portone e nulla più gli impedisca di entrare nel cortile, è ancora fermo con la maniglia in mano e aspetta; aspetta, penso, che uno che viene verso di lui attraverso il cortile, ad esempio un’autorità, esca e solo così permetta all’uomo di entrare, e quindi resto anch’io dove sono e aspetto. Ma subito dopo sento che anche l’uomo è rimasto lì e mi guarda aspettando. Affibbio la borsa, per salvare le apparenze mi infilo rapidamente nella giacca la carta che avrei cercato e superando l’uomo entro rapidamente nel cortile. Mentre attraverso il cortile sento l’uomo chiudere il portone alle mie spalle con la punta della scarpa e con ambo le mani, appoggiarsi indolente al gabbiotto del portiere e porgli con voce da campagnolo le risapute domande della prima visita. Al fine di guadagnare il massimo tempo possibile, attraverso il cortile verso l’edificio; per la fretta comincio a zoppicare, i calzoni mi strattonano le gambe. Sento l’uomo recitare meccanicamente il suo ringraziamento per l’informazione e poi camminare dietro di me; cammina ancora lentamente; guardandosi intorno, verifica le mura e la porta a cui è stato inviato; addirittura si ferma e guarda indietro, nel caso che colui che ha interrogato gli faccia capire con un cenno del capo che è sulla strada giusta o su quella sbagliata. Adesso avrei il tempo di entrare nella casa; invece resto dove sono, coi calzoni incollati alle caviglie dal vento. Succede che l’uomo mi veda indeciso; perciò mi sorpassa, va avanti e si affretta a raggiungere la porta. Lo seguo; è dietro il battente aperto e mi osserva mentre cammino, lo sorpasso e varcando la porta entro nell’atrio. Taccio e vado dritto alla porta a vento; nel frattempo l’uomo si darà da fare per chiudere il battente, meravigliandosi che il battente che vuol spingere resista alla pressione; perché non conosce le porte che si chiudono da sole. Invece non si dà pensiero della porta ribelle: senza fermarsi mi supera, accelera ancora il passo e riesce a spingere la porta a vento prima di me. La spinge verso l’interno, va avanti, nello stesso tempo afferra il pomo della porta e si premura di tirare in semicerchio verso la parete il battente e se stesso. Anch’io dalla mia parte sfuggo alla porta verso la parete, affinché il battente che si richiude non mi sbatta in faccia. Ma il battente non si richiude; l’uomo mi sta di fronte e col braccio teso tiene cortesemente aperta la porta al cieco. Senza parlare e senza fare niente del genere neppure con l’espressione del volto, mi dò una mossa ed entro nel corridoio superando l’uomo. Sulle pareti c’erano e ci sono delle stanghe orizzontali che a mo’ di ringhiera accompagnano nei loro spostamenti gli abitanti della casa: ora, quando l’uomo lascia andare il battente, il colpo d’aria che ricevo nella schiena mi spinge verso la stanga. Mi ci attacco e proseguo così lungo la parete, finché percepisco anche i passi dell’uomo: uno dei chiodi della sua scarpa è rotto, struscia sulla pietra con uno stridulo cigolo. Ora mi affretto a precederlo verso destra (o verso sinistra) in direzione della porta che conduce alla tromba delle scale. Lungo l’altra stanga scivolano chini i ciechi che si recano nel salone per il pranzo. Poi mi fermo; sento questi ciechi sfilare davanti a me in un lungo corteo; li sento scivolare e strusciare; coi piedi dalle punte divaricate completamente appiattiti sul pavimento trasportano verso di me i loro corpi noti ed estranei; si voltano, senza abbandonare la presa sulla stanga a cui sono allineati, e parlano a voce alta e con eccitazione dell’uomo di origine contadina che stanno incontrando; non lo conoscono, e con voci altisonanti si chiedono a vicenda informazioni. Lui intanto va alla porta, con l’intenzione di aprirla; se da lì, dopo avere aperto il battente, si voltasse a guardare nel corridoio, potrebbe vedere uno correre, l’orecchio rivolto alla porta e il braccio e le dita protesi come le antenne di una lumaca; potrebbe vedere questo singolo cieco precipitarsi avanti tenendosi alla stanga. L’uomo aspetta pazientemente; ha tirato a sé il battente della porta e aspetta che io passi. Dunque passo gentilmente e lo ringrazio. Quando avrò salito le lunghe scale, lui sarà in attesa lassù per aprirmi anche la porta della stanza. Saliamo insieme; visto che lui continua a tacere, anch’io taccio le mie parole. Raggiungiamo felicemente l’ultimo piano. Ora si possono scegliere due diverse direzioni. Io vado nella mia, lui guarda nell’altra, poi mi segue. Se mi conosce, guarderà a quale porta io mi fermi e andrà ad aprirmela. Uno dietro l’altro, percorriamo sempre più lentamente questo corridoio; davanti a una porta – una qualsiasi – mi fermo e sto lì e aspetto; lui, leggendo con un mormorio i numeri sulle targhette, si infila a brevi passi incerti nello spazio tra me e la porta e risale ulteriormente il corridoio con un mormorio. Io lo seguo.

La seduzione

La tua mano si avvicina all’acqua a dita divaricate. La pelle della mano si aspetta un’acqua fredda, perciò si raggrinzisce preventivamente e chiude ermeticamente i suoi pori. Prima di immergersi si prepara al freddo facendo raggrinzire, senza che tu te ne avveda, la pelle delle punte delle dita. Nello stesso tempo ti si manifesta nella mano una pesantezza delle ossa che viene prodotta dalla forza d’aspirazione dell’acqua sempre più vicina. I pesi che si accumulano nelle punte delle dita trascinano la mano verso la massa che la attira. Prima che la mano si immerga nell’acqua, le screpolature sudate si tenderanno ed eromperanno bagnate dalle pieghe della pelle; poi l’acqua le cancellerà. Non è propriamente il peso delle punte delle dita a tirare la mano verso l’acqua, ma è l’acqua stessa che, siccome ti sembra fredda, produce i pesi nella mano e risucchiando le punte delle dita le tira a sé, mentre tu, col braccio teso e la mano aperta, ti rechi senza esitazione alla tinozza affinché l’acqua fredda ti rinfreschi. Nelle ossa della mano, quanto più ti avvicini, tanto più aumenta l’attrazione irradiata dal freddo che la mano si aspetta. Il liquido a cui punta la tua mano fradicia di sudore è freddo, pensi tu, come è di solito l’acqua che si trova all’aperto. Prima che tu vada verso l’acqua e anche mentre cammini verso l’acqua, senza che tu lo sappia la tua mano si adatta al freddo che ti aspetti.

Tuttora spensierato tuffi la mano nella tinozza.

Ma l’acqua che c’è dentro scotta ancora del fuoco che l’ha scaldata.

 

 

Dopo il pasto le stoviglie sono sporche; affinché siano di nuovo pulite per il prossimo pasto, per la rigovernatura delle stoviglie viene usata dell’acqua calda o addirittura bollente. Fin da prima è stato messo sulla piastra grande del fornello un paiolo o almeno un pentolone pieno d’acqua ancor fredda; lo si è tappato con un coperchio di latta, destinato a far bollire e rumoreggiare l’acqua imprigionando nel paiolo l’aria fumante e poi il vapore, non appena la piastra verrà scaldata dalla corrente.

Intanto tutte le stoviglie usate sono state impilate sul fornello accanto all’acquaio, per essere a portata di mano quando questa le cercherà. Il tondo tappo di gomma viene conficcato nello scarico e l’acqua del paiolo viene rovesciata nell’acquaio. Un movimento a scatti della mano versa poi nel bagnato la polvere biancastra, che dapprima galleggia ancora asciutta e granulosa sulla superficie dell’acqua, ma subito dopo, quando l’acqua che le si gonfia intorno la ingoia, cola a picco dispersa e pulverulenta. Le dita avvolte in uno straccio sfilacciato, ora la mano ripulisce le tazze della prima colazione, la pentola in cui ha bollito il latte e la caffettiera coi fondi di caffè. Dalle tazze svolazzano nell’acqua i pallidi brandelli della pellicola di caffè e i grumi di zucchero indurito che lentamente si sciolgono. Con la paglietta di ferro viene grattato via dalla pentola del latte lo spesso cercine di panna; dal fondo della pentola rotolano nell’acqua i frammenti azzurrini, bruni e giallastri della pellicola del latte incollata al metallo della pentola; senz’altro aiuto l’acqua fumante sciacqua via la brodaglia dalla caffettiera facendola uscire a zampilli. I recipienti puliti vengono ammucchiati nel secondo scomparto dell’acquaio. Intanto l’altra mano con lo straccio si tende già sul fornello e ne ritorna in semicerchio coi piatti sporchi; la prima mano, liberata dalle tazze lavate, a sua volta si reimmerge nell’acqua, talché le mani quasi s’incontrano, e artiglia i singoli piatti, mentre l’altra mano li terge fregandoli con lo straccio manovrato a spirale. Le pozzanghere di grasso della minestra vengono staccate e fatte cadere in acqua oltre l’orlo del piatto, i granelli di pepe schizzano in alto dal fondo del piatto senza bisogno d’aiuto, il pepe e gli occhi iridescenti della minestra dondolano con le pellicole di panna nel vortice ormai fosco della broda.

La mano senza straccio tira fuori i piatti lavati e deposita le stoviglie nell’altro scomparto dell’acquaio in modo che si puntellino a vicenda. Sciacqua dalla padella le cipolle incrostate, con un coltello raschia dal recipiente il grasso freddo e indurito, con la spazzola gratta dal fondo della padella le sbrindellate foglie nere degli aromi, depone la padella sopra i piatti puliti, immerge la pentola nell’acqua, voltandola e inclinandola strofina via dal fondo della pentola i licheni gialli e rinsecchiti, accumula la pentola finalmente nettata sulle tazze pulite e sui piatti e sulla padella.

Ora immerge il frullino nella broda; le dita con lo straccio s’infilzano tra i ferretti; divaricando e piegando i ferretti le dita spingono e spostano la poltiglia, a ondate rigonfie, dall’impugnatura del frullino fino alla sua testa panciuta e di lì, come massa consolidata, nell’acqua. Subito dopo infila l’utensile in uno spazio vuoto tra le pentole pulite, lasciandolo in piedi, e senza fermarsi già raspa dalle fessure del tagliere le fibre della carne cruda che vi è stata pestata. Con le unghie estrae le fibre anche dagli intagli di legno del pestello. Indi depone pestello e tagliere sul mucchio pulito.

Di seguito immerge nell’acqua l’insalatiera coi resti dell’insalata, finché il contenitore è tutto pieno e affonda. Dal fondo le ondulazioni verdi e limpide dell’aceto tingono la broda, e i gambi dell’insalata vengono a galla vorticando e toccano la riva dell’insalatiera quando il braccio si insinua tra loro e pesca le posate sul fondo. Mentre porta alla luce i coltelli e le forchette e i cucchiai, subito la mano li stringe a fascio e li lascia cadere a sinistra nelle fessure del mucchio ripulito. L’altra mano sta già estraendo il tappo rotondo dallo scarico. Quantunque indugi senza muoversi nell’acqua ondeggiante, tuttavia all’apparenza sale col calare della broda, la cui traccia nerastra scende a scatti lungo il braccio nudo. La mano libera gira prontamente il rubinetto, talché il getto d’acqua sciacqua dal braccio la brodaglia, i fili d’insalata, le fibre di carne, la pellicola del latte e i licheni delle patate e attraverso il buco li trascina nella fossa loro destinata.

Così stanno le cose, quando dal fondo delle stoviglie viene desiderata una tazza per bere. La rigovernatrice non è d’accordo, perché chi si è già coricato dopo il pasto potrebbe essere disturbato dai rumori. E poi a che cosa serve questa tazza? suona l’indignata domanda. A che scopo si pretende che i piatti, le posate, le pentole, la padella, il frullino e l’insalatiera, che si puntellano l’un l’altro in modo tale che un mutamento della loro posizione provocherebbe un crollo generale, vengano nuovamente spostati e le varie parti impilate nell’altro scomparto dell’acquaio? Se soffri tanto la sete, dice la donna, puoi ben usare per bere anche il cavo della tua mano, oppure una delle tazze che stanno nella credenza, oppure la brocca che c’è davanti a te sul tavolo, oppure questa tazza di latta posata sul fornello accanto a me. E poi perché vuoi bere? Oppure non vuoi affatto bere? Vuoi solo sentire i piatti che si rompono? O magari vuoi romperli tu stesso? Vuoi venire qua a romperli tu stesso? O devo aiutarti io? Devo assisterti e rompere i piatti con te? Perché no, dico io, e dal suo finto stupore lei scoppia in una risata: vieni, dice, vieni qua; e siccome io non capisco: vieni qua da me, vieni dunque, non vuoi venire da me?

 

 

«Ogni volta» afferma la descrizione «che una donna, non importa dove, non importa perché, non importa come, non importa quando, mi diceva di venire da lei (vieni, venga da me, su venga, su vieni), oppure mi chiedeva se volessi venire da lei (vuoi, vuole venire per favore, quando vuole, quando vuoi venire da me), quelle parole, a prescindere dall’età della donna, mi terrorizzavano da capo a piedi, tanto che per qualche tempo non ero in grado di muovermi.»

Il riposo pomeridiano

In questa stagione mio padre è solito riposare dopo pranzo. Giace da solo nella stanza grande sul suo giaciglio, i pugni accanto a sé, il viso rivolto alla finestra. Dorme con la bocca spalancata. Prima di andar via siede a lungo a tavola in silenzio, tenendosi davanti tra le mani il piatto vuoto; fa lampeggiare sui presenti uno sguardo arcigno; spia dalla testa cupo e minaccioso; a turno le scarpe battono secche sul pavimento, mentre lascia andare il piatto e lo riappoggia sul tavolo con veemenza. Ma siccome la tovaglia è spessa e anche la tela cerata sottostante attutisce la veemenza, il suono del colpo riesce spugnoso e sordo. Ciò rinnova in mio padre un visibile malumore; cambia idea e si alza all’improvviso. Il silenzio si straccia. Meditando distruzioni in cuor suo, arretra per prendere lo slancio; rapidamente e senz’ordine spinge e rivolta e tira su le maniche fin sotto le ascelle e si china in avanti brontolando; stringe rudemente la mano intorno alla pipa e va a riposare.

 

 

Poi (quando è passato, quando è avvenuto, dopo, più tardi, in seguito) poi lui (il cieco) vuole andare in paese, cieco come una talpa, ad aspettare il previsto arrivo del veicolo.

Le vespe

Lei, la donna dell’uomo, riposa nella camera che spettava un tempo alla sorella; l’ambiente, così lo si descrive, è luminoso, la tendina tale da non oscurare la finestra, semmai da farla rilucere di sole; ma non c’è bisogno che l’armadio sia aperto. Riposa insonne sul letto, riposa come riposa, riposa come vuole riposare. Non c’è neppure bisogno, oppure c’è bisogno, che si spogli, lentamente, in fretta o lentamente, e che, liberatasi degli abiti, copra il giaciglio. Giace in modo tale che il suo corpo è disteso, mentre invece le gambe sono riunite. Giace vestita, è vestita con l’eccezione delle scarpe, che sono sparse per la camera col tacco in su; tuttavia questa immagine non suggerisce affatto altri desideri, se non quello di un riposo che solo malamente si può perseguire con le gambe calzate.

È vestita. Riposa come l’uomo, finora senza essersi mossa. Non si muove ancora. Non passa momento senza che guardi rapidamente verso la finestra. Le braccia le ha posate sul petto, ciascuna mano sull’altra spalla. Guarda, ride, scoppia a ridere e distoglie lo sguardo. Non ha posato le braccia sul petto; ora infatti avviene che le estragga da dietro la nuca come ali; non le estende neppure, ma le depone mollemente accanto al corpo disteso e a poco a poco schiude verso l’alto le superfici interne delle mani, di modo che, a causa del girarsi delle mani, sembra che le superfici interne, più chiare in confronto ai dorsi delle mani, man mano che si aprono conferiscano alla stanza una più chiara luminosità. Siccome gli occhi sono serrati, lei dorme, oppure, serrando gli occhi, dietro di essi, quantunque le palpebre tremanti visibilmente la smascherino, simula il sonno; all’incompleto riposo contribuisce anche il fatto che le orecchie raccolgono dall’esterno, dal tetto, dai puntoni del tetto quel disgustoso ronzio. Le dita sono asciutte, aperte, divaricate sopra la coperta, oppure sopra le assi, nel caso che la donna giaccia sul pavimento. Ma giace sul letto. Anche il viso è asciutto, i capelli hanno ancora l’odore dell’acqua della cucina, sanno di piume asciutte, mentre le radici dei capelli sanno di fumo. Adesso la bocca è dura o indurita, le labbra indurite come corteccia si chiudono ermeticamente e diventano un tutt’uno; dentro la bocca, dove il sole non arriva, la pelle delle labbra sarà dunque umida e morbida. Questa striscia crostosa all’esterno delle labbra, bruciate dal sole fino a diventare ruvide e secche, attanaglia e incolla la sua bocca finché essa scricchiola e si spacca; tuttavia non sanguina, ma lascia solo comparire sotto di sé una nuova, pallida striscia di pelle. Una striscia della striscia si è strappata dalle labbra e pende dalla bocca serrata; ma il mento che già trema trasferisce il proprio moto verso l’alto e scuote la pelle granulosa sotto gli occhi e la costringe a tremare, dopodiché questo tremito fa apparire sulla fronte un luccichio sudato esteso fino alle tempie e alla radice dei capelli, i quali, sopra l’orecchio che percepisce il ronzio, sanno già di penne di pollo umide, di penne bagnate di brodo. Ora la bocca si dischiude e infine si spalanca ed estromette la lingua spessa, come se si trattasse di soffocare.

Pacificamente la donna giace nella camera e dorme.

No. Anche «no» non è la parola che dice, perché non dice niente, ma tace e si tiene le parole; intanto, nel nido di vespe là fuori, le vespe si mettono a miagolare rabbiosamente. Le labbra bruciano; ora anche le dita della donna non sono più asciutte: sono bagnate e profondamente artigliate nel letto. In apparenza la donna non trova il sonno che cerca, dato che senza tregua si stira e si rigira; non basta, si oppone all’altra forza a tal punto che il suo corpo è in bilico sull’anca, e se ne difende poco gentilmente con mani e piedi. Come (lascia che ci pensi lei) potrà dormire in questa posizione, con il ronzio e il miagolio delle vespe nella testa, come potrà riposare con le cosce serrate, con la pelle delle cosce liquefatta, con le cosce che in mezzo sono già viscide e roventi e bagnate? Anche questo pensiero lascialo a lei.

Di conseguenza succederà che si corichi piatta sulla schiena e finalmente si arrenda. Ecco la cicatrice sul suo ginocchio; ma lei non ha bisogno di contrassegni, non ha cicatrici, questa è la pelle raggrinzita che poi, quando flette il ginocchio verso il corpo, si spiana e diventa liscia. Ora si tratta di separare caparbiamente queste ginocchia con l’altro ginocchio, più sopra di incastrarle contro il palato la lingua che ha un insipido sapore di terra, di stirarle le braccia con le braccia, di premergliele orizzontalmente sugli spigoli del letto e di abbassare lo sguardo con curiosità sul suo volto gualcito e ridente, dato che giace là sotto divaricata e spalancata, di osservarla con attenzione quando si rizza sui gomiti a partire dalle spalle, quando manca poco che si tiri su, quando tuttavia ricade spossata e cerca di stringere l’aria sopra di sé con le dita tremanti, mentre i talloni, a seconda del luogo in cui giace, strofinano le coperte del letto o imbrattano di sudore le assi del pavimento, e quando lotta per respirare con questa bocca, la bocca estranea, emettendo gemiti imbavagliati, quando a poco a poco il viso le si disgrega, a partire dagli occhi che si rovesciano, e istupidisce, quando cade nel sonno con un’espressione finalmente autentica, non simulata, in quel sonno irrequieto, trasalente, febbrile da cui soltanto adesso, una sola volta, il suo corpo si leva guizzando come nell’acqua, senza peraltro che dalle labbra con le macchie del sangue coagulato sia ancora uscito alcun suono, quando il corpo s’impenna, mi spiegò mio fratello, e ancora in aria viene squassato da un’impetuosa ed esplosiva vibrazione, che non si attenua neppure mentre lo sciame delle vespe gonfia la tendina ronzando, che anzi si potenzia e si accresce mentre lo sciame si accumula fitto sulla pelle rorida e fumante e affonda, roventi e magnifici, i pungiglioni nella carne; però sono vespe piccole, mi tranquillizzò, vespe medie, disse, neppure lunghe come l’unghia del tuo dito del piede, a malapena come questa sulla mia mano, disse.

 

 

Perché lui non era affezionato a nessuno.

