L’avviarsi del ricordo

Quella volta, disse mio fratello, io ero seduto davanti alla stufa e fissavo il fuoco.

Lui era arrivato sul poggio da dietro, prima dell’alba, mentre ancora pioveva; senza guardare, s’era introdotto nel campo attraverso il recinto di fil di ferro e il fil di ferro gli aveva graffiato il viso, poi era corso giù per il campo, già incolto a quell’epoca, e grumi di fango e di foglie fradice cadute dagli alberi gli si erano appiccicati alle suole, aveva allora continuato al passo tagliando il campo in direzione della casa, davanti agli alberi s’era rimesso a correre, aveva attraversato il sentiero correndo nell’erba, al di qua del sentiero, senza fermarsi, si era ripulito l’una e l’altra suola dalle zolle di fango strusciando i piedi nell’erba bagnata, intanto si era diretto lungo il muro verso la catasta di legna, aveva infilato il piede nelle commessure della catasta, si era arrampicato sulla catasta, dapprima rattrappito e a testa bassa, poi eretto a testa alta, e mentre ancora si arrampicava aveva guardato attraverso i doppi vetri e qua dentro aveva visto qualcosa, aveva visto qualcosa di seduto, aveva visto uno seduto in camicia davanti al fuoco, mi aveva visto qua dentro seduto sul letto davanti al fuoco.

Disse che mi stringevo nelle spalle e le puntavo in avanti sotto la camicia piena di strappi, di modo che la pelle, mostrandosi più scura tra le pieghe sottili e affilate che si irradiavano dalla spina dorsale dentellata e ricurva fino alle sommità delle braccia, screziava la mia schiena insieme alle strisce chiare della stoffa, e le braccia erano incrociate sul petto così strettamente che Hans vedeva le punte delle dita artigliarsi sempre di più nella camicia, esangui fino a metà delle unghie macchiate a causa della forza con cui mi aggrappavo al mio tronco; dato che, così disse, più mi strizzavo il corpo con le braccia più le dita si infiggevano nella pelle, le mie unghie stiravano anche la pelle verso le costole insieme alla stoffa. Tuttavia non mi muovevo; a testa china, con le spalle rialzate che sfioravano le orecchie, sedevo per metà nella conca del pagliericcio, per metà sulla sponda del letto, le gambe puntellate in diagonale contro il bordo della cassa aperta che conteneva la paletta e le schegge di carbone sminuzzato, e fissavo le braci.

Sulle prime mi aveva preso per un altro. Si era affrettato a cercare con gli occhi il giaciglio su cui in precedenza aveva dormito col secondo fratello; ma era vuoto. Guardò a lungo il letto vuoto: nel guanciale, disse, pareva esserci l’impronta di una testa; ma probabilmente lo ingannavano le ombre che il fuoco faceva traballare sulle pareti.

I suoi sguardi rientrarono negli occhi da cui erano sortiti e di nuovo ne sortirono e di nuovo mi scrutarono. Guardò le punte delle dita che si artigliavano sempre di più, le unghie macchiate di pece. Vide che la pelle della mano era screpolata dal fango secco che si sfogliava. Distolse lo sguardo. Gettò uno sguardo fugace alla porta. Si rifugiò con gli sguardi nel fuoco. Penetrò con gli sguardi nelle braci, le cui fessure e scanalature, nel pulsare intermittente del vento, si illuminavano aspirando ed esalando la corrente d’aria. Subito ne estrasse gli sguardi e strusciò il viso sulla lastra di vetro verso lo spigolo del muro, senza però che, a causa della doppia finestra, il rumore della guancia appiattita sul vetro fosse udibile qua dentro.

Si fermò e alzò lo sguardo verso la sporgenza del tetto, reclinando la testa sulla nuca; in un attimo la sua mano afferrò il cornicione sopra la finestra e issò il corpo a quell’appiglio, di modo che adesso, in ginocchio, era ritto sulla catasta e dall’alto in basso guardava dentro verso di me attraverso le tracce lasciate sul vetro appannato dallo sfregamento delle dita e della guancia. In quel momento io staccavo i piedi dal bordo della cassa e li riconducevo in semicerchio, chiari dapprima, poi scuriti dalla luminosità del fuoco, poi di nuovo chiari nell’ambiente buio, sul pagliericcio, da cui al contatto si sprigionò uno scricchiolio. Così, per un istante, vide di profilo la testa della persona seduta; e siccome mi conosceva, mi riconobbe. La sua mano sdrucciolò dal cornicione. Si sedette sui talloni e nascose la testa dietro la larga lista centrale dell’impannata; si portò alla fronte il dorso della mano ricurva, lo premette tra la fronte e il vetro e mi guardò. Io intanto rivolgevo il viso al calendario appeso sopra il giaciglio vuoto; ma gli occhi, di cui vedeva baluginare di profilo la rotondità, erano senza sguardo. La posizione delle braccia non era mutata. Ora si aspettava i gesti che preludono alla ricaduta nel sonno. Le dita abbandonarono la schiena e rivelarono la traccia di sudore che avevano lasciato sulla camicia, le braccia, senza sciogliersi dal loro intreccio, si abbassarono sul ventre, il busto vacillò all’indietro verso la testata metallica. Tuttavia, mentre io continuavo a fissare il calendario, mio fratello graffiò il vetro con l’unghia del pollice.

Non guardai immediatamente alla finestra. Mentre lui si faceva piccolo e si sdraiava sulla catasta, io, ubriaco di sonno, rimasi seduto sul pagliericcio scricchiolante. Solo quando si levò in ginocchio, puntellandosi con le mani sul cartone catramato, udii, come se appena allora il suono fosse giunto fino a me da una grande distanza, lo stridere dell’unghia sulla lastra: prima il colpo sordo e privo di eco con cui l’unghia urtava nel vetro, poi il cigolio prolungato con cui strusciava sulla finestra. Un pesante armadio o una cassa venivano spinti su un pavimento di legno. Girai lentamente la testa in direzione del vetro e apparentemente guardai da quella parte, mentre mio fratello tergeva col pugno il vapore del suo intermittente respiro. Continuò in quel movimento. Io guardavo, a quanto gli sembrava, verso la finestra, e lui guardava verso di me; quando prendevo fiato il mio viso si assottigliava, non tuttavia perché il mio occhio lo scorgesse, ma perché tendevo ancora l’orecchio al rumore dell’armadio; di modo che i miei occhi, le cui pupille intente erano puntate su di lui, in realtà erano rivolti verso l’interno e sorvegliavano il rombo del condotto uditivo.

Già quel mattino, disse mio fratello, le palpebre ammiccanti mi rendevano simile a un cieco.

Al di là della finestra non percepivo che il cielo tenebroso; a partire da chiazze parziali reintegravo i pioppi e sul poggio al di là del campo, come linea di confine del cielo, il recinto del pascolo; non vedevo però la testa di mio fratello, che sopra l’orlo del davanzale spiava avidamente la mia risposta.

Dopo qualche tempo, raccontò, mi ero alzato. Inaspettatamente non ero però andato alla finestra, ma alla porta che le stava di fronte: solo qui in casa potevano aver spinto l’armadio; mi pareva che il rumore fosse venuto dalla camera della sorella.

Rapidamente avevo estratto il chiavistello dalla scanalatura. L’altra mano, che già schiacciava la maniglia, aprendo la porta spalancò un buco nel corridoio. Il silenzio venne meno, rimase incastrato dietro il sospiro del legno e lo stridio delle cerniere. Si frantumò nello squillo dell’ottone contro il parapetto delle scale. La porta parlò al parapetto, gli parlò a voce alta e più bassa e sommessa; legno strusciante si strofinò a legno; poi il silenzio rifluì nella stanza, tornò fino a me.

In esso e nelle tenebre chiamai un nome che, appena chiamato, già non comprendevo più. Mio fratello percepì il suono della voce che chiamava; cosa chiamassi gli rimase ignoto; di nuovo, esigendo risposta, graffiò la finestra. Immoto, senza un gesto, restò dov’era, senza abbandonarmi con gli occhi spasmodicamente fissi. Varcando la soglia m’inoltrai sul cemento gelido, che rese davvero nudi i miei piedi nudi, e ripetutamente chiamai il suo nome incomprensibile; indi chiamai più forte il nome incomprensibile dell’altro fratello scomparso, come se lo spostamento di un armadio fosse già segno del loro ritorno.

Non poté vedere che nel corridoio mi alzavo in punta di piedi e allungavo le dita cercando sulla parete l’interruttore della luce; vide però il gatto, acciambellato nel sottoscala tra pale e picconi, alzare la testa sentendo raschiare le dita e alzando la testa svegliarsi.

Mi venne in mente che non udivo il ronzio del contatore. Soltanto adesso mi accorsi che la bestia varcava la soglia e a coda ritta si insinuava nella camera; la testa, insieme al corpo, era diretta verso la finestra. Allora ricordai che quella notte erano venuti i bombardieri.

Nel corridoio il mio sguardo scorse dapprima il fango secco, le cui orme, a partire dalla porta di casa, si rimpicciolivano sul cemento in proporzione al numero crescente dei passi compiuti, e subito dopo, nei punti in cui mio padre aveva pestato i piedi rientrando la notte scorsa, in pugno l’anello di fil di ferro con la lanterna da stalla servita per l’inutile ricerca, scorse le pozzanghere brunicce lasciate dai suoi stivali, dai bordi ancora scintillanti di mica del torrente, le quali si spingevano fino alla mia porta e di qui, dopo che a furia di bussare, urlare e picchiare mi aveva indotto ad aprirgli, s’inoltravano nella stanza fin sotto al paralume fatto oscillare dal colpo d’aria, donde mio padre, mentre io in camicia gli stavo accanto in silenzio, aveva potuto abbracciare con lo sguardo tutta la camera, in cui oltre a me non aveva trovato nessuno; di modo che aveva dovuto accontentarsi di restare indefinitamente inchiodato in mezzo alla stanza vuota con sguardo greve, mentre la lampada puzzolente gli penzolava dalla mano.

Ora, quando guardai in quel punto, i tacchi degli stivali erano nitidamente modellati nel fango ormai rappreso.

Il gatto gnaolò forte verso la finestra.

Quel suono mi risucchiò dal corridoio nella stanza; al di là dei vetri vidi il viso di mio fratello, e siccome lo conoscevo, lo riconobbi.

La tua pelle era sporca, dissi; e graffiata di nero dal fil di ferro. Ogni volta che tentavo di mettere a fuoco gli sguardi, le immagini danzanti del fuoco che avevo fissato mi cancellavano il tuo viso.

Intanto la neve, scacciando la pioggia, produceva nella stanza un crescente chiarore che a ondate intermittenti seguiva le folate di neve. Lui non mi fece segno. Anch’io non gli feci segno. Tuttavia sapevamo l’uno dell’altro che ognuno vedeva l’altro. Io guardavo, muto, quella testa davanti al campo, tanto vicino a essa che mi pareva di guardarla col cannocchiale.

Senza mutare la posizione dei suoi occhi, fissi come i miei, si lasciò rapidamente cadere sulla catasta; all’inizio del movimento le ciocche irsute gli si drizzarono sul cocuzzolo; si ricomposero ancor prima che il viso si sottraesse al mio campo visivo.

La fuga

Spesso, in novembre, di mattina nevica. Questo processo viene descritto più o meno così: «Destandosi e ormai desto egli guarda fuori, cercando di desumere l’ora dall’entità del chiarore. Fuori vede la neve scacciare la pioggia. Il cartone catramato sopra la catasta di legna, che a strati digradanti si è spostato dai ciocchi perché qualcosa o qualcuno se ne è allontanato con un salto, viene ricoperto dalla neve lanuginosa; nei punti ancor tiepidi, forse perché vi si è inginocchiato un essere a sangue caldo, i fiocchi continuano a dissolversi; la pioggia si è appena trasformata in neve. Le nuvole si sono disfatte e hanno perduto ogni forma. Il cielo è uniforme. In un batter d’occhi il vento è cessato, così non senti più nulla. I pioppi al margine del campo, l’erba al margine del campo, gli steli d’erba al margine del campo sono stati colti di sorpresa dalla rapida irruzione della neve; anche quell’aratro laggiù (gli attrezzi agricoli da citare sarebbero numerosi), che sotto la pioggia luccicava e aveva l’aria di respirare, è rimasto senza fiato. Mentre cade la neve, i fiocchi sotto le nuvole non sono visibili; li vedi poi singolarmente davanti alla corteccia tignosa degli alberi, che l’addensarsi della neve fa più scura, indi soffici e indistinguibili sopra il campo», di nuovo singoli davanti alla giacca nera e bagnata del bambino che corre verso l’orizzonte, risalendo i solchi per la stessa via da cui è venuto, con le braccia scostate dal corpo e le mani strette a pugno che dondolano su e giù sulle ondulazioni del campo, con le suole che, mentre corrono, pigiano nei solchi le zolle di fango, «e alla fine vedi la neve, daccapo a perdita d’occhio, annuvolare la terra ritagliata dall’aratro, che fino a questo momento non ha ancora perduto il suo colore piovorno».

L’osservatore, in piedi su una sedia prontamente trascinata davanti alla finestra aperta, una mano sporta nella neve lanuginosa, è vittima di una vertigine che gli accavalla i piani visivi nello sguardo già vacuo: il piano bianco del cielo si interseca col piano marrone e giallo del campo; il piano bianco del campo e il piano ingiallito, il piano giallo del cielo si intersecano coi piani bianchi degli strati di cartone catramato, sui quali poc’anzi la neve ancora si scioglieva a causa del calore di un corpo, e il piano bianco del cartone catramato, il piano bianco del cielo e il piano bianco del campo, sforacchiato soltanto dalle punture dei pioppi, si intersecano taglienti col piano bianco e vacuo degli occhi e frastagliano e frantumano il piano bianco e vacuo del cervello.

L’occultamento della notizia

La greve trave sul coronamento del muro rollava e beccheggiava a ogni passo, facendosi sempre più vicina al protagonista che saliva le scale con la sua notizia; si spostava e si accostava alla rètina puntata su di lei, oscillava più prossima e più bassa, dilatandosi e aprendosi davanti al cosiddetto acciottolio e strascichio degli zoccoli di legno chiodato sui gradini di legno delle scale; dapprima, vista da quaggiù, mi lasciò scorgere mentre salivo solo la singola faccia tagliata verticalmente, da lontano sottile come da vicino i correnti che la sormontavano, rigata dalle ombre dei puntoni grazie alla luce mattutina proiettata dall’abbaino frontale, talché le schegge sporgenti, sotto le quali la trave era ancora più buia, e l’infinità di minuscoli fori neri cinti da isolati bastioni di segatura ancora si nascondevano allo sguardo che vi si avvicinava dai piedi delle scale; ma in seguito, mentre il dondolio della trave la spingeva vibrante verso di me, questi fenomeni, che prima avevo soltanto pensati e immaginati, aggettarono coi loro confini dall’incerta superficie visiva e apparve in piena luce anche la faccia orizzontale della trave, quella da cui i puntoni salivano diagonalmente al colmo, e su di essi riconobbi le tele dei ragni a cui erano sospesi i fiocchi di polvere e, raggomitolati e svuotati, i corpi delle mosche. I fili che levavo dalle tegole camminando lungo la trave si depositavano appiccicosi sulla mano, mentre procedevo sotto il tetto con la notizia e raggiungevo la camera di mia sorella.

«Il piccolo specchio rotondo fu subito coperto dalle sue dita divaricate; lo specchio a muro, in cui vedevo le sue spalle, non ebbe bisogno di nasconderlo.»

Ma quel mattino non trovai mia sorella nella camera. Mi furono rammentati i suoi odori, e io rammentai e li verificai tutti. Verificai l’odore di colla dello smalto per le unghie, l’odore dell’acetone con cui, subito dopo averlo steso, rimuoveva lo smalto prima di stenderlo un’altra volta, l’odore della camomilla fredda con cui si bagnava gli occhi per farli splendere, l’odore di torta delle numerose scatole di cipria vuote, l’odore dell’Acqua Rinomata di cui irrorava la camera, l’odore di quelle sue mele simili a limoni, l’odore di catrame del sapone di guerra riposto nel comò tra le vesti ereditate dalla mamma.

Gli oggetti della camera mi parvero incolori e sbiaditi, come se avessi guardato il sole a lungo senza distogliere gli occhi, o come se mi fossi appena svegliato e ancora non riuscissi a distinguere nulla se non buio e chiarore; dopo però mi venne in mente il fuoco che avevo fissato da basso, e la neve in cui avevo inseguito con gli sguardi la corsa di mio fratello, e capii che ero cieco ai colori per questo; ora mi sembrava che la pallidezza degli oggetti si prendesse gioco di me, in quanto forse, senza che potessi accertarmene con quegli occhi che le fiamme avevano abbacinati e resi incapaci di distinguere i colori, mi induceva a supporre che gli oggetti stessi, se per esempio la luce fosse cresciuta a causa del segreto aprirsi di una porta dietro di me, l’avrebbero fatto capire a uno sguardo imparziale mettendosi a giocare coi colori e adattandosi ai contorni più nitidi prodotti dalla luce crescente, forse dovuta a un aprirsi di porta che crescesse senza suono dietro di me.

L’incolumità del tavolo, dell’armadio, del comò e del letto rifatto aveva un’aria fasulla.

Tuttavia non mi guardai alle spalle; anzi presi fiato per rompere il silenzio con un richiamo.

Allora sentii sulle scale del tetto il ticchiettio dei suoi zoccoli. Cos’era andata a fare sotto il tetto?

Uscii in fretta dalla stanza.

Lei si fermò e mi guardò dall’alto dei suoi zoccoli. Subito abbassammo gli occhi e ci venimmo incontro senza parole, diretti all’imboccatura delle scale del pianterreno.

Senza parole lei scese per prima. Scesi dietro di lei osservando la sua camminata martellante, i suoi talloni che si ribaltavano. Chiamai a raccolta le parole che m’erano mancate quando ero uscito dalla sua porta.

Posso impedirle di proseguire per la sua strada e di sbrigare le faccende cui è abituata?

Il giornale spiegato sotto le ginocchia, accovacciata su questi talloni che sto osservando, o anche in un’altra posizione, davanti al focolare della cucina, si tiene in equilibrio aggrappandosi alla stanga e si dondola su e giù, mentre accende il fuoco e si terge gli occhi col dorso della mano. Se tuttavia io facessi uscire la notizia dalle mie labbra, potrei modificare questo corso naturale delle cose, e avverrebbe qualcosa di diverso. Ma nel cervello, prima che le pronunziassi, le parole mi si disgregavano in sillabe e lettere che non ero più in grado d’intendere; non potevo prevedere cos’avrebbe fatto se glielo dicevo, non potevo prevedere i gesti del suo sgomento, né i suoni delle ansiose domande, né i movimenti con cui sarebbe scappata via; e siccome non potevo prevederlo, per quanto cercassi d’inculcarmi quelle immagini a forza di parole, camminavo dietro di lei su un’acqua così sottilmente ghiacciata, che tacqui la notizia.

Mentre tacevo, e mentre mia sorella taceva, e mentre scendeva le scale con la sua camminata che le ribaltava i talloni, e mentre io scendevo dietro di lei, nostro padre stava ancora navigando per il canneto.

Il trasporto del fratello annegato

Mentre il padre del narratore navigava per il canneto, tre uomini percorrevano la strada maestra. Mentre la sua navigazione perdurava, gli uomini si mossero dalla chiesa del paese, dove il terzo, un gendarme, si era unito agli altri due, e camminarono fino alla casa isolata davanti a cui, accanto a un trogolo per maiali e sui gradini dell’ingresso, trovarono due bambini insonnoliti; qui entrarono, percorsero il corridoio con sordo rumor di passi e di nuovo entrarono e si sedettero e rimasero seduti in fila lungo la parete della stanza, gli occhi rivolti alla porta in attesa, mentre il padre del narratore navigava per il canneto, di cui un contratto d’affitto con lo Stato gli concedeva il godimento.

Prima, quando era ancora seduto qui in casa sulla medesima panca su cui si erano poi seduti i forestieri e aveva alzato il ginocchio e sbuffando s’era infilato lo stivale sopra il tallone tirandolo per il retro del gambale, solo i primi due uomini, per condizione due civili, avevano percorso la strada maestra tirando e spingendo uno dei carretti che si usavano da quelle parti e dirigendosi, mentre albeggiava, dal paese di Übersee al paese di Öd. Qui uno di essi svegliò il gendarme del paese, mentre il padre del narratore, nel granaio situato sopra la stalla, la falce già in pugno, con le dita cercava nelle tenebre la giacca e i calzoni di tela azzurra che pendevano, freddi di pioggia, da un chiodo piantato nella parete di tavole; e quando, gettati i calzoni sul carro a rastrelliera, fece uscire il cavallo dalla stalla e lo attaccò tra le stanghe, il secondo uomo tornò sulla piazza della chiesa insieme al gendarme che aveva svegliato.

Il padre del narratore si gettò la giacca sulle spalle, curvò la schiena e piegò il ginocchio, una volta e due volte, davanti alle redini che il cavallo, trainando il carro senza comando, faceva strisciare accanto a sé sul selciato del cortile; strappò la frusta dal gambale dello stivale e col manico della frusta batté sui pattini le sillabe della sua imprecazione, mentre il gendarme, rivolto all’uomo che aveva sorvegliato il carretto davanti alla chiesa, gli poneva i quesiti che il resoconto del primo aveva lasciati in sospeso. L’interrogato, che si appoggiava di sbieco, a gambe incrociate, alla colonna del pronao, rispose nel suo informe dialetto forestiero senza che le parole lo inducessero a cambiare posizione. Il suo compagno, su ordine del gendarme, sollevò il sacco che copriva il carretto, mentre il padre del narratore, dopo aver messo in moto il cavallo, in prossimità della discesa azionava la manovella del freno. Le ruote frenate giravano a scatti e scagliavano pallottole e pozzanghere di fango sulla faccia dell’uomo piegato in due che le rincorreva per la discesa manovrando la stridula manovella, finché il carro, a ruote ormai bloccate, prese a sbandare e a sussultare e arrivò in fondo al sentiero in scivolata. Raddrizzatosi durante la corsa per cavarsi la sporcizia dal viso, l’uomo si chinò e fece girare la gracchiante manovella del freno in direzione opposta, dapprima lentamente e con ampi e faticosi movimenti di tutto il corpo, poi con facilità e solo col polso, di modo che il carro, ora a ruote libere, spingeva il cavallo da dietro, e subito dopo, correndo avanti verso il centro del carro e strattonando selvaggiamente la redine di sinistra, svoltò a destra imboccando la strada maestra.

Mentre il padre del narratore si arrampicava da dietro sul carro in moto e si sedeva su una delle rastrelliere di traverso alla direzione di marcia, senza sguardo per tutto ciò che lo circondava, il gendarme, davanti al carretto, disse la parola di riconoscimento e assentì. Subito dopo il sacco fu nuovamente disteso. Il gendarme, con la punta dello stivale, strofinò sul tufo quel che pensava in cuor suo; poi disse le parole che si accordavano al gesto. Il primo uomo entrò nel quadrangolo formato dal timone e dalla stanga di traino. Si agganciò il carretto nella piega del gomito, e l’altro, interpretando ciò come segnale di partenza, vi mise mano da dietro.

Le ruote strepitarono sulla pietra con un clangore che le orecchie riuscivano a circoscrivere, poi il rumore liberato defluì nei larghi bordi fangosi della strada e venne meno e andò progressivamente perdendosi quanto più il carretto s’inoltrava nella direzione in cui s’era inoltrato anche il padre del narratore prima di svoltare verso lo stagno, seduto sulla rastrelliera, nero nel turbinio della neve, grattandosi la caviglia nello stivale col manico della frusta.

A questi due luoghi dell’azione si era aggiunto, mentre il padre si dirigeva verso lo stagno e mentre gli uomini percorrevano la strada maestra, un terzo luogo dell’azione, in cui veniva descritto come il narratore uscisse di casa e guardasse il cortile dall’alto dei gradini.

Stava guardando la sorella, che traversava il cortile davanti a lui, e la stava a guardare. La sorella, il paniere vuoto sotto il braccio, camminava rapidamente lungo il muro della stalla in direzione della rimessa. Involontariamente, mentre camminava, girò a un tratto la testa verso la finestra della stalla, esitò, si fermò e rivolse alla lastra anche il corpo. Alzò il mento. Piegò le ginocchia. Si guardò. Il narratore la stava a guardare.