La donna

La donna riposa nella camera come doveva riposare; riposa come vuole riposare. Dato che riposa, sbarra la strada all’altro. L’altro è seduto contro la parete e riflette sul da farsi. Il vento che gonfia la tendina riunisce con un crepitio gli anelli di una bacchetta e spalanca crateri e golfi nelle pieghe della tendina. Fa sfarfallare il sole su di me e proietta la luce sulla donna che se ne difende coprendosi gli occhi con l’avambraccio, di modo che, cieca, guarda solo dalla bocca, con la fila dei denti scoperti. Si è stretta nelle spalle e si è appoggiata allo schienale: in paese? domanda: adesso? perché in paese adesso?

Può anche chinarsi in avanti, può osservarlo, lui che è muto e chiuso, che in un certo senso non c’è, e può intanto attanagliarsi le gambe con le mani intrecciate e incastrate tra loro, può tirarsi le ginocchia contro il petto e nascondere sotto l’osso del mento la testa tonda di un ginocchio: così, in questa spesso descritta posizione classica, può volgergli il viso e osservare da dietro quel cranio che sotto i suoi occhi diventa ancora più smisurato.

Ora le labbra della donna sono aride, dopo il suo accesso di mordace furore si sono raggrinzite a fisarmonica e coperte di croste; ora si gratta coi loro bordi il dorso della mano, graffiandoselo malamente. Inarca il dito e si scava una fossa nella guancia, lungo il naso; ma non appena lo scavo si staglia chiaro sulla pelle, subito torna a tingersi del sangue bruno che vi si richiude sopra; mentre rimuove dalla propria guancia questa polvere, o qualunque cosa sia, abbassa gli angoli della bocca e con essi il viso: perché adesso? domanda col viso stravolto: perché vuoi andare in paese adesso?

Lui le siede accanto sulla sedia; quando si alza si trova infilato nella camicia bianca pulita che sull’esterno delle maniche mostra ancora le pieghe della stiratura, in questi calzoni stirati e inamidati, i cui risvolti nell’alzarsi sdrucciolano sul piede, e nelle scarpe roventi, vi si trova rinchiuso come in un cemento in cui il suo corpo sia murato: si trova fuori posto. È stranamente immobile nell’abito che lo incatena magicamente in quel luogo; non ha niente da fare qui; vorrebbe andarsene; vorrebbe guardare altrove; vorrebbe passar oltre. Che cosa gli ha preso? È questo vestito, che non sente o, se lo sente, sente estraneo a sé, è questo vestito a tenerlo qui nella camera a quest’ora di questo giorno, nel momento sbagliato?

Di nuovo vede brevemente, come nel dormiveglia, un sentiero grigio e riarso e in esso le bucce nere di una banana con sopra l’ombra svolazzante dell’uccello dalla pancia bianca; no, non dormiva, o almeno era ancora cosciente: quando era ancora seduto sulla sedia e la sentiva domandare (quando è successo questo?), no, non sentiva domandare nessuno, sentiva delle domande provenienti da chissà dove interrogarlo da sole, nei rumori si è mischiato un suono che lui nel suo stato non ha saputo spiegarsi; ha sentito il suono, ma non ha saputo interpretarne l’origine; pensa: quella volta; e pensa quasi divertito: ero seduto, sentivo, pensavo, in quel tempo che per lui è passato, è tanto tempo fa. Ma adesso (pensa: adesso) ricorda che era seduto sul letto o sulla sedia e che sentì quel suono in cui adesso riconosce il battito dell’ora, il singolo battito dell’orologio della stanza grande; e ricorda ulteriormente: che dopo il primo battito, appena il suono gli spostò la mano e gliela fece cadere giù dal ginocchio, anzi da tutto lui stesso, mentre la mano cadeva i successivi due colpi immersero quella cosa che si staccava da lui come cosa estranea e presaga del freddo in un’acqua bollente, e ricorda che tuttavia lo sgomento si limitò alle dita, che non gli appartenevano più, mentre il cervello ne restava indenne. Adesso dà un nome a quei suoni che batterono quasi senza intervallo sulla sua mano palpitante, dà loro il nome del trascorrere di un quarto d’ora, e lo sgomento della mano penetra tagliente nel cervello.

Si trova accanto a una donna sconosciuta in una stanza sconosciuta. La donna giace di traverso sul letto in un’ampia veste il cui panneggio riesce a coprire le ginocchia: ora le flette, di modo che le piante nude toccano il suolo con un suono sordo; la testa della donna penzola dall’altro lato del letto; giace sul dorso e osserva il soffitto sopra di sé. Quando pensa questo, di nuovo lo afferra la vertigine. Il viso della donna non è visibile dalla parete, dato che pende sotto la sponda del letto; in tal modo è visibile (chissà per chi, pensa) solo il collo teso con la delimitazione triangolare delle ossa del mento e della mascella inferiore; dal suo punto di vista la donna è decapitata; annuisce col nudo moncone del collo e col triangolo delle ossa dolcemente arrotondate; il mento somiglia al pomo di un bastone, pensa; no, il collo è a sua volta un osso, e il mento è la testa di quest’osso.

Ha avuto qualcosa a che fare con questa donna. Ora vorrebbe andarsene. Che cosa te lo impedisce? Che cosa gli impedisce di uscire e di camminare sotto il tetto lungo la trave fino alle scale? Basta che prenda in mano il bastone, che lo alzi e lo protenda e che cerchi a tastoni la via, la sua via, lungo i puntoni del tetto. Ma lui, così dice sotto la propria responsabilità, non è capace di distinguere la destra dalla sinistra e il basso dall’alto; cieco com’è, aggiunge.

No, non era sdraiata sul letto di traverso; infatti non la sente alzarsi: semmai era in piedi, mentre lui era seduto, davanti alla finestra, metà del viso nella tendina, e non era stato il vento a spostare gli anelli con un crepitio. Duplice panneggio, pensa: interrotto dalle membra e morbido quello del vestito, duro e diritto quello verticale della tendina.

Non l’ha sentita alzarsi; non l’ha neppure sentita spostarsi. Inaspettatamente è davanti a lui e lo conduce fuori senza una parola, rasente al muro sotto il colmo del tetto, premurosamente rallentando i suoi passi troppo veloci, giù per le scale scricchiolanti, lungo il corridoio oltre la stanza in cui il padre schiocca rabbiosamente le labbra nel sonno, e attraverso la porta di casa, che già da lontano gli irradia in viso il proprio calore, di colpo al sole, in cui egli prosegue da solo senza mai fermarsi, perché il tempo stringe.

Pensa a se stesso come a un altro; a ciò che gli avviene pensa, quando avviene, come a qualcosa che gli sia già avvenuto da un pezzo; e a ciò che gli è avvenuto già da un pezzo pensa talora come a qualcosa che deve ancora avvenirgli. Molto tempo fa è divenuto cieco.

Il falco mangiavespe

Non è questo il sentiero. Era dunque un sentiero come quello che conduce alla cava di sabbia? No, non era neanche il sentiero per la cava di sabbia; era un sentiero sconosciuto che non ho mai visto, un sentiero campestre che non attraversava alcun campo. Quest’uccello dalla pancia bianca l’ho visto una volta, ma non svolazzava in quel luogo e non sopra le bucce nere di una banana; anche le bucce di banana le ho viste una volta, ma non su un sentiero, bensì sullo zoccolo in cemento di una siepe di fil di ferro che recingeva la scuola su cui in seguito caddero le bombe. L’uccello che vidi colpì con la sua ombra i lobi divaricati della buccia di banana; quantunque essi giacessero indifesi nella polvere, s’impennarono e si stirarono sotto i colpi violenti dell’ombra. Vidi quest’uccello posato al margine della cava di sabbia, davanti a un albero; tuttavia non scavava e raspava la terra – così viene solitamente descritta la sua attività – ma guardava l’albero, tenendo aperto il becco «fortemente ricurvo»; lo vedemmo posato a guardare l’albero. Trotterellava malfermo avanti e indietro; saltellando lungo un quarto di cerchio, occhieggiava di lato verso l’albero; poi cominciò a gracchiare. Ci avvicinammo furtivi, la testa incassata nelle spalle, lo udimmo brontolare, vedemmo che spruzzava lo sterco dietro di sé in una lunga pista mentre spalancava le ali e scappava. I sassi che gettammo ricaddero dietro di lui nella sabbia con un rumore ovattato. Io vidi quest’uccello, io vidi l’ombra di quest’uccello che conoscevo svolazzare sulle bucce nere di una banana, e l’ombra fece turbinare la polvere, perché le ali dell’uccello erano così vicine. Non era il sentiero su cui sto camminando adesso: non vidi sassi su quel sentiero, non quest’impronta di suole di cuoio con la riga sbrindellata della cucitura che adesso calpesto, non questa scatola di conserva o questi tappi di bottiglia, non questo sterco di cavallo sbriciolato e polveroso, non questa carta, adesso, che forse, no, non è una lettera, che a tastarla è rigida e fragile dopo la pioggia notturna, e neppure questo solco liscio ma già privo di grasso lasciato dai pattini del carro, che scheggiano e limano i sassi sporgenti dalla superficie della strada rendendoli simili a calce; non era il sentiero su cui adesso, adesso, metto il piede su una pannocchia di mais vuota, non il sentiero su cui il prossimo passo mi conduce su un sacco di cemento vuoto, non era il sentiero che adesso mi fa poggiare la scarpa su un grosso chiodo, su questa vite, su questo bossolo che fa inciampare nell’erba la punta della scarpa, non il sentiero in discesa su cui, a partire da questo passo, i passi diventano più brevi e calpestano e fanno cricchiare il foraggio perduto che, accumulandosi sempre più spesso, mi segnala l’inclinazione con cui il sentiero si avvicina alla strada, non era questo sentiero qui, su cui mi dirigo di buon passo verso la strada: l’ombra dell’uccello svolazzò su un altro sentiero.

La rivedo: ora non svolazza più; è immobile e si esaurisce nelle bucce nerastre. L’uccello piomba giù e nel cadere si risucchia l’ombra sotto la pancia; con l’ombra maciulla le bucce, che potrebbero anche essere quelle di un’arancia putrida. L’interno si sforacchia di crateri luminosi e sfilacciati; tutt’intorno alla scena i grumi che cadono dal becco picchiettano la polvere. Ma non è solo in questo frutto che affondano le dita dell’uccello; invano mi sforzo di vedere cosa l’uccello stia schiacciando tra gli artigli; poiché adesso le ali svolazzanti fanno turbinare e vorticare la polvere sopra di sé e sopra le bucce e sopra il sentiero e avvolgono in una grigia nebbia, come si legge in molti resoconti, questo spettacolo, di modo che, per quanto aguzzi gli occhi, non riesco a distinguere attraverso i fumi caliginosi né il luogo dell’impatto né ciò che lo circonda. Già i passi incalzano e spingono il piede nel rovente catrame liquefatto.

Il sole

Mi sarà indifferente che non sia venuto nessuno, perché lo penso. Se penso che laggiù non c’è nessuno, mi lascerà freddo che nessuno sia venuto. Devo dire a me stesso che mi è indifferente, così mi sarà indifferente che nessuno sia venuto. Per quanto il sole bruci, devo pensarlo, e pensandolo prepararmi al fatto che mio fratello non sia ancora venuto. Se lo penso, mi sarà indifferente, essendo già stato pensato, che lui non venga. Questo è il sole nel quale devo pensare che nessuno smonterà, quando sarò in paese, oppure che colui che smonterà mi sarà sconosciuto. Siccome non conoscerò nessuno, il veicolo mi sarà indifferente. Sarà indifferente che non sia venuto nessuno e che quindi non ci sia nessuno, perché posso dirlo. Perché penserò che potrebbe venire qualcuno fintantoché verrà il sole, se mi è indifferente. Come lui scrive nella lettera, ovunque il sole vada, affinché nessuno sappia dov’è il sole. Sarà indifferente che sia vuota, visto che il sole va, se il sole resta qui prima che arrivi la corriera. Così come io sto andando per non dover restare, perché è già pensato, affinché il sole mi trascini con sé. Come tu scrivi nella lettera, affinché nessuno sappia che questo è il sole. Come se io adesso potessi parlare, visto che lui è là nel sole, sebbene mi sia indifferente. Sarà indifferente che nessuno sia venuto, perché lo penso. Perché lo penso, sebbene il sole mi trascini con sé e di conseguenza mi lasci freddo. Affinché io sia preparato, se lo penso, sebbene il sole mi trascini con sé. Come se lui passasse via viaggiando, mi sarà indifferente, visto che il sole viaggia, sebbene mi lasci freddo, che sia avvenuto, perché lo penso

La passeggiata domenicale

Il Secondo Giocatore di Carte, che lungo la strada gli viene incontro per primo, viene chiamato Cuoco come il suo defunto padre, quantunque faccia il carpentiere, perché il suo defunto padre faceva un tempo il cameriere in un grosso paese della zona. Incede sotto l’ampio, adombrante cappello, la cui tesa, che ricade piegata tutt’intorno, sembra afflosciata all’osservatore, di modo che, con denominazione dell’intero sulla base della parte, l’intero cappello dev’essere qui definito un cappello floscio. Quando scorge l’altro, domanda, frenando il passo senza tuttavia fermarlo del tutto, domanda ciò che ha voglia di domandare. Certamente, risponde laconico l’altro, credendo che il giocatore abbia fretta perché mentre passa non guarda dalla sua parte: come se perdesse chissà che cosa qualora gli rispondesse con calma, dimodoché lui, il giocatore, sarebbe informato e non arriverebbe alla partita troppo presto, prima che laggiù si siano alzati, e neanche troppo tardi. L’altro cammina di fretta senza che la sua camicia appaia fradicia sulla schiena, cammina stentatamente mentre il suo apparato locomotore sbuffa, mentre la testa annuisce, l’orecchio si sporge e il braccio libero lo protegge dallo scontro con un possibile muro, un cieco che gioca a moscacieca epperò non cammina in cerchio ma in linea retta perché indovina il nascondiglio della persona nascosta, con l’atteggiamento che uno ha nelle tenebre quando cerca l’interruttore della luce e tuttavia col viso astuto, col viso sublime che è la corazza dei ciechi, chiuse le palpebre nude, chiusa l’espressione del volto che per di più il sole ardente tinge di un nero mimetico, tanto che i successivi sopravvenienti, nei quali egli già da lontano ravvisa il Primo Giocatore di Carte e il Terzo, il Giocoliere, non riescono a stabilire subito se possano rivolgergli la parola, finché il Terzo, chiamato Brigante come suo padre, che fu impiccato a un frassino in tempo di guerra, quantunque personalmente seppellisca i morti, sussurra infine al Primo, che dal proprio padre morto di morte naturale, quantunque personalmente faccia il conciatetti, siccome un tempo il suo defunto padre accarezzò il (vano) progetto di emigrare all’estero, ha ereditato il nome di Straniero, finché dunque il Terzo domanda sussurrando al Primo, in dubbio e strizzando gli occhi, se possano disturbare l’altro nella sua camminata, dato che, a meno che non s’ingannino, il cieco sembra affaccendarsi per uno scopo, come se oggi rischiasse di perdere il film o la partita di calcio; tuttavia tacciono, mentre passano, oppure si limitano a porgergli il saluto con brevi e bonarie parole, affinché non si ritenga eventualmente disturbato mentre laggiù, senza tenersi a nulla (poiché non indossa una giacca al cui lembo potrebbe tenersi), per così dire conduce se stesso alla cieca, e difatti un’inopinata deviazione lo fa capitare nel bel mezzo della strada, oppure le macchine che vanno nella sua direzione lo confondono e lui non sa dove va, anzi alla fine dimentica di stare andando, il che peraltro è impossibile, perché si sente sotto le suole il pietrisco o la sabbia che lo guidano; e anche se deviasse: gli autisti, che hanno gli occhi, lo vedranno e freneranno. In primo luogo questo; e in secondo luogo sta già passando davanti al campo sportivo, dove c’è abbastanza gente che può chiamarlo e metterlo in guardia, cosa che tuttavia non ritengo necessaria, perché infine si tratta della sua solita strada, adesso fiancheggiata a destra e a sinistra dalle due file dei bambini, senza che queste file, mentre gli si chiudono davanti a catena, vogliano far nulla di male al cieco di domenica, come è loro abitudine. Non si lasciano indurre da lui a distogliere lo sguardo dal gioco del calcio, affinché non creda d’essere importante per loro, quantunque alla fin fine sia un bugiardo, della qual cosa segretamente lo accusano, mentre tuttavia queste voci che lo insultano non emergono ancora tra le altre, poiché è l’andamento del gioco ciò che per il momento eccita le loro lingue, di modo che non significa più nulla quando finalmente (dài, cominciamo) si dedicano alle grida tanto attese, dato che quello (il camminatore cieco) è già lontano, davanti alla targa col nome del paese, donde non può più sentire il loro portavoce, il figlio non ancora cresciuto del macellaio, chiamato dai compagni come suo padre, che passa per primo la parola ai vicini, e subito dopo i figli non ancora cresciuti della levatrice, chiamati dai compagni come la loro madre, uno dei quali, abbandonando con gli occhi gli stanchi giocatori, passa all’altro, unitamente a un attributo, la parola che questi fa circolare, donde il cieco, che ha ormai alle spalle la targa col nome del paese, non può più percepire le loro grida che esplodono dalle guance gonfie, oppure può ritenerle non destinate a se stesso, o solo un pochino a se stesso e molto di più ai boccheggianti calciatori sul campo di gioco, che non prendono sul serio quelle grida. Dopo la targa col nome del paese vengono incontro al cieco le schiere di coloro che dopo il sonno ristoratore se ne vanno lietamente a passeggio, in testa a tutti le tristi figlie del maestro, chiamate in base al padre recentemente scomparso le Tristi Figlie del Maestro, accompagnate da un uomo di mezza età cui sono affidati gli affari correnti dell’amministrazione del paese, in base ai suoi genitori (l’hanno trovato all’interno dei confini statali) chiamato Trovatello, accompagnate dal secondo maestro, chiamato per motivi imperscrutabili Terzo Maestro, accompagnate dalla zia delle Figlie, la maestra, la direttrice provvisoria della scuola, chiamata Struttura Scolastica, accompagnate dalla mamma della zia, in base alle sue convinzioni chiamata Chiesa, accompagnate dal borgomastro, il rappresentante elettivo dei cittadini, chiamato Struttura Statale, accompagnate inoltre dai figli cresciuti del borgomastro, chiamati Apprendisti, accompagnate inoltre dal dottore ubriaco, chiamato in base a suo figlio, che ha generato nell’ebbrezza, Bastone della Vecchiaia, vale a dire: Idiota, accompagnate inoltre dai figli adolescenti del secondo maestro, chiamati A, B e C, accompagnate inoltre dai figli adolescenti del veterinario, chiamati Autentico e Apocrifo, accompagnate inoltre dal figlio adolescente del segretario comunale, in base ai discorsi di suo padre chiamato Guerra, e infine accompagnate dal minuscolo figlio non ancora cresciuto del bracciante, in base ai discorsi di suo padre chiamato Pace, i quali tutti non abbandonano la traccia delle Tristi Figlie del Maestro mentre celiando e tra scherzi e trastulli escono dal paese a scopo ricreativo, dal primo all’ultimo con lo sguardo girato verso il rapido cammino del cieco, che non può farci niente se è così, perché non può difendersi (si inserisce da dietro nella conversazione il figlio del bracciante), come se importasse qualcosa essere così, visto che tutti, così o cosà, hanno bisogno di una parola buona, dimodoché dipende da lui, sebbene, non per criticare, gli spettatori non riescano a capire perché non si faccia guidare da qualcuno, e del resto non manca di comicità questo suo correre così (finitela! basta adesso! esige irata la mamma della zia), intanto che in una nuvola di polvere la corriera entra in paese spaccando il minuto. Il Gendarme, così chiamato sebbene non porti armamento di sorta, affacciato alla finestra da cui può bene o male controllare il paese in vista di un caso d’emergenza, scorge il figlio del signor Benedikt in procinto di precipitarsi in linea retta attraverso la polvere verso il veicolo fermo. A parte il fatto che, sicuramente anche a causa di una lunga marcia in pieno sole, sembra un po’ esausto e malconcio, il cieco, pur correndo in quel modo verso il veicolo, suscita nondimeno un’impressione assolutamente onesta e tale da ispirare fiducia, la quale liquida in tutto e per tutto il sospetto che questa fretta sproporzionata ha lì per lì destato nel Gendarme, tanto più che, per quanto ne sappia, finora non gli è giunta all’orecchio alcuna voce sfavorevole nei riguardi della persona. Due uomini davanti al cinema, chiamati Toto e Lotto, i pollici nella cintura, smettono di chiacchierare quando vedono il cieco arrancare coi piedi nel visibile sforzo di raggiungere il veicolo prima della partenza, e seguono con emozione i suoi passi prima che uno di loro si volti verso il veicolo aperto, in cui l’autista, mentre il cieco si avvicina attraverso le nuvole di polvere ancora sospese, chiude la borsa dei biglietti e se la appende alla cintura, in cui ora l’autista, mentre il cieco (arriva, non arriva) raggiunge col bastone il tubo di scappamento, fa rientrare la porta, in cui l’autista (più svelto, cosa ti succede, non mollare, non fermarti, quello non ti aspetta, fino alla porta, basta che arrivi alla porta), avendo aspettato abbastanza, schiaccia la frizione, ingrana la marcia, contemporaneamente abbassa il freno a mano e quanto più lo abbassa tanto più preme sul pedale del gas e lascia andare la frizione e parte, di modo che l’uno o l’altro ha vinto la scommessa, ma l’esito era scontato sin dall’inizio ed era anche prevedibile.

La partita a carte

Una volta ero seduto sotto il tavolo mentre loro giocavano a carte, e non potevo più uscire. Avevo dormito là sotto, e quando mi svegliai vidi piantate intorno a me otto scarpe e otto gambe che erano le sbarre della mia gabbia. Mi tirai a sedere e picchiai il cranio contro il tavolo, tanto che le posate tintinnarono nel cassetto. Mi feci piccolo e osservai col naso gli odori degli uomini intenti a giocare, con l’udito i suoni che emettevano, e con le dita le macchie di saliva che sputavano sul pavimento tra le cosce appositamente divaricate. Per lo più la mano che le tastava si imbatteva nelle convessità indurite e vitree della saliva delle passate domeniche e pertanto veniva irretita e colta di sorpresa dalle singole espettorazioni ancor fresche su cui le dita scivolavano. Sedevo pensieroso sotto il tavolo, cercando affannosamente con la testa una via d’uscita: le scarpe di mio padre, che riconoscevo perché le stringhe sciolte erano schiacciate sotto le suole e perché le linguette (come vere lingue) penzolavano dalla fessura non allacciata, erano ampiamente distanziate, mentre più sopra nei calzoni le ginocchia si strofinavano tra loro; tra le scarpe c’era un largo spazio che si rastremava verso l’alto, quindi chi voleva uscire doveva solo incitarsi a passarci in mezzo e sarebbe stato in libertà. Strisciai indietro di una spanna, fino a toccare coi talloni le scarpe del Terzo Giocatore, e misurai la lunghezza della rincorsa: briscola! gridò mio padre. Mi diedi lo slancio e mi infilai tra le sbarre della gabbia, ma mio padre, mentre spazzava le carte sparse sul tavolo tirandosele energicamente verso il corpo, subito strinse le ginocchia, riunì i piedi e serrò nella morsa il collo di suo figlio: ce l’ho fatta! trionfò, la mano aperta sul mucchio di carte; intascò la puntata e mescolò le carte, senza alzare le braccia dal tavolo, senza respirare, senza allentare la stretta sotto di sé; col pollice sinistro, passandoselo continuamente sul labbro inferiore, allargò le singole carte del mazzo che teneva nella destra e infilò poi singolarmente le carte restanti tra quelle allargate che teneva nel cavo della mano sinistra, dopodiché, non appena alla sua destra il Primo Giocatore ebbe toccato il mazzo, distribuì le carte in cerchio verso sinistra, nel senso delle lancette dell’orologio, ora con l’aiuto del pollice destro (prima aveva usato il sinistro) che inumidiva passandoselo sul labbro, il corpo eretto contro la spalliera donde porgeva a ciascuno la carta che gli toccava. Quando trassi verso l’interno la testa con le orecchie rivoltate, il padre non interpose ostacoli al figlio; non ce la farai! gridò al Giocoliere, al che il Giocoliere gridò: la vedremo!, al che il suo partner gridò: ride bene chi ride ultimo!, al che l’ultimo domandò loro sommessamente cosa mai dicessero e diede loro sulla voce con grande severità. Le sue gambe erano chiuse, tuttavia dai due lati ci si passava; ma quando mi accinsi a farlo lui spostò agilmente la scarpa or qui or là, mentre sopra, gli occhi beffardi rivolti all’uno e all’altro, dava le carte in silenzio. Mi sedetti e alzai lo guardo verso il cassetto, il cui fondo concedeva ancora alle dita una fessura: che roba è! gridò mio padre, toh! gridò il Giocoliere, amici come prima! gridò il suo partner, ma: state a vedere! li ammonì sommessamente l’ultimo, quando gli spinsi il cassetto nella pancia e quando lui lo ricacciò dentro sommessamente: ho esagerato? disse poi facendo briscola e provocando agli altri un grave malumore che tolse loro il respiro. Sentii che recuperava le prese col braccio ripiegato e le aggiungeva al mucchio, senza girare le carte e senza neppure coprirle. Qui c’è qualcosa che non va! gridò dopo parecchio tempo il Giocoliere, che era seduto sulla panca contro la parete e perciò, quantunque parlando alzasse le scarpe, non poteva essermi d’aiuto. Raggiunsi strisciando una delle gambe del tavolo ed esaminai con gli occhi i calzini del suo partner, che il gioco sembrava eccitare: davvero! gridò sopra di me verso il tavolo, qui c’è sotto qualcosa! Tuttavia, mentre si faceva uscire di bocca queste parole, allungò la scarpa e me la drizzò davanti al viso. Allora mi ritirai verso il centro. Mi coricai sul dorso. Mi rotolai sulla pancia. Mi raggomitolai e mi diedi a camminare in cerchio sulle ginocchia. Camminai in cerchio sulle ginocchia, di modo che le spalle sfioravano le sbarre della mia gabbia; ma gli uomini non si lasciarono cogliere di sorpresa. Afferrai le gambe di mio padre sopra le caviglie e attraverso di esse guardai nella stanza: nell’angolo mio fratello era seduto sul letto con aria insonnolita e mi guardava di rimando; gli comunicai con sguardi eloquenti il mio stato d’emergenza, senza che lui si mostrasse disposto a occuparsene; anzi, guardando dalla mia parte e fissando il tavolo senza veder nulla, simulò dopo il sonno una sonnolenza che lo rendeva in qualche misura distratto, persino nei confronti di quella testa che si sporgeva tra le ginocchia dell’uomo seduto. Questi però, mio padre, mentre con un colpo della mano batteva sul tavolo il ventaglio delle carte facendone un mazzo, si chinò sotto il tavolo con l’altro braccio e si liberò dalle grinfie del figlio, azione cui la sua voce diede il là dall’alto, in quanto la fomentò e (con altre parole) la sparse ansimando nel suo sproloquio, giacché non poteva più ammettere, quant’era vero che era seduto qui, che la sua pace domestica venisse indebitamente turbata e addirittura profanata da un intruso e da un profittatore. Continuò a redarguire i presenti, senza però che neppure dal seguito risultasse con certezza chi o che cosa gli pareva talmente increscioso da non permettergli di dominare oltre la sua indignazione; non contento di ciò ingiunse a tutti di aprire bene le orecchie e di far mente locale alle menzogne e alle falsificazioni che venivano loro propinate oggigiorno, tali, predisse, che il vicino doveva tener d’occhio il vicino, e il marito la moglie, per non svegliarsi una mattina e trovarsi i granai e le stalle devastate; perché questo, spiegò, non sarebbe stato per loro un dolce risveglio! Gioca! gridò poi bieco, rosso all’inverosimile, strane chiazze sul viso. Bisogna andare a fondo! gridò concorde il Giocoliere. Si capisce! gridò il suo partner. Ma le carte le hai date tu, si scagionò sommessamente l’ultimo dall’ingiustificato rimprovero. E le hai date male! lo spalleggiò il Giocoliere. Se tu avessi alzato bene! disse mio padre scaricando il biasimo nel senso delle lancette dell’orologio. Alzato bene! ebbe l’insolenza di difendersi il partner, come se dipendesse dall’alzare! Ancora una parola! gli fece capire minacciosamente mio padre. Veniamo al dunque! disse l’ultimo. Al dunque! intervenne il Giocoliere. E senza indugio! chiarì il partner. Gioca allora! cedette infine mio padre, dopo aver spavaldamente squadrato per qualche tempo un giocatore dopo l’altro. Feci pervenire un segnale a mio fratello; gli feci pervenire un secondo segnale; balbettai per così dire i segnali. Poi diventai un segnale io stesso, caricandomi il tavolo sulla testa e sulle mani aperte e puntellate contro le spalle; unii i piedi tallone contro tallone e ne divaricai le punte; le palme si contrassero; quando mi sbirciai le braccia oltre le guance, potei vedere attraverso la camicia i muscoli tremanti. Le ginocchia si appuntirono sbiancandosi, vidi le dita dei piedi sovrapporsi e perdere il terreno, sentii nei genitali, appena il tavolo si staccò da terra, gli strappi della paura, e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Alzai da terra il tavolo con le sue quattro gambe giusto di quel tanto per cui gli uomini avrebbero potuto infilargli sotto le scarpe e per cui il tavolo, se l’avessero desiderato, avrebbe potuto stare in piedi sulle loro scarpe. Ma quando, con la testa pesante, mi voltai verso mio fratello, il tavolo sdrucciolò di lato e mi scivolò sulla spalla; sentii che si inclinava e toccava terra con due gambe. Allora abbassai la testa, ed esso toccò terra anche con le altre gambe e vi si posò come prima; solo le somme di denaro sopra di me tintinnarono e risuonarono un poco, come gli uomini si raccontarono in seguito. A chi tocca allora? gridò sopra di me mio padre, già, a chi? gridò il Giocoliere, me lo domando anch’io! gridò il suo partner, tocca a te, fece tacitamente capire l’ultimo, a me! gridò il Giocoliere, per me è un mistero! gridò il suo partner, su, da’ le carte, disse l’ultimo dissipando sommessamente i loro dubbi, poi non lasciò parlare più nessuno, di modo che si arrabbiarono assai e per tutta la loro vita non ritrovarono l’allegria.

La parola «nascondersi»

Vorrei nascondermi. Quindi vado a nascondermi. Mentre cammino penso a dove nascondermi. Poi penso che non sono io a camminare, ma sono questi piedi sotto di me, e che non sono io a pensare, ma il mio cervello pensa; infatti, se si pensa che questi piedi mi appartengono, che questi che camminano sono i miei piedi, allora non posso essere io quello che cammina, e anche il cervello che pensa in quanto mio cervello non posso essere io, perché è il mio cervello, perché il cervello è mio, e quello che è mio non può essere me. Non posso essere io quello che sta pensando. Non posso nascondermi. Il mio cervello ha pensato se io possa nascondermi agli altri; ma io non posso nascondere me stesso, perché una cosa non può nascondere se stessa: io non posso nascondere me. Dunque anche il mio corpo non può nascondersi; non può nascondere se stesso; o io posso nascondere il mio corpo, oppure il corpo può nascondere me; ma il mio corpo non sono io: questa è la ragione per cui non posso nascondermi. Però posso divertirmi; siccome non so cos’è io, e soprattutto non so cos’è me, posso divertirmi decidendo di simulare e di fare come se non mi domandassi nulla, come se sapessi che cosa sono, per poter apparentemente cominciare da un punto e nascondermi agli altri senza che per il terrore che invade le vene i piedi non riescano più a sostenere il corpo. Mi prendo gioco di qualcosa, oppure, mentre cerco il nascondiglio, mi prendo gioco di me stesso e mi diverto. Mi diverto, mi nascondo, mi domando chi io sia mentre faccio come se potessi domandarmi. Intanto il mio corpo viene nascosto dai piedi. A me stesso non ho bisogno di nascondermi, perché non posso vedere me stesso; infatti sono cieco, vale a dire, i miei occhi sono ciechi, vale a dire, i miei occhi non sono occhi, vale a dire, in un certo senso, io non sono. Però, mentre mi nascondo, posso facilmente prendermi gioco di me e dimenticare me stesso.

L’atrio

«A quest’ora si può ancora trovare vuoto l’atrio del cinema; la donna che vende i biglietti con cui i posti a sedere vengono affittati per la durata del film è venuta nell’atrio già prima, credendo in buona fede che adesso, forse un’ora prima dell’orario d’inizio, talune persone desiderassero di entrare in questo ambiente fresco e areato e ci facessero un giretto e osservassero i manifesti e le foto e in base alle espressioni dei volti riprodotti concludessero che si tratta di una commedia o di una tragedia. Ma poi, dato che gli attesi non sono venuti (quale ne sarà stato il motivo?), o si è addormentata nel suo gabbiotto di vetro, l’avambraccio come dimenticato sulla cassa, le labbra al suo interno strette e senza suono, il secondo braccio, che pende floscio dalla spalliera dietro di lei, come perduto a causa della fatica del sonno, oppure se n’è andata e andandosene ha dimenticato di chiudere a chiave la porta. Si sa che nell’atrio fa fresco; così almeno sembra a chi vi muova i primi passi. Ora è possibile addentrarvisi, perché l’atrio è vuoto. Non si sente, questa è l’espressione, volare una mosca. Ora è possibile sperimentare le possibilità di sedersi sulle singole panche e intanto decidere le azioni ulteriori. Le punte delle dita, quando si incunea il corpo tra i tavoli e le panche piallati e laccati con vernice incolore, disegnano sulla vernice quattro strie di sudore con quattro margini che evaporano. Ora, lungo la parete, incastrati tra la panca e il tavolo, si ha l’occasione di meditare sulla situazione. Uno farà questo, l’altro non farà niente; l’altro non fa niente mentre siede tranquillo dietro il tavolo. Nessun rumore disturba il seduto, il fresco emana benefico dal muro, risalendo dal tavolo colma anche le sue dita, che giacciono sparse lontano da lui come se se le fosse svitate. Le premesse gli sono favorevoli: seduto com’è, ha ancora tempo; qui, seduto nel suo angolo, ha disteso, così si dice, le gambe davanti a sé, qui ha la possibilità di difendersi da ciò che gli avviene; può sfruttare al massimo il lasso di tempo che dura dal momento in cui è entrato fino al momento in cui entreranno i primi spettatori, e quindi lui dovrà andarsene, sprofondandosi nei suoi pensieri, affinché questi possano mettersi d’accordo amichevolmente. Il silenzio (questa è la seconda espressione di cui si ricorda) romba nella sua testa. Mentre è seduto e si ricorda, ogni tanto il suo viso si apre ed è svelto a richiudersi su se stesso; invece di pensare emana, incessantemente, mentre sorride e mentre non sorride, nuvole di calura verso il tavolo, la panca, il muro e l’aria intorno a sé, finché i primi spettatori svegliano la donna bussando al gabbiotto e lo scacciano dall’atrio.»

L’impianto d’allarme

Il proiezionista, una bottiglia di birra tra le ginocchia, il proiezionista, tre fette di pane stratificate tra le dita, tre fette di pane stratificate nella bocca che macina sgangherata, il proiezionista è disteso su tre sedie o su due sedie e uno sgabello più piccolo, è disteso nella sua cabina sul retro sopra il giardino, la bottiglia vuota con le reti di schiuma è posata dove è posata, oppure è deposta nel luogo in cui si depositano le bottiglie vuote, sotto l’uomo o altrove. Dorme oppure non dorme, ha bevuto o è rimasto sobrio, ma, sia che dorma o no, di sicuro in bocca continua a masticare il suo pane, e se è vero che fino a ora ha dormito, ora non dorme più. Però, anche se non dorme, non sembra ancora del tutto sveglio quando si mette in piedi rollando e barcollando e dal tavolo a cui è stato seduto e su cui ha incollato la pellicola avanza verso il nastro del sonoro. Si dà la sveglia girando l’interruttore con le dita, di modo che il nastro, muovendosi, gli sfiora le unghie e lo fa trasalire strappandolo al dormiveglia. Ma se questa sensazione sabbiosa sulle unghie non è bastata a destarlo, provvederanno (questa è la terza espressione) l’altoparlante della cabina e l’altoparlante parallelo della sala dabbasso, che bramiscono attraverso le loro membrane la risaputa musica che precede la proiezione di un film, a strappare il proiezionista al suo sonno. I suoi movimenti, che lo spingono tra i due apparecchi di proiezione verso la feritoia intermedia, sono però rimasti fedeli a se stessi; soltanto dal cigolio dei denti, che nel mordere adombrano le guance con l’osso mascellare, si può leggere, come unico segno del suo risveglio, una più energica masticazione. La ribaltina aperta e orizzontale sul cranio, spia la sala dal boccaporto: vede, una dietro l’altra, le quindici (o più o meno) rotaie interrotte da intervalli neri degli spigoli superiori delle spalliere, azzurre a causa della luce lilla che piove dal soffitto di vetro opalino, presso le uscite arancioni e viola a causa delle luci rosse sopra i battenti delle porte. Nessuno degli spettatori è ancora entrato nella sala, sebbene la musica già esorti all’ingresso. La stufa rotonda in mezzo alla parete senza porte, questa è la quarta espressione, ha un luccichio metallico. Lo schermo e il podio davanti allo schermo vengono per il momento esclusi dalla descrizione; la placida tenda rossa davanti all’ingresso, annerita da un lucido grasso sul bordo inferiore, si gonfia pigra ogni volta che all’esterno uno degli spettatori oppure uno che deve annunciare qualcosa a voce alta entra nell’atrio, e ogni volta che coloro che sono entrati abbandonano di nuovo l’atrio a gruppi; la conversazione dei rimasti nell’atrio è tuttavia mirabilmente pacata e tranquilla; la ragazza al buffet vende i suoi dolciumi, la sua voce e le sue parole, a causa della specificità dei loro suoni che spiccano nel ronzio uniforme delle voci degli spettatori, sono comprensibili a senso fin nella cabina di proiezione; tuttavia il proiezionista, siccome la mela che mangia gli stordisce le orecchie col suo crocchiare, non ha sentito nulla dei discorsi della ragazza. Allo stesso modo anche la domanda che gli è stata posta nella cabina di proiezione dev’essergli posta ripetutamente, mentre, estratta la testa dalla feritoia, arretra nella stessa posizione inclinata, la vacua visione della sala ancora negli occhi. Che cosa vuol dire l’odore di colla, che cosa può voler dire quel sibilo nell’apparecchio; è forse una lima con cui egli raschia ancora una volta la pellicola tesa nella pressa? Mentre dabbasso, al di là della tenda, un’altra ragazza accavalla pigramente una gamba sull’altra e rosicchiandosi le unghie coi denti le prepara a strappare i biglietti, di sopra il proiezionista fa cenno al suo visitatore di sedersi sullo sgabello, e l’altro può recepire la sua spiegazione con orecchio disponibile. Il proiezionista e il suo visitatore si conoscono da giovani. Spesso il visitatore si siede qui, sebbene l’ingresso sia vietato ai non addetti, e masticando come il proiezionista ascolta il film proiettato per ammazzare il tempo. Oggi però domanda, sollecitato da questo primo fitto ronzio fuori in strada, che non è in grado di spiegarsi da solo; intanto la sua mano dietro di lui incide delle scanalature nelle pozzanghere di mastice rovesciato, che poi, quando si tiene la mano davanti alla faccia, ha un sentore di colla e di vernice. La sala è ancora vuota. Che cosa, domanda il visitatore torcendosi le dita in un fazzoletto, può avere indotto la gente a non entrare ancora nella sala?