Senonché, mentre ancora era ferma e guardava, e mentre il narratore la stava a guardare, e mentre i tre uomini col carretto percorrevano la strada maestra, il padre del narratore aveva già avvolto le redini attorno alla traversa, s’era infilato i calzoni di tela sopra gli stivali e s’era tirato sul ventre gli altri calzoni, aveva camminato tra le canne fino all’albero, aveva slegato i bindelli dei calzoni, aveva gettato da un canto la frusta, dopodiché, abbottonando e allacciando con le dita i diversi calzoni dopo aver fatto i suoi bisogni, era montato sulla barca dondolante, s’era staccato dalla riva e, allontanata col remo la barca dal palo, navigava per il canneto affittato.

Mentre i tre uomini col carretto percorrevano la strada maestra, il padre del narratore era accoccolato a prua sulle tavole da lui stesso fabbricate, le ginocchia nel pullulio di fango nero che zampillava tra le tavole mal commesse; mentre essi senza sosta percorrevano col carretto la strada maestra, lui, quando una canna che scattava all’indietro l’aveva colpito in pieno viso, digrignando i denti con rancore aveva maledetto l’aria e l’acqua e la terra, con la falce aveva strappato all’acqua la canna colpevole, questo movimento l’aveva fatto scivolare in avanti, si era trovato a ciondolare oltre le tavole dalla cintura in su, ciondolando aveva legato insieme le canne, aveva stretta in fasci l’«erba» (termine che nell’idioma forestiero designa una pianta acquatica da foraggio), l’aveva stretta in fasci nei pugni massicci, l’aveva tirata in barca facendola cricchiare, aveva già abbrancato un altro fascio, tra i fischi e i sibili taglienti della falce l’aveva gettato sulle tavole, gettò il fascio sulle tavole, gettò il successivo sulle tavole, ne aveva gettato sulle tavole un altro ancora, si era già spinto oltre a violenti colpi di remo mentre alle sue spalle le piante riempivano la barca di un verde lattiginoso, aveva opposto il remo scricchiolante alla direzione della barca, la frenata l’aveva proiettato in avanti, s’era rialzato e riseduto, stando seduto, mentre le mani trattenevano il remo, intriso e gocciolante d’umidità aveva atteso che lo sciabordio si calmasse, si era messo in ginocchio, era rimasto lì inginocchiato, neve nella falda e nella piega del cappello, fumo davanti alle labbra che indifferenti sbuffavano; avvolto dallo sfarfallio della neve, nero nel mucchio di foraggio in cui era accovacciato, mentre senza sosta gli uomini col carretto percorrevano la strada maestra, si era concessa una pausa nel brulichio del canneto, in quel mare di canne che sempre dava le vertigini al narratore, accanto a sé gli steli nitidamente disegnati coi bruni ingrossamenti nodosi, dietro di essi, indistinguibile, nient’altro che lo spazio profondo e verdescialbo in cui frusciando e sfrigolando la neve cadeva.

Mentre gli uomini percorrevano la strada maestra, il padre del narratore, navigando per il canneto, era tornato indietro. Mentre i due uomini spingevano e tiravano il carretto, e mentre il gendarme marciava al loro fianco, la sorella del narratore riattraversava il cortile portando nel paniere le patate per le bestie. Mentre il narratore guardava in silenzio dall’alto dei gradini, il padre del narratore guardava le sanguisughe nell’acqua pullulante. Mentre gli uomini col carretto raggiungevano la diramazione, la bambina preparava nel paiolo il pastone per i maiali. Mentre lei ammucchiava le patate nel paiolo, il padre del narratore cercava con la mano le sanguisughe nella fanghiglia della barca. Mentre il padre schiudeva le dita e contemplava la sanguisuga prigioniera, gli uomini si fermavano alla diramazione e domandavano la strada. Mentre il gendarme tendeva braccia indicatrici, il padre del narratore spargeva sulla sanguisuga il sale che s’era messo in tasca a questo scopo. Mentre, dall’alto dei gradini della porta, il narratore pregava la bambina di dargli una patata, gli uomini rimettevano in moto il carretto e imboccavano il sentiero della casa. Mentre la sorella del narratore prendeva un tubero dal paiolo e lo gettava al narratore, sulla barca il padre sguainava il coltello. Mentre il narratore si passava da una mano all’altra la patata bollente e si soffiava sulle dita, il padre tagliava a pezzi la sanguisuga sulle tavole della barca.

Mentre il padre del narratore si puliva il coltello sui calzoni di tela azzurra, il primo uomo vide apparire la casa attraverso la neve, i tre si diedero ragione assentendo col capo, affrettarono il passo e infine raggiunsero l’ingresso del cortile, la bambina si scottò le dita col paiolo rovente, nella stalla le mucche cominciarono a urlare dalla fame, in un’altra stalla anche i maiali si unirono al coro.

Mentre il padre del narratore girava la catena della barca intorno al palo, sui gradini della porta il narratore, alla vista del carretto, smise di masticare.

Mentre il padre navigava per il canneto, suo figlio, quello che giaceva nel carretto, portava sul viso coperto di fango un sacco che, sebbene avesse molti odori, per lui non ne aveva nessuno.

I discorsi del gendarme

In campagna il gendarme fa rispettare le leggi; gli è affidata una parte del potere statale. Per gestire codesto potere egli ricorre anche ad aiuti esterni, in quanto, ovunque vada, indossa calzature grandi e solide e in caso di maltempo si carica le spalle del possente mantello; una mano la posa sulla fibbia sopra il colletto, l’altra la leva in quel saluto che ben si addice, come la sua uniforme, alla forma-stato.

Tuttavia un lungo cammino mette in disordine la sua uniforme; le brune macchie di fango si vedono più scure sul chiaro del mantello e più chiare sugli stivali di cuoio scuro. Il rumore degli stivali con cui ora avanza nel cortile è notoriamente un suono troppo ufficiale; sembra però, mentre cammina, che lo turbi; infatti cambia passo e ora incede, per evitare quel rumore, a piedi piatti e strascicati, senza più contrarre le articolazioni delle dita. Ma i suoi stivali continuano a scricchiolare.

I primi due uomini sono ancora all’ingresso del cortile, tali e quali a come sono venuti. Ci s’immagina la sorella tuttora china accanto al paiolo nel cerchio nero e scintillante della neve che si fonde intorno al fuoco; il vapore scaturisce obliquo dalle commessure del paiolo, dal secchio colmo di patate ai suoi piedi e dalla sua mano col mestolo e la avvolge in una nebbia.

Ci s’immagina il padre assente mentre incunea a ritroso tra gli alberi della riva il cavallo col carro recalcitrante. Arretra col carro fin dentro i cespugli, e siccome così non gli va bene ricaccia avanti il cavallo col pugno nudo. Poi lo spinge col veicolo in direzione perpendicolare al sentiero, finché riesce a voltare. Affonda col tacco il forcone nel mucchio d’«erba», poi, calcando in giù il manico del forcone con l’altro tacco e coi pugni e insieme levando le punte e liberandole fascio a fascio dal foraggio intrecciato, trasferisce dalla barca al carro il carico grondante.

Mentre il gendarme si avvicina a gran passi e si dirige verso il narratore, le sue labbra si preparano senza suono alle parole che si è già ripromesso di pronunziare lungo il cammino. (Una volta, destatomi dal sonno, sentii che nella stanza grande mio padre picchiava mia madre con tutte le sue forze; dapprima intesi le consuete parole che i genitori si scambiavano oltre il muro e distinsi perfettamente gli schiocchi dei colpi, sebbene accanto a me anche i miei fratelli cominciassero, strillando e ridendo, a picchiarsi per scimmiottare i genitori; ma dopo, quando lui picchiò più forte, mi sentii paralizzare e mi paralizzai, e le vene mi scoppiarono e mi stordirono, tanto che divenni sordo a ogni rumore e udii soltanto il sangue che scorreva furibondo dentro di me.)

Mentre, stordito, non sento la sua voce, il gendarme mi chiede il nome tre volte, prima che io lo confermi. Mio padre è andato allo stagno, aggiungo come ulteriore informazione non richiesta, per non dover tacere e guardare il cortile: deve tornare presto, continuo: dovrebbe, mi correggo. La patata bollente mi brucia la mano.

Il padre del narratore slega le redini dalla traversa, le trascina con sé lungo il carro, salta su, saltando cambia idea, ridiscende, marcia sui molli cuscinetti erbosi fino all’albero, segnato accanto alla corteccia dalla cupola appuntita degli escrementi, raccoglie la frusta dimenticata, se la ficca nel gambale dello stivale, la ritira fuori prima di saltar su e infila il manico nel gambale solo quando è seduto a gambe larghe in cima al mucchio di foraggio. Il cavallo l’ha già tirato fuori col carro dai solchi paludosi.

Quella là che sta scappando è mia sorella, m’infervoro. Il gendarme fa segno agli uomini roteando la mano senza entusiasmo. Ancorché finalmente si siano mossi dall’ingresso del cortile, sembra che non si muovano affatto; è semmai la rotazione terrestre a condurli a me, impietriti col loro carretto; più si avvicinano, più gli occhi indifesi sono colpiti dal sacco che, nel carretto, è già macchiato di neve.

Senza mutamento le diverse ruote dei diversi carri acciottolano e strepitano sulle pietre e sul sentiero di tronchetti.

Mio padre serra il fornello della pipa tra l’indice e il pollice e col polpastrello del pollice dell’altra mano vi preme dentro a pezzi il tabacco umido. Si china in avanti, avvicina di lato al tabacco l’esca del fiammifero acceso e aspirando cattura la grande fiamma storta nel fornello della pipa, sotto la curva massiccia della mano. Senza che i tronchetti sotto le ruote lo facciano sobbalzare, siede sul foraggio e soffia il fumo orizzontale nella neve che cade in verticale. Presto sarà qui, ripeto, mentre dietro di me, con sordo rumore, gli uomini percorrono il corridoio ed entrano nella stanza portando il peso coperto.

Intanto il padre, contro la mia volontà, trattiene il cavallo. Smonta dalla fiancata del carro e, le mani divaricate sulle cosce, esamina a occhi socchiusi la ruota posteriore. A due braccia piega e spezza un ramo della boscaglia e fruga nel fango che blocca il ceppo del freno usando il ramo come leva.

Il gendarme non demorde. Anzi inasprisce le sue domande, e intanto cammina avanti e indietro per la stanza. Zittisce lo scricchiolio degli stivali ordinandosi l’attenti. Poiché ben presto, stando sull’attenti, non sopporta più la propria voce inquisitoria, di nuovo si ordina di camminare senza pace e disturba e soverchia gli stivali scricchiolanti liberando la voce scricchiolante dalla propria gola, esibendola agli ascoltatori e seguendone tronfio i molteplici effetti, senza tuttavia che essa induca gli uomini forestieri, i quali, seduti, nascondono il muro con le loro schiene, ad alzarsi, oppure ad avere compassione di lui e a dargli man forte intavolando una conversazione. Perciò si accontenta di gettarmi le sue domande liberando dal pugno asciutto le dita fruscianti e sciorinando con le dita anche il suo potere ufficiale: che questi sia mio fratello Matt gli è ben noto; gli giunge nuovo solo che sia scomparso anche mio fratello Hans; dove io, l’interrogato, abbia trascorso il giorno precedente, non gli interessa affatto; il suo compito, spiega il gendarme, è quello di appurare come mai l’inspiegabile assenza dei due fratelli non gli sia stata debitamente riferita; cosa ne pensi mio padre (o chiunque ne abbia la responsabilità), grida bellicosamente dall’angolo più remoto della stanza, è del tutto irrilevante, non ha il benché minimo peso e può essere tranquillamente trascurato. Come se non si fosse nessuno! così a un tratto sputa di bocca l’ultima frase, mentre argina i suoi passi irrequieti e da ultimo si blocca sul posto. Come se le cose non avessero potuto andare diversamente! prosegue risentito, attestando il suo malumore col viso contratto. Come se non si sapesse il da farsi! esplode infine e piomba subito, appena scagliate dalla finestra queste parole equivoche sui forestieri apaticamente seduti, in una rigidità e in un silenzio in cui, occhieggiando timorosamente intorno a sé, insegue, insieme agli altri sonnecchianti, le proprie libere associazioni mentali.

Il padre intanto fissa i suoi stivali e rovesciando le labbra, fosca la fronte, sputa con un sibilo sulla gomma. Ora si lascia entrare nelle orecchie il cavernoso rimbombo delle ruote. Il carro passa con strepito dai tronchetti del sentiero alle tavole del ponte. Superato il ponte l’uomo tende l’orecchio al rumore dei pattini nel fango, che notoriamente somiglia a uno schioccar di labbra e a un sospirare, allo struscio delle catene, al brontolio negli intestini del cavallo, al notorio sfrigolio dei fiocchi di neve tra le foglie secche del campo di mais. Imbocca la salita col carro. La pendenza schiaccia il suo corpo contro il manico del forcone infilato nel foraggio. Si libera remigando con le braccia e piegando il tronco sulle ginocchia. Poi tende le braccia alle rastrelliere del carro e annoda strettamente le dita ai loro pioli. La testa del cavallo si impenna a ogni passo. Mio padre si alza, smonta e cammina di fianco al carro. Risale zoppicando il sentiero fino al cavallo, lo prende per le redini e lo trascina su per la salita. L’arretramento del carico drizza di colpo il cranio del ronzino, lo induce a sollevarsi e a esibirsi coi denti gialli schiumanti, trabalzando su due zampe come un cane che fa le feste: dopodiché, sebbene cada subito in ginocchio con l’uomo che cerca di sostenerlo per la cinghia, mentre il suo pugno gli si aggrappa selvaggiamente alla criniera al modo di una grinfia e di un artiglio, il carro cigolante e traballante lo trascina con sé per la discesa come in un mondo alla rovescia. Li rivedo ai piedi del pendio. L’asse anteriore mobile ha deviato il veicolo nel campo. L’uomo gira a gran passi intorno al cavallo e a passi da gigante solca il campo fino a raggiungere il tondello di legno cui è applicata la maledetta manovella del maledetto freno, vi si china sopra divaricando le gambe e intreccia le mani sotto il tondello. Mentre è in questa posizione preparatoria ci ripensa, torna a drizzarsi e cambia tattica. Senza indugio bracca il ronzino imbizzarrito, lo doma tirando a sé la catena e facendogli spalancare la bocca. Poi gli picchietta il collo a mano aperta, e facendo scattare in avanti il braccio con la catena districa per così dire d’un balzo carro e cavallo dal campo; il braccio tuttavia non ricade afflosciandosi, ma gli rimane stirato tra il corpo chino in avanti e spasmodicamente aggrappato al sentiero e la catena tesa, di modo che, mentre mio padre, il viso, il petto e le ginocchia in moto alterno quasi orizzontali sul terreno, risale a fatica il pendio opponendosi al vento contrario della nevicata, il suo braccio strattona il cavallo, il carro sobbalzante e il corpo cui appartiene, tra le feroci e ininterrotte imprecazioni che neppure l’affanno fa tacere, fino a ricondurli sulla strada salvatrice. Là mio padre si ferma e con espressione accanita si volta a guardare il sentiero. Il suo sguardo scorge la pipa che il calpestio gli ha fatto saltar fuori dalla giacca. Lascia andare la catena, con lo stivale si fa rotolare tra i piedi una pietra e la spinge dietro la ruota anteriore. La mano sinistra abbrancata ai calzoni, la destra già sul punto di aprirsi per la pipa, prende posizione sul pendio flettendo le gambe e decresce e svanisce, digrada e sprofonda dal basso in alto, per il mio occhio interiore indistoglibile, fino a dileguarsi sotto il globo terrestre. Senonché, ancor prima che sia completamente affondato, gli sbuffi del cavallo e il cigolo delle ruote che superano la pietra lo riportano a galla. Le dita brancolano in aria alla ricerca della pipa mentre il resto del corpo già si slancia in avanti, afferra le redini, si, appende alla criniera, scalciando punta gli stivali nel terreno, poi lascia andare redini e criniera, si smarrisce nel risucchio del veicolo e, preda della gravitazione terrestre insieme al carro e al cavallo annitrente, dai cui zoccoli sprizzano scintille, precipita a vite fino in fondo al sentiero, come fa un cerchione di ferro prima di adagiarsi.

Nel frattempo il gendarme porge orecchio a uno degli uomini, intento a narrare l’evento che li ha condotti qui. Dopo ogni frase l’uomo narrante volge il cranio, senza staccarlo dal muro cui è appoggiato, verso l’altro uomo seduto sulla panca al suo fianco e ripete a parte al suo compagno ciò che comunque già sanno, essendo stati entrambi testimoni oculari; parla al compagno nell’incomprensibile idioma forestiero, scrostandosi dalla gola suoni rauchi e tossicchianti; intanto dimena le braccia e mima per il gendarme il comportamento di entrambi. Mostra come se ne andassero per la loro strada dopo la giornata di lavoro, ignari di tutto; esibisce al gendarme un volto liscio e sereno, prova dell’effimera gioia e del sole che illuminava il loro cammino; poi il viso del narratore viene gradatamente colpito da qualcosa di atroce che gli dilata gli occhi; le parole che gli escono precipitosamente di bocca sono ormai gemiti e pietosi singulti, finché lui e il suo compagno, che geme consenziente, si coprono la faccia con le mani rifiutandosi a ciò che gli tocca vedere. Nemmeno lui va in cerca di attenuanti, interviene il gendarme dalla stufa troncando le loro querele, e d’altra parte in tempi come questi uno, anche come privato, non può fare a meno di abbandonarsi a certi pensieri che, seguita alzando la voce e soverchiando brutalmente le loro, come ogni cosa hanno tutti il loro rovescio, roba, conclude tirando le fila sconnesse delle sue parole, da far accapponare, piaccia o non piaccia, la pelle! Dopo questo rabbuffo guarda con impazienza gli uomini ammutoliti, dalle cui bocche aperte i rovesci dei pensieri escono ed entrano più cupi di prima. Non è mai finita, termina conciliante il suo discorso il gendarme.

Il padre è inginocchiato nel campo, una gamba nel solco, e strofina la spalla contro il carro rovesciato. Visti dalla strada, i suoi movimenti appaiono scorciati e immiseriti dall’altezza della neve. La fiancata del carro, librata nell’aria, tracolla verso terra quando lui si puntella contro l’altra fiancata e la forza a rialzarsi dal campo col ginocchio, i cui tendini scricchiolano. Così rimette il carro sulle ruote, il sopra sopra, il sotto sotto. Dopo aver rialzato le assi e averle appoggiate alle rastrelliere, getta il foraggio sul carro. Lo fa infiggendovi le punte del forcone; dalla strada si sentono cricchiare gli steli. Allarga sul foraggio il telo protettivo e vi infigge il forcone. Il suo viso sussulta e si scompone, nella bocca scintillano le file dei denti. La sorella, che scende verso di lui a ginocchia molli, può sentirlo; ha potuto sentirlo imprecare.

Forse gli è successo qualcosa col cavallo, dico.

Improvvisamente mio padre viene scosso da un urlo.

Cosa succede? si informa il gendarme.

Niente, dico, e mi rifugio nell’ascolto degli uomini che narrano a turno, sicché il gendarme torna a sprofondarsi nelle sue cogitazioni.

Mio padre è appoggiato di pancia al veicolo e trebbia il foraggio coi pugni. Quando la sorella gli porta la notizia, rivolta il foraggio cricchiante con un grande urlo appassionato.

Invece l’aveva incontrato per strada, raccontò mia sorella. Vedendola arrivare di corsa non si era neppure fermato; solo quando lei a poco a poco era salita da dietro sul carro in moto, aveva trattenuto i passi del cavallo frenandone la velocità; quando poi si era arrampicata sul foraggio fino a lui, aveva lentamente voltato il mento sulla spalla e l’aveva guardata; così, standogli dietro, le mani sprofondate negli steli crepitanti per non scivolare, gli aveva dato la notizia. Stavolta si era fermato. Qualche giorno prima, raccontò in seguito mio padre in stato di ubriachezza, aveva visto suo figlio, quello che al momento giaceva ancora sotto il sacco coi capelli bagnati, inginocchiato coi suoi fratelli dietro il parapetto del balcone; uno accanto all’altro, ma ciascuno occupato con se stesso, pisciavano in cortile proiettando uno zampillo precalcolato attraverso gli intagli ornamentali; chi arrivava più lontano vinceva. Matt, dal cui viso ormai, in segno dell’assenza di vita, era scomparso il solco verticale inciso tra il setto nasale e il centro del labbro superiore, di modo che la pelle e la carne, come in un maiale macellato, gli si arrontondavano perfettamente lisce sopra i denti e la bocca infossata, era quello di noi tre che aveva vinto.

Mio padre era rimasto seduto immobile finché lei gli era rimasta seduta accanto, disse mia sorella. Poi aveva tirato le redini ed era ripartito.

I rumori

Il vento caldo fa entrare la polvere dalla finestra. Sento il rumore della tendina. Sento il rumore della sabbia che batte contro il vetro. Sento il rumore dell’armadio aperto. Sento il rumore delle foglie bagnate degli alberi. Sento il rumore dell’erba sotto gli alberi. Sento il rumore del parafango della bicicletta. Sento il rumore del fil di ferro tra i pioppi. Sento il rumore del cerchione appeso al granaio. Sento il rumore degli indumenti bagnati sul fil di ferro. Sento il rumore della porta della rimessa che sbatte contro la catasta di legna. Sento il rumore di un treno in corsa.

 

 

«Quella volta io ero seduto davanti alla stufa e fissavo il fuoco.»

Il racconto della sorella

Mia sorella fissava l’interno dell’armadio aperto attraverso le ali logore di una tignola.

Spesso, la sera, dopo aver servito la cena da basso saliva nella camera assegnatale e si piazzava davanti al duplice specchio, fin quando, essendoci bisogno di lei, la chiamavano dal pianterreno.

Per prima cosa, quella volta, guardò da vicino con occhi distratti la tignola che teneva tra le dita e che portava sul dorso una corazza nera e sferica. Con le prime due dita delle mani pettinò cautamente le quattro ali, separandole; con le quattro dita dilatò e aprì a ventaglio le quattro ali, le due piccine e sottili e quelle grandi sottostanti. Lasciò andare da una parte la coppia d’ali, e la tignola svolazzante rimase appesa alle altre dita. Si annusò la polvere sulla mano e guardò da vicino, chinandovisi sopra, le due sfere affiancate che erano la testa della tignola e il punto nero al centro della testa. Con le due unghie di due dita decapitò le due teste della tignola. Poi tornò ad allargarsi la tignola tra le dita.

Questo è il momento in cui guarda nell’armadio attraverso le logore ali. Getta via la tignola. Si riappoggia allo schienale nella nera veste frusciante, mentre i suoi occhi si dilatano e sprofondano nell’oscurità impercorribile e inesplorabile dell’armadio; sotto la vivida luce elettrica che nel pomeriggio è tornata (i bombardieri non sono più venuti) contemplano nell’armadio in ombra gli ammassi appesi e immobili degli abiti e dietro di essi lo spazio tenebroso e avvolto nel mistero, che sotto i suoi sguardi sembra non chiudersi mai. L’infinita profondità di quello spazio in cui gli occhi si smarriscono le appesantisce la testa; gli occhi cominciano a bruciare; in fretta, come a scopo d’esorcismo, la sua bocca pronunzia una parola. Finalmente l’immagine degli abiti e dello spazio risucchiante dietro gli abiti raggiunge la sua scorta di nomi, e lei riconosce gli oggetti e li nomina. Cappotto, gruccia, tignola e polvere. Mentre, disincantata dai suoni che emette, fa girare gli occhi attorno a sé, continua a nominare: finestra, muro, porta, maniglia, stufa, ruggine, fuoco. Comò, specchio, letto, specchio. Impronta del dito. Impronta del dito della mano. Impronta del dito della mano sullo specchio. Scoppia a ridere e contempla il proprio viso ridente. Neve, pietra, acqua. Ghiaccio, chiodo, asse. Acqua, sacco, sabbia. Quando si alza e si reca alla finestra nel frusciante vestito della mamma, percepisce nella stalla, disarmonici rispetto alla sua andatura misurata, l’aspro tintinnio delle catene e il cricchiare del foraggio nelle fauci delle mucche. Torna indietro in fretta e durante il movimento di ritorno scivola in ginocchio davanti allo specchio grande. Ora percepisce anche il brontolio e il mormorio di coloro che pregano nella stanza da basso. Si alza. Va all’armadio e ne chiude a chiave la cavità. Poi si mette davanti allo specchio ingiallito che pende dal muro e voltandosi inclina lentamente la testa all’indietro. Mentre la testa si inclina all’indietro, gli occhi, con un movimento contrario, si torcono verso lo specchio. A un tratto la bocca si spalanca. Il mento cade. Il solco tra naso e labbro comincia ad appiattirsi.