Sullo schermo è visibile solo un’innocua immagine che pubblicizza una merce; la scritta leggibile sotto di essa, col nome dell’impresa commerciale, viene inoltre sottolineata per le orecchie dall’altoparlante dell’audiovisivo. Il proiezionista, questa è l’ultima espressione, alza le spalle; affonda i denti nella mela resa gommosa dal sole, di modo che le labbra si rovesciano, e incidentalmente risparmia alla sua bocca le parole della risposta. Ora la tenda rossa si gonfia e si sgonfia con veemenza; attraverso la porta che si apre verso l’esterno i compratori dei biglietti abbandonano l’atrio in buon ordine ma di buon passo; la donna del gabbiotto apre la porta di vetro, dopo aver ripetutamente udito il ronzio, e senza che la sua andatura o i suoi gesti tradiscano alcuna emozione abbandona per ultima il cinema. Il proiezionista, che, la testa infilata a scopo di osservazione sotto la ribaltina, china sulla clavicola il mento del viso che macina, le guance simili a mole, e lo volta a mezzo sopra la spalla, potrebbe ora scambiare uno sguardo significativo col suo visitatore; non dovrebbero lasciarsi andare a un colloquio. Senonché il visitatore diventa ciarliero e si atteggia a una vistosa ed esagerata spensieratezza, tastando nel cassetto alle sue spalle per impadronirsi di una mela e, mentre già vi affonda i denti, mettendo in imbarazzo il proiezionista con una domanda relativa alle luci di sicurezza. Di conseguenza l’altro domanda a sua volta, perplesso, se il visitatore stia parlando in generale. Cosa succede, domanda allora l’ospite in termini più specifici, se la pellicola prende fuoco? Nel proiettore c’è un interruttore chiamato farfalla antincendio, lo istruisce di rimando il proiezionista mentre si passa il palmo della mano dalla nuca alla laringe con un movimento rotatorio, come per tergersi il sudore, dopodiché infila la mano tra i bottoni della camicia: questo interruttore, erudisce ulteriormente, consiste di due pezzi collegati da fulmicotone. Se la pellicola brucia il fulmicotone si consuma, la saracinesca antincendio cade, in sala, spiega, si accende subito l’illuminazione antipanico, che non dipende dalla rete elettrica generale ma viene alimentata, annuncia il proiezionista grattandosi e corrugandosi la pelle del petto sotto la camicia, da una batteria; tale illuminazione è situata sul soffitto, più precisamente in due lastre di vetro scanalate, e consiste di due lampade di tot watt ciascuna che emanano un’accecante luce bianca. Ma sulle prime la sala diventa completamente buia? obietta interrogativo il visitatore inghiottendo in fretta il boccone per non perdere la susseguente risposta del proiezionista. Fatta eccezione per un eventuale collasso dell’intera rete elettrica, ribatte il proiezionista, esistono sempre le luci di sicurezza sotto le tavole del pavimento, che sono accese in permanenza; se però la rete elettrica fosse disturbata, ammette serio il proiezionista recandosi alla porta aperta che dà sulle scale e sputando in giardino la buccia della mela, per un temporale o per un altro evento insolito, allora la sala, dato che in precedenza solo la luce del film proiettato aveva richiamato gli occhi su di sé, di colpo (di colpo, raccoglie la parola il visitatore) si farebbe buia come nella piaga d’Egitto, e subito dopo sarebbe illuminata a giorno (illuminata a giorno) dall’illuminazione antipanico già menzionata all’inizio. Durante il film gli spettatori non avrebbero abbandonato con gli occhi lo schermo, illustra il proiezionista: e improvvisamente gli occhi verrebbero afferrati da queste tenebre egizie, di modo che lo spettatore non saprebbe dove ha la testa, con l’ulteriore conseguenza che non si raccapezzerebbe più e non capirebbe se sia seduto o disteso, se si trovi nell’aria o sott’acqua, per cui non di rado accadrebbe, deduce il proiezionista, che gli spettatori, per accertarsi di ciò che sono o anche solo del fatto di essere presenti, comincerebbero a fischiare, a strillare e a battere i piedi, come se questo fosse un mezzo per convincersi della propria presenza e della sua natura. Poi, nella luce, gli occhi dilatati per così dire esploderebbero, chiarisce il proiezionista: i dolciumi e la gomma da masticare attaccati al palato, aggiunge però subito attenuando l’effetto delle sue parole, se gli spettatori, che ormai difficilmente meriterebbero questo nome, li cercassero, i dolciumi cioè, non troverebbero che una sensazione di stantio nelle fauci e un blocco e un dolore negli esofagi. A conferma di ciò il proiezionista si esplora con la lingua il palato ove un vacuo solletico gli significa che un resto di mela dev’essere avanzato da qualche parte. Trova il resto nella mano. E se le farfalle antincendio non funzionano? C’è un interruttore di sicurezza collegato con la sede lampada, non si stanca di illustrare il proiezionista: col suo aiuto la sede lampada viene spenta, di modo che le saracinesche cadono e proteggono così la pellicola dal fuoco. Se tuttavia anche l’interruttore di sicurezza non funzionasse, dice il proiezionista prevenendo le ulteriori domande che il visitatore ha già sulla punta della lingua, fuori, accanto alla scala di legno, resterebbe sempre il cosiddetto interruttore di fuga, con cui anche fuggendo si potrebbe togliere la corrente alla cabina. Benissimo. Ma non è pensabile che non sia la pellicola a prendere fuoco, bensì magari le poltrone o i capi d’abbigliamento giù in sala, per esempio d’inverno in seguito allo scoccare di una scintilla dalla stufa riscaldata con la segatura? Oppure lasciamo stare il fuoco, rivolgiamoci ad altro: Non è pensabile che un bel giorno sulla sala strapiena cada una bomba?

Intanto il proiezionista si è di nuovo chinato sotto la ribaltina. Era ora, dice sollevato, quando torna a sentire i passi del popolo nell’atrio di sotto e vede poi il popolo stesso, dividendo la tenda, entrare in sala pallido e ancora senza parole. Il popolo non si precipita ancora all’uscita; perché non sa cosa lo aspetta.

Niente lo aspetta, dice il visitatore, già diretto alla porta delle scale, troncandosi i pensieri con cui ha scioccamente giocato. Ma siccome non ha pronunciato questi altri pensieri, il proiezionista, che si estrae un nocciolo da un dente con un dito e per giunta ha tutt’altro da fare (e la pellicola sfarfalla nell’apparecchio), non riesce a interpretare le parole dell’ospite.

Entrato in sala, il rado popolo che dopo l’assembramento davanti al cinema aveva perso la lingua ritrova la lingua per miracolo; le braccia sulle spalliere libere delle poltrone, un occhio rivolto di sbieco allo schermo, parla, senza che lui, il proiezionista, sia certo di comprendere, di una disgrazia o di un incidente o di un evento particolare verificatosi per strada.

La notizia

Perché corre così? Quando sente parlare di qualcosa che si sta verificando o che si è già verificato: c’è un incendio da qualche parte, a qualcuno è capitato un incidente: quando sente dire che qualcosa si è verificato, ma non riesce a capire di che cosa si tratti oppure non capisce il nome di colui che l’evento riguarda, ciò che ha udito lo inchioda al suo posto; dapprima considera se stesso la causa dell’assembramento e si tocca per capire se stia bruciando o se dalla sua testa, come è già successo una volta, sgorghi di nuovo il sangue. Quando in strada si leva una risata senza che lui ne indovini la ragione, si passa in fretta le mani sul viso o sugli abiti temendo che vi sia in lui qualcosa di ignobile o di ignominioso. Poi si accorge che la cosa non riguarda lui, o non lui personalmente, ma uno che forse gli è vicino. Nessuno di quelli che tuttora bordano la strada a schiere trova la forza di dirlo. Non c’è bisogno che interrompano la loro conversazione o si mettano a sussurrare quando lui si avvicina; basta che i loro discorsi, per ingannarlo, restino uguali a se stessi o addirittura si tramutino in una discussione esteriormente seria che coinvolge l’intera cerchia dei parlanti sul tema di una corsa ciclistica or ora sfrecciata attraverso il paese, laddove tutti si scaldano a proposito dei numeri dei ciclisti che al confronto non risulterebbero esatti. Lo distraggono dal vero avvenimento proprio perché, mentre li supera, aguzza i sensi per cogliere i loro discorsi. È preparato al peggio; tuttavia fa il gentile ed esprime col viso ciò che viene chiamato imperturbabilità, nell’ipotesi di render loro più facili le difficili parole; ma quelli continuano a parlare dei ciclisti, che non gli interessano. Non si lascia intimidire dai loro discorsi: a suo fratello è successo qualcosa; dietro la sua schiena infatti, mentre trascina lentamente le gambe e attarda il più possibile i suoi passi, i visi, lo sente, si girano di nascosto verso di lui; dai suoni più aperti e più comprensibili della conversazione capisce che finora hanno parlato come coprendosi la bocca con la mano; ma adesso una mano dopo l’altra viene lasciata cadere, mentre la bocca, senza doversi sforzare, continua a dire ciò che diceva anche prima. Ripetutamente, mentre cammina, frena i suoi passi e aspetta; ciò potrebbe dar loro il coraggio, pensa segretamente. Un saluto o un’altra parola indifferente non sarebbero un cattivo segno per lui; il fatto che fingano di non vederlo rende irrequieto il bastone nelle sue dita, tanto che quasi lo perde. Cercherà dunque una risposta. Caso vuole che sua sorella possegga un’osteria non lontano da qui.

La lite

Una lite gli vieta l’accesso alla casa di sua sorella. Il sole, che stimola gli animi, stimola un animo sonnacchioso fin dalla nascita al sonno, un animo brutale fin dalla nascita alla lite. Il sole, ardendo, stimola i sensi; i sensi stimolano la mente brutale fin dalla nascita. La mente stimola le mani, talché al litigante tremano debitamente le dita.

La lite è la guerra in piccolo, con la differenza che la guerra ha luogo tra le persone artificiali, gli Stati, in modo tale che quelle naturali in carne e ossa vengono usate solo come mezzi, mentre nella semplice lite i litiganti sono padroni della propria volontà e non sudditi della persona artificiale a cui obbediscono quando c’è la guerra.

Il duello viene descritto come elemento della guerra. L’essenza del duello è quella di costringere l’avversario, mediante un atto di violenza, a ottemperare alla propria volontà.

Dalla lite a parole, ancora priva di costrizione, nasce la lite a pugni, i quali vogliono realizzare costrittivamente la propria volontà.

Uno non può essere in lite con se stesso, a meno che non litighino in lui i pensieri.

Difficilmente la mano destra litiga con la sinistra, ancor più difficilmente un occhio con l’altro. Dev’essere possibile esercitare la violenza richiesta per la decisione della lite su una persona diversa dalla propria; questa seconda violenza si arma delle invenzioni delle arti e delle scienze per affrontare la prima violenza. La prima violenza fa lo stesso.

Il bicchiere sui tavoli è senza dubbio un’invenzione della scienza. I pugni sono dati in dote ai litiganti. Le parole che precedono la lite a pugni, le parole scagliate dall’uno all’altro, sono un’invenzione dell’arte.

In un’osteria esistono regole di comportamento il cui esercizio è reso delicato dalla gran quantità di fragili bicchieri. Queste regole di comportamento vengono infrante quando la lite a parole e a gesti diventa una lite a pugni. La violenza che dev’essere esercitata è nella semplice lite naturale il mezzo per imporre all’altro, il nemico, la propria volontà; per ottenere sicuramente questo scopo il nemico dev’essere privato della possibilità di difendersi: questo, si dice, è il vero scopo dell’azione bellica. Dall’infrazione delle regole implicita nella lite tra due avversari nasce in primo luogo qualcosa di irregolare, in questo caso lo spostamento di una sedia che uno dei litiganti, alzandosi, ha bruscamente appoggiato contro la parete dietro di sé; poiché di regola una sedia è accanto al tavolo.

Nuove regole nascono a loro volta da quelle vecchie infrante. Un combattimento nasce dall’infrazione di una regola con nascita di una regola nuova. Senza regola nessun combattimento sarebbe un piacere.

Ogni regola di un gioco nasce dall’infrazione di un’altra. Un combattimento degenerato diventa, mentre degenera, un incontro truccato, la cui irregolarità non diverte alcuno dei partecipanti.

In un combattimento leale tra i due che ci vogliono per la lite, per coloro che guardano vale la norma di non disturbare, se non con grida, i combattenti.

Intorno ai litiganti si forma un cerchio. Chi sopraggiunge deve attenersi al cerchio, mentre non ha il potere di attraversarlo. Chi si permette ugualmente di entrare nel cerchio nel quale i due si misurano con gli sguardi, viene tirato indietro per i vestiti; spetta a loro il diritto di fare quello che vogliono.

Delle domande si fa a meno. Quelli che se ne stavano andando fanno dietro front. I più piccoli si mettono davanti, i più alti di dietro.

A chi arriva in ritardo l’accesso è negato. Se cerca di farsi strada a spallate suscita avversione e ripugnanza; se dopo di lui arrivano altre persone non può più andare né avanti né indietro.

Prima che la lite a parole diventi una lite a pugni, subentra un silenzio. La proprietaria dell’osteria, le braccia puntellate sul banco intorno al viso, osserva gli eventi. Se nelle file retrostanti nasce un mormorio, gli ordina di calmarsi alzando le sopracciglia.

Ora è il momento che i litiganti, prima di venire alle mani, si girino attorno in punta di piedi. Uno dei litiganti è di fisico robusto; è anche più alto del secondo e pesante d’ossa e di tendini, di cui esibisce la potenza. Le sue mani vengono definite pale. Le ginocchia sono solide, i muscoli dei polpacci sotto i calzoni sono duri. Inoltre sembra disporre del maggior allungo. Le nocche dei pugni sono temute da tutti; il braccio dell’uomo, che avvinghia una testa forestiera, è conosciuto in paese. Ma sarà anche in grado di sopportare e di incassare? Gli spettatori dubbiosi intuiscono qualcosa che non li convince. Una lunga inattività, diversamente dall’altro, ha afflosciato il ventre dell’uomo, il suo tronco si è infossato, sulle cosce e sul petto si è stratificato del visibile grasso; sfugge a pochi che per giunta, a causa del bere, oggi non è in buona giornata. Riuscirà a muoversi abbastanza in fretta? Certamente il suo gioco di gambe è ancora rispettabile. Ma se l’altro sfrutta le sue debolezze ha certamente una chance, quantunque sembri mingherlino, con braccia ciondolanti e un viso insignificante e vacuo; con la velocità dell’occhio può probabilmente compensare la più lunga esperienza dell’altro. Pertanto i più scommettono sul piccolo e lo spronano ad attaccare con grida d’incitamento, mentre spregiano a gran voce il più grande e lo accusano di essere un vigliacco.

Tuttavia il combattimento finisce prima di cominciare.

Siccome però niente può finire prima di essere cominciato, il combattimento deve avere un altro inizio prima di questo inizio che non sopravviene: un inizio dei preparativi del combattimento, che si esprime nell’alzarsi dalle sedie, prima dell’inizio del vero combattimento in cui gli avversari vengono alle mani. Questo combattimento finisce prima che gli avversari vengano alle mani.

Caso frequente è che gli pongano termine le autorità, invalidando con le regole della legge le regole illegali del combattimento. Ma se avviene che gli organi del diritto non siano disposti, per tornaconto, a intervenire nell’evento, ecco che il diritto sguarnito è affidato a se stesso e chiunque, se il suo rappresentante autorizzato resta inattivo, può ritenersi autorizzato a intervenire in favore delle sue regole. Perché il diritto non si arrende al torto. La giustizia, a cui ogni ordine giudiziario deve aspirare, è, come si dice, cieca: perché dunque, se una disgrazia lo minaccia, non deve farsi avanti un cieco, che, dopo avere a lungo premuto e spinto all’ingresso, cerca di farsi giustizia con le sue mani in quanto si apre la strada attraverso l’orda con viso selvaggio, quasi non più riconoscibile dai circostanti, come se fosse diventato un altro e vedente, ad esempio con un braccio levato in verticale, pestando i piedi e urlando, e penetra brutalmente nel cerchio magico dei combattenti?

Una regola è stata infranta da un’irregolarità. Poi l’irregolarità, in base al tradizionale tacito accordo, ha ceduto il posto alla nuova regola del combattimento. Questa nuova regola è ora stata liquidata dall’irregolarità del cieco. Una duplice irregolarità, se non vi sono altre norme, ripristina la vecchia regola, tanto più che una forma esteriore che resti a lungo senza contenuto, come in questo caso, in cui i litiganti si sono solo girati attorno senza toccarsi, induce alla noia, e la noia a un cambiamento, ancorché le osservazioni di parecchi spettatori circa il disturbo arrecato al combattimento e l’espressione aggressiva dei combattenti, le cui dita si sono già sciolte dai pugni per afferrare, non promettano niente di buono per il cieco al loro centro che si rivolge balbettando alla proprietaria dietro il banco, di modo che per un attimo sembra che il combattimento sia sul punto di sottomettersi all’arbitrio del singolo; tuttavia il cieco, sia pur tartagliando, non spreca per loro nessuna delle sue parole: risoluto e incontenibile è penetrato attraverso l’orda con la bocca piena, senza rivolgere la parola ad alcuno cui non fosse destinata. Ora dice a sua sorella ciò che ha già detto a lungo a se stesso; le sue labbra vanno assiduamente su e giù, la lingua batte contro i denti, il palato schiuma di collera, i denti gli cavano fuori le parole.

Nel frattempo i combattenti tornano alla ragione e gli usano del riguardo; è una fortuna per lui essere cieco; altrimenti gliela farebbero vedere; ricominciano a parlare; quindi i loro visi necessariamente si spianano; e con un viso spianato non si può condurre una lite.

Poiché si insultano a livello di schermaglia e poiché anche gli spettatori, mentre avanzano, mentre si dividono, mentre se ne vanno, mentre tornano alle sedie, in coro definiscono vigliacchi i combattenti, la proprietaria non riesce a comprendere cosa vada dicendole il fratello. Con la mano gli fa cenno di avvicinarsi; poi gli fa cenno con la voce e si china verso di lui: dato il rumore vuole che le parli all’orecchio.

Con un occhio guarda il cieco, che è altamente meravigliato di se stesso e perciò perde la lingua, dimodoché si blocca e non riesce più a liberarsi dello stupore per quello che è successo alla sua lingua, con l’altro occhio guarda i litiganti, di cui il più piccolo riavvicina di nuovo la sedia dalla parete al tavolo, mentre quello grande, come dopo un’impresa, si lascia cadere con fracasso sulla sedia roteando furiosamente gli occhi. La proprietaria, la mano sulla spalla del cieco, col dito disegna un sorriso nel vapore e nel sudore della macchina del caffè.

Però Sacramento, comincia quello piccolo, che adesso è in piedi accanto al tavolo. Santamaria, si proclama superiore quello grande. Sacramento è meglio, insiste quello piccolo. Santamaria, scrive con disprezzo quello grande su un portacenere di latta. L’avete visto quella volta Sacramento? grida quello piccolo chiamando i clienti a testimoni: quello sì che è bravo. Santamaria, sbadiglia quello grande. Sacramento. Santamaria. Sacramento. Santamento. Sacramaria. Sacramantia. Santamerto. Santrament. Santanto. Santro. Sand. Santamia. Stanto.

La guerra non è un passatempo. È un mezzo serio per uno scopo serio. Aumenta l’incertezza di tutte le circostanze e turba l’andamento degli eventi. La guerra è il regno del caso.

Il sogno

Una volta, di notte, sentii dire che mio fratello era tornato e giaceva nella rimessa dall’altra parte del cortile. Corsi nella stanza e svegliai il padre: Il fratello giace nella rimessa. È tornato. Alziamoci e andiamo da lui. Mentre parlavo, i vicini si erano introdotti dalla porta mormorando e si erano radunati alla destra e alla sinistra del giaciglio del padre, donde si chinavano su di lui che giaceva e si puntellava sui gomiti per uscire dal sonno. Poi sentii, sempre per sentito dire, che mio fratello si era ammalato. Il fratello è molto malato, scongiurai mio padre; e quando di nuovo lui si limitò a guardarmi, presi a girare attorno, passando da un vicino all’altro, e li scongiurai, alzando la voce, di fare il piacere di muoversi, e implorai con insistenza e glielo spiegai e mi torsi le mani senza orgoglio: Mio fratello giace ammalato nella rimessa sul carro a rastrelliera, venite, dobbiamo andare tutti da lui e trasportarlo qui nella stanza. Tuttavia i vicini, che avevano dei cappelli neri a punta da cui ricadevano dei nastri colorati, mi volsero le spalle e si assembrarono e parlarono perfidamente dell’uomo che giaceva immobile sotto di loro sul nudo pagliericcio, con dei calzoni stracciati che, «come le fessure tra le tavole di un porcile i porci addormentati», consentivano allo sguardo di scorgere il suo membro raggrinzito e floscio. Gli vedevo un petto magro e glabro e coperto di larghe macchie epatiche. Vedevo l’ombelico bordato di una sporcizia simile alla sporcizia dei pettini usati. Dato che le cose stavano così e che io continuavo ad aggirarmi nella scialba stanza implorando gli uomini, caddi preda di una collera incontenibile e di un incontenibile dolore, tanto che dovetti distogliere lo sguardo, e fuori dalle finestre vidi una notte luminosa e colorata, e attraverso la notte vidi slanciarsi un ponte che non avevo mai visto, e sopra il ponte vidi passare un autobus, simile nella foggia a quelli su cui certe aziende elettriche pubblicizzano le loro merci, e l’autobus era più lungo di un paese e più lungo di un lungo treno merci e cresceva davanti allo sguardo oltre ogni misura, tanto che il guardare non aveva fine. E di nuovo sentii per sentito dire che nella rimessa, di cui solo a istanti vedevo la zappa sepolta nella segatura e la catasta di legna disfatta, mio fratello era miseramente crepato; ma quando guardai, vidi le ruote del veicolo girare al passo, come per uno che vi camminasse accanto, o magari solo perché vedevo le nuvole migrare dietro i suoi vetri e deducevo dal loro movimento la velocità del veicolo; vidi la lunga e larga superficie del rivestimento di vetro divisa orizzontalmente in due metà da un piano d’assi d’abete appena piallate e impeciate di fresco, sulle quali, lungo disteso, le scarpe rialzate verticalmente e divaricate a partire dai talloni, oscuramente il fratello giaceva. Ma ciò che vidi adesso non era più al di fuori di me, e non era più tale che io non potessi sapere se fosse davvero così o se solo dormissi; non me ne separavano più nessuna differenza di luogo e nessuna distanza misurabile col metro pieghevole, per superare la quale dovessi recarmi dal luogo in cui ero al luogo in cui era ciò che adesso vedevo, per esempio allo scopo di scrivere con le dita sulla lamiera polverosa del veicolo quei segni che mi dimostrassero che ero là e che mi ero spostato dal mio luogo a un altro: ciò che vidi non lo vidi mediante gli occhi, né il cervello ne giudicò dandogli i nomi appresi, né fu piacevole o spiacevole per i nervi dai quali forse nascono le sensazioni: ciò che vidi non lo vidi con l’occhio, ma grazie al fremito delle cose inanimate stesse, che non sentivo più altre e distanti da me grazie al fatto che mi squarciavano le vene solo perché le vedevo, come se questa inanimatezza, in quanto per così dire non era più evidente all’occhio, per colui che la guardava senza gli occhi potesse fremere di dolore e trasmettere al guardante questo dolore estraneo, e come se quel ridicolo lamento all’interno di me stesso, che induceva i vicini a battersi le ginocchia e a piegarsi in due dal troppo ridere, fosse soltanto l’inestirpabile, interminabile lamento di queste cose: del nitido, ombreggiato profilo di gomma del pneumatico con dentro i granelli chiari del pietrisco che vi era penetrato, dei grigi schizzi secchi degli insetti impastati sui vetri, dei tendoni tesi tra le stanghe del tetto che tremolavano lentamente come nell’acqua, della scaletta di ferro abbassata sulla parte posteriore che ora sgorgava colorata dalla nebbia, delle ciocche di fieno avvolte intorno ai paraurti e al tubo di scappamento e trascinate sul cemento del ponte. Colui che giaceva sul letto sotto di me, poiché un tempo si era scaricato senza scrupoli in mia madre, veniva chiamato mio padre.