Lei però, non riuscendo a veder nulla, si rimette diritta e senza abbandonare lo specchio con gli occhi retrocede verso la sedia e prende il secondo specchio. Torna allo specchio appeso alla parete. Alza il secondo specchio. Volta il viso, e tenendosi davanti il secondo specchio osserva attraverso le palpebre che lentamente si chiudono l’immagine rispecchiata di profilo nello specchio a muro. Di nuovo la bocca si spalanca. Osserva nello specchio la bocca spalancata riflessa e la pelle liscia che si arrotonda tra il setto nasale e il centro del labbro superiore: prima v’era incisa la tacca verticale. Guarda l’immagine di suo fratello da lei realizzata nello specchio. Riesce a imitare l’annegato.

Si avvicina il più possibile al riflesso, tanto che il suo fiato appanna il vetro; poi, mentre le dita tergono il vapore, osserva incuriosita il dolore e i lamenti che erompono irresistibili dalla gola nel viso squarciato. Tavolo. Finestra. Seggiola. Finestra, tavolo, seggiola. Seggiola tavolo finestra. Finestra: finestra: finestra!

La storia dell’annegamento

Racconto.

Ero il maggiore di tre fratelli. Eravamo i figli di nostro padre e di nostra madre, di cui mi rammento come di una buona e brava donna.

Venne il tempo in cui usavamo andare a scuola. Per andarvi percorrevamo un sentiero che fiancheggiava un torrente. Poteva anche succedere che fermassimo sulla strada maestra il furgone del latte; in seguito, per abitudine, l’autista si fermava da solo quando ci vedeva arrivare. Aspettava che fossimo saliti da dietro, scavalcando pneumatici e cordami, e che ci fossimo seduti sugli zaini di scuola tra i bidoni del latte. Ma il più delle volte il furgone era già passato, quando uscivamo di casa e raggiungevamo la strada maestra. Allora usavamo abbreviare il cammino deviando dalla strada e percorrendo la gola in cui fluiva il torrente.

La scuola si trovava nel paese di Übersee. La scuola del paese di Öd, più vicina, era bruciata l’anno precedente. Per questa ragione i bambini in età scolastica del paese di Öd dovevano andare a scuola nel paese di Übersee. In seguito, quando la guerra si fu abbattuta anche sul paese di Übersee, i bambini in età scolastica dei paesi di Übersee e di Öd dovettero andare a scuola nel paese di Anhöh. Il paese di Anhöh, che secondo il diritto cittadino di cui godeva era una città, si trovava più a sud, a una distanza di tot chilometri dal paese di Übersee e a una distanza di tot chilometri dal paese di Öd. Le distanze tra i paesi e le loro posizioni non sono mutate nel corso del tempo. Ancora più tardi, poco prima della fine delle ostilità e dopo che nel convento sconsacrato del paese di Öd erano state ricavate alcune aule di fortuna, i bambini in età scolastica di questo paese andarono a scuola all’abbazia, mentre i responsabili dell’educazione dei bambini in età scolastica del paese di Übersee dovettero scegliere se mandare i bambini a scuola nel paese di Öd, situato a una distanza di tot chilometri sulla strada maestra in direzione nord, oppure nel paese di Anhöh, situato a una distanza calcolabile su una strada asfaltata in direzione sud; i più, in quei tempi incerti in cui nessuno sapeva cosa gli riservasse il domani, scelsero il paese di Öd, che non aveva un diritto cittadino e tantomeno la prospettiva di diventare un gradito bersaglio degli attacchi aerei in seguito alla fondazione di pericolosi campi militari nel proprio territorio; anzi, al paese mancava perfino il diritto di avere un giorno regolare di mercato.

Per designare i percorsi scolastici c’erano tre modi di dire che passavano di bocca in bocca: Io vado in convento. Io vado oltremare. Io scendo in cima a una collina.1

Ricomincio a raccontare.

Usavamo andare a scuola costeggiando un torrente. Ma un giorno, era novembre, i miei fratelli andarono da soli. L’organizzazione scolastica si trovava allora nel paese di Übersee. Loro però non andarono in paese, ma passarono la giornata prima allo stagno, dove spezzarono le pannocchie del canneto e stanarono fagiani, anitre selvatiche e ogni sorta di selvaggina; indi nei campi tra i paesi, dove tagliuzzarono le zucche fradice che li punteggiavano e se la svignarono di campo in campo portando con sé delle rape rubate.

Si potrebbe continuare così, raccontando che furono visti insieme per l’ultima volta quando verso sera, subito prima che cominciasse a piovere, uscirono da un campo di mais, risalirono la scarpata della strada maestra e a una certa distanza (un tiro di pietra) l’uno dall’altro si sedettero sui paracarri e masticarono le rape rubate.

Sono soltanto esempi.

È un esempio anche se racconto che furono visti da un’auto che in un primo tempo correva dal paese di Öd in direzione del paese di Übersee. Durante questo primo tragitto, così fu riferito, li si osservò mentre uscivano di corsa dal campo di mais e si fermavano al suo esterno e con teste anelanti scrutavano l’aria e tendevano l’orecchio al rombo minaccioso. Così furono visti, tuttavia, solo per il tempo di uno scatto fotografico; poiché subito, appena ebbero percepito il rumore che andava aumentando, tornarono a nascondersi nel campo di mais e si protessero la testa con le mani, mentre il rombo erompeva dall’orizzonte e assumeva la sagoma rassicurante dell’auto, i cui pneumatici, a crepitanti bordate, sparavano il pietrisco della strada nel campo. Ora, alzando la testa, poterono vedere tra gli steli ignudi del mais la polvere che le ruote strappavano al pietrisco; insieme al rombo che si smorzava e moriva udirono levarsi dall’auto in corsa, all’unisono, l’acuto uggiolio ininterrotto di un cane.

Quando il veicolo rifece il tragitto e corse dal paese di Übersee al paese di Öd, i due avevano spensieratamente risalito l’erba grigia e sedevano quieti sui paracarri, distanziati tra loro di qualche ventina di metri. Sporgendosi in avanti allo stesso modo si stringevano al petto le rape, mentre la mano, subito sotto la bocca aperta di cui una guancia ancora masticava, tagliava col coltello a serramanico le fettine sottili e tagliandole già le offriva con la lama alle labbra, cui non restava che protendersi per afferrare il cibo. Quando i fratelli percepirono per la seconda volta un rumore simile a quello dei bombardieri, sgranarono gli occhi e subito si irrigidirono, come punti da un insetto, intorno agli occhi sgranati. Goffamente accumularono in fondo alle guance i bocconi non ingoiati. Si resero conto che stavolta il veicolo sfrecciava verso di loro dall’altro lato del cielo. Respiravano appena e a fatica. La pelle dei loro visi si faceva rossa.

Tuttavia furono poi visti dall’auto mentre ricominciavano a masticare con violenza; si disse che banchettavano senza più occuparsi dell’auto. Non si curarono neppure del cane che all’interno della macchina prolungava all’infinito il suo gemito. Adesso pioveva; i fratelli, per proteggersi, si erano messi gli zaini sulle ginocchia; uno di loro stava coprendosi la testa col fazzoletto. Si era alzato, raccontarono, e alzandosi aveva bloccato lo zaino che gli scivolava dalle ginocchia, aveva scosso la testa, aveva acchiappato il fazzoletto che svolazzava verso terra e se l’era ficcato nei calzoni bagnato com’era; i suoi ulteriori movimenti, mentre l’auto in corsa prendeva le distanze, furono progressivamente assorbiti dalla strada e dai campi; l’una e gli altri trascinarono via con sé le asperità rappresentate dai miei fratelli, che, viste dal lunotto posteriore coperto di pioggia, sembravano immerse in acqua bollente, e all’orizzonte le spianarono e le disciolsero.

Racconto.

Mi affretto a raccontare il seguito.

Un giorno di novembre, a quanto si disse, i miei fratelli sarebbero stati seduti sui paracarri della strada maestra tra il paese di Öd e il paese di Übersee.

Ora termino, di seconda mano, il racconto.

Dopo esser stati seduti sui paracarri, ordinarono ai loro piedi di proseguire. Proseguirono sulla via del ritorno finché giunsero a una diramazione e la percorsero, finché giunsero a un’altra diramazione su cui proseguirono. Su questa diramazione risalirono il corso del torrente finché giunsero in una gola. Percorsero questa gola finché, prima di un ponte, giunsero a una diramazione sulla quale però non proseguirono; solitamente facevano procedere i loro piedi su questa diramazione e, passando tra il paese di Öd e il paese di Reiting, situato più a nord, riguadagnavano la strada maestra, sulla quale proseguivano fino a giungere a una diramazione sulla quale proseguivano fino a giungere a una casa per il cui corridoio raggiungevano infine questa stanza in cui io sono coricato. Ma quella volta non avevano continuato il cammino a partire dal ponte; si erano fermati lì e si erano messi a discutere. Indi fecero dietro front e ritornarono nella gola. Erano ancora in due.

Vigliacco, disse il primo. Vigliacco sarai tu, disse il secondo: questo è un esempio dei loro discorsi.

Adesso erano nella gola e discutevano, gridando e facendo gesti teatrali.

Tu non salti. (Il primo è troppo vigliacco per saltare.)

Dammi la liana. (Il secondo deve passare al primo la liana appesa all’albero della riva.)

Vigliacco. (Il primo viene nuovamente pungolato.)

La liana. (Il secondo non deve sprecare il tempo coi discorsi.)

Hans aveva passato la liana a Matt. Matt era tornato fino alla roccia con la liana. Due rocce tra cui scorre un torrente fanno una gola.

Prima io, poi tu. (Dopo il primo deve saltare il secondo.)

Sì. (Il secondo è d’accordo.)

Quello con la liana guardò l’altra riva drizzando il mento. (Ciò induce a supporre che non fosse ancora deciso.)

Sei un vigliacco. (Di nuovo si fa appello all’orgoglio del primo.)

No. (Il rimprovero viene respinto.)

Certo che sei un vigliacco. (Astutamente il rimprovero viene ripetuto.)

Improvvisamente aveva preso la rincorsa. Hans aveva udito il raschio della sua scarpa quando si era dato la spinta dalla roccia. Matt era volato alto sopra il torrente ed era caduto in ginocchio nell’erba dell’altra riva. Hans aveva acchiappato, mentre l’altro saltava, la liana risospinta verso di lui. Matt si era leccato le dita e con la saliva si era pulito le macchie d’erba dalle ginocchia.

Finisco di raccontare.

Hans aveva scagliato la liana verso Matt. Matt era arretrato con essa verso la roccia e si era dato la spinta. Hans gli aveva gridato qualcosa. Lui non aveva più risposto. Quando saltò, il suo slancio strappò la corda dall’albero. Lo slancio aveva strappato la corda dall’albero.

I nomi dei rumori

Il rumore della tendina nel vento viene anch’esso chiamato uno stormire; può anche essere paragonato al sibilare del fuoco che si consuma in una stufa; se la tendina è di stoffa più solida, il suo rumore nel vento viene chiamato un garrire; questa espressione è usata anche per le bandiere. Il rumore della sabbia che il vento fa battere contro il vetro viene chiamato un crepitare; è possibile anche il paragone, con il fine picchiettio di una pioggia su un tetto di lamiera; un più intenso picchiettio della pioggia sul tetto di lamiera viene chiamato un tambureggiare. Il rumore dell’armadio che si apre nel vento viene chiamato un cigolare. Il rumore dei pioppi nel vento viene paragonato al dolce stillare dell’acqua. Il rumore del cerchione di ferro che il vento stacca dalla parete del granaio e fa rimbalzare in cortile viene chiamato uno squillare. Il rumore dell’erba bagnata nel vento viene chiamato uno zufolare; è anche d’uso comune il paragone col rumore del legno infuocato che viene immerso nell’acqua. Se gli steli d’erba sono secchi, il loro rumore nel vento viene chiamato un frusciare. Il rumore del parafango malfermo di una bicicletta viene chiamato uno sbatacchiare. Il rumore di un fil di ferro teso nel vento viene chiamato un frinire; il rumore delle camicie bagnate sul fil di ferro viene chiamato uno schioccare; spesso lo schioccare delle camicie nel vento viene paragonato a un sordo batter d’ali; l’indistinguibile batter d’ali di un grande stormo d’uccelli di piccole dimensioni o molto lontani viene a sua volta chiamato un frullare. Il rumore della porta della rimessa che dall’altra parte del cortile sbatte contro la catasta di tavole viene chiamato uno schiantare; ma se le une o le altre, o le tavole o le assi della porta, sono fradice d’umidità, l’urto della porta mossa dal vento contro le tavole viene chiamato anche un tonfare. Il rumore della bicicletta che sta per cadere viene chiamato uno stridere; il rumore, subito dopo, dei raggi che ancora girano, un ronzare, il rumore del tubo che sbatte per primo sui sassi, uno schianto.

Gli insetti sugli occhi del cavallo

Si descrive come il padre, di solito quando è ancora buio, attacchi il cavallo al carro; come, piegato in due, prema tra catene e ginocchio la zampa anteriore del cavallo, caparbiamente tesa dallo zoccolo in su, perché entri tra le stanghe dove già stanno le altre zampe; come infine il cavallo entri obbediente tra le stanghe con la zampa richiesta e nello stesso tempo ne riesca con gli zoccoli posteriori. Mi ricordo che il padre torna indietro, conficca la spalla e la testa nel corpo del cavallo ed emettendo dalla bocca i brevi selvaggi comandi picchia più volte con la mano aperta quel punto della coscia dove le lunghe pieghe scaturiscono dalla pelle ogni volta che il cavallo, nel suo tranquillo andare davanti al carro, avanza questa zampa per procedere, dove le lunghe pieghe tornano a scomparire e si ritirano dalla pelle ogni volta che il cavallo, mutando il passo, avanza l’altra zampa per procedere; mi ricordo che colpisce con la mano la carne del cavallo, indi la stringe a pugno e incunea la testa nel ventre fradicio di sudore del cavallo, e che a questo punto il cavallo piega graziosamente gli zoccoli e facendo il grazioso rientra obbediente tra le stanghe; che il padre smette di urlare, che scioglie le dita strette a pugno e che con esse raccoglie il cappello dalle pietre. Seguono poi gli usuali movimenti con cui si copre la testa col cappello, con cui avanza di nuovo, con cui gira intorno al cavallo a scopo di verifica, i movimenti con cui, mentre gli gira intorno, infila le due estremità delle stanghe negli anelli dei finimenti loro destinati, con cui avvolge le catene alle estremità delle stanghe e le annoda saldamente a queste, i movimenti con cui l’avambraccio passa sul viso bagnato e con cui il padre si terge poi il sudore dal viso col petto della camicia «come la sporcizia da una lama di coltello». Ciò tuttavia fa già parte di un’altra descrizione, in cui si mostra come il carro col foraggio falciato si rovesci sulla via del ritorno dallo stagno, come l’incidente faccia uscire le stanghe dalle catene, come l’uomo, a forza di spalle, rimetta sulle ruote il veicolo coricato su un mucchio di pietre al margine del campo e come, in questo istante, attacchi per la seconda volta il cavallo alle stanghe. Ma anche questo è già fatto, nel momento in cui si terge il sudore dal viso e nota sul dorso della mano e sulla manica della camicia i puntini delle minuscole mosche (che spesso anch’io, d’estate, trovavo sul mio viso quando ero andato in campagna con la bicicletta, che poi, uno dopo l’altro, trasferivo dalla mano su un foglio vergine di quaderno, che infine erano su quel foglio i segni d’interpunzione delle frasi e dei proponimenti che trascrivevo per ordine di mio padre).

«Le mosche sono morte.» Dapprima le struscia dalla mano sul petto; poi gira la mano sul polso e le struscia via anche dalla manica. «Mentre esegue questa operazione, sorge il sole. Insieme al sole anche il vento caldo irrompe nella mezza luce che non è luce né crepuscolo e in cui finora i movimenti parevano morti e intristiti, ed estorce le lunghe ombre agli oggetti che si levano dalla terra, e incava e solca il viso dell’uomo», il quale, senza alzare la testa in risposta all’evento, si gratta via i resti delle mosche dalla camicia con le punte delle dita. Mentre con l’altra mano cerca la catena del morso, scorge ora sui calzoni i puntini neri e sfumati: le ali sono intatte e si drizzano rigide dai puntini. L’uomo avvolge il dito nel fazzoletto, gratta via i puntini dai calzoni e li scuote dal fazzoletto; crede di scuoterli dal fazzoletto; più tardi, a mattina inoltrata, spiegherà il fazzoletto sul pavimento in pietra della chiesa e durante l’elevazione, dopo essersi tirato su le cuciture dei calzoni a protezione della piega, s’inginocchierà con una gamba sui resti di mosche incollati al fazzoletto.

Ma non siamo ancora a questo punto. Nella descrizione è stato tralasciato come l’uomo fronteggi il cavallo e come, quando sorge il sole, osservi le mosche più grosse «che si sono radunate sugli occhi aperti e umidi del cavallo come su sterco fresco; siccome sono così fitte che, mentre succhiano e bevono, quasi non possono muoversi, quasi tutte, ogni volta che gli occhi del cavallo ammiccano, restano immobili ai margini della palpebra, come se fossero parte di questi occhi ammiccanti. Le poche che si levano in volo ricadono subito nello sciame o si aggirano nelle sue vicinanze alla ricerca di qualcosa. Un altro sciame si è annidato nelle froge del cavallo. Anche il corpo e la conca sotto la coda sono ricoperti di mosche lungo le strisce di sudore». L’uomo osserva il tafano che ad ali accostate s’incunea verso l’occhio attraverso lo sciame brulicante; il suo corpo grigio viene descritto come lungo, piatto e sottile; è della specie più piccola, il cui volo singolo è quasi senza suono, e che viene avvertita solo quando punge la pelle in fondo alla schiena. Dalla cinghia di cuoio crepato posta dietro l’orecchio il tafano è avanzato attraverso le mosche fino all’orlo dell’occhio, senza che si sia visto il formicolante arrancare delle sue zampe. È posato sulla palpebra superiore in mezzo alla schiera, simile a squame, delle mosche. L’uomo non ne distoglie lo sguardo; i suoi occhi sono profondamente infossati nella testa e rilucono del colore scialbo della vecchiaia. «Nel vento i peli della criniera si rizzano sulla groppa, gli steli dell’erba si rizzano tra le pietre, le ombre degli steli si rizzano tra le pietre, le ombre dei peli si rizzano sulla fronte, le ombre della criniera che si rizza e dei cardi che si rizzano tra le pietre diventano ombre volanti, mentre i materiali più solidi del foraggio ancora bagnato sul carro, del forcone nel foraggio, del carro stesso, del cavallo e dell’uomo restano ancora immobili.» Quando però il cavallo si stacca, per così dire, la testa dal collo e per così dire la getta via e incurante del peso del collare e delle stanghe si leva di scatto e s’impenna, con lui anche i materiali solidi e le loro ombre intessute insieme al margine del campo si levano in un movimento. L’uomo strattona con la catena il cavallo imbizzarrito, il cavallo sposta il carro, le mosche si levano in volo e di nuovo circondano e assalgono gli occhi liberati, il foraggio saltella sulle assi, il forcone comincia a oscillare, le ruote imprimono nel campo le loro tracce, le mosche brulicano di nuovo sugli occhi. «Il tafano, incastrato sotto la palpebra dopo aver punto, sporge in diagonale dall’occhio del cavallo col suo corpo appiattito.» Mentre ora mi ricordo dell’immagine del cavallo e dell’immagine dell’uomo che cammina accanto al cavallo, mentre sento in cortile il rumore della bicicletta che cade e tutti gli altri rumori, mentre brancolo sotto il letto alla ricerca delle scarpe, nello stesso tempo mi viene ricordato il ronzio del tafano, del gigantesco tafano, che il cavallo, un altro cavallo, pareva ascoltare con la testa levata, quel ronzio che, avvicinandosi, diventò uno scoppiettio rombante che ammutolì all’improvviso; nello stesso tempo mi ricordo che il cavallo, attaccato a un carro carico di covoni, subito, ancor prima che il tafano lo pungesse, allargò le gambe e si frustò i fianchi con la coda; mi ricordo, mentre adesso sono in piedi, mentre mi dirigo a tastoni verso l’armadio aperto, che Hans strappò dal campo quello stelo rigido, che il cavallo, mentre ormai il tafano era tutt’uno col suo mantello, di colpo abbandonò ogni resistenza, che si limitò a strusciare goffamente la testa nell’aria, che s’irrigidì dal collo in avanti, che Hans prese leggermente il tafano tra il pollice e l’indice e tirò a sé la sua testa e lo estrasse per intero dal ventre del cavallo; mi ricordo, mentre cerco nell’armadio l’abito della festa, che col pollice e l’indice dell’altra mano mio fratello infila la punta dello stelo strappato nel corpulento posteriore del tafano, che conficca sempre più nel tafano la dura spina che si flette, che anche il tafano si flette e s’impunta piegandosi in due, che mio fratello continua a spingere senza scomporsi, e che il tafano si arrende; mi ricordo che in seguito i fratelli sono riuniti in tre a piedi scalzi tra le stoppie, che osservano il tafano ancora con sei occhi, che esso è posato sulla mano davanti a me, giallo e cattivo col suo pungiglione artificiale, che di comune accordo, fischiando e gridando, incitiamo il tafano a volare, che le mie dita conficcano ulteriormente il pungolo, che il tafano si leva a vite, che si ferma in volo sopra di noi, che poi d’un balzo si allontana rombando e scoppiettando e ronzando e non si lascia più inseguire né dalle mani che tentano di acchiapparlo né dagli sguardi, in quel giorno d’estate in cui il sole splendeva come splende anche oggi, in un giorno d’estate che era una domenica, che è una domenica, perché mi sono svegliato prima del tempo e sono rimasto a giacere sveglio e semisveglio e nuovamente addormentato, perché fin nel sonno ho percepito i rumori del cortile nel vento, perché mi sono meravigliato di quei rumori, perché ho pensato e ripensato, perché ho dormito e semidormito senza più riuscire a strapparmi al sonno, perché mi sono reso conto che il ronzio dell’elettrodotto dietro la casa era ammutolito, che quel ronzio è ammutolito, il ronzio che col suo ammutolire mi ricorda il fratello che non è più qui, che attualmente non è più qui, in questo edificio, in questo paese, in questo territorio, in questo mattino d’estate in cui c’è sole sul mio viso, in cui immergo le mani nell’acqua tiepida, nell’acqua insipida e terrosa dopo il temporale notturno, e le mie unghie colpiscono con sordo rumore il fondo del catino.

 

 

Nessuno vede il viso del cieco nello specchio.

Il risveglio

Il tempo che intercorre tra il momento del risveglio e il momento in cui non si ha più sonno, l’intervallo di tempo tra la pulsazione con cui il giacente ridiventa consapevole di sé dopo il sonno e la pulsazione con cui anche i sensi del giacente si rianimano ed egli può di nuovo udire e annusare e gustare, questo tempo, disse mio fratello, sorprende la coscienza in uno stato d’indifesa nudità; poiché il giacente è ancora spoglio dei suoi sensi, non può difendersi dai pensieri che gli vengono, mentre, quando non ha più sonno, può trovare con loro un accordo amichevole chiudendogli la bocca con una colazione, annegandoli nelle buone bevande, ottundendoli col tastare delle proprie dita, tacitandoli a furia di discorsi, distraendoli mediante rumori o indebolendoli con qualsiasi altro stimolo sensoriale; invece, mi erudì, il tempo che intercorre tra il momento del risveglio e il momento in cui il giacente ritrova la consapevolezza è il tempo angoscioso del risvegliato, il tempo cattivo, il tempo di penitenza che lo fa torcere dalla vergogna, il tempo del sudore, disse, il tempo del ravvedimento, disse, il tempo chiaro, il tempo glaciale, il tempo di guerra, disse, il non-tempo.

Sebbene il mio corpo fosse ancora paralizzato dal sonno, sentivo già le mani che penzolavano dal letto affiancate. Quando flessi le dita e mi sfiorai le palme coi polpastrelli, credetti di percepire del fango secco; non sentii la pelle delle palme e dei polpastrelli, ma ravvisai per esperienza ciò che sfioravo e con che cosa lo sfioravo. La pelle frusciò come carta disseccata e indurita dal sole. Ogni volta che di notte aveva piovuto, quando veniva il giorno trovavo il segno di quella pioggia sulle mie mani: erano disseccate e raggrinzite e penzolavano dalle braccia come corpi estranei, quasi fossero cementate nel fango. Una volta mi capitò di dormire con le dita incrostate di fango secco. La sera prima ero stato alla cava di sabbia e nel cercare avevo spalato la sabbia che era smottata dai pendii a causa della pioggia; al ritorno non m’ero lavato le mani; nascosto sotto la coperta avevo cercato di prender sonno; m’ero sforzato di addormentarmi. Era stato come ai tempi in cui la sera nostro padre non rientrava: noi giacevamo sotto le coperte e cercavamo di prender sonno, e al mattino, quando andavamo a vederlo, lo ritrovavamo che giaceva puzzolente nella sua stanza. Per addormentarsi c’erano molti metodi. Per esempio si cita spesso quello di contare. Tuttavia in certe notti i miei pensieri giravano in tondo per un bel po’ prima che li intercettassi e mi rendessi conto che, a mia insaputa, mentre pensavo stavo ancora contando. Allora trattenevo il respiro per scacciare i pensieri dal cervello; ma loro, approfittando del buio, tornavano a infiltrarvisi da ogni parte. A questo punto mettevo da parte un pensiero e ne inseguivo un altro che non voleva venirmi; mentre mi dedicavo a questo, quello che avevo messo da parte mi raggiungeva di nuovo e s’impadroniva di me che inseguivo l’altro. Oppure respiravo appena, con inalazioni così poco profonde che nella gola, nel petto e nello stomaco l’aria diventava una molla d’acciaio che mi faceva scattare avanti e indietro, finché tornavo a inalare il respiro e i cattivi pensieri; oppure concentravo la coscienza, respirando, sul respiro stesso che entrava e usciva da me e ci pensavo sopra a lungo, finché respiro e coscienza s’intrigavano tra loro e il sangue mi montava al cervello. Ciò tuttavia succedeva anche quando respiravo volontariamente, ancor prima di aver bisogno d’aria, e in seguito aspettavo, tendendo l’orecchio, che il corpo si sollevasse e si abbassasse nel respiro secondo le proprie regole, senza la volontà; infatti esso restava fermo insieme allo stomaco infossato e io sentivo soltanto quel rombo nel condotto uditivo che mi gonfiava e mi dilatava e mi metteva a dura prova, costringendomi infine a respirare di nuovo con la volontà. A questo punto avevo l’abitudine di percorrere alla cieca il corridoio fino alla cucina, di aprire alla cieca lo sportello della credenza e di pescarvi dentro, con le formiche sulle dita, il pane e il coltello. Quando ero di nuovo a letto e mangiavo di quel pane, i bocconi purificavano la mia stanchezza; potevo distendermi e masticare, spingendomi il pane in bocca senza sosta, e col pane inghiottire nel sonno i pensieri. Ma se (quando) mi svegliavo, essi ricomparivano nella saliva che mi si era prosciugata sulla lingua e nel resto del pane che, facendomi ricordare, era stretto nel mio pugno. Non mi muovevo. A poco a poco mi spiegavo il sapore sulla lingua e la sabbia che mi corrugava la pelle delle dita come se fuori avesse piovuto; una volta, mi ricordavo, avevo dormito con le dita incrostate di fango secco. In seguito, quando (se) mi muovevo, il cervello si rammentava dei rumori che l’orecchio aveva uditi molto tempo prima, e dell’odore di carbone in gola e dei riflessi infuocati delle braci sulle pareti oscure di cui un tempo gli occhi dilatati erano stati colmi, mentre senza difesa soccombevo ai pensieri nel breve tempo (nel non-tempo, disse mio fratello) che intercorre tra il risveglio della coscienza e il risveglio dei sensi.

Dopo mi ero seduto davanti alla stufa e avevo fissato il fuoco.

La bicicletta

«È stato un paio di giorni fa.»

È stato un paio di giorni fa, passo davanti al campo sportivo e sento i bambini gridare. Mi fermo e sento che si avvicinano; sento che spingono il pallone davanti a sé e che a poco a poco smettono di gridare e che parlano tutti insieme e che parlano più forte e che strascicano le parole sempre di più e che, più lentamente si avvicinano, più lentamente parlano. Sto lì e sento quello che dicono e i loro discorsi, e li sento discorrere e dire e ridire il già detto. Li sento parlare senza interruzione di una bicicletta; sento che uno ne parla e domanda se quella bicicletta è mia; poi sento un altro dire la stessa cosa, e poi sento un terzo dire la stessa cosa: se quella bicicletta è mia.

Quale bicicletta? dico.

Quella davanti al cinema, sento dire da uno.

Dove l’avrei presa una bicicletta? dico.

L’ho lasciata lì ieri, sento dire da un altro.

Quando? dico.

Nel pomeriggio, sento dire da un altro ancora.

Nel pomeriggio quando? dico.

Sento che uno dice un’ora.

A quell’ora ero a casa, dico.

A quell’ora ero in paese, sento dire da un altro.

Nessuno mi aspettava in paese, dico.

Infatti nessuno mi aspettava in paese, sento dire da un altro ancora.

Non avevo niente da fare qui, dico.

Certo che avevo qualcosa da fare qui, sento dire da uno.

Per niente, dico, avevo ben altro da fare che andare in paese.

Me lo si legge in faccia che dico bugie, sento dire da un altro.

Ebbene, dico, allora, come dite voi, ho attraversato il paese spingendo una bicicletta.

Sono passato davanti a loro spingendo quella bicicletta, sento dire da uno.

Giusto, dico, a quell’ora mi avete visto spingere una bicicletta attraverso il paese, può esserci qualcosa di vero, e voglio credervi. Dunque avevo ripiegato la giacca sul manubrio e spingevo a mano la bicicletta attraverso il paese tenendo il sellino con una mano e con l’altra la manopola del manubrio; i muri delle case, che sono adiacenti l’una all’altra senza soluzione di continuità, mi davano la direzione. Voi stavate alla finestra, forse avevate portato lì delle sedie, i più grandi stavano sul pavimento, i piccoli sulle sedie dietro ai grandi, stavate alla finestra senza spingervi e senza pigiarvi e senza dedicare grida, richiami e osservazioni all’uomo che spingeva alla cieca una bicicletta attraverso il paese; tutt’altro: ve ne siete stati zitti, avete girato in silenzio le teste seguendo il mio cammino e io ho camminato lentamente controsole sulla larga striscia polverosa che fiancheggia la strada lungo i muri delle case, descrivendo un cerchio intorno al posteggio di biciclette del meccanico, intorno al posteggio di biciclette della prima osteria, intorno al posteggio di biciclette della seconda osteria, intorno al posteggio di biciclette del carraio, intorno al posteggio di biciclette della terza osteria, intorno al posteggio di biciclette dell’osteria di mia sorella, intorno al posteggio di biciclette dell’elettricista, intorno al posteggio di biciclette della bottiglieria e intorno al posteggio di biciclette del negozio di granaglie, finché sono arrivato al cinema e ho finalmente appoggiato la bicicletta al muro sotto la locandina.

Come se niente fosse, sento dire da un altro, ho attraversato a passo lento tutto il paese.

In tal caso deve avermi visto qualcuno oltre a voi, dico.

Tutti quanti mi hanno visto, sento dire da un altro; non mi ha fatto né caldo né freddo, sento dire da un terzo, attraversare il paese con la bicicletta sotto gli occhi di tutti.

Ma nessuno di quelli che mi hanno visto ha detto una parola, dico.

Sbagliato, sento dire da un altro ancora, moltissimi sono usciti di casa; le finestre delle osterie, sento dire da un altro, non riuscivano a contenere la ressa dei clienti; quelli che uscivano in strada, sento dire da un altro ancora, per la curiosità e la fretta si passavano l’un l’altro le maniglie delle porte; ma le parole, sento dire da un quarto, non le hanno dette forte per riguardo a me.

Ammettiamolo, dico. Di conseguenza ho messo la bicicletta sotto la locandina e me ne sono andato.

Macché, sento alcuni dire uno dopo l’altro, l’ho appoggiata alla targa della fermata davanti al cinema; poi sono rimasto lì e ho aspettato la corriera.

Questo mi convince, dico, ma come spiegate che abbia messo lì la bicicletta?

C’era un cartoncino attaccato al manubrio, sento dire da uno; sul cartoncino, sento dire da un altro, c’era scritto un indirizzo; uno dei clienti, sento dire da un terzo, ha osato chiedermi a chi, per l’amor del cielo, volessi mai spedire la bicicletta; è la bicicletta di mio fratello, ho risposto di sfuggita, oggi nella rimessa ci sono inciampato dentro; è ora che se ne vada, ho buttato lì all’interrogante; avevo ritagliato un occhiello con le forbici, avevo fatto passare una corda attraverso l’occhiello e avevo legato al manubrio la corda col cartoncino.

Adesso descrivete la bicicletta, dico.

È una bicicletta con le marce, sento dire da uno, e il cavo del cambio si è staccato dalla manopola; lo smalto della vernice fa le bolle; qua e là le bolle sono già scoppiate, la bicicletta è stata troppo a lungo al sole e anche alla pioggia; è stata troppo esposta alle intemperie, sento dire da un altro; il parafango posteriore balla e una fessura storta e dentellata lo spacca in due fino al catarifrangente. «Quando la inforchi con la gamba è facile che i calzoni ti restino impigliati. Devi stare attento: la gomma del pedale sinistro è un po’ troppo liscia. È meglio che ti togli le scarpe, così non scivoli. Vieni. È semplice. Basta che appoggi sul pedale sinistro il piede sinistro, ti abbassi sul manubrio e alzi all’indietro la gamba destra, mentre ti dai lo slancio, facendola passare sopra la ruota di dietro. Contrai le dita dei piedi quando ti appoggi sul pedale. Non guardare per terra. Guarda dove devi andare. Guarda il palo. Vigliacco. Guarda qua, guarda il palo. Torna alla porta di casa con la bicicletta e mettiti sul gradino di sotto. Adesso, da fermo, fa’ passare la gamba sopra il telaio. Adesso premi il pedale con le dita del piede e datti lo slancio. Idiota. Alzati. Su, alzati. Tira su la bicicletta. Mettiti sul gradino. Alza la gamba e premi il pedale col piede. Tieni dritta la bicicletta. Spingiti dal gradino. Basta che ti dai lo slancio e con l’altro piede acchiappi il pedale. Dopo premi questo pedale, e il primo torna su, e tu premi il primo. Non guardare i piedi. Guarda il palo. Guarda qua. Adesso datti lo slancio. Sta’ attento al sasso. Evitalo. Evitalo ho detto. Te l’ho detto di stare attento al sasso. Alzati. Su, alzati. Non è niente. Vieni qui. Mettiti sul gradino. Non guardare i piedi. Guarda nella direzione in cui devi andare. Fermati. Tieni saldo il manubrio. Non guardare le mani. Adesso datti lo slancio. Non dimenticare di pedalare. Volta. Guarda il palo. Premi il contropedale. Contropedale, ho detto!»

Le biciclette col cambio non hanno il contropedale, dico.

Nessuno ha parlato di un contropedale, sento dire da uno; la bicicletta è verniciata di rosso e bianco, sento dire da un altro; una lunga freccia bianca in campo rosso, sento dire da un altro ancora; i pedali, mentre camminavo, continuavano a girare, il parafango posteriore deforme strusciava contro il pneumatico, i raggi urtavano in un punto, gracchiando, contro il metallo storto del telaio, e la dinamo ronzava.

Come? dico, ma se ho attraversato il paese in pieno giorno.

Certamente, sento dire da uno, ma poi alla sera ci sono ripassato.

Continuate, dico.

Infatti non ho consegnato la bicicletta neanche all’ultima delle corriere, sento dire da un altro; i passeggeri che smontavano hanno commentato con stupore il mio avvicinamento e la mia inutile sosta davanti alla corriera aperta; tuttavia, sento dire da un altro ancora, dalla striscia chiara sulla superficie di scorrimento dei pneumatici hanno solo potuto dedurre che avessi camminato con la bicicletta sulla striscia polverosa che fiancheggia la strada.

Bene, dico, allora, come voi sostenete, sono rimasto fermo davanti alla porta della corriera finché l’aria compressa non ha lisciato le pieghe; poi, immediatamente e sui due piedi, senza aver combinato nulla, la bicicletta a mano, sono ripassato per il paese.

Questo no, sento dire da uno. Anzi, sento dire da un altro, mi sono fermato lì e ci sono rimasto senza un movimento fino a notte tarda.

Vi faccio notare, dico, che difficilmente avreste potuto essere sul posto fino a notte tarda.

Li hanno informati, sento dire da uno.

Chi? dico.

Le persone che uscivano dal cinema, sento dire da un altro.

Non vi sembra strano? dico.

Macché, sento dire da un altro, è stato un film corto; non è stato, sento dire da un altro ancora, un vero e proprio film; c’è stata un’assemblea nella sala del cinema, sento dire da un terzo.

È stato un cortometraggio, sento dire da uno, oppure una manifestazione pubblicitaria, sento dire da uno, oppure un’esercitazione per i casi d’emergenza, sento dire da uno, oppure un assembramento, sento dire da uno, no, un appello dell’amministrazione, sento dire da un altro, una dimostrazione, sento dire da un altro ancora, un allarme, sento dire da uno, la proclamazione di uno stato d’eccezione, sento dire da uno, un pubblico avviso, sento dire da un altro ancora; e li sento dire e parlare tutti insieme e suggerirsi le parole a vicenda e parlare sottovoce e ad alta voce e a voce bassa e senza alzare la voce, e dire quello che hanno da dire, e li sento contestare una cosa e confessare l’altra e contraddirsi l’un l’altro e recitarsi l’un l’altro le contraddizioni, e li sento parlare e dire quello che hanno da dire, finché arriva il momento in cui me ne sto lì e posso starci e restarci e li guardo. Sebbene sia cieco, li guardo.

La vestizione

Nel frattempo Gregor Benedikt (tale o simile è il suo nome) si è vestito per la domenica.

Si è seduto sul letto e ha spazzolato le scarpe. Si è rasato e lavato. È andato al letto e con la spazzola morbida ha lucidato il cuoio. È andato al tavolo e si è seduto su uno sgabello accanto al tavolo.

Si è infilato i calzini sui piedi. Si è alzato ed è andato all’armadio.

Quest’attività gli ha fatto perdere molto tempo. Mettersi i calzini gli ha fatto perdere meno tempo.

Ha girato la chiave e ha aperto l’anta dell’armadio. Ha preso il vestito dall’armadio. Ha sfilato i calzoni dalla gruccia e ha deposto la giacca sul letto. Si è seduto accanto alla giacca. È entrato nei calzoni con la gamba sinistra. È entrato nei calzoni con la gamba destra. Ci ha impiegato un mucchio di tempo.

Si è alzato e ha tirato su i calzoni. Li ha abbottonati. Ha fatto scorrere la cintura attraverso la fibbia. Ha affibbiato la cintura. Col pollice ha sospinto il puntale della fibbia nel solito buco più largo degli altri. A poco a poco ha fatto scorrere l’estremità della cintura nei passanti.

Anche per questo ha impiegato un tempo considerevole.

Ora è rimasto in piedi tra il tavolo e il letto.

Uscendo dallo stato di immobilità è andato all’armadio aperto. Ha preso la cravatta dall’armadio.

È andato alla finestra. Camminando si è passato il cappio sopra la testa. Ha chiuso la camicia e ha rialzato il colletto verso il mento. Ha tenuto tra due dita il nodo del cappio e con l’altra mano si è stretto il cappio sulla gola.

Mettersi la cravatta l’ha tenuto occupato a lungo.

È andato al letto e ha preso la giacca. Si è gettato la giacca sulle spalle ed è andato all’armadio. Ha chiuso le ante dell’armadio e ha girato la chiave.

Si è lasciato cadere la giacca dalle spalle. L’ha allontanata da sé col braccio.

A questo punto era in piedi al centro della camera.

Col pugno destro è passato sotto il braccio sinistro ed è entrato nella giacca. Si è tirato la giacca sulla spalla destra. Col pugno sinistro si è sistemato la giacca sulla spalla destra. Ha staccato il pugno dalla spalla.

Staccare il pugno è costato molto tempo al cieco.

Ha cercato dietro di sé col braccio sinistro. È entrato nella giacca col pugno sinistro. Si è tirato la giacca sulla spalla.

È andato al letto. Si è chinato verso la spazzola. Ha messo la spazzola nella sua scatola. È andato al tavolo con la scatola. L’ha spinta sotto il tavolo.

Questa operazione gli ha portato via un po’ di tempo.

È andato al lavabo e ha versato l’acqua del catino nello scarico.

È rimasto lì accanto.

Si è strofinato il mento col dorso della mano.

Poi, mettendoci un gran tempo, è andato alla porta, mettendoci un tempo maggiore ha percorso il corridoio, mettendoci il massimo tempo ha disceso i gradini della porta di casa.

Ha attraversato rapidamente il cortile.

È tornato indietro.

Ora si appoggia, le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni, al muro della casa, presso i gradini. Ce lo si immagina fumare, la grossa testa solennemente china, il collo e il braccio, che con la mano contratta stringe come sempre il lembo inferiore della giacca, ancora all’ombra, il viso sopra di essi già al sole; occupato a far niente, salvo emettere il fumo dalla bocca e dagli incavi degli occhi.

I pensieri vengono e vanno.

 

 

Si fa un’immagine di un treno in corsa.

L’ingresso in scena della donna

Dopo sono di nuovo a casa e sto seduto in cucina, e sento mio padre, sbrigato il lavoro, percorrere in pochi passi il cemento del corridoio e, restando in piedi, sfilarsi immediatamente gli stivali, dapprima trattenendone uno sopra il calcagno con il collo del piede e in questo modo liberando il tallone fino al gambale, bilanciandosi sulle dita dei piedi, come un pallone, lo stivale mezzo sfilato e proiettandolo con un tonfo sordo contro la parete sotto la scala, poi, usando come cavastivali il piede scalzo e puntandolo dietro di sé contro lo stipite della porta, cavarsi dalla gamba l’altro stivale a furia di scrolloni e di strappi e, senza che i suoi movimenti si facciano più impetuosi o più calmi, calciare anche questo stivale contro la parete. Lo sento poi irrompere qua dentro sbuffando, al passaggio strappare il mestolo dal fornello e brandirlo sotto il rubinetto dell’acqua. Sento il gorgogliare del rubinetto e il sordo scoppio dell’aria quando il padre lo tura col dito, poi il risucchio del dito che aspira a vuoto e il sordo scoppio quando il dito viene tolto. Daccapo sento solo il gorgogliare nelle canne dell’acqua. Mentre appende il mestolo al bordo dell’acquaio, il padre si china e cinge il rubinetto con le labbra; ogni volta che aspira un po’ d’aria sento il secco, preciso grugnito del suo palato, un suono che intimamente paragono al grido di un fagiano. Stacca la bocca dall’ottone con uno schiocco e rimane chino, le labbra ora sul mestolo in cui, con un tintinnio riluttante, cade dapprima acqua su latta, poi, quasi senza suono, acqua su acqua; tuttavia, prima che questa gli salga alle labbra, il padre rovescia in fretta il mestolo e lo svuota. Dopo qualche tempo, quando l’acqua che scorre dal rubinetto diventa fredda la raccoglie di nuovo e si dà a sorseggiare e a tracannare, rivoltandosi il recipiente sopra la bocca fino al punto di coprirsene il naso. Sopra la mezza sfera che ha sul viso guarda verso di me con occhi che malgrado la deglutizione non si muovono mai, e bevendo fa ribollire nell’acqua una domanda che non capisco; dal suono più acuto dell’ultima parola deduco soltanto che sta domandando; perciò annuisco opportunamente e dico la parola che si confà all’annuire. Lui si drizza in tutta la sua statura, si terge la bocca, non col dorso della mano ma con la grossa base del pollice, e si schiude le labbra a fessura. Poi riappende il mestolo al fornello e chiude il rubinetto dietro di sé; voltandomi la schiena, mentre alza dapprima la spalla sinistra, poi quella destra e si gratta sotto le ascelle, mentre subito dopo si infila la mano nei calzoni e si gratta sotto la pancia, mentre da ultimo si gratta la caviglia del piede sinistro con le dita del piede destro, pone la domanda per la seconda volta. Mi domanda (con altre parole) dove sono stato oggi pomeriggio. Sono stato in paese, rispondo, ho dato un’occhiata in giro. Ho avuto qualcosa da sbrigare, mi correggo, non sono stato con le mani in mano. Sentire ciò, dice mio padre (con altre parole) strofinandosi le dita nel canovaccio dei piatti, gli fa piacere. Ma dov’è che sei stato? Sono andato nella cabina di proiezione del cinema, replico, ma l’ho trovata vuota. Allora sono andato da mia sorella all’osteria e mi sono informato di questo e di quello. Alla sera, concludo il mio racconto, non mi è rimasto altro da fare che tornare a casa. Senza guardare dalla mia parte, il padre gira su se stesso occhieggiando e marcia verso la credenza. Riconosco il lieve schiocco delle piante dei piedi quando nel camminare stacca i piedi scalzi dal pavimento, poi lo scricchiolio delle ginocchia quando si accovaccia per aprire lo sportello. Sento che, il braccio infilato nella credenza, il braccio e la mano con la padella di nuovo estratti da essa, in ginocchio e mentre si rialza piegato all’indietro facendo sbattere lo sportello con le dita dei piedi, mi getta sul tavolo i pezzi della sua prossima domanda, di cui pronunzia l’ultima parola mentre sta già tornando verso il fornello: Sono stato io a mettere quella bicicletta davanti alla rimessa? Lui non la conosce. Mi considera senz’altro capace, aggiunge, di essere stato talmente affascinato da quel veicolo, chissà dove, per esempio in paese, da non aver potuto fare a meno di portarlo qui. Io scuoto ripetutamente la testa e dico la parola che si confà allo scuotimento. È vero? domanda lui (con altre parole). È vero, insisto a rispondere. Quando sono tornato? Dal mio posto dietro il tavolo gli dico a che ora sono tornato: dapprima direttamente in faccia, quando si china da questa parte e prende il coltello dal cassetto, poi, con voce ugualmente ferma, seguendolo in direzione del frigorifero da cui prende il burro.

Tuttavia, prima che, la padella sotto l’ascella, il burro e il coltello nelle due mani, si volti verso il fornello, passi il burro dalla mano in cui stava nella mano che tiene il coltello, risalga con l’altra mano verso il manico della padella stretta sotto l’ascella e cavandosi l’utensile dall’ascella lo deponga sul piano di cottura; prima che io riconosca il clic dell’accensione del fornello, il raschio del coltello sulla carta del burro, il morbido impatto e lo sdrucciolare del burro nella padella che si riscalda, il rumore graffiante del coltello che viene ripulito sul bordo della padella, i sibili e gli sfrigolii del burro che fonde; prima che il padre si rechi di nuovo al fornello, rompa l’uovo nella padella, getti i gusci nella pattumiera, prima che sparga il sale sull’uovo; prima che dall’altra parte del tavolo io riconosca lo struscio della sedia smossa, il tintinnio delle posate d’acciaio, lo scuotimento del cassetto bloccato; prima che mio padre, spingendo dentro il cassetto per così dire con un colpo di petto, si sieda a tavola di fronte a me in bramoso silenzio e davanti a me, già pronto a impugnare la fetta di pane posata sulla tela cerata, fiocini l’uovo nella padella con le punte della forchetta e, disturbato sul più bello, si volti a guardarla di sbieco; e prima che il rumore mi scoppi nelle orecchie, la donna è entrata, al passaggio ha appeso il grembiule accanto al fornello, invadente e tranquilla ha oltrepassato il padre coi piedi asciutti e scalzi e silenziosamente si è recata al divano, io ho riconosciuto lo strascichio delle pantofole, ho annusato il fumo della stalla, lei, greve e silenziosa, si è adagiata sul divano, ha riunito le gambe massicce sotto l’ampia veste, ha agganciato col proprio piede il piede del divano, si è appoggiata al muro da seduta e ha guardato da questa parte, senza batter ciglio e senza distogliere da me i suoi sguardi silenziosi, oppure, non ha guardato da questa parte. Dopo, quando lui esegue le operazioni descritte, quando si prepara la cena davanti al fornello, lei siede chiusa e sprofondata in se stessa, siede con viso disanimato, quando lui cerca il tavolo con la padella piena, quando si siede pesantemente, quando, leccandosi le labbra, si accinge a consumare la cena, lei siede china in avanti nella conca del divano, lascia uscire dalla bocca semiaperta i menzionati rumori, guarda con occhi vacui il cieco che ascolta in silenzio; infine domanda al padre di costui, come se il cieco non ci fosse, quasi senza aprire la bocca, se il figlio abbia già mangiato; al di sopra del tavolo sente il padre chiedere (con altre parole) al figlio, parlandogli dall’angolo dei denti che macinano, se lui, il figlio, abbia già mangiato; sente il figlio rispondere al padre per lei, per la moglie del padre, che lui, il figlio, ha già mangiato in paese dalla sorella, e che ringrazia della domanda; e sente, quantunque il padre continui a mangiare, la sua bocca fumigante ripeterle la risposta con altre parole, ossia che il figlio ha già mangiato; si è rimpinzato dalla sorella. A poco a poco si alza e osserva le tracce di vapore, ormai sul punto di asciugarsi, lasciate sul pavimento dalle piante dei piedi di suo marito, e le nere strie di sudore sui piedi nudi sotto il tavolo, che si sollevano e contraggono le dita ogni volta che la testa si fa avanti per afferrare il cibo.