La sosta nel bar

Quando uno è ubriaco, va in giro e racconta la sua storia. Il destino di un uomo è quella sua storia che va a vendere di tavolo in tavolo quando è ubriaco. Non ha bisogno d’essere ubriaco di una bevanda alcolica o di un’altra droga; talvolta è il sole a confonderlo e a renderlo ubriaco, ancora più spesso è la sua stessa infondata stanchezza. Quando è seduto tra la gente la sua lingua parla eloquente dentro di lui, senza che per esempio oltre a questo caffè nero che ha davanti abbia preso anche un’altra bevanda, e lo sollecita a fare il giro del locale recandosi da ognuno, a poggiare il braccio, stando in piedi, su una sedia vuota e a raccontare dall’alto la sua storia al seduto, come se ne avesse avuto il desiderio da sempre. Riaggiusta la sua storia tra sé e sé affinché sia comprensibile agli altri, mentre sotto di lui le mani lacerano il cellophane del sacchetto e versano lo zucchero nella bruna schiuma del caffè da cui gli impatti dei cristalli fanno scaturire il caffè nero, sicché anche lo zucchero ora singolarmente versato dal sacchetto vuoto, non appena i cristalli urtano nel caffè attraverso la schiuma, a ogni impatto sembra nero allo spettatore. Poi si tratta di mescolare accuratamente la bevanda col cucchiaino inossidabile. Le parole non gli escono di bocca. Aspetta che qualcuno venga da lui e gli domandi qualcosa; desidera solo parlare un po’ con qualcuno; vorrebbe parlare del colore delle tappezzerie, della carta su cui si possono scrivere le lettere, vorrebbe sentire la sua voce uscire da lui e raccontare la sua storia, vorrebbe che anche tutti gli altri venissero da lui, al suo tavolo abituale vicino all’attaccapanni, e uno dopo l’altro gli raccontassero le loro storie orgogliose. Per la proprietaria del locale ha una richiesta: vuole da lei che gli porti un bicchier d’acqua; vuole che lei debba. Lui vuole. Lei deve. Motiva la sua volontà col fatto che lei è sua parente e perciò ne ha il dovere, come se questa fosse una motivazione sufficiente. Dov’è la lettera? gli piacerebbe tanto domandare. Quale lettera? La lettera di mio fratello. Sei ubriaco? Vorrei quella lettera. Tu menti. Mio fratello Hans ha scritto una lettera, su carta telata, su un brandello di carta da pacchi. L’ha scritta sulla morbida copertina di un quaderno, con una matita, su carta velina, sulla carta delicata in cui si avvolgono i panini. Stai di nuovo mentendo. No. Scrivendo era seduto in un’erba, in un’erba folta sul bordo di una palude, in un’erba di palude; il vento, mentre scriveva, scompigliava dall’alto i ciuffi d’erba. Ha cercato di ricalcare sulla carta le ombre degli steli; tuttavia si vedono solo delle righe confuse e storte, perché il vento continuava a strappare gli steli dallo stato di quiete. Non sei capace di smettere di mentire, fai sempre così. Per scrivere ha piegato in due la carta, affinché, siccome è sottile, la matita non la lacerasse. Dapprima ha cercato di scrivere nel cavo della mano, dato che era breve quello che voleva scrivere. Ma poi si è tirato a sedere, il vento gli ha gualcito la carta sotto la mano, ha continuato a scrivere su un cuoio, su un cuoio intriso di pioggia il cui disegno è impresso sulla faccia posteriore della lettera; col taglio della mano ha tenuto ferma la carta sul cuoio; senza alzare la matita ha continuato a scrivere da seduto, e il vento ha gonfiato delle bolle sulla carta umida. Sì, ha scritto sul cuoio di una valigia, sul cuoio di una borsa, sul bordo di cuoio di un sacco da marina; la matita è scivolata e ha tratteggiato la carta, ha lottato per formare parole scarabocchiate e pallide. Poi ha cominciato a cadere una pioggia sporca, oppure qualcuno che correva nell’erba paludosa gli ha fatto schizzare con le dita dei piedi queste gocce sulla carta. È stato con una stilografica che l’uomo ha scritto la sua notizia; poiché nella lettera queste gocce hanno fatto spandere intorno ai caratteri degli anelli azzurrini. È stato dunque in un’erba alta e folta, pensa tra sé, sotto un cielo già coperto; il sole avrebbe ben presto ingiallito la carta; il vento ha soffiato dall’alto e colpendo gli steli dell’erba e le foglie degli alberi li ha fatti avvizzire, e i capelli dell’uomo gli sono andati su e giù sulla testa. Si è disteso supino in queste alte, folte, ondeggianti ciocche d’erba, di cui il vento divorava gli steli; ha infilato le mani sotto le ginocchia rialzate, le ombre degli steli, ormai soltanto udibili, gli turbinavano sul viso. Ma questa non è la tua storia; questa è la storia di un altro. La sua storia personale gli sigilla i pensieri, quindi gli è tuttora oscura. Ora non vorrebbe più girare la testa verso la camminata di sua sorella, vorrebbe inoltre farsi cuore e rincuorato aprire la bocca e parlarle a voce alta. Intanto lei corre di qua e di là, fa scivolare le bottiglie di birra vuote e ticchettanti nella cassa dietro il banco, raddrizza, mentre va ai tavoli, le etichette storte sulle bottiglie piene e appannate, verifica negli specchi nascosti dagli scaffali, mentre solleva da un tavolo i portacenere e i bicchieri e con lo strofinaccio o col grembiule pulisce le pozze dal piano del tavolo, le spirali che le sue mani col panno accartocciato descrivono a partire dal centro, in un lungo avvitamento, fino agli spigoli del tavolo. Gli porta quanto ha chiesto su un vassoio tutto per lui e resta accanto alla sua sedia legandosi meglio il grembiule allo specchio, per così dire ai suoi ordini. Ora potrebbe prenderle il braccio pregandola di chinarsi verso di lui, e parlarle; con lingua di fuoco potrebbe raccontarle la sua storia come a una confidente. Affidandosi a lei potrebbe far sì che la lingua bloccata si liberasse e pigliasse fuoco. Ma si limita, e con voce sorda ringrazia per l’acqua. Più tardi (quando?), subito dopo, desidera fumare. Mentre la sorella gli apre il pacchetto col pollice e giudica il gesto sulla propria immagine appiattita, tocca a lui decidere: a quest’ora gli affari sono fiacchi, nessuno si muove volentieri dal posto o alza la voce arrochita per un’ordinazione; perché anche il giorno non si muove; per giunta dal suo tavolo lei avrebbe negli occhi l’uscita e la strada rimpicciolita, non le sfuggirebbe nessun evento importante. Ora gli infila la sigaretta nella testa reclinata in ascolto e gli dà fuoco con l’accendino. Ma neppure il fuoco è in grado di sciogliergli la lingua; si ricorda soltanto (o gli viene ricordato) che una volta un rapido fuoco fatuo azzurro fumigò dal cappuccio di un accendino. Nel pensiero il suo eloquio inciampa; non sarà capace di pronunciare questa o quella lettera o questa intera parola; gli manca l’abitudine della conversazione quotidiana; se dopo giorni e giorni percepisce da qualche parte, per un motivo insignificante, la propria voce, gira su se stesso insospettito e cerca l’altoparlante; il balbettio dei suoi pensieri (pensa di se stesso) gli inibisce la pronuncia. «Sì quella» dice. «Tu sogni» dice la proprietaria, mentre a sua volta aspira dall’accendino con la sigaretta, «loro te l’hanno data», si impappina lui nei pensieri, «una lettera commerciale» dice la proprietaria, «no non è vero no e no» dice lui. Anche gli altri nella stanza dicono e mormorano per se stessi le loro parole; uno dice al suo tavolo questo, uno dice al suo tavolo quello, un altro quell’altro, ognuno dice quello che ha da dire e quello che potrebbe dire agli altri. Grazie, dice infine il cieco verso l’esterno rivolgendosi con rabbia alla proprietaria, già tornata a lavare i bicchieri dietro il banco nell’acquaio schiumante. Chi ha un difetto dedica molto tempo alla gratitudine. Grato è chi ripensa sempre a quello che gli è successo. I suoi pensieri, pensa di se stesso, siccome sono così lontani da lui, siccome non lo toccano mai, lo annoiano in questo locale. Tuttavia questo è pur sempre un rifugio in cui potrebbe ammazzare il tempo fino a sera; a casa adesso sarebbe solo; la finestra si potrebbe opportunamente chiuderla. D’altra parte fra breve deve arrivare un altro autobus; potrebbe andargli incontro verso Übersee. Va via e va verso Übersee. Va via e va a casa. Resta qui, dove si trova bene. Nuovi clienti lo sbarazzano del suo dilemma irrompendo selvaggiamente nel locale. Ritiene che siano dei giocatori di calcio. Mentre battono i piedi e con grandi gesti spavaldi si tolgono le giacche a vicenda, mentre col collo del piede tirano fuori le sedie da sotto i tavoli liberi e trascinandosi le sedie raspanti circondano il cieco da tutti i lati, in ogni direzione raccontano le loro storie. Dapprima, vedendolo sedere muto con pensieri ammutoliti, si sono stupiti di lui e, a loro volta muti, l’hanno scrutato dalla testa ai piedi; ma lui ha tenuto testa con facilità ai loro sguardi. Ora però l’ultimo, la giacca trattenuta dal pollice sulla spalla, fin dalla strada grida dentro la sua storia. Tutti serrano le file e stringono il cieco; ognuno gli racconta la sua storia secondo la sua abitudine; strillando l’uno, tossendo il secondo, con striduli fischi il terzo, il prossimo ridendo e rinfrescandosi la guancia con un bicchiere freddo e l’ultimo battendo sulla spalla del cieco in segno di apprezzamento, tanto che questi non può alzarsi e non può andarsene, per quanti tentativi faccia. Allora lo aiuta la sorella: andando da lui e prendendo su di sé tutte le loro storie con una pazienza cui contribuisce anche lo sguardo nello specchio, rende possibile al fratello, senza tuttavia concedergli nemmeno una parola di viatico, l’uscita dall’accerchiamento.

Egli si ritrova dunque per strada nella sua strana ubriachezza. Si domanda se l’abbia meritato. Risponde positivamente, annuendo a se stesso col capo, senza remore. È stato scacciato da un locale. Questa cacciata è una delle sue ultime storie di questo giorno. In novembre a quest’ora è già quasi buio; un novembre, quando cercò suo fratello mentre l’altro fratello giaceva annegato sotto il drappo che il suo viso aveva scambiato col sacco terroso, a quest’ora era già quasi buio; nevicava ancora. Fino a quel momento non era successo niente.

Il dilemma

Non gli succede niente di speciale; ciò che gli capita non è un avvenimento speciale, ma uno di cui ritiene che sia comune a tutti. Perciò parla di quello che gli avviene come di qualcosa che succede anche ad altri: anche in altri i pensieri potrebbero disputare sulla direzione da comandare ai piedi. Di speciale in lui c’è solo la sua cecità, e questa forse è solo simulata. «Si» viene usato in luogo di «io», «io» viene usato in luogo di «si», «lui» usa lui in luogo di «io». Oppure è questo un inganno con cui invano tenta di proteggersi, rendendo generale una questione che riguarda soltanto lui? Se pone a tutti una sorta di problema, dicendo astutamente: Io (apparentemente intende «chicchessia», «uno qualunque») sono fermo per strada e non so decidere dove andare, diciamo (apparentemente intende un esempio) al cinema, dove presso la fermata è appoggiata una bicicletta che potrei spingere fino a casa, oppure (apparentemente intende di nuovo solo un esempio) nell’altra direzione sulla strada maestra, incontro all’autobus in un altro paese, e i miei pensieri sono in lite tra loro: come posso decidere questo dilemma?, può capitargli come già spesso gli è capitato, se fa finta che uno possa porre questa domanda per tutti, di cadere, dopo l’inizio apparentemente generale del problema, nella fossa della propria coscienza; infatti non è un esempio valido per tutti, quello che viene citato qui, ma qualcosa che soltanto per lui è reale ed efficace e che riguarda lui soltanto; e se nel «problema» dice «io» in modo tale che questo «io» venga inteso dagli altri, come in ogni problema, alla stregua di «uno qualunque», tuttavia intende veramente se stesso. Crede di proteggersi dalla sua storia designando eventi attuali, come l’attualità richiede, con una generalizzazione. Ma ricadrà sempre su se stesso, e da ultimo non uscirà più da se stesso. Può dire e cominciare: Devo «io» andare in questa o in quella direzione, se. Enumera anche i motivi favorevoli e contrari per ambedue le direzioni; ciò sarà ancora generale e poco sospetto. Tuttavia lasciategli enumerare i motivi contro una di esse. Fino al paese di Übersee ci sono tot chilometri, la strada fin là occupa tot tempo, «io» ho tot soldi per il tragitto di ritorno con la corriera. Fin qui le sue valutazioni verranno ancora accettate. Ora ci si attendono dati più precisi, per poter calcolare. Visibilmente lui vorrebbe ricavarne un problema economico universalmente valido. Come me la cavo meglio, se tengo conto di questo e di quello. Ma lasciate che calcoli ulteriormente: Ora mi viene in mente che per il viaggio di ritorno non ho mezzi; inoltre con la mia ubriachezza darò nell’occhio ai passeggeri, anzi, comportandomi male, punterò intenzionalmente a questo risultato, dimodoché l’autista si fermerà in aperta campagna per scacciare dal veicolo il passeggero cieco. Posso evitare quest’onta dicendo che volevo dar nell’occhio solo perché qualcuno, se per caso si trovava sul veicolo, potesse vedermi e anche riconoscermi? Devo davvero recarmi in quel paese? Quando dice questo, col suo problema sconnesso e insensato è già precipitato, attraverso le tavole marce, nella sua propria fossa; poiché i suoi dati non sono più generali, costituiscono un problema solo in apparenza, senza però che con essi sia possibile fare un calcolo, perché non possono essere riferiti l’uno all’altro né rappresentati da simboli sicuri: quanto accadrà tra persone che, come suol dirsi, non basano le loro azioni sulle leggi di natura, è incalcolabile. Bisognerà dunque lasciare la risposta a lui stesso, che del resto non se l’aspettava né la sperava da nessun altro. Andrà al cinema e attraverserà il paese riportando a casa a mano la bicicletta del fratello; se questi smonta dalla corriera, i testimoni oculari glielo racconteranno. Non andrà: è già andato ed è là; le valutazioni l’hanno nel frattempo trascinato dal locale al cinema. Proseguirà. «Io» proseguo. Ma sono possibili anche altre soluzioni: per esempio avrei di nuovo potuto aspettare la corriera davanti al muro del cinema. Che cosa mi ha trattenuto dal farlo? Questa domanda non è più un problema, ma un enigma che non diverte nessuno. Come può un estraneo sapere che quella volta, quando i suoi fratelli scomparvero e prima di ciò che sarebbe avvenuto, si aiutò a dormire cacciandosi in gola del pane nella speranza di trovarli là al risveglio, così come adesso, andandosene, esclude dalla sua coscienza il luogo in cui suo fratello, che lui aspetta, potrebbe arrivare, come se il semplice fatto di aspettare davanti a quel muro significasse per lui una disgrazia e come se potesse cambiare questa cosa, o qualcosa, allontanandosi di lì con la bicicletta?

Il ritorno a casa

Sebbene cammini sul lato giusto, sulla giusta strada, nella giusta direzione, crede costantemente di smarrirsi. Le voci che lo salutano, a cui bada di restituire il saluto, gli danno sollievo: se viene salutato l’avranno riconosciuto, e finché lo riconoscono non può ancora trovarsi in un territorio estraneo. Si persuade ad alta voce che la sua preoccupazione è ridicola, e ride di se stesso ogni volta che si angoscia perché un altro è passato in silenzio. Da questo momento saluta sempre per primo. Quando percepisce i passi, cerca a tastoni in sé la parola che qui è consueta per il saluto; poi la cava come un cappello. Talora la sua ricerca lo blocca, tanto che si limita ad ammutolire rispettosamente quando vorrebbe salutare l’altro; la lingua gli scompagina le lettere e interdice l’uscita alle parole. Allora non gli resta che spremerle dal braccio nel pugno e dal pugno nel campanello stranamente stridulo. Il terreno gli brucia sotto i piedi. Si dice cose tranquillizzanti; di nuovo cerca di persuadersi che non sta percorrendo un suolo estraneo, e che, anche se stesse percorrendo un suolo estraneo, non ha bisogno di preoccuparsi di niente: perché tanto ci sono posti che: pensa, distribuendo le parole sui passi.

Si rimprovera il suo presentimento urtando sarcasticamente il pedale con la punta della scarpa; maledice malamente e sconciamente le sue mani che lo stanno guidando in un deserto, e bestemmia e dispregia con parole orribili il nome della sua famiglia. Tuttavia non si libera dei suoi pensieri, qualunque cosa faccia; la sua fronte, mentre medita, è rannuvolata; senza tregua si esamina sagacemente per scoprire dove si trovi ora, e si affida alla propria esperienza; cita perfino i numeri con lo stemma statale della strada per essere sicuro della sua via. Di qualcos’altro è però assolutamente incerto: caso vuole infatti che a poco a poco gli vengano a mancare le parole e i concetti per ciò che gli appartiene; le parti del suo corpo viaggiano in parallelo senza conoscersi: sotto di lui dei piedi strusciano sul pietrisco, un pugno conduce il manubrio di una bicicletta, un altro pugno batte un bastone sul paracarro; di nuovo gli succede come a uno che ci veda, ma a cui siano stati appena bendati gli occhi: non si orienta ed è preoccupato di smarrire la via; mentre avanza serpeggiando al margine della strada può tenersi solo alla bicicletta; ha l’impressione di camminare in un fango tenace o controcorrente in un letto di fiume. Per le dita dei ciechi, gli torna in mente, i fiumi, quando i ciechi vanno a scuola, sono rialzati dai fogli delle carte geografiche; vengono ricoperti di uno spesso strato di colla, in modo che le dita tastanti possano scorrere col fiume dalla sorgente al mare; anche i confini di un paese sono segnati dalle strisce vitree; spesso le sue dita si confondevano, quando non era capace di distinguere i fiumi dai confini.

Maledice la sua memoria, che gli fa dimenticare quello che ha intorno; giacché adesso non lo illumina alcuna carta geografica, su cui, malgrado la sua ombra nel frattempo cresciuta, non sarebbe nemmeno una cacca di mosca, ma sono i suoi passi a torturarlo; quelli che conosce senza riconoscerli, e che chiama i suoi passi: i suoi passi lo fanno deviare sempre più spesso, con la ruota anteriore che si ribella e si storta, dalla strada nell’erba. Ciò fra l’altro lo irrita per via del suo abito pulito, a cui è abituato a badare. Quindi bada a tenersi lontano dal telaio arrugginito; ogni volta che tocca il pedale col malleolo lo maledice dandogli del perfido, e l’ansimante ticchettare della catena intorno alla ruota dentata lo maledice più generosamente e fervidamente dandogli del padre.

Se si siede non potrà più alzarsi; ma se continua la strada, la strada lo annienterà. Preferisce andare; poiché, se si ferma, dalla pesantezza sprofonderà nella terra.

Una frase gli naviga lentamente nella coscienza, costante o discontinua a seconda se procede con costanza o discontinuità: fossa della calce, in fondo alla fossa della calce, sabbia in fondo alla fossa della calce. Riflette all’eventuale senso di questa frase; alle sue parole si aggiunge poi la stanza in cui sarà presto, non in parole tuttavia, semmai come immagine dell’ambiente col calendario di una società di assicurazioni sul muro, alla cui sommità addiziona le gocce di calce irrigidite che mancano ancora all’immagine. Presto sarà là. In una qualsiasi posizione sarà seduto davanti alla finestra ben chiusa. Quantunque sappia parecchie mete, solo questa lo attende davvero. Sarà là. A un tratto ne prova inquietudine, pur dicendosi che non ha nulla da temere; è inquietante per lui perché sarà come se la rappresenta nel suo intimo, e perché non può cambiare niente; anche se andasse altrove, dovrebbe prima essere sicuro della propria meta e stabilirla; se non andasse da nessuna parte, prima sarebbe sicuro di non andare da nessuna parte: sarebbe sempre sicuro prima di dove andrà e di dove sarà, e dovrebbe pensare: Sarò là, e quando vi giungesse dovrebbe sempre fare i movimenti pensati prima, udire l’udito prima, rappresentarsi ciò che si sarebbe rappresentato prima. Sarebbe diverso solo se andasse in un paese straniero, in una zona estranea e inospitale di cui non avesse mai preso coscienza e di cui non avesse mai saputo niente, né da un racconto né da una descrizione. Così invece va solo a casa e sa cosa lo aspetta. Laggiù ci sarà il calendario appeso alla parete; quando chiuderà la porta dietro di sé, il colpo d’aria lo farà dondolare e gli farà raschiare la calce del muro; questo rumore di una lima su un cartone gli agghiaccerà il sangue.

Non riesce a concepire che sarà in quella stanza.

Cerca di camminare regolarmente, così come prima del sonno respira regolarmente per potersi addormentare, per poter dormire. L’andamento della camminata, riflette, determina anche l’andamento dei pensieri; se cammina regolarmente resterà con la coscienza nel luogo in cui cammina e non correrà altri rischi; se inciampa o accelera il passo, o se la bicicletta imbizzarrita lo trascina nell’erba con sé, perderà la regolarità dei pensieri.

I piedi si incrociano; qual è di quale gamba; la mano sinistra non sa più cosa fa la destra. Come se avesse disimparato a muoversi, si dice confusamente: come se queste cose (intende la sabbia nella fossa e il calendario) avessero qualcosa a che fare tra loro.

Chiama a raccolta i pensieri e con essi, la mano tremante sul sellino, trasmette ai piedi i suoi ordini. Ma i piedi gli si rifiutano. Dato che ormai non sa più dove sbattere la testa, lascia andare la bicicletta, onde avere un pretesto per chinarsi e per darsi l’aria di lavorarci. Il rumore della bicicletta, prima che cada, viene chiamato uno stridere, il rumore dei raggi che subito dopo continuano a girare, un ronzare, il precedente rumore dell’impatto col paracarro, uno schianto.

Ora ha una buona ragione per far sosta. Tuttavia, mentre è ancora in piedi, si rende conto che dovrà mettersi a sedere rapidamente, altrimenti non potrà mai più emanciparsi dalla posizione eretta. È un uomo robusto; ha la forza di darsi una spinta e di trasportare il proprio corpo, la mano destra sulla spalla sinistra come un distintivo, fino al chiosco del latte; la bicicletta l’abbandona all’erba sul margine della strada.

Di solito ci sono i bidoni sulle tavole; ma adesso questo chiosco del latte è vuoto. È incerto se sedersi sulle tavole o sotto, tra le controventature incrociate sotto le tavole. La debolezza del corpo lo anticipa prima che abbia deciso, liberandogli le articolazioni e sistemandolo, mentre china la testa sul petto, nella controventatura. È stata fabbricata con le assi di scarto di una segheria, lungo gli spigoli delle quali sente ancora la corteccia sotto la mano.

È seduto di sbieco nel suo ricovero, sopra la testa le tavole la cui faccia superiore, dove di solito ci sono i bidoni, è ruvida e scheggiata. Desidera assai di poter appoggiare la schiena a uno dei montanti; forse in quel punto il sole non raggiungerebbe più il suo viso; teme però che se cercasse un sostegno dietro di sé le forze potrebbero abbandonarlo completamente, tanto che perderebbe ogni potere sul proprio corpo e cascherebbe all’indietro nell’erba polverosa e si sporcherebbe l’abito pulito.

Chi è stanco, una volta seduto stenderà le gambe davanti a sé per farvi scorrere il sangue: così ha fatto sinora anche lui nel corso di questa giornata: nella sua stanza, nell’atrio di un cinema, nella cabina di proiezione dello stesso cinema è stato seduto con le gambe distese. Ma ora è successo che, quando si è lasciato cadere fra le stanghe, o ha dimenticato o non è più stato in grado di stendere le gambe; appuntite e gibbose stanno davanti a lui, sotto, nelle scarpe, un poco aperte nella forma di una lettera dell’alfabeto; spingerle lontano sarebbe il consueto gesto della stanchezza; ma lui è già così stanco che non può nemmeno stendere le gambe; le suole, massicce e pesanti, gli si sono avvitate nella terra.

Non si cruccia della sua debolezza; anzi spera semplicemente e stolidamente che ridendo gli sia possibile liberarsene.

Ride a gola spiegata finché gli vengono le vertigini.

Ma la sua stanchezza non è, come aveva creduto, qualcosa che ha e di cui dunque potrebbe sbarazzarsi mediante un’attività come quella del ridere, ma è venuta da qualcosa che l’ha abbandonato; è una mancanza, pensa in cuor suo saggiamente. In quanto le forze l’hanno abbandonato, l’ha abbandonato l’ambiente.

Oggi è stato ripetutamente colto dalle vertigini; adesso, mentre la testa gli cade giù dalla nuca coi denti superiori scoperti, mentre cade e mentre non smette di cadere e mentre il vento della caduta gli fischia negli incavi spalancati degli occhi, pensa anche a tutti quei crolli vertiginosi che sibilando gli gettavano il cranio dalla nuca sul petto.

Si prende il tempo di respirare per salvare la faccia, ancorché sia ignominiosamente seduto sotto il chiosco del latte; il respiro risucchia il cranio verso l’alto e lo scaraventa all’indietro oltre il collo e lo sbatte contro uno dei montanti. La corteccia che lo ricopre gli fa male; ma non riesce più a muoversi: è questo possente chiosco del latte a imprigionarlo nel suo sfinimento; si ricorda stupidamente delle stazioni di un gioco infantile che cominciano con la stanchezza; si rammenta di alcuni gesti, di braccia e gambe contratte che, sporgendosi dalla verticale e diventando orizzontali, incarnano lo svolgimento del gioco; oppure è troppo pigro per ritrovarli: sa che non può dimenticare niente.

Si rammenta di un altro gioco. I bambini sono nei settori di un cerchio tracciato per terra; i settori significano i paesi e gli Stati, e i bambini, quando scelgono i nomi, prediligono sempre i grandi imperi mondiali, come se portassero fortuna. A vicenda ciascuno dichiara a un altro la guerra; subito dopo colui cui la guerra è stata dichiarata ordina l’alt agli altri che corrono fuori dal cerchio. Il suo grido segnala che bisogna aspettare ciò che farà. Si sdraia nel suo territorio ventre a terra, senza però poterne uscire con le dita dei piedi, e da sdraiato, tendendo le braccia, cerca di toccare uno degli altri; dai toccati pretende poi una pace imposta, che prevede una divisione del paese nemico a favore del vincitore, mentre in caso contrario si ricorrerà a mezzi più drastici, perché non è più tollerabile che la legittima sovranità del territorio statale venga disprezzata in un modo che chiunque giudicherebbe obbrobrioso; inoltre si diffida seriamente dall’immischiarsi negli affari interni dello Stato.

Non sviluppa ulteriormente i suoi pensieri; più li sviluppa, più profondamente vi si perde, e il suo dialogo con se stesso o con chiunque sia, facendosi disordinato e confuso, deborda dai limiti prestabiliti.

In fondo che cosa gli manca? Ha di che sostentarsi, la sua vita scorre su binari sicuri. È seduto sotto questo chiosco del latte e s’incatena caparbiamente al suo presunto destino. Di che cosa potrebbe lagnarsi? Contro che cosa digrigna i denti? Domani è un altro giorno. Anche dopodomani è un altro giorno. Perché è seduto sotto il chiosco del latte con questa faccia da funerale? Che cosa lo adira?

Si richiama alla ragione passandosi la mano sulla fronte. Poi si rallegra d’esservi riuscito. Ora si china un poco, e anche questo gli riesce, e passa e ripassa la mano sulla terra sicura; tasta e conquista con le dita un mucchio di pietrisco, una pietra liscia e rotonda nel pietrisco, una scatoletta consunta dalla pioggia che sporge dal pietrisco: così riconquista il mondo; ciò che tasta e ode lo aiuta nella riconquista del mondo che aveva perduto.

Spesso gli sembra davvero possibile andare tra la gente, aver qualcosa da dire; spesso, quando è in compagnia di molti esseri viventi, avviene che uno stato miserevole lo colpisca come una rogna; andrebbe tra loro con possanza e voce di tuono e li convincerebbe; tuttavia quello stato gli chiude la gola, tanto che è ridotto a mormorare e a belare. Ne è consapevole. A volte, quando si crede inosservato, si prende la testa fra le mani e si tappa le orecchie con le dita. Allora si sente parlare in un linguaggio non corrente, e percepisce con stupore la propria voce. Anche di ciò può rallegrarsi.

Non ce la fa più e ce la fa ancora sotto le assi. Senza sudore è inzuppato di sudore, come se qualcosa lo obbligasse a non restare fermo e immobile, ma a muoversi e ad andarsene. Tuttavia si rassegna al proprio smarrimento in quanto medita, oppure in quanto inganna se stesso fingendo di meditare. Ma non può aiutarsi neppure con questa illusione. Senza tregua ha l’impulso di allontanarsi da qui; non è questa l’unica via su cui qualcuno potrebbe passargli davanti.

Si cimenta con l’una e l’altra ipotesi; il pensiero della bicicletta, che per soprammercato dovrà spingere, paralizza la sua volontà. Si sforza di tenere insieme gli ingarbugliati pensieri; vorrebbe parlare e parlare; vorrebbe domandare se anche qualcun altro si senta così; parlando vorrebbe scavare in uno strato sotto cui non giunge. Spesso gli avviene di toccare caparbiamente gli oggetti e di non riuscire a impadronirsene; quando li tocca gli sfuggono e si difendono e si trincerano dietro una sorda parete attraverso la quale non può ascoltare né passare; poi improvvisamente sono questi oggetti ad abbattere la parete e ad afferrarlo e ad aggredirlo: prima l’acqua che cercava a tastoni non era acqua, e la parola che diceva non la diceva a se stesso né alla gente; ma adesso queste cose lo afferrano di propria iniziativa e gli si arrendono, tanto che lui, pur dominandole, non sa ancora, al pari di un neonato, difendersene.

Ciò che riguarda solo lui, pensa in cuor suo modificando i suoi soliloqui, gli è indifferente; ciò di cui vorrebbe parlare è qualcosa che ritiene destinato a una maggioranza.

Una volta ha visto per la strada uno che camminava e camminava.

I tempi lo confondono. Il passato, dice con una nuova massima protettiva, è morto.

Una volta, era domenica, vide un tale camminare per la strada. Lui andava con suo padre in questa direzione, l’altro veniva loro incontro; tra le gambe di quest’altro il fanciullo vide i calzoni gonfiarsi e svolazzare. Andarono in paese col calesse. Ma al ritorno vide ancora quell’uomo andarsene per la strada coi suoi calzoni svolazzanti, e domandò a suo padre, e suo padre gli rispose; senza sosta né tregua quell’uomo, quella domenica, percorse la campagna. Adesso pensa che tutto questo meriterebbe di essere discusso con qualcuno: un uomo che senza tregua percorre la campagna coi calzoni svolazzanti e rigonfi tra le gambe, e pensa che non potrebbe smettere di parlare di come le persone dimorino e vagabondino, e di come se ne vadano in giro, e di come si diano un gran da fare tra loro, e che di questo parlare la bocca gli traboccherebbe o gli si disseccherebbe, e che si potrebbe parlare di tutto come si parla di un uomo che ostinatamente percorre la campagna coi calzoni svolazzanti. Inciderebbe le sue parole con le unghie, per sfondare lo strato sordo e muto.

Doma questi sbrigliati pensieri rinfacciandosi la propria situazione. Dov’è? Che cosa intende fare? Si rimprovera aspramente. In novembre a quest’ora è già così buio che uno non vede a un palmo dal naso; anche adesso non vede la propria mano davanti al naso; la pelle della sua mano trasuda per via dell’afa un odore di maggiolino; di bruco, si contraddice, di larve di maggiolino fresche e bagnate. In un altro tempo c’è stato un sacco con questo odore, o forse è l’odore della neve fusa in quel sacco quello che gli viene rammentato, oppure l’odore di fango del fratello annegato; anche la sabbia smottata dai pendii, quella in cui credeva di trovare i fratelli che era andato a cercare, aveva un odore del genere sulle mani che scavavano.

Rimugina profondamente. Non può tirarsi fuori per i capelli dalla fossa dei suoi pensieri. Una volta, un’altra volta, gli viene in mente, ha visto dal balcone di casa, laggiù sul sentiero, la madre camminare e fermarsi. Sua madre ha risalito il sentiero e si è fermata. No. Solo più tardi si è fermata ed è rimasta lì come si era fermata. Dopo che inizialmente, per i suoi occhi che la spiavano attraverso il parapetto intagliato, da lontano, col canestro pieno d’erba davanti al corpo, per così dire aveva segnato pesantemente il passo, ma in seguito, col diminuire della distanza, per così dire si era staccata dall’appiccicaticcia, risucchiante carta moschicida dell’orizzonte e aggettando visibilmente dalla superficie posteriore priva di profondità aveva conquistato al suo corpo uno spazio visibile grazie ai passi pesanti ora efficaci, a un tratto è stata colpita da un fulmine a ciel sereno, è stata assordata da un tuono, è stata trattenuta da una fune, tanto che lui non ha più creduto ai suoi occhi. Di colpo l’aria si è fatta ghiaccio e ha gelato sua madre. Ripensa in cuor suo i movimenti dell’usuale fermarsi e li enumera; ma quel giorno nessuno di essi si è manifestato nella donna: non ha avanzato la gamba e non ha appoggiato il canestro sul ginocchio per riposarsi, anzi il canestro non si è spostato di un millimetro dal suo corpo ingrossato. Prima ha drizzato il capo e l’ha scosso in cerchio, forse per scacciarsi una mosca dal viso: in questo assurdo movimento è impietrita. Lui non l’ha chiamata; pieno di curiosità ha dedicato gli occhi al fermarsi e all’immobilizzarsi della madre. Gli pareva che un timore o una costernazione gonfiassero sempre di più la donna e la tingessero di nero. Quale pericolo può aver minacciato sua madre là sotto? Ha percepito qualcosa di funesto? Può aver visto qualcosa? L’epoca di allora viene descritta a grandi linee come un’epoca di pace, quantunque le persone, come suol dirsi, si invidiassero per un tozzo di pane, dato che spesso erano senza lavoro; tuttavia, così si racconta, senza leggi né giudici convivevano decentemente; taluni si nutrivano del miele che grondava dal leccio; i fiumi traboccavano del latte delle donne annegate.

Quante volte le palpebre gli hanno inumidito gli occhi, prima che sua madre rialzasse finalmente il canestro e roteasse il viso alla ricerca di qualcosa a lui invisibile? A quel tempo, rammenta, era incinta di suo fratello. Che cosa avrà tanto allarmato la madre su quel pacifico sentiero? Di che cosa sarà stata testimone quel giorno?

Smuove una scatoletta nel pietrisco; può distrarsi con essa sinché le forze gli ritornano. Taluni passeggiano per strada e gli passano davanti; alcuni lo salutano cordialmente, seduto com’è sotto il chiosco del latte, altri fingono coscienziosamente di non vederlo; nessuno tuttavia gli si avvicina e si china su di lui divertito e apre la bocca per domandare. Molti sfruttano la sera imminente, quando l’aria ridiventa pura, per ritemprarsi dai tormenti del giorno. Tutti approvano che lui stia seduto sotto le assi: lo trovano il suo luogo legittimo. Grazie ai rumori crescenti percepisce l’ondata delle macchine lanciate a tutta velocità; in una sente guaire un cane. C’è abituato. Questo è il rumore della frenata; questo è il rumore della manovella con cui una mano abbassa il vetro. Può essere, può non essere, pensa accanitamente nel suo nascondiglio; si schiaccia contro le stanghe e affonda le mani tra le ginocchia, perché non lo scoprano. Ma è soltanto la già descritta moglie del padrone, che con una voce sgrida furiosamente il cane e con l’altra recita affabilmente le sue domande sulla salute e la localizzazione dei suoi genitori. Lui si rende utile comunicando dal suo rifugio la notizia che i suoi genitori stanno probabilmente passeggiando nell’aria serotina. In coro col marito lei ne deplora l’assenza; il congedo è freddo; e sì che in altri tempi anche questa donna non era avara dei suoi favori.

Lui però non la conosce; gli viene in mente che non conosce neanche il marito. Come ha potuto abbassarsi a rispondere? È in una zona inesplorata. È in terra straniera. La vergogna per la sua mancanza di superbia e la forza centrifuga emanata dal suo rattrappimento tra le stanghe lo sollevano e lo rimettono su piedi che non sono i suoi. In un batter d’occhio ha trovato la bicicletta.

Mentre si enumera le massime che devono aiutarlo ad avanzare, di nuovo si sprona alla fretta. Non gli manca che un breve tratto di strada. Intanto i pensieri continuano ad anticipare i passi. Vede il suo corpo disteso sul letto come morto. Alla sera non possiamo sapere se al mattino ci risveglieremo. Si rammenta di una lezione di religione e dell’esemplificazione datane dall’insegnante: una sera un padre di quattro figli, proprio in questa zona, aveva cenato allegramente senza sospettare di nulla; ma al mattino i figli non l’avevano più trovato tra i vivi; a ognuno (!) poteva capitare come a costui. La sera dopo la lezione giacque a letto tra le fiamme e per la paura mangiò le piume infeltrite che sporgevano dalla coperta; i capelli gli si erano rizzati in capo e ciascuno di essi gli trafiggeva la pelle del cranio.

Eppure adesso potrebbe respirare di sollievo; i piedi estranei gli tornano utili. Potrebbe, se. Non riesce più a sbrogliarsela con la lingua straniera. Come insegue la propria ombra, così insegue le parole che lo attraversano senza intenderne una; cerca di dominarle pronunziandole con tono innocente e verificando la familiarità di quei suoni; ma gli suonano così insensati che rinuncia; in cuor suo applica alla fuga delle parole il paragone con la fuga dei ratti.

Dopo una notte di pioggia le rane morte giacciono sulla strada. Si martella in testa questa frase e con essa argina le altre parole. Talora si chiede se questa cosa sotto le sue scarpe sia una rana o solo dello sterco schiacciato dalle ruote. Nei giorni festivi lo stradino si riposa con la sua pala; il giorno dopo sarà difficile grattar via dall’asfalto le rane seccate e gettarle sul carretto. Di notte, alla luce dei fari, le si vede attraversare la strada, che per un’infinità di rane non ha rive, coi goffi salti che la natura ha loro dato come viatico. La loro posizione, quando sono sparse qua e là smembrate e sbudellate, somiglia a quella dello scalatore su una parete verticale. Il braccio destro dell’uomo è aggrappato in molte fotografie a un canaletto di roccia sopra la sua testa, il braccio sinistro, diagonale rispetto al destro, cerca un appiglio per il corpo che si appesantisce nei piedi; una gamba è piegata e alzata verso il ventre; l’altra gamba scalcia libera nell’aria sopra l’asfalto, che i fari della macchina in arrivo rendono dopo la pioggia specchiante e abissale. La parete è verticale; la strada è orizzontale. L’uomo è ancora appeso alla parete di roccia; il respiro gonfia e sgonfia il collo floscio; nell’affanno stacca con la punta della scarpa una pietra friabile che spaventa gli uccelli addormentati e li fa uscire svolazzando, gracidando e gracchiando dai loro buchi nella roccia. Quando il prossimo faro lo investe, si stira quant’è lungo ed emette dal muso bitorzoluto quel tacito grido che è segno di ciò che gli tocca.

Il camminatore con la bicicletta a mano si coglie sul fatto mentre, dietro questi pensieri, indulge ad altri pensieri che non gli competono. Non è affar suo ingiuriare il corso naturale delle cose al punto di lasciarsi sfuggire la bicicletta.

Adatta i suoi passi ai salti precipitosi delle parole in fuga.

Spesso, pensa in cuor suo, nelle giornate calde sciamano sopra la strada le cavallette alate. Quantunque lo scricchiolio legnoso e il raschio delle loro ali non lo terrorizzino più, non riesce a togliersi dalla testa il desiderio di scoprire perché seguano queste leggi; bruscamente lo assale il ricordo di una poltiglia verde, di una distesa di macerie di cavallette; le teste spiaccicate inchiodate alla strada e i corpi intatti che ne sporgono lo flagellano e lo pungolano a una santa e giusta collera, che gli trafigge il fianco e gli incava dolorosamente il diaframma come dopo una lunga risata liberatrice. Il colpo di vento di un’auto rianima i corpi raggomitolati delle bestie, le cavallette e le rane smembrate, e ne solleva i corpi e li sventaglia d’aria; quelle che non sono incollate alla strada col loro sangue e la loro carne corrono, rotolano, ruzzolano e si inseguono l’un l’altra a mucchi fruscianti nel risucchio che l’auto produce dietro di sé.