Che cos’ho? domanda, dopo che il rumore è scoppiato nelle mie orecchie. Lui mi trasmette la domanda con altre parole. È stata la forchetta? domando a orecchie tese.

Ma le era solo caduta di mano o dalla veste, mentre si alzava, la carta rigida di una lettera.

L’elettrodotto

I fili dell’elettrodotto partono dalla centrale di Bronz. «Di lì avanzano in direzione est verso il paese di Tschau, svoltano verso nord-est, passano sopra le piste che sono state tagliate per loro sulle pendici del monte Wall, discendono nella stessa direzione verso il paese di Gruden, lasciano all’oscuro il paese di Schlanz, il paese di Ritsch, il paese di Polosch, il paese di Tschernoglau, il paese di Dürn, il paese di Nütz, il paese di Schanz e i paesi di Zwanzig, Dreißig e Mohr, svoltano a sorpresa verso nord e proseguono in questa direzione sopra il paese di Schlamm, sopra il paese di Pruch, sopra il paese di Schleck, sopra i paesi di Sriedma, Sjutra, Trekisch, Krisch, e continuano sopra il paese di Anhöh e sopra paese di Übersee verso il paese di Öd», dove mi trovo sotto le ali di un traliccio e accosto l’orecchio alle traverse, il piede sullo zoccolo di cemento, dopo aver percosso con la pietra le stanghe sonanti, dove mi sono trovato e ho sentito sopra di me quel rombo e quel ronzio di dure ali, dove ora ne sento il già lontano smorire in direzione nord, «verso cui, risalendo i campi, i fili proseguono, dal paese di Öd sopra il paese di Reiting, sopra il paese di Kannaren, sopra il paese di Gariusch, e rinculando ad arco in direzione ovest ad esempio sopra i paesi di Sankt Koloman, di Sankt Benedikt, di Sankt Johann im Schatten, di Sankt Kosmas und Damian an der Strasse, di Sankt Agatha, Sankt Agnes, Sankta Luzia (pregate per noi)», e in questa direzione sopra altri simili paesi, finché non sento più nulla dei bombardieri.

 

 

«Gli idioti se ne stanno appoggiati da mane a sera al muro della casa, sbavando, e giocano a fare la meridiana con la loro ombra.»

La sosta davanti al muro

Mentre mi appoggio al muro (la descrizione non è ancora proceduta), mi propongo di attraversare il cortile fino alla rimessa e di tirare su la bicicletta. Durante la notte ho sentito che il vento, oppure la pioggia, che rendeva viscida e sdrucciolevole la terra sotto i pneumatici, la rovesciava. Perlomeno saranno questi – più tardi, a colazione – i tentativi di spiegazione del padre. Mi propongo di farlo, ma intanto non posso smettere di strofinare sul muro, a destra e a sinistra, le palme delle mani. Mi appoggio al muro della casa e indico l’ora con l’ombra. È mattina presto. Mi propongo di andare alla rimessa illustrandomi l’utilità di un raddrizzamento della bicicletta. Mi appoggio al muro della casa, rigido. Afoso vapore di pioggia esala dalla terra. Prima degli atti si consumano molte parole. Tra le parole e l’atto il tempo passa. L’accidia s’insinua greve nel corpo. Le dita raschiano aspre il muro. Molti pensieri convergono; ma le articolazioni accidiose non parlano con alcuno di essi. La mia ombra si raggrinzisce fino a scomparire nel muro della casa. Gli ordini del cervello urtano in una pietra sorda. Non posso muovermi da questo posto e andare alla rimessa. Le punte raschianti delle dita hanno stretto un’accidiosa congiura con la malta granulosa. Il tempo passa nelle mani, mentre m’infurio dell’accidia e per la furia esco quasi di senno. Non trovo la forza di dirigermi da questo luogo a quell’altro luogo oltre l’abisso del cortile. Per quante ne dica ai miei piedi, nulla mi induce a un cammino che dura esattamente dieci passi. Il muro è polveroso. Ragni sferici dalle lunghe zampe vi brulicano sopra. Nell’intonaco vi sono ammaccature a forma di cono simili a fori d’entrata. Di giorno nei fori d’entrata posano ad ali aperte le tignole addormentate. Le dita potrebbero scivolare e sfiorare una delle tignole. Ma la tignola resta immobile. Mi scosto. Ero appoggiato al muro con gli occhi bendati. Sfrutto il tempo cercando con questi occhi bendati la strada che conduce dal muro alla rimessa. Cammino inciampando, come se fossi diventato cieco appena adesso. Ma accanto alla rimessa non trovo più nessuna bicicletta. Ce n’è mai stata una? Mio padre sta ancora tornando dallo stagno. La moglie di mio padre non è ancora uscita di casa. Di una terza persona non ho ancora sentito parlare.

 

 

Mi faccio un’immagine di un treno in corsa.

Il gatto

Sebbene nella rimessa non ci sia erba, c’è odore d’erba. L’odore viene da laggiù, dal secondo carro, che copre col timone rialzato il coronamento del muro di cemento; il primo carro è ancora per via; a esso sono destinati la superficie e lo spazio nei quali entro. Sento sotto le suole gli intagli dei pattini nella terra battuta, i trucioli e le schegge scricchiolanti della corteccia che è stata sbriciolata segando la legna. Col ginocchio urto di lato il manico della scure; quando lo cerco a tastoni mi accorgo che a causa della mia ginocchiata la lama si è staccata dal ceppo consunto dai colpi e sta man mano uscendone in avanti, mentre man mano il manico si abbassa nel mio pugno. Prima che l’accetta cada la strappo dal ceppo, la brandisco sopra di me, mentre la brandisco mi lascio scivolare il manico nel pugno semiaperto fin quasi al ferro, e con un guizzo della mano ribatto la lama nel blocco trapassando il collo color stoppa. A volte, se non lo tieni forte per le ali, il pollo si mette a svolazzare senza testa per la rimessa: schizza contro il cemento, rimbalza contro la catasta di legna, contro le assi, contro i tondelli del soffitto, contro le seghe appese alle assi, contro il manico ancora vibrante della scure, spazza via dal blocco la propria testa e rimbalza ancora una volta contro la parete di cemento che infine lo fa schioccare al suolo, dove gira su se stesso sbatacchiando le ali e col tubo del collo frusta la segatura in cui vomita a scatti il proprio sangue. Oppure vuoi qualcosa d’altro? hai domandato.

Dal carro su cui sono seduto si sente la cascata d’acqua che precipita nel cortile anzitutto dal tetto della rimessa, più lontano dal tetto della stalla e dal tetto della casa, scavalcando la grondaia piena. C’è poco da vedere: i polli sono appollaiati sulla porta della stalla, sul davanzale delle due finestre e sulla cimasa del muro davanti alle tavole nere del granaio. Se ne stanno gomito a gomito senza muoversi. No, non rizzano le penne. Adesso uno viene scacciato dalla finestra: cadendo spalanca le ali. Riconosco il colpo d’ala e l’infrangersi della pozzanghera. Il pollo si affila il becco sopra un sasso a destra e a sinistra e si tuffa a capofitto sotto la porta della stalla; si fa posto a forza tra gli altri; non è più distinguibile nella fila delle gialle zampe immobili. Nelle pozzanghere vedo i fori d’entrata delle gocce, i crateri e le eruzioni delle camere a volta che sotto forma di bolle navigano impetuosamente sull’acqua. Sento il limpido scroscio sul tetto di lamiera della rimessa e l’ininterrotto sibilare e tambureggiare nel cortile. La parte inferiore della porta di casa è già scura d’umidità; sulla vernice si vedono le gocce rimbalzate; dove la vernice si è sfogliata il legno ha già assorbito la pioggia. Adesso la porta cede un poco verso l’interno; la maniglia però resta ferma; il movimento della porta è riconoscibile solo dalle ombre crescenti che si allargano dalla parte della maniglia. Non sento niente. Il gatto sguscia fuori. Non ti è venuto in mente niente di meglio? È il gatto, hai detto. Schizza giù dai gradini e striscia sotto la gronda lungo il muro della casa, adesso si ferma davanti al gomito del pluviale, salta sopra il pluviale e continua a correre sotto la gronda lungo il muro della stalla. Adesso guarda le file dei polli. Però non sento niente. Volta la testa verso i polli che sonnecchiano sul davanzale. Poi torce bruscamente la testa verso la rimessa. È ancora in agguato sotto il tetto della stalla. Sento solo il fischiare e il tambureggiare nel cortile; il tuo richiamo non sarà giunto al suo orecchio. Mi ha sentito. Arriva saltellando. Adesso è qui nella rimessa. Non l’ho sentito venire. Continuo a non sentirlo. È in piedi nella segatura e scuote il pelo. Dato che ha attraversato la pioggia e dato che la pioggia spazza il cortile a nuvoli fumanti, questo movimento era prevedibile. Adesso, ignaro, scavalca i ciocchi, balza sul cavalletto per segare e si accuccia nella sua forcella. Di nuovo salta in piedi, scivola giù e trotterella inquieto fino alla catasta di legna. È un gatto molto ossuto; sta comunque morendo di fame; gli angoli degli occhi sono pieni di pus; sopra la vertebra cervicale la pelle è nuda. Adesso è accovacciato in cima alla catasta; si alza; getta uno sguardo in tralice in questa direzione; subito gira su se stesso e corre sopra i ciocchi fino all’angolo posteriore della rimessa. Per terra, nella scanalatura creata dal battito delle gocce, c’è sotto il tetto un pezzo di legno squadrato. Il rumore delle gocce che cadono sul legno è diverso dal rumore delle gocce che cadono sul pietrisco, sulla sabbia o sulle pozzanghere della scanalatura. Il gatto è in cima alla catasta di legna nell’angolo posteriore della rimessa; il suo pelo si drizza; guarda da questa parte; guarda da tutte le parti. Ora striscia sul ventre sopra la catasta, la testa sempre rivolta al carro su cui siamo seduti, lungo il muro di fondo. È molto magro; sotto il pelo si vedono le costole.

Sento il rumore delle gocce che cadono dalle tegole sul legno squadrato; insieme alle gocce anche il rumore viene risucchiato dal legno; quantunque sia smorzato e più sommesso del rumore delle gocce sul pietrisco e nelle pozzanghere della scanalatura, perviene nitido al mio udito. Il legno è coperto da un vitreo strato d’acqua; le gocce scintillano nei buchi del legno prima che le gocce successive le spengano. La pioggia si attenua. Il gatto salta verso le tavole del soffitto; salta una seconda volta; si impiglia con le zampe nei fili di ferro che fuoriescono rigidi dal cemento. Sento le gocce cadere nella scanalatura. Adesso il loro rumore è uguale dappertutto. Il gatto torna di corsa nell’angolo; vi si acquatta e si avvicina a piccoli passi; si rigira e salta di nuovo nell’angolo; si trincera dietro i ciocchi; si abbandona a lamenti e vagiti, si rizza sulle zampe posteriori e si stira verso le tavole del soffitto; si allunga finché si regge solo sulle unghie e preme il ventre contro la parete. La sua schiena si è incavata; la testa è gettata sulla nuca; divora con gli sguardi l’impenetrabile tetto; con le zampe anteriori graffia selvaggiamente il cemento. Lo sento graffiare, ho detto. E adesso sento il sibilo dell’aria e l’impatto. Non è più che pelle e ossa, hai detto tu; puoi tastarlo; il ventre è tagliuzzato dagli spigoli del rivestimento di cemento. Sento il colpo e il lamento; il lamento soffoca i colpi e i colpi fanno scaturire il lamento. Sento i colpi, il miagolio, il lamento. Poi sento solo il lamento. Poi sento solo i colpi. Poi sento i colpi, il miagolio e il lamento. Tutti questi rumori formano adesso un’unità a tre tempi.

Apro le dita e le stacco finalmente dal manico della scure. Fuori in cortile sento incedere, camicie sul braccio, la moglie del padre. Ciascuno dei suoi movimenti trapassa nell’altro; dei miei movimenti, che ora cominciano, ciascuno è talmente separato dall’altro, che solo a fatica si allineano; il fermarsi dei corpi che camminano è affine. Sono io a percepire per primo quel suono e a gridarle quello che ho sentito; subito dopo è lei ad asseverare con gli occhi quello che ho sentito. Ambedue sentiamo, prima di entrare in casa, lei sulla porta, io qui in mezzo al cortile, il carro svoltare dalla strada imboccando il sentiero che conduce al podere e dal mucchio di foraggio che scricchiola sotto il suo peso il padre di buon umore urlare da lontano il suo saluto.

La nascita di un episodio durante la colazione

«Quando ero laggiù.»

Quando ero laggiù in quella casa, di notte sentivo i treni e fino a metà della notte sentivo i tram giù in città e per tutta la notte gli autocarri sulla circonvallazione. Distinguevo i rumori e ne attribuivo uno ai motori, uno alle rotaie, un altro ai segnali, uno agli scambi, uno al vapore; attribuivo i rumori dei motori alla velocità e la velocità alla scarpa e al piede che premeva il pedale con la punta, e alla mano che tirava la manetta; e attribuivo la scarpa e la mano all’uomo e all’uomo tra le spalle la testa, e alla testa gli occhi strizzati e stanchi e agli occhi gli sguardi. E agli sguardi in principio non attribuivo nulla. Ma in seguito attribuivo loro la corrente contraria dell’asfalto e alla corrente le rive segnalate dai paracarri e a questi segnali lo sbadiglio in avvicinamento dei catarifrangenti e le ombre selvagge che si raggrinzivano e ruotavano.

Ai rumori che sentivo attribuivo le immagini. Alle immagini attribuivo i rumori che non sentivo. Ai rumori che non sentivo attribuivo le immagini. Al rumore del giunto e degli snodi attribuivo la carrozza posteriore del tram. Alla traccia luminosa delle carrozze del tram attribuivo dietro i finestrini le singole immagini dei passeggeri, alle ginocchia dei passeggeri le borse, alle mani il giornale ripiegato dall’odore acidulo, il biglietto, il cappello, i guanti bianchi con una traccia di rossetto sulla punta del dito medio. All’immagine della bocca attribuivo i rumori, e alla bocca alterna attribuivo rumori alterni. All’immagine della prima bocca e all’immagine della seconda bocca facevo alternare i rumori, e facevo sì che le immagini dei corpi alterni si chinassero le une verso le altre. Attribuivo alle labbra le immagini dei movimenti della bocca e ai movimenti i rumori. Alle immagini dei corpi, chine le une verso le altre, attribuivo la conversazione. Facevo alzare in piedi le immagini dei corpi, facevo sì che l’immagine del primo viso passando si voltasse a guardare l’immagine del secondo, facevo sì che l’immagine del secondo viso annuisse all’immagine del primo viso. Mi facevo un’immagine precisa di questo annuire, mi facevo un’immagine delle braccia allungate in verticale e delle dita che artigliavano il mancorrente. Ai mancorrenti attribuivo poi l’immagine delle maniglie che di nuovo penzolavano vuote. Facevo scorrere in fila nella carrozza le immagini delle persone. Le facevo salire, le facevo passare, le facevo scendere. All’ammutolire del tram e al silenzio attribuivo il cerchio di luce del capolinea, le panchine di cemento sull’erba, la tettoia in penombra e la toilette sigillata. E a queste immagini invisibili attribuivo i rumori che non sentivo, e a questi rumori le invisibili immagini delle persone che scomparivano dal cerchio di luce verso tutti i punti cardinali, lo svolazzare scuro e chiaro degli abiti sopra il selciato, il volgersi delle teste prima di attraversare la strada, lo spegnersi delle sigarette e l’occhieggiare del giornale dal cestino dei rifiuti. Dopo aver attribuito le immagini ai rumori non udibili, attribuivo al silenzio non udibile che seguiva i rumori l’immagine del bigliettario che sedeva sul suo sedile rialzato accanto alla porta aperta e trascriveva le cifre, l’immagine del manovratore che passeggiava avanti e indietro nel cerchio di luce spingendo col piede un biglietto accartocciato, e l’immagine di un uomo il cui corpo, luminoso, poi oscurato dal riverbero di luce dell’altro lato della strada, usciva dal buio e sull’erba si avvicinava alla carrozza. Dopo però iniziavano i rumori della partenza, rumori che sentivo e percepivo, dimodoché mi stancavo, a questo punto, di dare ai rumori le immagini e alle immagini invisibili i loro rumori. Attribuivo dunque altre immagini ad altri rumori che sentivo.

Sentivo il lontano sibilo del treno in corsa. Mi facevo un’immagine del treno in corsa. Integravo al sibilo i rumori che non sentivo, e a partire da questi rumori mi facevo delle immagini, anche quando il sibilo del treno era passato e ammutolito. Designavo ogni rumore coi segni e coi nomi che avevo imparati e per ammazzare il tempo lo paragonavo ad altri rumori. Ammazzavo il tempo chiamando il rumore del freno uno sfrigolio, e paragonando lo sfrigolio a un rumore di raffiche di vento nella pioggia dirotta.

Poi lo sfrigolio improvvisamente cessava. Il successivo, quasi afono rotolio delle ruote lo paragonavo al rumore delle cinghie in una macchina impastatrice di cemento il cui motore giri a vuoto. Sentivo il vento della corsa che si gonfiava, il più rapido duplice battito e il sordo ribattito delle bielle d’accoppiamento, e a partire da questi rumori che ancora sentivo mi facevo l’immagine del treno ormai in aperta campagna. Attribuivo al treno lo schizzare dell’olio, le scintille che sprizzavano lungo i vagoni e il nero opaco dei finestrini. Dietro i finestrini coricavo i viaggiatori. Attribuivo loro le panche, i sedili, il cappotto arrotolato a far da guanciale nella piega del braccio, tra il viso e il guanciale la mano interposta a proteggere la pelle dai bottoni, e a quelli al finestrino, seduti, attribuivo la tendina e le dita che tiravano la tendina sopra la testa che si abbassava a scatti. Mi facevo un’immagine dello scompartimento, delle etichette coi nomi sulle valigie nella reticella, degli ombrelli che dondolavano appesi per i manici, delle stringhe slacciate che toccavano il pavimento, delle calze scivolate sui piedi, delle gambe ripiegate verso il corpo, della pelle visibile tra le calze e i calzoni. Attribuivo al silenzio in cui ora giacevo il treno che attraversava la campagna nel buio, e il nascosto respiro dei dormienti nel vagone in corsa. Al vagone attribuivo un mormorio e uno scricchiolio, e un cigolo ai sedili dello scompartimento ancora vuoto.

Poi lasciavo smorire tutti i rumori nel bramito del vento della corsa. E paragonavo il bramito all’urlo dell’udibile centrale elettrica e al sibilo dell’acqua nei tubi quando sta per sgorgarne. Il bramito saliva e si abbassava e saliva di nuovo. Mi facevo un’immagine dello scompartimento vuoto. Gli attribuivo un odore di fumo freddo, di bucce d’arancia, di gomma bagnata, di cioccolata disciolta; e agli odori aggiungevo le immagini di coloro che erano stati nello scompartimento. Facevo sì che le immagini delle dita sbucciassero con le unghie le immagini dei frutti e attribuivo all’immagine il lieve sbuffare delle bucce che si staccavano e sopra le bucce le labbra che si schiudevano. Attribuivo a queste labbra una domanda e alla testa di fronte uno scuotimento di rifiuto. Poi facevo sì che l’immagine del pollice spezzasse l’immagine del frutto e porgesse l’immagine di uno spicchio all’immagine dell’altro, e quantunque mi facessi un’immagine del secondo scuotimento di rifiuto della testa, facevo sì che l’immagine della mano si tendesse ignominiosamente verso l’immagine dello spicchio e la portasse all’immagine della bocca, alla quale concedevo ancora una parola. Ora facevo sì che i due viaggiatori consumassero insieme le parti del frutto, l’uno, il proprietario, col rapido guizzare e macinare di tutto il viso, l’altro succhiando e rosicchiando esitante lo spicchio lasciatogli. Poi separavo le immagini dagli odori e facevo sì che lo scompartimento fosse deserto.

Al silenzio in cui giacevo attribuivo il bramito. Al bramito non attribuivo nulla: giacevo e mi facevo un’immagine del bramito. Poi attribuivo al silenzio lo sfrigolio della frenata, il rotolio di nuovo libero, quasi afono delle ruote, il secondo sfrigolio della frenata, il ticchettio degli scambi, l’ingresso del treno in stazione. Brevemente facevo ancora seguire lo stridulo sibilo del vapore, il sordo sbattere di uno sportello di vagone, lo scatto all’indietro, il limpido, udibile silenzio. Attribuivo al silenzio il silenzio, poi le immagini di coloro che si destavano, i rumori delle richieste d’informazioni, i moti delle teste che si volgevano al finestrino, il rumore della risposta, i colloqui improvvisamente comprensibili, i suoni vividi che venivano dal marciapiede.

Mi faccio un’immagine del marciapiede. Le attribuisco un carrello elettrico. Cancello l’immagine del carrello che va e faccio sì che il marciapiede sia vuoto. Mi faccio un’immagine della sala d’aspetto. Vi aggiungo lo scricchiolio di un altoparlante. Faccio un’immagine della porta a vento della sala d’aspetto e dei posti a sedere dietro la porta. Faccio sì che anche le panche della sala d’aspetto siano vuote. Ma i battenti della porta li faccio sbattere. Mi faccio un’immagine del rubinetto sul muro della stazione e della conca sotto il rubinetto. Mi faccio un’immagine dello scompartimento vuoto. Ora attribuisco alla fontanella un uomo in piedi. Faccio sì che il pollice dell’uomo agganci sulla sua spalla la corda di un sacco da marina e con l’aiuto del gomito sollevi il sacco e lo faccia scivolare giù dalla schiena. Mi faccio un’immagine dell’uomo che si china, gli attribuisco l’immagine della mano incavata e delle labbra sorseggianti. Faccio seguire l’annuncio e il discorso dell’altoparlante. Mi faccio un’immagine dell’uomo che beve e insieme un’immagine dello scompartimento vuoto. Faccio sì che l’uomo beva più in fretta. Ora si instaura da sola l’immagine dell’orologio elettrico. Cancello questa immagine. Faccio sì che l’uomo si stiri e si raddrizzi. Faccio sì che si passi la mano sulla bocca gocciolante. Cancello questa immagine. Vedo l’uomo in piedi accanto alla conca. Cancello e dissolvo l’immagine dell’orologio elettrico. Cancello l’immagine del treno e dissolvo l’immagine del marciapiede. Tuttavia all’immagine cancellata viene attribuito contro la mia volontà l’uomo che caparbiamente sosta nel vapore, e di qui nasce l’immagine delle corde chiare e sfrangiate del sacco da marina, che a loro volta formano dei rigonfiamenti nella giacca. Vedo il pollice agganciato fra la corda e la clavicola. Vedo, contro la mia volontà, un’immagine della fessura tra i battenti della porta a vento della sala d’aspetto. Mi arrendo a queste immagini. All’uomo vengono automaticamente attribuiti dei passi, ai passi vengono attribuiti i rumori, ai rumori l’immagine dell’acqua bollente che prima della partenza trabocca dalla caldaia. Mi faccio un’immagine dell’uomo che sale sul predellino. Ma questa immagine viene cancellata. Lo vedo dirigersi, strascicando i piedi, dalla fontanella alla sala d’aspetto. Vedo la fessura tra i battenti della porta a vento della sala d’aspetto. Prende forma da solo lo scompartimento vuoto, sotto il quale percepisco gli inevitabili scossoni degli ammortizzatori. Mi faccio un’immagine dell’uomo nel corridoio del vagone. L’immagine viene cancellata. Di nuovo vedo l’uomo alla fontanella; lo vedo inclinare la spalla e farsi scivolare le corde del sacco nella piega del gomito. Cancello l’immagine del marciapiede e mi faccio un’immagine del treno in corsa. Faccio inciampare l’uomo nel corridoio del vagone. Faccio un’immagine della testa reclinata dell’uomo e del dondolio del sacco da marina sopra i suoi passi. Attribuisco al silenzio il fischiettare sommesso dell’uomo. Attribuisco ai rumori del treno il rumore di un altro treno che gli viene incontro sull’altro binario. Attribuisco ai treni, quando si incrociano, quello stridulo urlio che lacera il rivestimento del vagone. Faccio sì che l’uomo, al passaggio, scrolli le porte chiuse. Mi faccio un’immagine dei dormienti dietro le porte. Tuttavia vedo l’uomo accanto alla fontanella. Cancello l’immagine e attribuisco all’uomo fermo la porta dello scompartimento vuoto. Questa immagine viene cancellata. Attribuisco allo scompartimento riapparso il fantasma a esso esterno dell’uomo, e all’immagine dell’uomo nel corridoio del vagone, che preme la fronte contro la porta e cercando stira le labbra sui denti, attribuisco il movimento della mano e alla mano la maniglia verticale della porta.