Basandosi sui rumori delle auto, riflette, può forse impadronirsi con le orecchie della zona che sta attraversando. Lungo il parapetto di un piccolo ponte sopra un piccolo torrente il rumore del vento della corsa e dell’aria spostata dalla macchina si rompe tra le grosse sbarre del parapetto similmente allo scoppiettio di un trattore che salga una collina. Tra le case che fiancheggiano la strada i rumori vengono compressi, limati e poi rilasciati; allo stesso modo, continua a pensare, il rumore dell’acqua tra due rocce è diverso dal rumore di quest’acqua quando il suo letto si allarga dopo la gola.

Si difende dai salti della sua riflessione. Basandosi sui rumori delle auto uno potrebbe dunque distinguere, dice a se stesso, se stia camminando tra i muri delle case di un paese o nella campagna non edificata. Potrebbe anche sceverare col solo udito gli edifici in legno come i granai e i chioschi del latte dalle abitazioni in muratura; in città le strade echeggiano diversamente che in un paese. Prescindendo dall’aiuto rappresentato dai rumori delle macchine, bisogna anche pensare che uno stato d’emergenza o una legge eccezionale proibirebbero o renderebbero altrimenti impossibile alle auto il transito sulle pubbliche arterie: in questo caso il camminatore dovrebbe fare riferimento ai rumori dei propri passi. Questo è possibile e serve allo scopo quando l’aria è fredda e conduce bene il suono, permettendogli di riconoscere con l’udito ciò che lo circonda in base all’eco e alla delimitazione dei rumori. Altra cosa è un giorno come questo, in cui a causa dell’afa l’udibile gli perviene all’udito come nel sonno; non può definire con esattezza nessuno dei rumori; e siccome sotto quei piedi estranei ha per giunta smarrito la via, non è in grado di dire dove stia andando. Cammina su una strada o su un sentiero campestre, attraverso una città o attraverso un paese, cammina in aperta campagna o all’interno di un insediamento, a piedi nudi o con le scarpe impolverate, cammina dove crede di camminare; per quanto lo riguarda cammina fuori strada.

La riflessione gli contorce il viso e gli ingarbuglia le gambe dichiarate autonome, costringendolo a basarsi unicamente su questa bicicletta, che ora gli diviene cara. Per tutto il tempo, lungo la strada, ha nascostamente e segretamente evocato il fratello dentro di sé e gli ha rinfacciato con sdegno le sue cattive azioni. Di lì a poco non è più riuscito a distinguere il mio dal tuo: dei piedi hanno avanzato sotto di lui, delle dita hanno caricato sulla spalla un sacco da marina, delle labbra hanno sussurrato parole straniere; si è dato a intendere che per il futuro la sua vita non sarà più colpita dalla cecità, si è finto vedente. È stato presuntuoso e ha talmente esagerato nella sua iattanza che adesso non sa più da che parte voltarsi; in tutta serietà giunge al punto di censurare se stesso, mentre cerca rabbiosamente di riavvitare la manopola malferma del manubrio; infine schernisce con astuzia il proprio destino parlando apertamente di ciò che si è proposto di fare.

Dice dunque.

Suo fratello ha detto.

Poi non sente più nessuno passare e dire qualcosa. Da vari segni si avvede che è sul sentiero di casa sua; inconsapevolmente, siccome la bicicletta ha scartato, è andato a finire sul sentiero di casa. Uno sguardo che spiasse dal balcone potrebbe facilmente scorgerlo attraverso il parapetto intagliato. A quale casa si dirige? A che genere di casa si dirige? Si dirige alla casa di suo padre, al quale il catasto, al relativo numero di mappale, conferma, in qualità di proprietario del terreno, la pubblica convinzione del suo diritto; il figlio a sua volta, per diritto di nascita, può attraversare il podere su questo sentiero privato. Chino sulla bicicletta, procede attraverso i possedimenti del padre. La chiave della porta di casa sarà in tasca. Impedisce tuttavia alle dita di cacciarsi in tasca; la chiave, che la donna gli ha passato in macchina, sarà là dentro, se ci infila la mano. Tiene per sé ciò che teme; non lascia libero corso alle dita precipitose. Poiché non sente ancora niente, comincia a diffidare del proprio udito. Scuote la testa, senza che peraltro i rumori cambino. Per prima cosa potrebbe acquattarsi dietro la bicicletta.

Quando smette di nevicare, così si fa tornare alla mente la storia, i richiami di colui che chiama si congelano sulla lingua. Quella volta ha errato per tutto il giorno, fino a sera, in un deserto pieno di neve, e chiamando e guardando è andato in cerca del fratello scomparso.

Enumera i luoghi in cui è stato: sono così tanti che i nomi gli si fondono insieme nella memoria.

Accelera i passi.

Non si sente niente.

Comincia a correre con la bicicletta.

La medesima sera in cui lui era diventato cieco, secondo la descrizione il fratello era tornato a casa una seconda volta. Si trattava di un sabato. In questo giorno, gli torna in mente, il popolo ha conservato l’usanza di spazzare i cortili davanti alle fattorie. Solo che quella volta nevicava. Un tale impedimento invalida un’usanza. Si pensi per giunta a un evento che dà agli abitanti di una casa ben altro da fare che scopare un cortile. Ebbene, suo fratello era ritornato nelle tenebre e aveva spazzato la neve dal cortile. Poiché in tutte le stanze abitate si piangeva ad alta voce la morte dell’altro, del fratello annegato, nessuno dei dolenti si è accorto del suo ritorno. È stato il padre a sentire i pesanti schiocchi della scopa dal sentiero che stava risalendo. Rientrava a casa dal paese o da altrove; più tardi, fuori di sé per una sbornia, raccontò di avere immediatamente riconosciuto il figlio scomparso. Ora il cieco riflette e si rompe la testa per capire come l’uomo abbia potuto riconoscere in quelle tenebre il fratello che spazzava. Soltanto la neve poteva far luce nel cortile. Le luci della stanza grande, in cui si erano assembrate le donne, danno verso il traliccio dell’elettrodotto; la luce della camera della sorella dà, è vero, verso il sentiero su cui il padre sta avanzando, ma questo chiarore rende probabilmente ancora più buio il buio sottostante al chiarore: il cortile che il fratello spazza è notevolmente più in basso della finestra illuminata della sorella, talché questo sostrato della luce, in cui la neve cade come nell’acqua, per gli occhi è impenetrabile e nero. Suo fratello è accanto alla parete della stalla. I passi del padre scricchiolano nella neve caduta di fresco, in cui le orme delle donne si sono già cicatrizzate. Per primo è il figlio a cessare di muoversi. Se lo immagina con la mano molto bassa sul manico, presso il fascio di verghe della scopa. Il suo viso è incrostato della sporcizia dei due giorni in cui è stato nascosto senza riparo in boscaglie e torbiere. Il cieco si domanda intensamente chi dei due abbia visto l’altro per primo. In questo momento, secondo la descrizione del padre e della sorella, il veicolo militare abbandona la strada e imbocca il sentiero che sale alla casa, albergando, come risulta dalle confuse indicazioni dell’interessato e dalla testimonianza di persona pratica del luogo, il già colpito da cecità. I fari devono voltare, illuminando il cortile e le mura e le finestre in fondo al cortile. Così il fanciullo con la scopa viene abbacinato e non è in grado di riconoscere il padre fermo a distanza; all’uomo invece viene confermato fin dal primo sguardo il ritorno del figlio. Anche suo padre ha descritto così lo svolgimento e il decorso dei fatti. Da lontano i fari sono così deboli che le ombre dei rami degli alberi interposti tra i fari stessi e i muri illuminati vengono alitate sui muri quasi come un vento, ancora senza forme e contorni; questa pallida, inappariscente nuvolaglia sul muro è solo l’ombra dell’ombra che deve ancora venire; infatti poi, mentre le ruote macinano la neve, con la crescente intensità della luce sul muro anche gli ostacoli di questa luce si disegnano sulla calce con crescente nitidezza; infine le ombre degli ostacoli travalicano le dimensioni degli ostacoli stessi. Visti dalla strada, gli alberi si trovavano ancora nel cono del raggio; ma quanto più la macchina si avvicina, tanto più i rami degli alberi sfuggono al cono di luce; la loro riproduzione sul muro si dilata e sopra il balcone, mentre la macchina passa sotto i rami, viene risucchiata dal buio. Ora viene proiettato sul muro ciò che interrompe il raggio di luce: la riproduzione dell’uomo, che non si è ancora mosso, si allunga e si ingrandisce sullo schermo; invece la riproduzione del fanciullo, che è in piedi contro il muro o forse sulla porta della stalla, si fa piccina e tremante nel tremolio della luce, di modo che il riprodotto viene inchiodato alla parete con la sua ombra dal chiarore sempre più concentrato e infine, quando la luce ne ha ingoiato la riproduzione, viene appiattito senz’ombra.

Alla vista di suo figlio l’uomo sarebbe stato assalito da un moto dell’animo che l’ha indotto a ficcarsi le mani sotto la giacca e nelle tasche. Non resiste a starsene lì con la bocca nulladicente e le dita nullafacenti: ficca dunque i grandi pugni nelle tasche, gira di qua e di là il cranio irrequieto e si strattona i calzoni come se avesse perduto la cintura; si muove nervosamente e senza senso, per liberarsi della sua insuperabile lontananza e distanza dall’altro; poiché, dirà in seguito nell’ubriachezza con altre parole, vedere suo figlio laggiù lo preoccupa. O nessuno distoglie lo sguardo e tuttavia i due non si guardano, oppure il padre elude gli sguardi dell’altro e si fruga le tasche con troppo impegno per poter percepire, mentre ne rivoluziona il contenuto, gli eventi che si svolgono intorno a lui. Nessuno fa niente del genere.

Se le mani di uno sono guidate dall’abitudine, pensa il cieco, può succedere che un incidente impedisca lo svolgersi abituale delle cose e lo renda consapevole, spaventandolo, delle sue dita che cercano; queste, se non trovano nella tasca ciò che stanno cercando a sua insaputa, vengono scioccate dall’incidente come da una scossa elettrica; subito dopo i movimenti delle mani si fanno avidi e precipitosi; le dita si scontrano selvaggiamente; il viso forzatamente calmo si spezza in due. Egli tuttavia reprime ancora una volta il proprio presentimento. Per giunta la finestra della sua stanza è aperta, di modo che gli sarà facilissimo fare di corsa il giro della casa ed entrarvi da dietro arrampicandosi sulla catasta di legna; correndo appoggerà la bicicletta alla rimessa; poi dovrà solo stare attento alla fossa di calce sotto la finestra; le assi potrebbero essersi spostate. Quando avrà chiuso le imposte della finestra sarà al sicuro. Ma ormai è arrivato al punto di non sapersi più difendere dalle sue dita.

Nel frattempo non ha badato alla macchina, la quale ormai dev’essere tanto vicina che l’uomo dovrà bene o male evitarla. Le ruote riducono in poltiglia il campo visivo tra padre e figlio. Sebbene l’uomo sia noto come uno che si esprime mediante imprecazioni e gesticolamenti di validità generale, nell’ubriachezza cita gli oggetti col loro nome: quando il veicolo gli passa davanti, così racconta, lo adunghia e lo azzanna alla gola, soverchiandolo, un terribile strazio, e questo produce nel suo stomaco una gran fame che riesce a domare solo staccando col pugno il berretto di neve che copre il paletto accanto a sé e affondandovi furiosamente i denti; a gesti, così il padre ubriaco difende la sua storia, non si può mica spiegare tutto.

L’uomo rientrato dal paese o da altrove se ne sta dunque là, là sta il fratello con la scopa, colui che pensa a queste cose sta qui; qui sta il veicolo in cui giaceva quella sera; gli viene concesso di immaginarsi i dettagli a suo piacimento. Mentre giace disteso sulla barella è di nuovo privo di sensi. I gesti che si compiono al cospetto di una disgrazia sono tramandati: le donne battono le mani sopra la testa, gli uomini, se sono seduti, si puntano i gomiti sulle ginocchia e si nascondono il viso tra le mani. Ma se sono in piedi, possono scegliere se recarsi in silenzio in disparte, dove nessuno può osservarli, o se restare radicati al loro posto. Un elemento favorevole è l’oscurità, che l’uomo può sfruttare per inchiodarsi i pugni alla fronte; la neve che cade favorisce a sua volta il suo strazio; le formalità dei portatori a fronte della mancanza di forma della disgrazia lasciano all’uomo il tempo di riprendersi; al contrario taluni rumori e odori aggravano la sua strana condizione e la rendono singolare per l’infelice: i cricchi del foraggio tra i denti delle mucche, i tremolanti guaiti che escono dalle bocche delle donne in preghiera, il sapore della neve sul palato frammisto al vapore di vino nelle budella, il rumore del cavallo nella stalla, che durante il resoconto dei soldati comincia a orinare spruzzando, sibilando e schioccando: tutto ciò rimuove provvisoriamente da lui le espressioni e i gesti dell’infelicità. Ma ben presto l’uomo non riesce più a sostenere questa calma sconveniente e quasi allegra e a un tratto, urlando in direzione della stalla, ordina al cavallo di porre termine alla sua prolungata evacuazione; ciò fatto, peraltro, come in seguito lui stesso dirà, avrebbe voluto schiaffeggiarsi sulla bocca. Invece, con qualche parola atona, fa entrare in casa per la porta aperta i soldati con la barella, che si appoggiano ora sull’una ora sull’altra gamba e durante la sua sfuriata si guardano attorno a disagio, e indica loro, mentre non finisce più di farsi cadere la neve dalle scarpe, la via del corridoio e della stanza, senza d’altronde rivolgere una sola parola ai figli, né a quello contro la parete della stalla né all’accecato sulla sua lettiga, di modo che questo cerchio può infine chiudersi con l’ingresso in casa di tutti.

L’altro cerchio non si è ancora chiuso. Lui non ha neppure cominciato a descriverlo passo per passo attorno all’edificio. Non riesce ancora a togliersi dalla testa la domanda relativa alla perdita della chiave. È come se, dopo la lunga rotazione che quella volta trasportò verso di lui il carretto e i due uomini forestieri col cadavere del fratello, la terra fosse arrivata al suo punto morto e gli avesse di colpo bloccato ogni movimento spontaneo; ora però, mentre ricomincia a muoversi di sua iniziativa, strappandosi di forza alla stasi e spingendo la bicicletta, gli sembra di camminare di nuovo, per la prima volta dopo tanto tempo, coi propri piedi, e di essere costretto per la prima volta, se si muove e cammina, a fare un uso consapevole della volontà: si è lasciato scivolare con la bicicletta giù per un pendio e adesso, in pianura, deve premere lui stesso i pedali.

L’edificio è immerso nella pace più profonda. Neppure i polli disturbano il suo cerchio. Corre con la bicicletta sbatacchiante nella direzione in cui presume la rimessa. Appoggiare la bicicletta alle tavole e riprendere a correre è tutt’uno; altra cosa è proteggersi con mani e piedi dal pericolo di smarrirsi. Questo è il pozzo presso la parete della stalla. Questo lo chiama l’angolo della casa. Ad angolo retto segue il secondo muro, lungo cui striscia con tutte le proprie membra. Tessendo e annodando la sua tela di ragno si muove lungo il muro e lungo le tavole del granaio. Questo è il gesso sulle sue mani. Queste cose per terra sono setole di maiale e ciuffi di capelli femminili tagliati. Si lascia cadere a quattro zampe. Non deve dimenticare la fossa. Suo padre e la moglie del padre si sfiniscono chissà dove nella vasta campagna. Desidera appoggiare la schiena al muro e palesarsi loro; vorrebbe mostrare che è lì; inoltre, se si appoggia al muro, niente e nessuno potrà aggredirlo alle spalle.

Tende l’orecchio da tutte le parti. Niente in vista. Ha l’urgenza di nascondersi. Il campo è scosceso, pensa. L’orizzonte è immobile. Dopo la giornata afosa la sera promette frescura. Domani a quest’ora, pensa, sarà altrove. Ecco la fossa della calce. Può aggirarla arrampicandosi sulla catasta di legna. Questa è stratificata in modo tale da permettergli di appoggiare il piede nei vuoti tra i ciocchi. Per prendere lo slancio si aggrappa con le mani al cartone sovrastante. È cosa da niente, davvero, alzare l’altra gamba, issare un ginocchio sul cartone e tirare su anche il resto del corpo con la mano che già cerca a tastoni lo spigolo del davanzale. Una volta ha cercato il fratello scomparso. Adesso giace esausto sulla catasta di legna davanti alla finestra aperta. Il luogo è scelto male per un discorso; per giunta è goffamente sdraiato sul ventre. Se la prende con se stesso per la stanchezza che minaccia il suo abito pulito col cartone intriso di pioggia. Si raggomitola. Si siede. Medita. «Nulla segnala nulla.» Siede sulla catasta di legna con la testa inclinata da una parte, la mano destra sulla spalla sinistra. Verso sera, pensa, il vento si leva e produce nell’aria centinaia di rumori che si distinguono tra loro a seconda degli oggetti del vento. Se nella notte ha piovuto, il giorno dopo il tempo secco incrosta sui sentieri le impronte di coloro che vi hanno camminato. La polvere che si è asciugata dopo la pioggia è bruna e riarsa; si sbriciola tra le dita ignude di chi vi cammina.

Un’altra volta, all’alba, ha camminato in una polvere bianca e fitta. Il colore della polvere, gli viene in mente, talora si adatta al colore del cielo come il colore dell’acqua; talora il cielo appare impolverato e pulverulento. Le singole gocce di una pioggia non ancora caduta aprono nella polvere del sentiero cicatrici vaiolose. Ma se sono cadute molte gocce, tanto che puoi già parlare di una pioggia, i tondi sassi gibbosi emergono dal sentiero e luccicano chiari, mentre la polvere del sentiero sembra ancora asciutta. Camminare su questo sentiero ti fa piacere. Trasale. Per fortuna la finestra è aperta. Un dolore pungente e tagliente gli infiamma le orecchie. Niente in vista. Digrigna i denti e ascolta a lungo intorno a sé. Il sangue fa pulsare il tempo attraverso il suo corpo. Dimostra il proprio ardimento aspettando. Poi il terrore gli risale in gola e i denti gli sbattono forte. Non si sente ancora niente. Il respiro gli crea dei problemi. Si aiuta fiutando e anelando come un cane. Sarà saltato, pensa. Le frasi che pensa risentono della sua difficoltà di respiro. Salta. È saltato nella stanza. Questo è il sicuro pavimento. Questo è lo scarico. Questa è la finestra, che adesso è chiusa. La finestra ben chiusa.

In altri tempi ha camminato a piedi nudi in una polvere. Camminò una volta. Ha camminato. Cammina. Suo padre aveva navigato per il canneto. Suo fratello risalì il campo correndo nella neve e tornò a infilarsi nel recinto di fil di ferro. Suo fratello ha viaggiato sul carretto. Si getta sul letto a testa in giù. Si accartoccia. Si rotola. Trema. Alza le braccia come se volesse volare. Gira come una trottola. Geme. Si stira.

Perde i sensi.

Ha un sogno a occhi aperti. Corre su un sentiero ancora fangoso dopo la pioggia. I piedi lo portano bene. Corre più in fretta che può, la sua testa è abbassata, le mani gli penzolano fino alle gambe. Il fango, prima di riempire d’acqua la sua traccia, sbadiglia e sospira dietro i suoi passi. È in fuga. Non sa perché fugge, e correndo si interroga sulla costrizione che lo spinge lontano. Non gli risulta di aver fatto qualcosa di punibile. Tuttavia, mentre corre, gli giunge notizia che dietro una radura suo fratello l’aspetta; sarebbe fuggito per primo con l’intenzione di incontrarlo laggiù. Riceve la notizia senza frenare la corsa; si incita perfino a una maggior fretta; ascolta e interroga le voci che discutono il suo comportamento e attestano la loro preoccupazione. Di nuovo gli giunge alle orecchie che è negligenza non nascondere le sue orme agli inseguitori; ancora correndo, si guarda sopra questa e quella spalla e scorge deformati dal fango di palude i nitidi passi che i suoi piedi si trascinano dietro. Allora si rende conto che sarà costretto a rivelare il nascondiglio di suo fratello, e questo, mentre corre, gli fa quasi perdere il senno per l’ansia. Ancora una volta, mentre è per via, gli perviene all’orecchio la notizia che il paese è in rivolta a causa della sua fuga; l’esercito è già mobilitato, si emanano disposizioni d’emergenza, l’ultimatum, così è stato detto, sarebbe già stato consegnato; deve arrendersi per amore della pace. Ciò meraviglia assai il fuggiasco. Finora il tempo e il clima gli sono stati estranei; ma in seguito a questa notizia entrambi diventano importanti per lui, e se ne informa senza fiato mentre continua accanitamente a correre. Viene a sapere che a terra il tempo è effettivamente brutto; ma sopra le nuvole la visuale sarebbe eccellente. Ben presto viene annunciata la radura. Gli altoparlanti rendono noto un comunicato straordinario che a causa degli scricchiolii, non sa se nelle orecchie o negli apparecchi, non gli riesce del tutto comprensibile; comprende soltanto i numerosi punti interrogativi nelle frasi e il punto esclamativo alla fine, che raddrizza con un urlo i punti interrogativi. Questa è la radura: alti ventagli di felci ed erbe spezzate con bava di cuculo, pinastri e abeti che gli corrono incontro sempre più piccoli e radi; dalla sinistra, così gli viene data notizia, suo fratello arriverà tra le felci, decapitando con le dita i fili d’erba. Si mette in posizione e guarda nella direzione indicata. Vita natural durante penserà che il suo sguardo è rimasto vuoto. L’erba dura nella sua mano gli taglia le dita. Gli viene ordinato di alzare la testa; il fatto di essere lui ad alzare la testa gli sembra straordinario. Dritto davanti a sé contempla un ampio territorio: senza bisogno di allungare il collo vede l’orizzonte, e il cielo è così basso da appiattire nell’erba chi lo guarda. Poi vede delle piccole nuvole scaturire dal confine del cielo, schiere, sciami, stormi e miasmi di nuvole, e gli vien detto che il cielo è scialbo; invece il colore delle nuvole sarebbe falbo; l’erba del territorio sarebbe del colore scialbo del cielo. Cosa significhi questo rombo, vuole ancora chiedere; ma nel bel mezzo delle sue parole viene trasmessa dagli altoparlanti la dichiarazione di guerra. Si fa piccolo e guarda quel cielo che gli sembra di annusare, di gustare e di tastare; ha odore di benzina combusta, sapore di latte andato a male, al tatto scotta come l’acqua in cui immerge la sua mano ignara. Le piccole nuvole che invadono tutto il cielo sono bombardieri.

Ormai, qui nella stanza, le parole potrebbero mancargli e diventare insensate; basta che emetta solo sillabe e suoni oppure voci di animali; basta che discorra imperturbabile di una cosa secondaria: tuttavia la sua voce, se solo gli esce dalla bocca, precipiterà in questo lungo pozzo accuratamente scavato che renderà sonora e significativa qualunque cosa egli dica; basta perfino che dica che i fili dell’elettrodotto, per esempio dopo che una riparazione ha avuto luogo nella centrale, improvvisamente hanno ricominciato a ronzare, quantunque ciò non interessi a nessuno dei suoi ascoltatori; basta che apra la bocca e parli. Lo spazio verso cui parla è vuoto.

 

 

Una volta gli è venuta in sogno nient’altro che una comparazione. Suo fratello rideva come quando un pugno colmo getta con forza sul cemento dei granelli di mais; subito dopo i polli picchiavano disordinatamente i becchi su questi granelli.

I calabroni

Non hai bisogno di mostrare che cammini su un sentiero polveroso. Non c’è bisogno che gli spettatori riconoscano la natura del sentiero. Basta che ti vedano camminare. Non è neppure necessario mostrare che fa molto caldo. Devi solo stare attento a entrare in modo tale che coloro che guardano non pensino che ti sei appena mosso, ma che quando entri hai già camminato a lungo. Entri come se non giungessi in questo luogo determinato e particolare, ma in un luogo che è uguale a tutti gli altri luoghi da cui sei già passato. Il luogo in cui arrivi e in cui diventi visibile per coloro che guardano non è diverso dagli altri luoghi. Non entri, non metti piede su una scena, semmai attraversi gli sguardi. Nessuno è presente. I movimenti delle tue gambe sono tali da suscitare in chi guarda il pensiero che debbano ormai contare su se stesse, senza che tu aggiunga nulla alla loro avanzata. Se ti guardi attorno, questo guardare deve far credere a chi guarda che tu abbia deciso di eseguirlo dopo un certo numero di passi. Camminando non hai mai abbandonato con gli occhi i tuoi piedi che camminano. Ti guardi attorno come uno che in un ampio territorio cerchi un’ombra. Il tuo abbigliamento è semplice. Non deve attirare su di sé gli sguardi degli spettatori. Porti una camicia senza colletto come un carcerato o un contadino. È poco tempo che sei arrivato. Del fatto che sei in cammino da parecchio coloro che guardano si saranno già convinti. Di più non hanno bisogno di sapere. Ora hai il compito di far sì che questo breve lasso di tempo in cui sei loro visibile, e che puoi misurare sui tuoi passi divaricando il pollice e l’indice, diventi ai loro occhi un tempo smisuratamente lungo, intercorso dal tuo primo movimento loro visibile fino alla fermata da cui ti guardi attorno. Non basta mostrare in un sol colpo agli ignari il tuo sfinimento, non basta ad esempio che tu finga di sederti e di sputare, ricorrendo a un rimedio popolare contro il mal di reni, per così dire su un sasso raccolto dal sentiero. Non disponi che del tuo viso e dei tuoi gesti. La tua voce, con cui potresti dirglielo, è muta. Nel minuto in cui hai camminato è trascorsa una mezza giornata. È questo ciò che gli altri devono comprendere. In una mezza giornata il vento e la luce cambiano. Cambia la via. Cambiano le ombre di ciò che emerge dalla terra. Tu puoi mostrare a coloro che guardano solo il tuo cambiamento. Ma nel minuto in cui ti sei reso visibile non ti è successo niente di più di ciò che hai mostrato. È troppo poco che ti faccia schermo agli occhi con la mano, voltandoti a guardare i dodici passi che hai fatto davanti a loro. Non basta fingere che i tuoi sguardi non abbiano fine. Certo loro capiranno ciò che intendi, e dai tuoi gesti si lasceranno convincere a moltiplicare i tuoi passi, ma non comprenderanno quanto tempo sia già trascorso. Non ne saranno commossi. Per mostrarglielo avresti bisogno di un incantesimo, oppure di una grande eloquenza, oppure di una formula con cui stregare le loro orecchie. Ma si esige che tu sia muto. Non basta il cambiamento di andatura, non basta cambiare espressione e roteare gli occhi, non basta che le braccia ricadano fiacche dal sostegno delle spalle. Non disponi di un’illuminazione che possa far muovere la tua ombra. Fai fiasco se fingi di raggrinzirti nella terra per la stanchezza. Non c’è gesto o espressione con cui tu possa riassumere il tempo perduto. Qualunque cosa facessi sarebbe un teatro delle marionette. Ma se recitassi in tal modo verresti deriso, proprio come se volessi mostrare lo scorrere del tempo tenendoti davanti a mo’ di cronometro il palmo della mano e usando come lancetta il dito dell’altra mano, mentre coloro che guardano avrebbero davanti agli occhi i punti invisibili che significano le cifre del quadrante e il tuo dito che si sposta a ogni passo. Hai dodici passi per mostrare le dodici ore. Adesso il dito è tornato al punto da cui era partito. Nello stesso tempo ti sei fermato e ti sei accinto a adagiarti al margine della strada. Ma l’incantesimo che ti occorre per rendere comprensibile il tempo a chi guarda, l’incantesimo che farebbe rabbrividire chi guarda, è chiuso a chiave nella tua bocca. La tua voce è muta. Anche in seguito la tua voce sarà muta. Il rumore che ti fa drizzare le orecchie nel bel mezzo del movimento con cui ti adagi lo mostri levando la testa e reclinandola come un cieco.

La via è sabbiosa e dilavata. Solo le buche prodotte dai carri sono piene di pietrisco. Il rumore che senti non ha bisogno di essere identificato da chi guarda. Anche quello che vedi resta loro ignoto. Dalla tua sola espressione devono capire che qualcosa è cambiato. Sei arrivato in un altro luogo, diverso. Vedi davanti a te una cava di sabbia con ciuffi d’erba sulle pareti, dalle quali si staccano scuri veli di sabbia che impolverano nuvolosi i grigi pendii riarsi. Ciò che hai sentito era forse il fruscio di questi veli di sabbia, il rotolo del pietrisco o il crepitio e lo strepito di queste materie prime nel setaccio che in fondo alla cava viene scrollato da un uomo a torso nudo. Paragoni tra te questo rumore al rumore prodotto dal popolo nell’alzarsi dai banchi della chiesa. Proprio ora l’uomo esegue l’ultima operazione chiudendo a chiave gli attrezzi nella capanna di legno. Si getta la camicia sulle spalle e sale a passi pesanti verso di te. Quando l’uomo si mette improvvisamente a correre, tra i capelli del cranio intrecciati dal sudore e i piedi che pigiano vedi lo scorcio del tronco e sotto, a destra e a sinistra, le ginocchia che spingono in su. Non hai bisogno di far capire a nessuno che sei seduto sull’orlo di una cava di sabbia e che osservi la corsa dell’uomo. Hai solo bisogno di mostrare in te stesso uno stato come il terrore, che ti induce a balzare in piedi per allontanarti dall’uomo. Il tuo viso dev’essere lo specchio dell’uomo, che per quelli che guardano resta fuori campo. Tuttavia non raffiguri l’uomo, ma il terrore dell’uomo. Comprendi nel modo migliore questo terrore se t’immagini sull’altro margine della cava un albero dotato, sotto il nodo del primo ramo, di una cavità grande quanto una testa. L’albero sbadiglia sonnolento dalla cavità. Tu resti dove sei adesso. Non hai bisogno di imitare i gesti dell’uomo e i movimenti che fa per avanzare. Anche quelli che guardano restano ai loro posti. Hai solo il compito di trasmettere loro il tuo terrore, o il terrore dell’uomo, o un terrore purchessia. Anche il tuo viso ti serve solo all’inizio. Enumerare le singole espressioni sarebbe una perdita di tempo. La risposta del viso a ciò che vedi e senti è innata in te. Guardi ancora coi tuoi occhi verso l’albero, come se ai suoi piedi ci fosse l’ombra che cerchi per il tuo riposo. Non hai ancora permesso al tuo viso di recitare. Coloro che guardano devono cullarsi nella sicurezza, affinché in seguito tu possa coglierli di sorpresa. Palesemente le tue prospettive sono ancora pacifiche, sebbene qualcosa incomba su di te. Ma dopo guardi l’albero con altri occhi. Le espressioni del tuo viso trapassano l’una nell’altra. Ora hai capito di che cosa si tratta. Anche a coloro che guardano offri lungo la fila la tua visione estremamente terrificante. Balzi in piedi. Sei balzato in piedi. Sei fermo. Mostri che non sai come fuggire. Che l’uomo, a parte, scivoli muto giù per il pendio aggrinfiandosi ai detriti con braccia e piedi come una bestia, non hai bisogno di mostrarlo. Gli altri non hanno bisogno di sapere che cosa si verifica. Non devi pensare. A tua discrezione puoi rispecchiare per loro qualcosa. Ma per tutto il tempo devi conservare il tuo ruolo. Se adesso ti inginocchi, così resti. Anche le espressioni di coloro che guardano resteranno uguali a quelle di prima. Ora rappresenti l’attesa dell’uomo inginocchiato che non può più uscire dalla cava. Qualcosa gli è vicino e poi gli è sopra. Nessun movimento lo scuote più. È immobile come una delle travi di sostegno della sabbia, e gli altri lo guardano e lo fissano affinché ora e subito balzi fuori dalla parete, mentre invece è ancora senza movimento. Tu sei la lancetta dell’orologio elettrico i cui scatti essi fissano fino a sentirsi bruciare gli occhi. Indaghi ed esplori il momento col tuo corpo immoto dalla testa ai piedi. Non hai a tuo favore neppure la quiete del vento. Se parlassi e intanto ti muovessi, avverrebbe. Se tacessi, potresti cavartela. Ma se taci, nessuno di coloro che guardano saprà ciò che gli comunichi. Ma se parli e ti muovi, il parlare sarà la tua rovina.

La nascita della storia

Si scalda solo per quello che non sa. Quello che sa lo lascia freddo. Se sa di qualcosa, ma non può appurare che cosa sia e come sia, è allettato a saperlo. L’irraggiungibile alletta. L’apparentemente dimenticato alletta. A volte lo alletta solo la via impraticabile che è descritta nel libro. Nelle terre remote in cui ha avuto luogo questo spettacolo più d’una via equivale a una via traversa, anche se si tramanda che un tempo vi sia transitata una potenza belligerante. Lo scricchiolio dei passi in una sabbia umida era riuscito nuovo alle sue orecchie. Se la memoria non lo inganna, il libro dice che la notte prima sarebbe piovuto. Però non sa più dire come quel libro gli sia capitato tra le mani. Ciò che ora ne ricorda sembra rifiutato e modificato dal presente; i verbali della sua memoria sono stati sequestrati, il giudizio su quel libro, se fosse da leggere o no, è stato cassato e cancellato per il fatto che lui ha dimenticato il verdetto. Tuttavia non dubita di avere, in altri tempi, letto il libro; dunque, poiché l’ha letto, a quel tempo non poteva ancora aver perduto la luce degli occhi; ma un dubbio lo tormenta riguardo ai fatti che avvenivano nel libro. Esso comincia con la descrizione di una via su cui un uomo e suo figlio vanno alla ricerca di un fratello scomparso. Le scarpe, come si è detto, scricchiolano nella sabbia umida o ancora bagnata dopo la pioggia. È sera. Non può sbagliarsi sull’ora, perché si rammenta di una frase in cui tra i due, mentre camminano, si discute il colore delle case. Le pareti calcinate splendono come prima del temporale, mentre la campagna circostante è già spenta. D’altra parte gli torna alla mente che la via su cui i due camminavano era solo una mulattiera o una pista erbosa mezzo invasa dai cespugli di nocciolo; quando allargavano le braccia, dalle foglie dei cespugli pioveva. I due si propongono di abbreviare il loro cammino su questo sentiero. Però non è possibile che nella loro ricerca abbiano visto in qualche luogo una casa; i cespugli sono impenetrabili alla vista; la zona viene considerata scarsamente popolata, in un chilometro quadrato abitano in media non più di quaranta persone, in questo ci sono forse solo i due viandanti. Nel menzionato passo del libro non si è quindi potuto discutere del colore delle case. Se i due non parlano del luminoso colore delle case, non è più nemmeno obbligatorio che sia sera; ricorda per certo che le loro suole scricchiolavano nella sabbia bagnata, ma il resto gli è passato di mente.

Il libro racconta di due fratelli, il primo dei quali, quando va a cercare da solo il secondo fratello scomparso, diventa cieco; dal racconto non risulta chiaramente a causa di quale evento il fanciullo diventi cieco; viene soltanto ripetuto che regna uno stato di guerra; ma i particolari della disgrazia mancano, oppure se li è dimenticati. Il punto di partenza è che il cieco, ormai adulto, una domenica si sveglia e qualcosa che non riesce più a dominare coi pensieri gli richiama alla memoria il fratello assente. Da questo momento in avanti i passi di cui crede di ricordarsi si alternano disordinatamente nel suo cervello. Importante per il cieco è comunque l’arrivo della corriera in paese, il paese nei cui dintorni egli abita in intima comunità col padre ancora vivente e con la seconda moglie di suo padre, che è stata sbattuta in quella zona dalla provvisoria cessazione della guerra. Ora, le vicende di questa domenica sono affini alle vicende di quella giornata di guerra in cui egli fu colpito da cecità, non perché siano affini comportamenti e contegni esteriori, ma solo in virtù di un’insanabile corrispondenza e coincidenza tra ciò che capita al cieco e ciò che gli è capitato una volta, senza che tra queste cose vi sia una somiglianza visibile. Un caso rafforza nel cieco il sospetto che qualcosa gli venga tenuto nascosto; se non si sbaglia di nuovo, in un passo viene descritta una lettera che cade dalle vesti della moglie del padre; quando il cieco domanda, e la sua domanda riceve in risposta palesi bugie o addirittura viene passata sotto silenzio, le bugie sono per lui un’ammissione; il silenzio dei numerosi interrogati è per lui una conferma.

Molti particolari della trama si sono cancellati dalla sua memoria. Costruisce davanti a sé questa scarsa impalcatura che gli riesce ancora credibile. Solo il finale gli è pressappoco rimasto in mente. Il cieco giace infermo in una stanza e s’intrattiene con se stesso dandosi a intendere o immaginandosi qualcosa. Chi è cieco è anche invisibile. Nell’idioma forestiero viene usata la stessa parola tanto per uno che è cieco quanto per uno che non è visibile all’altro. Nessuno può vederlo dall’esterno, perché è cieco. Nessuno vede il viso del cieco nello specchio; se davanti allo specchio c’è un accecato, davanti a quello specchio non c’è nessuno. La finestra della sua stanza rispecchia verso l’esterno le cose esterne; chi vuole guardar dentro deve accostarsi al vetro e guardare attraverso il proprio viso, per poter vedere il cieco all’interno. Facendolo non deve dimenticare la fossa della calce sotto la finestra. L’invisibile può essere nei luoghi in cui gli garba di essere senza essere obbligato a farsi vedere. D’altra parte l’invisibile non è cieco; quello che vuole vedere, lo vede; se vuole, ha una seconda vista che gli rende visibili anche le cose più remote. Tuttavia non può leggere nel futuro; non può prevedere e predire ciò che sarà e che avverrà. Né gliene importa. Si attiene a ciò che fino a ora e poi fino a ora e così via esperisce e ha esperito. In molte leggende proprio il cieco è un veggente. Il veggente è cieco. Tuttavia colui che giace in questa stanza si accontenta del fatto che nulla di ciò che gl’incombe gli sia rivelato in anticipo, e di non potersi attenere che al proprio pensiero; se pensa che qualcosa avverrà, quella cosa avviene o non avviene, come capita a tutti; le concede allora il proprio visto. Si accontenta di ciò che immagina, anche se gli eventi successivi lo invalidano; solo immaginando è in grado di affermare se stesso.

A questo punto la memoria lo abbandona. In ogni caso nel frattempo non è accaduto niente di nuovo; il cieco giace nella sua stanza e riflette. Si fa notare a se stesso raschiandosi la gola e strusciando un calendario o un quadro sulla parete con le dita dei piedi; un moscone prigioniero sbatte e mugghia contro i vetri ben chiusi della finestra. Perfino il luogo e la stagione in cui l’azione si svolge gli sono usciti di mente. Siccome da una parte ha dimenticato tutte queste cose, o crede di averne ritenuto solo qualche frammento, ma d’altra parte è sicuro di aver letto quel libro, per questa ragione il libro lo perseguita e lo rende avido di sapere. È stato questo a far imboccare ai suoi pensieri il loro lungo cammino. Tuttavia la sua memoria non ha forza probativa; ciò che ha immaginato non ha bisogno d’essere vero, nel senso di coincidere credibilmente con la trama del libro; ha solo bisogno d’essere possibile e immaginabile, in quanto di per sé credibile; un enunciato falso e innaturale verrebbe rifiutato e respinto dall’esperienza. Si è scaldato per colpa di questa memoria imprecisa. In una delle ultime pagine, gli sembra, si dice che il cieco va alla finestra e si libera in qualche modo del mugghio del moscone; ma questo pensiero è poco convincente, perché il cieco è strettamente incatenato al suo letto dalla stanchezza e quindi non è lecito attribuirgli un cambiamento di luogo. Ormai ben poche cose possono coinvolgere il cieco. Se il fratello arrivi o non arrivi con l’ultimo autobus gli è passato di mente. Il libro si chiude imprevedibilmente con la descrizione della cena. «La notte è indescrivibile.»

L’arrestarsi del ricordo

Un’altra volta vidi mio fratello camminare su un campo di neve ghiacciata. Di giorno la superficie della neve viene spesso disciolta da un sole forte; il gelo della notte successiva corazza di ghiaccio il campo di neve; il sole successivo ammorbidisce in più punti lo strato di brina tramutandolo in uno sfolgorio. Chi cammina sul campo di neve deve badare a camminare senza peso, con piedi leggeri; sotto lo sfolgorio lo strato di ghiaccio è ancora solido. Vedrà di rispettare l’ordinata successione di movimenti che ha scelto col primo passo. Se cambia passo sprofonderà: come ha iniziato a camminare così è tenuto a proseguire. Se si ferma, il suo peso improvviso gli farà sfondare la coltre di ghiaccio; se si mette a correre, anche in tal caso la violenza del passo gli farà trapassare lo strato. Affinché la forza di gravità del corpo sia la stessa in ogni punto, prima della camminata si sbarazzerà di ogni carico. I primi passi si limitano a lasciare nella brina l’impronta piatta della scarpa. Ha scoperto la sequenza di movimenti che lo condurrà fuori di lì. Se viene chiamato, non può fermarsi o rispondere. Quando lo chiamai, sprofondò. Quando tirò fuori il piede sinistro, sprofondò quello destro. Quando tirò fuori il piede destro, a vista d’occhio sprofondò anche il sinistro. Quando si mise a correre, sprofondò da entrambe le parti. Sotto lo strato di ghiaccio la neve è una polvere fitta.