Tuttavia l’uomo torna a gettarsi il sacco sulla spalla. Lo vedo tornare alla sala d’aspetto. Cancello l’immagine. Mi faccio un’immagine dell’uomo che apre la porta rintronante. Ma lo vedo spalancare col piede i battenti della porta a vento ed entrare nella sala d’aspetto, e cancello questa immagine. Lo rivedo camminare lungo le panche. Le trasformo nei sedili infossati dello scompartimento vuoto; però vedo le panche della sala d’aspetto. Cancello l’immagine. Lo vedo sedersi e sedendosi liberarsi del sacco da marina. Poi quello che vedo soverchia la mia volontà.

Vedo il corpo dell’uomo sulla panca tra le dita che pendono lasche. È senza compagnia in quell’ambiente. Solleva lo sguardo dalle scarpe. È assolutamente vietato sdraiarsi sulle panche. Osserva la polvere infeltrita nelle scanalature delle scarpe. Poi si rialza, puntellandosi sulle mani, e di nuovo percorre le pareti con gli sguardi. Non si vede da nessuna parte un interruttore che gli permetta di oscurare la stanza per dormire.

Si è seduto e nella polvere delle scarpe ha letto il proprio cammino. Ha sentito il ronzio della luce. Davanti alla porta che dà sul marciapiede è comparso un poliziotto, le mani nella posizione abituale dietro la schiena; tenuto com’è a garantire ordine e tranquillità, ha preso la decisione di entrare e di intavolare all’impiedi, con l’uomo seduto che sfugge il suo sguardo, una conversazione relativa all’età, alla residenza e alla professione di costui; l’uomo gli ha dato risposte veridiche. Dopo di ciò il poliziotto, che domandando e parlando voleva trasformare l’eterna notte della stazione in un effimero giorno, si è informato dei progetti dell’altro; senza indugio l’interrogato gli ha rivelato i propri progetti; ma a forza di sguardi imbronciati è riuscito a imporre all’interrogante la fine della conversazione. I due sono stati concordi anche nell’uscire insieme dalla porta che dà sull’atrio; fuori però i loro cammini si sono divisi: il poliziotto si è diretto con sollievo verso lo sportello che si apriva strepitando; l’uomo col sacco da marina, evitando la compagnia dell’altro, ha preso, spazientito, la via della toilette.

Ivi scarica il sacco dalla spalla e si pesca di tasca due monete di rame, di cui infila la prima nel distributore automatico del profumo. Subito dopo piega le ginocchia e aziona la leva, di modo che l’acqua profumata gli irrora la camicia.

Si raddrizza e prendendo il sacco per le corde se lo trascina dietro lentamente sulle piastrelle.

Il suo viso è inquieto e collerico come sempre, quantunque, ora che l’uomo è profumato, esprima soddisfazione.

Col polpastrello del pollice l’uomo ha premuto la seconda delle monete nella fessura della cabina. Spinge la porta col solito movimento, si fa dondolare il sacco davanti al piede e in questo modo lo fa rotolare verso la tazza. Senza por tempo in mezzo entra in questo rifugio, chiude la porta col tacco e poi si chiude dentro a chiave.

Con l’una e l’altra gamba ha fatto rotolare il sacco fino alla parete.

Inginocchiandosi lo slega e ne estrae un giornale. Foglio dopo foglio apre il giornale e lo dispiega sulle piastrelle. Osserva le macchie bagnate intridere la carta. Copre e asciuga le macchie con un altro giornale. Lo scroscio dell’acqua in tutte le cabine copre il rumore della carta.

Si è messo a riposare sulla striscia. Poggiato a mezza altezza sulla mano, osserva ancora le immagini e le riproduzioni, le scritte e le iscrizioni sulle pareti che lo circondano.

Poi ha reclinato sul sacco da marina il collo e la nuca.

Dato che la cabina è troppo corta per le sue gambe, si gira sul fianco e raccoglie le gambe verso il corpo.

La sua posizione è ora quella dei dormienti sul treno in corsa.

Nello smalto della tazza vede la copia di qualcosa che chiama il proprio viso; nella fessura tra le piastrelle del pavimento e il piede piatto del water osserva il cércine bruno dell’olio lubrificante seccato; vede i corti peli pungenti che vi sono commisti e la polvere lanuginosa sul dorso del cércine, che gli fa venir voglia di soffiare; vede lo smalto scheggiato intorno al foro di una vite; vede la vite mancante.

Senza difendersi da ciò che lo assale, l’uomo, il braccio cricchiante sotto l’orecchio, precipita con gli sguardi nell’iridescenza che si dilata e sprofonda e lo afferra, finché i suoi occhi sono bianchi come lo smalto.

«Dorme.»

Tenendo la scodella a due mani cerco il percorso dalla bocca al tavolo. Dopo che ho trovato il tavolo, staccandone le mani la tela cerata si appiccica alle dita, quantunque la pelle sembri sudare solo verso l’interno.

La donna, che è pigramente seduta sullo sgabello accanto al fornello e gode di contemplare la schiena del padre che mastica e il viso del figlio che inghiotte, domanda con voce monotona alla schiena del padre che cosa io abbia detto. Il padre, con la crosta del pane che gli cigola tra i denti, senza smorzare il cigolio, distratto, a bocca piena e prima di ingoiare il boccone, mi rivolge la stessa domanda quasi con le stesse parole.

«Di chi era la lettera?» potrei domandare.

Invece mi limito a domandare a mia volta a voce alta se è ora di andare. Me lo farà sapere per tempo, replica mio padre con altre parole, mentre un colpo di tosse in gola gli restituisce la consapevolezza di sé. Subito dopo sento una goccia d’acqua guizzare sopra il fornello bollendo e restringendosi. Trasalisco. La donna si alza.

 

 

Tuttavia, quando le immagini avevano toccato il limite dell’esperienza, nulla mi aiutava a proseguire. Giacevo nella stanza buia tra i ciechi addormentati e quelli svegli e non riuscivo più a farmi un’immagine di niente. Arrivava il rumore degli scambi del tram, il rumore degli autocarri sulla circonvallazione, il rumore dei treni che si incrociavano, e io davo un nome a tutti i rumori che sentivo, e ripetevo molte volte i nomi di questi rumori, e davo ai nomi dei rumori i nomi delle immagini, e ai nomi delle immagini i nomi dei rumori che non sentivo; tuttavia non riuscivo a farmi un’immagine di nessuno. Pensavo alle stazioni in cui, mentre io giacevo qui, le persone erano schierate all’impiedi, e non riuscivo a comprenderlo; pensavo ai treni che bramivano e rintronavano correndo nel buio, alle tettoie delle stazioni, alle panche sotto le tettoie, alle duplici fette di pane abbandonate sulle panche col segno dei morsi, alla carta che svolazzava sotto i pezzi di pane nel vento del treno, e non riuscivo a comprendere neanche questo. Pensavo ai dormienti sui treni, alle sale d’aspetto illuminate, ai dormienti sulle panche delle sale d’aspetto, agli svegli, ai dormienti nelle toilettes delle stazioni, ai dormienti e agli svegli sotto le tettoie delle stazioni, agli occhi aperti dei dormienti, agli occhi chiusi degli svegli, alla saliva sulle labbra dei dormienti, alle immagini e alle parole mutevoli nelle teste degli svegli e dei dormienti, alle persone, agli esseri viventi, ovunque fossero domiciliati o in viaggio, ma tutto questo non riuscivo più a comprenderlo, perché giacevo sveglio e cieco tra i ciechi, perché il tempo che precedeva il ritorno del giorno mi pareva lungo come in sogno, e perché pensavo agli eventi e alle cose pensabili come se ne esistessero soltanto i nomi.

 

 

Nella descrizione è stato dimenticato qualcosa. No. Non è stato menzionato intenzionalmente. No, è stato dimenticato. No. Non so di che cosa

Il viso del padre

Dopo che è stato descritto come il padre ritorni dallo stagno: come stacchi il cavallo, come porti il foraggio nella stalla a bracciate e come spinga il carro a marcia indietro tenendolo per le estremità delle stanghe fino a fargli raggiungere il suo posto nella rimessa, subito la descrizione prosegue col cambio d’abito e poi con la prima colazione; ma dopo che è stato descritto come il padre consumi la prima colazione in cucina, segue la lunga descrizione del suo viso. Nel frattempo lui parla a suo figlio raccontandogli qualcosa. Il viso del padre viene descritto dall’esterno come un viso mite. La mia testa è girata di lato affinché possa parlarmi all’orecchio. Sento anche la donna che sale in fretta le scale rialzandosi la veste, senza toccare i gradini coi calcagni. Adesso non la sento più. Si è fermata su un gradino e ha guardato in alto: vede la trave già descritta, quella che poggia sul coronamento del muro, e la superficie inferiore delle tegole. La sento proseguire più lentamente; una mano striscia dietro di lei sul parapetto, di modo che sento la sua pelle stridere sul legno. Ha visto qualcosa. Qualcosa è stato dimenticato nella descrizione. Mio padre mi racconta qualcosa. «Il suo viso sembra fissare la sua stessa bocca, che spande le parole di sotto i baffi come acqua, e il suo cranio sembra tendere l’orecchio alla sua stessa voce.» Quando le sopracciglia si inarcano, la fronte risale di colpo fino alla radice dei capelli e cancella così la superficie imbiancata dall’ombra del cappello, incastrando nel proprio movimento la verruca situata nella ruga più alta della fronte; ma quando il padre lascia ricadere le sopracciglia e le attanaglia insieme sopra la radice del naso come due caproni che cozzano, al centro della fronte si apre una fenditura verticale e le rughe si riducono a nitide crepe fiancheggiate da rilucenti bastioni di sudore; anche la verruca bruna sortisce dai capelli, e al suo seguito si abbassa rossiccio il solco orizzontale del cappello. Senza alzare la bocca e le guance, il padre si struscia nell’occhio la nocca del dito ripiegato; mentre trasferisce una macchia nera dalla palpebra nel sacco lacrimale e si raschia la mosca dal viso con l’unghia, la bocca porta avanti il racconto senza mutare intonazione. Il padre punta i gomiti sul tavolo. Le maniche della giacca scivolano giù e scoprono le maniche della camicia. Si incornicia il viso coi pugni levati. I pugni illuminano il viso. Dato che volta le spalle alla finestra, il viso è illuminato anche dal riverbero del sole sulla parete, tanto che le sue ossa sembrano ardere dall’interno; la pelle dello zigomo, che si tende dal margine inferiore dell’occhio fino al centro del padiglione auricolare, risplende opaca come dopo ogni rasatura. I capelli sono ancora scuri di sudore e schiacciati sul cranio a strisce piatte; sotto il solco del cappello, tuttavia, si sono gonfiati in un cércine su cui il sudore si è già asciugato. Altri peli fuoriescono a ciocche setolose dalle orecchie e dal naso; se guardi più da vicino vedi che le estremità delle sopracciglia infeltrite si arricciano sulle tempie; in mezzo ai baffi, nel punto in cui di solito vedi la profonda scanalatura verticale, una ciocca grigia scende verso il centro della bocca. Con un lungo respiro l’uomo risucchia il labbro inferiore. Sta in ascolto così, con la sottile pellicola di saliva che si dilata tra il labbro superiore e quello inferiore; le parole e le frasi che si producono in gola escono ormai da lui come da sole e più brevi e sommesse; infine la bocca si chiude a qualsiasi discorso e inaridisce. L’uomo è seduto sulla sedia davanti al tavolo; il suo viso è incorniciato dai pugni levati; le gambe, così viene descritto, sono tese e spinte di sbieco sotto la mia panca. Ha interrotto il racconto; qualcosa gli ha tolto la parola. Ora inspira e sbuffa. Sporge il labbro non rasato e comincia a parlare con tutto il viso. Ha cominciato a parlare e col filo di saliva ha ripreso anche il filo del suo racconto. Per esempio ha raccontato della sua fatica col carro rovesciato e col caricamento del foraggio.

L’oggetto dimenticato

È stata menzionata la trave. Sono stati menzionati i buchi dei tarli nella trave. È stata menzionata la segatura intorno a numerosi buchi di tarli. Tuttavia qualcosa è stato dimenticato. No, è stato omesso intenzionalmente. Forse i nodi del legno nella trave. I numeri scritti sul legno con la matita da carpentiere. Le tracce rosse del filo a piombo sugli spigoli. I trucioli sporgenti. La polvere di mattone sui trucioli. Le tele di ragno sui trucioli. I gomitoli di polvere nelle tele di ragno. Le ali e i neri corpi svuotati delle mosche nelle tele. I puntoni sotto il tetto. La corteccia su alcuni puntoni. Su una tegola venuta male i blocchi pietrificati di cemento. Le formiche sulle tegole. Le gocce di pece rappresa sui puntoni. La fila di noccioli di ciliegia sulla faccia orizzontale della trave. La polpa bruna e disseccata sui noccioli. No. È stato dimenticato qualcosa. Intenzionalmente qualcosa non è stato menzionato. Sulla trave? No. Sul muro? No. Sul pavimento? No. Sulle tegole? Sì.

La perdita dei nomi

I rumori sotto il tetto di cui mi avvedevo, li ravvisavo. Ravvisavo rumori e suoni in cucina. I rumori e i suoni nel cortile e nella stalla di cui mi avvedevo, li ravvisavo. In cucina qualcosa che parlava: questo lo ravvisavo; qualcos’altro che camminava nella camera sotto il tetto: questo lo ravvisavo; qualcos’altro ravvisavo poi, che saliva le scale; qualcos’altro aveva salito le scale, ma prima c’era stato qualcosa che aveva camminato sotto il tetto accanto al muro, e qualcos’altro era stato seduto davanti a me in cucina, aveva parlato, continuava a parlare: sedeva in cucina, pallido, e io me ne avvedevo. Qualcosa aveva ravvisato qualcosa d’altro: era stato seduto in cucina e si era reso conto dell’altro. Ma c’era anche qualcosa che stava fermo e irrigidito sulle scale, che saliva le scale irrigidito: si era fermato sulle scale mentre le saliva, si era fermato mentre camminava, e con la veste e con le scarpe aveva fatto dei rumori che io stupidamente avevo creduto di ravvisare. Qualcosa aveva raccontato qualcosa; qualcos’altro, che non era qualcosa, aveva ascoltato; io, che non ero qualcosa, avevo ascoltato ciò che ascoltava e che non era qualcosa, e tuttavia non l’avevo ravvisato. La casa era cava. Nelle stanze c’erano sedie e panche, c’erano letti e tavoli. In uno scarico era scoppiata una bolla. Io, che mi distinguevo da tutto e che ero qualcosa d’altro, ero stato stupito e stranito da tutto ciò, e mi ero sommamente meravigliato e non avevo avuto alcun nome per nulla di tutto ciò che era presente nella casa, eppure l’avevo ravvisato. Qualcosa, che era qualcosa d’altro da me, aveva salito e disceso le scale: di questo m’ero avveduto; qualcos’altro in cucina mi aveva raccontato, tendendo l’orecchio, una storia: di questo m’ero avveduto. Eppure qualcosa aveva ascoltato e di questo non m’ero avveduto: questo non l’avevo ravvisato.

 

 

Il nido di vespe sui puntoni? Sì.

L’andata in chiesa

Tornata dalla sua camera con la borsetta, la donna domandò se potevamo andare. Mio padre, alzandosi, la informò che eravamo pronti. Annuii a questa risposta e mi alzai come lui. In fretta lei domandò se volessi prendere il bastone. Se avessi intenzione di prendere il bastone, intermediò mio padre. Sì, mi affrettai a replicare. Sì, tradusse mio padre in discorso indiretto, volevo prenderlo. Lei andò nella mia camera e portò il bastone. Lo porse a mio padre e mio padre lo passò a me. Ricevetti il bastone e andai alla porta, che lei teneva aperta; mio padre mi seguì; la donna uscì per ultima nel corridoio e chiuse la cucina dietro di sé. Subito ci sorpassò in direzione della porta di casa e mi fece uscire all’aperto. Mio padre mi seguì. Lei chiuse anche la porta di casa e domandò se avessimo dimenticato qualcosa. Non che lui sapesse, assicurò mio padre, non avevamo dimenticato niente d’importante. I soldi per l’offerta? domandò la donna. Quelli veramente li aveva dimenticati, confessò apertamente mio padre. Lei prese la chiave dalla borsetta e aprì la porta di casa. Andò a prendere i soldi per l’offerta, mentre noi stavamo lì e parlavamo. Di seguito, dopo che la porta fu nuovamente chiusa a chiave, scese i gradini e consegnò i soldi a mio padre. Lui fece scomparire i soldi nel panciotto e manifestò la propria gratitudine col silenzio. Adesso potevamo andare? domandò cortesemente lei. Non sapeva cosa potesse impedircelo, affermò mio padre, e il figlio in quanto tale si affrettò a dichiararsi d’accordo. Lei si guardò attorno; si infilò tra di noi, noi ci scostammo, mio padre le offrì il braccio, lei prese il braccio di mio padre, che era il suo legittimo consorte, e attraversammo il cortile verso il sentiero, discendemmo il sentiero verso la strada. Avrebbe fatto un gran caldo, annunciò mio padre a metà sentiero, e noi, ciascuno secondo la sua abitudine, assentimmo: già adesso faceva un gran caldo, interloquii. Chissà quanto ne avrebbe fatto più tardi, si preoccupò mio padre: dopo pranzo aveva intenzione di giocare a carte coi vicini. Lei si sarebbe messa a letto, disse la donna dando il suo contributo. Verso sera entrambi si proponevano di prendere un po’ d’aria fuori al fresco. Intanto raggiungemmo senza danni la strada salvatrice. La imboccammo e accelerammo il passo. Il furgone del latte viaggiava la domenica? volli sapere. Niente affatto, obiettò mio padre, per quanto ne sapesse nessun furgone del latte lavorava di domenica. Ma nei chioschi c’erano i bidoni? insistetti. Effettivamente, confermò mio padre. Tuttavia, prima che prendesse fiato e potesse continuare, ci venne incontro dall’altra parte della strada, mentre camminavamo di buon passo, una donna non più giovane e non brutta con l’abito della festa. Allora mio padre sollevò il cappello e salutò gentilmente a voce alta; lei gentilmente rispose al saluto a voce bassa e osservò, mentre passava, che avrebbe fatto un gran caldo. Eccome, concesse mio padre in risposta. Ma questi bidoni nei chioschi, riprese subito a dirmi, erano già vuoti; in quella calura il latte sarebbe certo inacidito prima del prossimo giorno feriale. Questo mi era chiaro, dissi con finta baldanza, anche se la spiegazione del padre mi aveva deluso, e senza indugio continuai a domandare e m’informai dell’arrivo della corriera. A quale mi riferivo? indagò mio padre. Be’, alla prossima, risposi. A quella delle dieci, si accertò. Proprio a quella, dissi a conferma della sua domanda. La prima era arrivata alle sette, espose ora mio padre, la seconda, come aveva già detto, sarebbe arrivata alle dieci dopo la messa, circa alle due, si ricordò, arrivava la terza; l’orario della quarta gli era passato di mente, l’ultima arrivava alle otto di sera. Lo ringraziai. Un ciclista ci sorpassò ronzando e salutò; rallentammo il passo e salutammo di rimando. Mio padre gli gridò dietro quel che pensava. Sì, era vero, gridò il ciclista sopra la propria spalla mentre si allontanava, se n’era accorto già all’andata. Accelerammo di nuovo il passo; domandai chi fosse il ciclista e mio padre, come si usava, mi disse il suo mestiere. Camminavamo terribilmente in fretta. All’ingresso del paese altri si unirono a noi; dopo aver salutato, e dopo che anche noi li avevamo salutati, si dichiararono d’accordo e dissero ciò che corrispondeva ai loro pensieri. Sì, era vero, disse mio padre confermando la loro opinione, poteva soltanto ribadire le loro parole: non era sfuggito neppure a lui. Del resto non ci correva dietro nessuno, disse alzando la voce per calmare la mia fretta, avevamo ancora un mucchio di tempo, non ci avrebbero certo messi in croce. Chi erano questi uomini? domandai a voce alta. Come? si scandalizzò mio padre, non conoscevo queste vecchie conoscenze, avevo dimenticato tutte le loro voci? Per tutti i santi, rincarò, questa era bella, lo faceva proprio ridere; come mai tutt’a un tratto, incalzò, mi saltava in mente di domandare chi fossero delle vecchie conoscenze? Come mai? mi assalì; dove l’avevo oggi la testa? Cosa credevo mai? Be’ insomma, mi studiai di ribattere lesinando le parole, di modo che dopo una pausa non poté che arrendersi e aprire la bocca per darmi risposta: questo era il maniscalco, replicò dunque mio padre; questo il bracciante, quello lo stradino. Ringraziai con strabocchevole calore e salutai quegli uomini; loro salutarono di rimando mentre continuavamo a camminare. Attraversammo il paese camminando al centro del gruppo e salutammo a destra e a sinistra le persone che, ignare di tutto, erano ferme a chiacchierare sulle strisce al margine della strada, e le persone ferme a chiacchierare ci salutarono mentre, attraversando il paese, andavamo in chiesa col maniscalco, col figlio e con la figlia del maniscalco, col bracciante, con lo stradino e con la figlia dello stradino. Quelli che camminavano salutavano per primi; quelli fermi salutavano di rimando; il saluto porto camminando aveva un suono diverso da quello porto da fermi. Tutti coloro che chiacchieravano mentre li passavamo frettolosamente in rivista esprimevano con gemiti e sospiri il timore che sotto al loro naso l’esempio un giorno o l’altro facesse scuola, il che non escludeva che dall’oggi al domani molte cose potessero cambiare senza che il diavolo dovesse metterci per forza lo zampino. Chi era questo? domandavo senza tregua, e chi era quello, e chi era quell’altro vicino a quello con la bicicletta; e perché avesse taciuto quando poco prima l’avevo urtato. Non lo conosceva, assicurò mio padre, e anche quello vicino a quello con la bicicletta gli era sconosciuto; due forestieri, supponeva, che forse esploravano la zona in bicicletta; della città di Anhöh, disse, rivolto più a se stesso che a me, o magari della città di Krisch: non si raccapezzava sull’origine delle loro facce. Senza fermarci attraversammo il paese e svoltammo nel vicolo della chiesa; chiacchieravamo tra noi e salutavamo a destra e a sinistra le schiere, i singoli e i gruppi che si appoggiavano ai muri senza tremore alle ginocchia; salimmo tutti insieme i gradini della chiesa. Mio padre, condiscendente, diede la precedenza al maniscalco; costui entrò dunque per primo tenendo per mano il figlio e la figlia; seguì, con la consorte e col figlio, il signor Benedikt; in coda a lui si misero lo stradino e la figlia dello stradino; per ultimo entrò da solo il bracciante. Dal primo all’ultimo, tuttavia, arrivammo in ritardo alla funzione. Le donne, senza darsene pensiero, si diressero subito dalla parte delle donne e vi occuparono il posto affittato; i bambini si diressero alle panche dei bambini e vi presero posto; gli uomini invece si contentarono di stare in piedi sotto il matroneo. Il mio occhio, stava giusto gridando il pastore d’anime dall’alto del pulpito, se mi dava scandalo dovevo strapparmelo, affinché fossi colpito dalle infinite tenebre dove, mi apostrofò, atrocemente avrei pianto e digrignato i denti sino a che, per quanto m’impettissi e pigliassi la gente per il naso, il mio corpo straziato dal rimorso avrebbe levato fino al cielo un abominevole fetore. Per tutti i secoli dei secoli, assicurò.

L’uomo col sacco da marina

Dopo essersi svegliato, l’uomo si tira a sedere e si afferra con le mani le punte delle scarpe. Si dondola avanti e indietro. Levandosi in piedi alza un poco da terra il sacco da marina. Ancora una volta qualcuno martella la porta. Allora l’uomo depone il sacco da marina e si fruga nei calzoni alla ricerca del pacchetto; il suo dito scocca contro il fondo del pacchetto; le sue labbra afferrano la sigaretta e la estraggono tutta storta dalla confezione. Senza alzare le braccia e senza portarsi le dita alla bocca, si appoggia alla parete laterale della toilette e fuma. Qualcuno martella la porta e la prende a pugni. Il mozzicone sfrigola nell’acqua della tazza. L’uomo raccoglie la carta dalle piastrelle, la appallottola e con la scarpa la affonda nella tazza. Tira la catena. Il sacco da marina nella piega del braccio, esce dalla cabina. Quello fuori lo guarda; dato che la catena è stata tirata, le sue parole sono incomprensibili. L’uomo non si volta indietro e non risponde. Si sciacqua le mani dalla polvere sotto il rubinetto. È uscito dalla cabina; esce dalla toilette; esce dalla stazione.

L’osservazione del muro

«Uno guidava l’altro» si diceva in un punto «e in questo modo i fratelli si arrampicavano spesso sulla ripida scala a chiocciola del campanile fino a raggiungere la cella campanaria.»

 

 

Dietro le tombe si vedono sulla parte bassa del muro le striature marroni e color ruggine della pioggia, più sopra, sul coronamento del muro, le rade scandole del tetto, sotto il tetto le spesse traverse, tra il tetto e il muro una striscia longitudinale di cielo, sulla striscia di cielo l’ondulato e gibboso strisciare del gatto.

Il gatto.

Vedo il gatto strisciante mangiarsi il cielo. Vedo una pietra cadere dal muro di cinta. Vedo i polli scavare nelle tombe. Vedo una donna entrare nel cimitero.

Il parapetto.

Mi appoggio al parapetto. Metto il piede sulla traversa inferiore. Alzo l’altra gamba. Mi siedo completamente sul parapetto. Stringo con le dita la traversa superiore. Sputo sulla donna.

La donna.

La donna porta un innaffiatoio. Nella sinistra porta un bicchiere. Avvolge tutto il bicchiere con la grossa mano. La mano non mi lascia vedere il fondo del bicchiere.

Il fondo del bicchiere.

Il fondo del bicchiere è agglutinato di nero, i petali marci dei fiori. L’acqua dilava i resti dei petali. I frammenti dei resti fanno turbinare l’acqua. La donna porta e trascina il bicchiere e l’innaffiatoio lungo le file delle sepolture. Il secondo sputo si disperde nell’aria come il primo. La donna continua a camminare lungo le file delle tombe. Depone l’innaffiatoio sulla ghiaia. Depone il bicchiere sullo zoccolo. Preleva l’altro bicchiere dallo zoccolo e lo depone sulla ghiaia. Estrae da questo bicchiere il ciuffo di steli neri. Ruota all’insù il dorso della mano. Si strofina il dorso della mano sul naso. Fiuta. Odora l’acqua marcia, i petali marci, le corolle marcite dei fiori. Arriccia il viso intorno al naso.

Il parapetto.

Sono a cavalcioni sul parapetto. Batto i talloni sulle tavole. Mi chino in avanti. Estendo una gamba. Con le dita dei piedi raggiungo la cimasa del muro. Faccio passare di qua la seconda gamba. Sono in piedi sulla cimasa del muro con tutt’e due le gambe. Sono dall’altra parte del parapetto. Sono sul muro e guardo giù.

La donna.

La donna va alla fontana. Versa via i fiori insieme all’acqua verdastra. Sciacqua il bicchiere. Torna indietro. I polli si scostano al piccolo trotto. Lei alza e abbassa l’innaffiatoio. Gira intorno alla tomba.

La lapide.

Mi metto in ginocchio. Sono in ginocchio sulla cimasa. Scivolo in fuori con le ginocchia.

La donna.

Sporgo in fuori i talloni. Scivolo giù con le dita dei piedi. Scivolo giù dalla cimasa con le ginocchia.

La donna.

Sono appeso nell’aria, mi tengo alle tavole con le dita, oh, sono appeso al muro.

La donna spolvera la lapide con la cocca del vestito. Spolvera l’iscrizione col vestito. Apre il pugno e lascia andare il vestito spiegazzato. Dal basso alza lo sguardo verso di noi. Le vedi sul vestito le tracce grigie dell’iscrizione.

Il nostro caro fratello Matthias Benedikt.

La liturgia

Ma quando trascinano il maiale nel cortile, il maiale strilla. Ci vogliono quattro uomini per trascinare in cortile il maiale, uno per zampa. Quando il maiale grida i polli svolazzano, la sabbia si leva turbinando dai loro artigli, turbinando e gridando i polli schizzano sul tetto, dal colmo risuona, con la voce rauca di una cornacchia, il grido del gatto. Quando il pollame grida, nella stalla tintinnano le catene delle mucche. Puntando le gambe contro la cornice della porta e contro il muro, due uomini trascinano fuori il maiale dalla porta del porcile; sulla porta di casa i bambini aspettano; in mezzo al cortile una lunga tinozza è pronta accanto al paiolo. La tinozza in mezzo al cortile fumerà d’acqua bollente. Due uomini aggrappati alle zampe anteriori, due uomini a quelle posteriori, corpo teso e sussultante del maiale tra le proprie zampe tirate e le gambe flesse e irrequiete degli uomini. Chi si tappa le orecchie? Nessuno si tappa le orecchie. Dalla parete di legno del granaio si stacca il cerchione di ferro della botte, un bruco peloso casca giù dal vetro della stalla, il cerchione corre oscillando per il cortile. Ma quando lo coricano sopra la tinozza, il maiale ammutolisce, i becchi dei polli sono ridotti al silenzio, gli artigli dei polli graffiano il colmo, i bambini aguzzano gli occhi, il gatto è in agguato tra i polli, il cerchione di ferro si corica sul fianco sfarfallando, il suo rumore tintinna sulla pietra, le catene delle mucche smettono di tintinnare nella stalla. Con un occhio uno degli uomini fa segno all’altro. Poi i polli ridiscendono dal tetto svolazzando, il bruco striscia sul vetro, bianco e fitto il vapore riempie gli occhi degli uomini.

 

 

Ecco l’Agnello di Dio, aveva detto il prete, ecco colui che toglie. Ecco l’Agnello di Dio, aveva ripetuto, ecco colui che toglie i peccati. E per la terza volta aveva detto: Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Con cautela, perché non suonasse, il chierichetto aveva sollevato la campanella dal tappeto, per tre volte aveva brevemente ripiegato la mano sul polso e bruscamente proiettato in avanti il polso con la campanella, per tre volte il martellio dei batacchi aveva battuto le ore. Ciò fatto, il chierichetto non aveva deposto la campanella; con cautela, le dita dell’altra mano intorno ai batacchi della campanella affinché non suonassero, aveva atteso in posizione eretta che il prete piegasse il ginocchio; quando poi il prete aveva piegato il ginocchio, il chierichetto aveva suonato per la quarta volta. Subito dopo aveva posato con cautela la campanella sul tappeto e aveva girato la testa verso il secondo chierichetto; il secondo era inginocchiato a sinistra sul gradino inferiore; indi, come un sol uomo, tutti e due si erano ritirati dal gradino, come un sol uomo si erano alzati dal tappeto e nello stesso tempo, le mani giunte con le punte sul mento, si erano venuti incontro. Si erano interamente girati verso l’altare e avevano piegato il ginocchio davanti all’altare; dopo aver fatto ciò avevano guardato in alto, verso la cupola, e in basso, verso il popolo, e muovendosi in diagonale verso destra e verso sinistra, come una forbice che si apre, i due si erano diretti ai banchi della comunione. Mentre si venivano incontro descrivendo due mezzi cerchi come le braccia di un compasso, e intanto congiungevano e riunivano le parti girevoli dei banchi, costruendo una barriera davanti all’area dell’altare, anche il popolo, le braccia incrociate sul petto, le teste chine a terra, era uscito numeroso dalle navate della chiesa facendosi avanti: inoltre, il calice e la patena in mano, per prudenza uno sguardo in tralice al tappeto, anche il prete aveva sceso i gradini dirigendosi poi verso il popolo sopra le pietre del pavimento. Prontamente i chierichetti avevano spiegato sopra il banco i drappi ricamati e lavorati all’uncinetto, la fila nera del popolo si era inginocchiata davanti al banco, il prete, che camminava allargando e riaccostando le gambe, aveva depositato sulle lingue del popolo le sfoglie di pane. Dopo era successo questo: A capo chino il popolo, con la gola che inghiottiva, era di nuovo sciamato nelle navate della chiesa, i chierichetti avevano tolto i drappi dai banchi, venendosi incontro lungo i mezzi cerchi i chierichetti avevano poi nuovamente aperto le barriere; anche il prete era tornato all’altare con la sua attrezzatura; qui, con l’aiuto del drappo, aveva pulito il calice e l’aveva riposto nella sua custodia. Tuttavia dopo di ciò si era verificato questo: Le parti disperse del popolo, ritrovata la tranquillità, avevano colmato le lacune delle panche; le lingue piegate avevano leccato dal palato i resti di pane; nello stesso tempo i chierichetti, a mani giunte, avevano frettolosamente inseguito il prete in direzione dell’altare; come un sol uomo avevano poi piegato il ginocchio davanti al centro del gradino; separati tra loro, le mani giunte sotto il mento, si erano allontanati nelle direzioni previste; uno era andato a destra, verso la nicchia scavata nel muro, l’altro a sinistra, al suo posto sul gradino inferiore. Ma dopo di ciò, senza frottole, era accaduto questo: Quello di destra aveva prelevato dalla nicchia le caraffe del vino e dell’acqua, aveva frettolosamente salito i gradini laterali, aveva innaffiato col vino e con l’acqua le dita del prete al di sopra del calice. Difilato quello di sinistra era salito fino al libro e con prudenza, come il prete il calice al popolo, aveva portato giù in diagonale il libro col leggio. Ma dopo si era verificato questo: Al centro il chierichetto aveva incontrato l’altro, che tornava dalla nicchia a mani vuote; avevano piegato il ginocchio, quello di destra era andato a sinistra, quello di sinistra era salito in diagonale verso destra col libro davanti a sé e aveva deposto il suo carico sull’altare. Anch’egli a mani vuote, era disceso difilato in linea retta e subito i due si erano succinti la veste e si erano inginocchiati. Il prete, è indubitabile, si era spostato verso destra fino al libro e lo aveva aperto sul versetto della giornata; poi era tornato al centro con l’intenzione di dire qualcosa: domnus wobisku, aveva detto il prete al popolo; etkuspiritutu, avevano replicato i chierichetti in quanto rappresentanti del popolo. A questo punto il prete, addirittura, si era di nuovo spostato a destra fino al libro; aveva letto l’ultima preghiera; era tornato al centro; avevano ridetto le loro parole, il prete aveva rapidamente baciato l’altare e a braccia aperte si era girato su se stesso e aveva licenziato il popolo. Di nuovo il prete si era voltato verso l’altare, di nuovo si era girato su se stesso e a braccia spalancate aveva benedetto il popolo e i chierichetti. Dopodiché tutti si erano alzati, il chierichetto di destra era salito difilato fino al libro, quello di sinistra invece era andato al centro, quello di destra, portando il libro, era risalito in diagonale verso sinistra, anche il prete, che è che non è, si era spostato a sinistra, aveva detto qualcosa, sul lato sinistro del secondo gradino il chierichetto gli aveva risposto annuendo, era sceso, si era fermato sulla sinistra, anche il prete si era fermato sulla sinistra, a destra si era fermato solo il chierichetto di destra, doveva essere successo qualcosa, intanto il popolo si era concordemente alzato dalle panche, sabbia e pietrisco erano stati brevemente scrollati in un setaccio, ancora una volta tutti insieme avevano piegato il ginocchio, il prete aveva chiuso di scatto il libro ed era andato al centro, quello di sinistra aveva preso il libro, quello di destra lo zucchetto, concordemente i tre, i visi levati alla cupola e abbassati verso il popolo, erano scesi dall’altare a passo misurato, si erano girati su se stessi, come un sol uomo avevano piegato il ginocchio dentro le vesti, quello di destra aveva porto al prete lo zucchetto, il prete se l’era messo in testa, di nuovo si erano voltati verso il popolo, quello di destra aveva camminato in testa, quello di sinistra l’aveva tallonato col libro sul petto, con una parte dell’attrezzatura il prete li aveva seguiti menandoli in coppia davanti a sé; e tuttavia non era successo niente.

 

 

Je k smerti obsojen: cominciai a leggere dal mio punto l’idioma forestiero; useme te krish na suoie rame: continuò a dire mio fratello dalla seconda stazione; pade prauish pod krisham: continuai; srezha svoie shalostno mater: continuò lui; pomagh krish nositi: continuai; poda petni pert: continuò lui; pade drugesh pod krisham? domandai; troshta te Jerusalemske shene? domandò lui di rimando; pade trekish pod krisham: avevo continuato io; je do nasiga sliezhen inu jemo so te grenki shauz piti dali: aveva continuato lui; po na krish perbit: continuai; je pouishan inu umerie na krishu: continuò lui; je od krisha dou uset inu na roke Marie poloshen: continuai; bo u grob poloshen, terminò di leggere lui. Hai sentito? domandai. Adesso è passato, disse lui. Io l’ho sentito, dissi. Non arrivano fino a qui, disse lui. Si risparmiano per le città più grandi. Io l’ho sentito, dissi.

 

 

Che cosa? domanda mio padre. La corriera, dico. Alle dieci in punto, dice mio padre.

L’ordinata fuoruscita dalla chiesa

Il popolo si accalca davanti all’uscita. Però un solo battente della porta è aperto. Come farà dunque il popolo a passare ordinatamente dall’uscita? Inoltre ai due lati della porta c’è un bacile di pietra. Senza bagnarsi le dita con l’acqua del bacile il popolo non sfollerà dall’uscita. Il popolo si accalca davanti all’uscita. Adesso uno del popolo si china sul battente chiuso; ma siccome gli altri gli si accalcano dietro, l’uomo viene a tal punto schiacciato contro il battente che il suo braccio e la sua mano non avranno abbastanza spazio per estrarre il chiavistello verticale della porta dalla tacca del pavimento. Il popolo accalcato sospinge infine l’uomo all’aperto attraverso la metà aperta dell’uscita. Il popolo si accalca davanti all’uscita. Intanto le braccia del popolo sono protese verso i bacili: le braccia delle donne verso quello di destra, le braccia degli uomini verso quello di sinistra. Come farà, chi si trovi al centro del popolo, a bagnarsi nell’acqua le dita della mano? Non può arrivarci né da una parte, sopra le spalle e le teste degli uomini, né dall’altra, sopra i capelli delle donne rialzati a crocchia. Il popolo accalcato gli inchioda le braccia lungo il corpo: non sembra che sia lui ad avanzare tastando coi piedi, ma che sia il luogo in cui è bloccato a trasportarlo, incuneato nello scalpiccio e nello struscio del popolo. Tuttavia, là davanti, un altro, facendo forza col ginocchio contro il battente chiuso, riuscirà a liberare il ferro dalla tacca del pavimento. Senonché i battenti della porta si aprono verso l’interno. A che serve dunque estrarre il chiavistello dalla tacca del pavimento, se il popolo che si accalca impedisce l’apertura del battente? Per di più, forse, uno vuole rientrare nella chiesa. Il viso e il collo nella cornice della porta, aspetta fuori davanti al battente chiuso e preme invano le spalle contro le accalcate schiere del popolo. Non appena pone il piede sulla soglia, ginocchio e spalle gli vengono respinti. Anche se potrebbe gridare all’altro, quello che si trova in mezzo al popolo, la cosa che ha da dirgli, rispetta la santità del luogo tacendo, ansimando e mordendosi le labbra coi denti. Il popolo si accalca davanti all’uscita. Senonché, mentre si accalca davanti all’uscita, spesso il popolo non fa che segnare il passo; un paio di persone, schiacciate da quelle seguenti contro il battente chiuso, ostacolano l’accalcarsi delle altre spingendo in diagonale verso la porta; anche coloro che tuffano la mano nel badile costringono col loro arresto la susseguente schiera del popolo a fermarsi. In questa situazione, chi eventualmente voglia entrare come potrà portare in tempo la sua notizia a colui che si trova in mezzo al popolo? Come potrà quello in mezzo al popolo alzare le braccia e fare segnali per essere visto dall’altro? In continuazione il popolo si accalca sul posto, brulichio di mosche sull’occhio di un cavallo. Intanto un altro è riuscito a tirare verso l’interno della chiesa, per lo spazio di una fessura, il battente della porta. Adesso dovrebbero arrivare dall’esterno parecchie persone, che potrebbero spalancare il battente verso l’interno a forza di spalle e di mani. Ma solo uno fa forza dall’esterno contro il battente. Le maniche bianche delle camicie che brancolano sopra il bacile chiudono l’uscita con una rete. Indietro il popolo comincia a brontolare contro l’uomo che vuole uscire nel momento sbagliato; davanti il popolo comincia a brontolare contro l’uomo che vuole entrare nel momento sbagliato. La corriera è arrivata alle dieci in punto. A causa dell’urlio delle campane l’uomo che si trova in mezzo al popolo non l’ha sentita ripartire. Per la sosta davanti al cinema si devono calcolare tot minuti. Nel frattempo i passeggeri saranno scesi. Uno che li veda scendere ha bisogno di tot minuti, se corre, per arrivare alla chiesa. Quest’uomo che invano spinge per entrare farà in tempo a comunicare ciò che ha visto? Il popolo si accalca davanti all’uscita. A colui che si trova in mezzo al popolo il sudore inonda gli incavi degli occhi; ora le dita di un’altra mano bagnano le sue dita; l’uomo strappa la mano dalla calca e si bagna la fronte; alza la mano sopra la fronte e sopra i capelli e la tiene levata sopra la testa; ora potrebbe farsi notare con un segno. Una donna accanto a lui gli ha bagnato le dita con l’acqua. Chi è stata questa donna accanto al cieco? Riuscirà lui, col suo aiuto, ad arrivare all’aperto in tempo? Dato che non può più abbassare il braccio, lo tiene dritto sopra la spalla. Sente la pelle ghiacciarglisi sulla schiena; le spinte del popolo gli fanno sentire, sotto la pelle ghiacciata, i guizzi della carne cruda che brucia; la pesantezza del corpo gli piega a un tratto le gambe; gli incavi delle ginocchia e dei piedi cominciano a prudere forte; le porte, pensa in cuor suo, devono essere apribili verso l’esterno per il caso di un incendio; tuttavia anche altri casi sono pensabili. Il popolo si accalca davanti all’uscita. Riuscirà il popolo ad arrivare all’aperto prima che

 

 

Esco dalla porta inciampando. Lei mi raccatta il bastone dalla pietra. Lo porge al padre. Mio padre me lo porge. Io ringrazio. Lui fa un’osservazione sul discorso del prete. Sì, ma, gli fa notare un vicino. Effettivamente, ammette lui. Chiacchierando scendiamo i gradini adombrati del pronao ed entriamo nel sole.

 

 

La macellazione del maiale

 

«Ora il maiale viene immerso nella tinozza e fatto rotolare nell’acqua bollente. Poi le setole gli vengono raschiate via col coltello dalla pelle fumante. Insieme alle setole anche lo sporco untuoso viene rimosso dalla lama del coltello strofinandola sul bordo dalla tinozza.»

La notificazione delle ordinanze sulla piazza del paese

L’uomo che dall’alto del marciapiede, il pollice nella piega del foglio, sotto il foglio le altre dita, notifica i decreti dell’amministrazione alla folla che man mano si raduna mentre defluisce dal vicolo della chiesa, si appoggia col gomito all’angolo della casa; ha un ginocchio rialzato, il tallone dietro di sé sullo zoccolo del muro; il suo pollice sinistro è agganciato all’occhiello inferiore della giacca. È un uomo ancor giovane. Dal rialzo di pietra che è il suo solito posto può vedere, al di sopra dei visi che avidamente lo contemplano, sia la strada che quelle larghe strisce ai lati della strada, ancor molli dopo la pioggia notturna, dove i bambini e gli adolescenti che passano trascrivono le sue parole sulla lamiera e sui vetri delle macchine parcheggiate.

«Negli ultimi tempi si è di frequente osservato che adolescenti e bambini restano per tutto il giorno senza alcuna custodia. Vagabondano per il paese e sono spesso causa di disturbo. Sporcano le mura del cinema scrivendoci sopra col gesso.» Quando alza lo sguardo, l’uomo vede al di sopra dei visi che lo contemplano e dietro i bambini e gli adolescenti che si sono girati verso di lui per contemplarlo il muro fuligginoso del cinema con le locandine che specchiano la vivida luce e davanti all’edificio, schizzata di fango secco, la targa gialla della fermata.

«Al palo della fermata è appoggiata una bicicletta, bianca e rossa, schizzata di fango secco, una freccia bianca in campo rosso, piuttosto arrugginita, una bicicletta col cambio che ha il filo del cambio strappato, senza luce dello stop sul parafango, il campanello è senza coperchio, il sellino è consunto», uno dei bambini, passando, batte il pugno sul sellino.

Nelle macchine chiuse l’uomo sente uggiolare i cani. «Durante la funzione molti padroni irresponsabili sono soliti chiudere in macchina i loro cani; gli stessi si scagliano contro i vetri e coi loro ululati disturbano la quiete della domenica; oppure si rifugiano sotto i sedili, dove il sole non arriva, e ululano e guaiscono infastidendo molti abitanti.» Quando poi la portiera viene aperta, la macchina puzza d’acqua marcia; la lingua inaridita e ammutolita del cane strofina le mani che lo tranquillizzano, e gli occhi della bestia sono iniettati di sangue. Ora, per prima cosa, il cane viene lasciato uscire un poco per arieggiare la macchina. Striscia intorno alla macchina e si corica per terra all’ombra della macchina. Solo dopo qualche tempo riprende fiato con la lingua anelante. Sebbene le portiere della macchina siano aperte, l’interno puzza ancora di tombino; il padrone e la moglie del padrone sventolano le portiere per pompare aria nella macchina. La pelle dei sedili posteriori scotta le dita che la tastano; queste ne deducono che la macchina sia verniciata di scuro. Il cane riguadagna il suo posto passando sopra le scarpe dei già seduti.

«Si richiama l’attenzione su questo fatto.»

L’uomo, come ritira lo sguardo dai visi che avidamente lo contemplano, con la destra porge il foglio alla sinistra e appoggia allo zoccolo dietro di sé l’altro tallone. Ora legge sulla piega del foglio l’ultima ordinanza, quella che prima era nascosta dal pollice.

A questo punto un fischio lo disturba.

Un fischio disturba l’adunanza.

L’uomo è stato l’unico dei presenti a guardare nella direzione del fischio, tutti gli altri hanno guardato lui; anche quelli seduti nelle macchine hanno abbassato i vetri e guardato lui; perfino quelli delle ultimissime file hanno ingoiato i loro mormorii e guardato avidamente verso di lui; allo stesso modo quelli che si sono già dispersi sulla via del ritorno, sentendolo ammutolire, avranno girato le teste verso di lui senza smettere di camminare. Chi è stato chiamato? A chi è stato fatto un segnale? A quale membro dell’adunanza era destinato questo fischio?

Chi cammina si ferma. Chi è fermo si fa da parte, per poter vedere chi ha fischiato. Chi non riesce a vedere il cinema, dato che le schiere glielo nascondono, chiede a quelli davanti chi abbia fischiato. Soltanto l’uomo sullo zoccolo ha guardato nella direzione del fischio; ma siccome ha negli occhi un’immagine postuma in cui distingue solo la macchia del suo pollice, non sa chi abbia fischiato. Chi non vede niente deve affidarsi alle chiacchiere degli altri. Seduto in macchina, si protende in avanti e tende l’orecchio alle domande e ai mormorii. Finalmente chi è stato chiamato risponde con lo stesso fischio. Chi, laggiù in fondo, ha fischiato per primo, urla dall’altra parte della strada la ragione del suo comportamento. Vengo, grida di rimando il chiamato. Il mondo non si è fermato. L’adunanza si ricompone; i visi tornano a contemplare l’uomo sul marciapiede che cerca le parole sul foglio con le dita. «Molestie di questo genere sono vietate a partire dalla data odierna» legge.

Ripiega la carta sul ginocchio e con le dita si spolvera la spalla dalla calcina. Ora, quando la folla defluisce, vi si aprono delle fenditure. Le fenditure si allargano fino alle strisce vuote, marroni per lo strofinio dei piedi, che fiancheggiano i due lati della strada. I finestrini riflettenti delle macchine crescono davanti ai visi, i motori stritolano l’ululato del cane il cui fiato rovente colpisce il polpaccio del seduto. Il padrone dell’auto, accanto a lui la moglie del padrone, sui sedili posteriori i tre passeggeri invitati, non appena la macchina ha lasciato il parcheggio guadagnando la strada d’un balzo, raddrizzano i corpi staccandoli dagli schienali infossati.

Il racconto della sorella

Mia sorella disse che ero diventato cieco quel giorno di novembre. Due membri delle forze belligeranti mi avevano riportato in paese da chissà dove con un veicolo militare attraverso la neve alta e profonda. Era successo quando era già sera. Mentre lei indugiava davanti allo specchio, la luce della macchina che si avvicinava sobbalzando era entrata dalla finestra e aveva descritto dei cerchi, obbedendo ai sobbalzi della macchina, sul soffitto della camera.

L’uomo col sacco da marina

Avrà perso questa corriera. Prima di arrivare alla piazza l’avrà vista partire. Si sarà fermato e avrà osservato la partenza del veicolo. Non avrà corso. Non avrà neppure osservato la partenza del veicolo. Avrà attraversato la città a testa bassa, la punta della scarpa all’inseguimento della propria ombra. Conosce questa città. C’è stato parecchie volte. Non avrà dimenticato le strade della città. Non avrà neppure dimenticato l’uscita dalla città. Attraversa la città senza chiedere la strada agli abitanti. Avrà attraversato la città muto, a testa nuda, sull’anca il sacco da marina sobbalzante. Se l’ora non era ancora passata, avrà aspettato il furgone all’uscita della città o già fuori di essa, sul bordo della strada, il braccio poggiato sul chiosco del latte. Conosce da prima l’autista del furgone; è spesso andato a scuola tra i bidoni del latte, sotto di sé, se la descrizione non mente, lo zaino a mo’ di cuscino. Poiché è passato molto tempo, probabilmente l’autista non l’avrà riconosciuto; tuttavia si sarà fermato per prelevare i bidoni dal chiosco e caricarli sul furgone. L’aiutante dell’autista avrà aiutato l’autista; l’uomo col sacco da marina li avrà guardati mentre lavoravano. All’uomo l’aiutante è sconosciuto, anche l’aiutante non conosce l’uomo che, il piede sulla traversa inferiore del chiosco del latte, li guarda muto mentre inclinano e fanno rotolare i bidoni, in cui ogni tanto il latte sciaborda, sul pianale del furgone. L’autista avrà richiuso la parete di fondo del pianale; in pari tempo l’aiutante dell’autista avrà sollevato dalla strada i bidoni vuoti e facendoseli passare sul ginocchio li avrà sistemati nel chiosco; ma l’uomo col sacco da marina sarà rimasto muto dietro l’irrequieto vagare dei suoi sguardi. L’autista monta nella cabina di guida; dall’altro lato l’aiutante salta sul furgone. Mentre questi si pulisce il latte dai calzoni con le dita, l’autista estrae le braccia dalla giacca; tuttavia non la appende al gancio dietro di sé, ma, quando gli scivola giù dalla schiena, si appoggia alla parete posteriore e in questo modo si incastra in fondo alla schiena la palla di stoffa. Glielo vedevamo fare spesso. Soltanto allora avrà fatto segno all’aiutante toccandolo col braccio; l’aiutante avrà guardato l’autista; l’autista, senza guardare l’uomo, avrà alzato un sopracciglio; dopo di che l’aiutante avrà guardato l’uomo. Su, dice dunque laconico l’aiutante all’uomo. L’uomo ha mosso il mento e ha sorriso. Si sarà avvicinato, l’aiutante gli avrà aperto la portiera, l’uomo sarà montato, il sacco da marina se lo sarà messo tra le ginocchia. Se l’ora non era ancora passata, avrà dunque viaggiato col furgone del latte. Siede muto accanto agli altri due; la testa che annuisce sul petto, avrà perfino dormito. Al mattino la cabina del furgone non sarà stata bollente come adesso. Il furgone si sarà fermato ai singoli chioschi; l’autista e il suo aiutante avranno caricato i bidoni; i passanti non avranno mancato di vedere l’uomo seduto eretto nella cabina aperta. I suoi pugni stringevano forte il cordone del sacco da marina. Anche il suo volto era chiuso.

Il cane

Sta’ zitto, bercia la moglie del padrone. Vuoi star zitto? domanda. Vuoi deciderti a star zitto? domanda più esplicitamente. Stai zitto una buona volta? domanda con rabbia. Stai zitto, mendica. Zitto.

L’uomo col sacco da marina

Più tardi avrà fatto caldo sul furgone. La testa nera del cambio avrà vibrato sotto la mano dell’autista come le ali ronzanti di un insetto. L’aiutante si è acceso una sigaretta con la lente focale; con questa sigaretta ne ha poi accesa una seconda e l’ha infilata tra le labbra dell’autista. Il fumo avrà svegliato l’uomo dormiente. Anche se non dormiva, l’avrà indotto ad alzare la testa. Avrà pregato di fermare. Poi, senza ringraziare, sarà smontato dalla cabina. Questo si sarà verificato ancora sulla strada maestra, per esempio davanti a una diramazione. Mentre noi eravamo in chiesa, lui avrà camminato su questa diramazione lungo il torrente e attraverso la gola. Mentre noi scendiamo qui e stiamo ancora parlando col padrone e con la moglie del padrone, lui avrà già percorso il sentiero che attraversa la gola. Mentre noi risaliamo il sentiero che conduce al podere, lui sarà già arrivato all’altra strada. E mentre noi, all’ingresso del cortile, saremo indotti a voltarci da certi rumori, lui, facendosi roteare il sacco intorno alla testa, già ci inseguirà ansimante per la salita e avrà gridato il mio nome.

La domenica i furgoni non viaggiano.

La morte della madre

Quella volta, disse mia sorella, il giorno che la mamma morì, aveva visto l’ammalata seduta in poltrona al piano di sopra. La donna fissava il cortile attraverso il parapetto intagliato. Si era chinata in avanti più che poteva, la testa protesa con la fronte appoggiata alla mano, e pareva che la spiasse dall’alto attraverso gli intagli panciuti. Dietro la donna la ragazzina vide un bambino che correva: ero io. Non mi ricordo, dissi. Certo che ti ricordi, disse mia sorella. Io ti ho visto correre, disse; vide, mentre io fuggivo, degli steli di fieno e dei granelli di mais piovere dalle fessure del pavimento; le tavole del balcone scricchiolavano sotto i passi. Appese il paniere alla parete della stalla e di là gridò qualcosa alla donna. Andò fin là e mi mostrò i suoi gesti e come aveva chiamato. L’ammalata non reagì: senza alzare la testa dalla mano, spiava famelica il cortile attraverso gli intagli; da sotto, pur mettendosi in punta di piedi, la ragazzina vedeva solo la mano e gli occhi che spiavano. Quando i polli, strillando e rizzando le penne del collo, si precipitarono fuori dalla rimessa, lei corse in casa tra di loro. Nel corridoio perse una scarpa; saltellò all’indietro e mentre correva se la rimise sul piede con la mano. Corse su per le scale, disse. Ma cadde in ginocchio, e pertanto non sentì che sul balcone sopra di lei la poltrona si rovesciava; non sentì neanche l’altro rumore, il ronzio che aveva preceduto il rovesciarsi della poltrona. Non guardò la donna caduta, disse. Per prima cosa rimise in piedi la poltrona rovesciata e vi sistemò sopra gli strati delle coperte. Mi mostrò come avesse rimesso in piedi la poltrona. Non mi ricordo, dissi. La madre era inginocchiata sulle tavole; premeva il viso contro un buco del legno. Ora, a quanto pareva, spiava i polli al piano di sotto attraverso il pavimento del balcone. Infilò furiosamente le dita, disse mia sorella, in due fessure ai lati di una tavola e cercò di strappare la tavola dalla trave, mentre il guizzo del collo le sbatteva la fronte ossuta sul pavimento. La ragazzina distolse il viso, lisciò e carezzò le coperte sulla poltrona. Dapprima non vide che la donna sputava, disse mia sorella, e non si mosse dal suo posto; guardai la donna raggomitolata che sputava sui polli in cortile attraverso il buco del legno. Mia sorella imitò i movimenti con cui la donna aveva sputato. Non ricadde sulla schiena, disse; piuttosto, mentre ruttava così raggomitolata, le gambe le si allungarono di scatto con un tonfo; la donna posò il padiglione auricolare sul buco del legno e tese l’orecchio, mostrando il viso, alle imprecazioni e alle risa soffocate dei polli. Aveva gli occhi fuor dalle orbite, i bocconi vomitati le scivolavano giù dalla guancia. Guardava di sbieco il fascicolo del romanzo che si trovava accanto a lei; non accanto a lei, dissi: accanto al suo corpo. Cos’è successo? disse mia sorella. Parla. Cos’è successo? Non mi ricordo: né delle cipolle appese agli spaghi a seccare, che ancora dondolavano lentamente sopra la madre in seguito al colpo d’aria, né delle domande della ragazzina che si chinava sulla donna e le tirava fuori le dita dalle fessure tra le tavole. Le cipolle oscillavano ancora in seguito allo schianto con cui la poltrona si era rovesciata, disse mia sorella. Le ombre non erano avanzate che di poco. Saltò giù dalla staccionata su cui si era seduta a raccontare e mi mostrò come avesse tirato fuori le mani della donna dalle tavole: Così, disse rialzandosi, i capelli sul viso. Tra le ciocche mi guardò. Io rimasi sulla traversa più alta della staccionata e appoggiai il braccio al montante; una volta e più volte alzai le spalle e levai uno sguardo smarrito verso il balcone. Non lo so, dissi. E che cosa c’entra questo avvenimento con la storia?

 

 

Gregor Benedikt è un bugiardo

La scritta sul muro

Se uno ha il nome scritto su un muro, vuol dire che viene incolpato di una mancanza, di una vergogna o di un difetto. Il suo nome è scritto sul muro col gesso in lettere maiuscole. Dato che la malta granulosa consuma molto gesso, lo scrivente, che ne ha solo un pezzetto, avrà risparmiato il suo utensile; questo non è l’unico muro che vuole imbrattare. All’inizio della scrittura i talloni e le piante dei piedi si alzeranno da terra, e il braccio sarà talmente teso sopra la testa che le dita, scrivendo, si metteranno a tremare; ma nel prosieguo della scrittura, quando le articolazioni dei piedi cominceranno a dolere, la riga farà una curva verso il basso. Se il muro è chiaro, lo scrivente non userà il gesso bianco; in questo caso il nome incolpato campeggerà sul muro in blu o in rosso. Chi ha attraversato il paese in pieno giorno spingendo una bicicletta e sfacciatamente lo nega, viene definito bugiardo. Il suo nome campeggia sul muro del cinema. Tuttavia uno che nega non necessariamente è bugiardo; si limita a contestare ciò che gli altri gli attribuiscono. Può perfino essere convinto di dire la verità, e gli altri possono essere convinti di scrivere sul muro delle bugie: siccome però, interrogato, ha risposto di no alla domanda, viene definito bugiardo, e il suo nome campeggia sul muro. D’altra parte non sarà abbastanza tracciare la scritta soltanto sul muro; su questo muro campeggiano troppe scritte diverse di tempi diversi perché il passante possa leggere questa scritta come una scritta speciale. Perciò il nome di colui che viene incolpato di una mancanza sarà scritto anche sui granai; si farà posto ai segni scritti strappando preventivamente dall’assito i manifesti elettorali e gli appelli per una buona causa. Il più delle volte le assi del granaio saranno nere; si raccomanderà dunque per esse un gesso più chiaro; se c’è da temere che la scritta venga cancellata con un panno, ci si può aggirare nottetempo in gran segreto con una scala a pioli, oppure si può scegliere per scrivere il gesso più solido del sarto o addirittura del gesso da modellazione. Le venature delle assi guidano la direzione dei tratti: per questo motivo si destineranno ai segni le assi dotate di venature diritte. Il nome del sospettato campeggerà in bianco sulle assi catramate del granaio; nella polvere al piede del granaio sarà visibile l’incavo prodotto dalle dita dei piedi; oppure il vento notturno avrà già seppellito le tracce delle dita e i fori obliqui della scala a pioli. I passanti leggeranno ad alta voce all’imputato i segni scritti sulle assi del granaio, per esempio quando costui, rientrato da un’uscita, si rilasserà davanti alla finestra aperta meditando sulla sua situazione. Le gambe protese sopra lo scarico dopo il lungo cammino, avrà modo di ascoltarli; del resto se ne preoccuperà ben poco.

La parola «avvenire»

Qualcosa avviene. Perché avvenga, bisogna che un altro avvenimento si modifichi; oppure qualcosa che finora era senza movimento dovrà muoversi. Se qualcosa resta sempre immobile, non gli avverrà niente; o si muoverà da solo, o qualcos’altro lo farà muovere dall’esterno: allora sarà avvenuto qualcosa. Non c’è bisogno che un altro veda il movimento; non c’è bisogno che esso venga udito; anche il pensiero è un movimento, per quanto sia invisibile: se il pensiero nasce, la cosa avviene. Anche il dolore che nasce è un movimento; nasce nel corpo che uno osserva, senza che colui che osserva il corpo lo senta; avviene perché si è mosso qualcosa che finora in quel corpo era senza movimento. Quando qualcosa comincia, avviene; quando qualcosa si modifica, avviene; anche qualcosa che finisce avviene; ma se qualcosa rimane sempre uguale, immobile o in movimento che sia, se qualcosa né si modifica da solo né viene modificato dall’esterno, non gli avverrà niente; se qualcosa si svolge nell’ordine naturale che gli è dato senza mai modificarsi, allora, anche se si muove, non gli avverrà niente. Nello scarico, che puzza sempre di latte putrido e d’acqua marcia, niente avviene e niente è avvenuto, sì invece in colui che vi si china sopra e a un tratto ne ingoia nel corpo l’odore.

 

 

Ciò che avveniva nel frattempo:

La chiave

Beninteso, cominciò mio padre davanti alla porta di casa, le mani puntate sui fianchi sotto la giacca, rivolto alla donna a lui vicina: beninteso, disse, strizzando gli occhi e scrutando la discesa del sentiero, lui non sospettava nessuno di aver sottratto la chiave, una sola cosa gli stava a cuore, disse adoperando altre parole, ossia accertare dove la chiave fosse andata perduta, affinché potessimo finalmente toglierci di lì. Se una cosa era avvenuta, ribatté la donna, non si poteva modificarla. Magari si trovava sul sentiero, valutò mio padre senza tener conto dell’obiezione. Non si poteva mai sapere, aggiunse, gettando uno sguardo indifferente sui polli. In chiesa, disse la donna, era ancora nella borsetta. Probabilmente l’aveva perduta in macchina, l’aiutò mio padre. In macchina, rispose lei, non aveva mai maneggiato la borsetta. Allora era successo in paese, rifletté mio padre tra sé e sé. Lì sicuramente c’era ancora, lo deluse sua moglie. Ne era sicura? indagò mio padre. Lo era, rispose immediatamente la donna: quando, così dichiarò, aveva preso qualcosa dalla borsetta, la chiave le era capitata tra le dita proprio perché cercava un’altra cosa. Ma che cosa aveva preso dalla borsetta? La lettera, replicò lei; l’aveva data a mia sorella. Dicesse dove l’aveva fatto, la incoraggiò mio padre. In chiesa, si ricordò la donna: mentre il popolo si accalcava davanti all’uscita. E là, completò mio padre, c’era dunque ancora? L’aveva detto, disse la donna. Da qualche parte doveva essere, sfogò la sua rabbia mio padre, non poteva mica scomparire dalla faccia della terra. Aveva certo ragione, gli disse la donna, comunque avevamo ancora la sua chiave. D’accordo, la schernì mio padre: tuttavia desiderava sapere dove si fosse persa la chiave, quel che era giusto era giusto, non stava mica scherzando. La sua chiave, gli disse la donna, era nella giacca. Troppo comodo, asserì mio padre. Sì, ammise lei. Credo di saperne qualcosa, gli venne a un tratto in mente. No, disse poi respingendo la propria riflessione, non va. Alt! esclamò improvvisamente: era sicura che in macchina non aveva toccato la borsetta? Non l’aveva toccata, dissi schierandomi al fianco della donna. Me ne stessi zitto, mi apostrofò mio padre. Ci mancherebbe altro! Era meglio che si sbrigasse, disse la donna, e le desse modo di preparare il pranzo. Non lo facessimo ridere! si scaldò mio padre: non l’aveva toccata! Non avevamo toccato la borsetta! Era un pezzo, si indignò, che trattavamo le cose in questo modo! Non lo conoscevamo ancora! ci promise. Evidentemente non sapevamo di cosa fosse capace!

In fede mia, si gloriava l’uomo davanti ai figli con le stesse parole, quel giorno non l’avremmo dimenticato tanto presto! Col nostro permesso, seguitava a imprecare, se avesse potuto fare a suo modo per noi sarebbe cambiato tutto! Osavamo, diceva attizzando la sua rabbia, comparirgli davanti agli occhi? Ce ne saremmo pentiti! continuava a infiammarsi. Maledette canaglie! diceva sovvertendo il senso del proprio nome. Furfanti! Che ci togliessimo dalla sua vista! E subito! ordinava. Sapevamo cos’eravamo? domandava. Mascalzoni e cattivi soggetti! si rispondeva da solo, perdigiorno, banditi e briganti! Incubi! si contraddiceva: mezzisangue, bastardi! Ce l’avrebbe insegnato lui! Non sarebbe rimasta pietra su pietra!

Tuttavia ci ripensava, placando la propria rivolta e rabbonendosi con lunghe catene di parole. Dopodiché girava sui tacchi e infilava la chiave nella porta; e prima di entrare si raschiava sempre via dalle scarpe il grosso dello sporco, anche quando erano pulite, strofinandole sulla griglia metallica dell’ingresso. Reclinando la testa su una spalla ci guardava dall’alto in basso, nero di rabbia. Quando entrava i figli percepivano ancora, sforacchiato e assottigliato dalla lunghezza del corridoio, il rauco brontolio della sua infinita maledizione. In silenzio seguivamo il padre in casa.

Lo scarico

Qui nell’angolo della stanza, dove adesso c’è l’armadio, il pavimento è di cemento; laggiù un tempo c’era una centrifuga per il latte; qui al centro del soffitto, da cui ora sbucano soltanto le setole nere dei fili, pendeva quel paralume sotto cui le mosche quotidianamente roteavano; ma qui al centro del largo davanzale della finestra, dove adesso puzza lo scarico, anche prima puzzavano dallo scarico le mosche schiacciate e i brandelli putridi di latte; al tavolo della cucina, quando leccava le dita dopo il pasto, la lingua sentiva ancora il sapore delle ali e delle budella delle mosche al pari di quello della crosta bruciata del pane. La macchina separava la panna dal latte tre volte alla settimana. Negli intervalli i resti del latte e della panna marcivano dentro la macchina e nelle pentole rimaste sul cemento. Solo prima dell’uso venivano sciacquati via con l’acqua calda. Ma il più delle volte i resti erano talmente induriti che bisognava raschiarli via dalla latta col coltello; dopodiché la tinozza veniva rovesciata nello scarico. Io ero seduto davanti a esso sulla sedia, oppure avevo messo lo sgabello contro il muro e stavo in piedi sullo sgabello e aspiravo l’odore; la mia bocca era aperta; le pinne del naso non si muovevano; respiravo appena, come se avessi corso; il viso era rimasto senza ombre. In un viso stravolto si sarebbero formate delle ombre, le guance si sarebbero gonfiate, le labbra si sarebbero accartocciate. Era quella la tradizionale espressione di disgusto, disse mio fratello. Era in piedi sotto il paralume, le mosche gli roteavano intorno, le teste delle mosche, che in volo urtavano la sua pelle, erano fredde, disse. Perché le mosche roteavano sotto il paralume? Perché non si posavano nelle pentole o sulla macchina, o qui sotto il mio viso intorno al buco dello scarico? Mio fratello era immobile, le dita tremanti, solo la bocca mi parlava insidiosa; lentamente le sue mani risalirono lungo il suo corpo. Mi girai senza rumore, l’orecchio era rivolto a lui: sentii che la sua bocca si schiudeva; poi il pugno batté sul paralume, la lampada fu afferrata dalle onde del colpo, le mosche residue tornarono roteando e ripresero a darsi la caccia sotto il dondolio decrescente del paralume. Lui era venuto da me e aveva teso il pugno sopra lo scarico; sentii che le dita strofinavano e macinavano; il braccio scattò in alto; quando gli diede lo slancio sentii un’ultima mosca ronzare nel pugno; lui intanto era già corso alla macchina e faceva lentamente discendere nello scarico le sue prede versandovi sopra il resto di latticello putrido della pentola che era andato a pigliare: fiuta, aveva detto poi: fiuta adesso. Mi chinai su quel liquido e lo sentii defluire nel tubo. Ancora niente? chiese lui, ancora niente? No, dissi espellendo il fiato. Ma subito il tubo tacque sotto di me; e mentre, dopo aver parlato, tornavo a inspirare, ingoiai insieme al fiato, senza poter chiudere la gola aperta, anche l’ondata del puzzo, che dardeggiò dallo scarico come una fiamma e mise in fuga ogni voglia. Lo senti adesso? aveva chiesto mio fratello, lo senti l’odore? No, avevo replicato senza scompormi, non sento niente, non sento nessun odore, non sento assolutamente nessun odore.

Il nido di vespe

«La pallottola di carta biascicata stretta fra le mascelle, la vespa progrediva a poco a poco, avanzando in diagonale dall’alto in basso, nella costruzione del nido; seguiva il margine del pezzo già completato e in questo modo allungava sempre di più il molle nastro intriso della sua bava; ma il lavoro veniva spesso interrotto e di nuovo ripreso, perché ogni volta la scorta si esauriva rapidamente. Allora si rendeva necessario raschiare coi denti, nei pressi del granaio, un ramo legnoso ammorbidito dall’aria umida e calcinato dal sole, estrarne le fibre, scinderle tra di loro e intesserle in un feltro malleabile; con la pallottola fresca la costruzione sopra di noi poteva quindi essere continuata. Abbiamo visto la vespa contrarre il ventre e insinuarsi nella bocca del suo nido. Vigliacco, hai detto tu. Vigliacco sarai tu, ho rintuzzato io. Mentre parlavamo così eravamo nel fieno sino alle ginocchia e continuavamo a sguazzarvi, e intanto alzavamo gli occhi ardenti e sbarrati verso le tegole del granaio.»

 

 

Ciò che avvenne in seguito:

 

 

Siamo andati tutti e due nella rimessa, ho detto io. Abbiamo tirato fuori dalla rimessa la scala a pioli. Traversando il cortile siamo tornati nel granaio.

Nella rimessa io sono strisciato lungo il muro sulla catasta di legna, hai detto tu. Ho staccato la scala a pioli dal gancio. L’ho fatta scivolare fino a te lungo le mie braccia. Ho appoggiato alla catasta di legna l’estremità della scala.

Io ho premuto verso terra le punte della mia estremità, ho detto io. Tu sei sceso dalla catasta di legna lungo i pioli della scala. Io ho messo la scala di costa e l’ho trascinata attraverso il magazzino. Con un salto tu hai afferrato l’estremità posteriore e l’hai portata dietro di me attraverso il cortile.

Siamo tornati nel granaio attraverso il cortile portando la scala, hai detto tu. Tu hai schiuso la porta facendo cuneo col piede; e le bucce dei granelli di cui il vento aveva riempito le fessure ti sono volate in faccia. Hai spinto indietro me e la scala.

Siamo subito entrati nel granaio, ho detto io. Io ho marciato in linea retta verso le tavole del fondo con l’estremità appuntita della scala. Senza rumore ho lasciato andare l’estremità della scala.

Io ho rizzato la scala, hai detto tu. Passo per passo, le braccia sempre più alte intorno ai pioli che si alzavano, sono venuto verso di te sotto la scala. L’estensione del ventre mi ha fatto uscire la camicia dai calzoni. Tu hai divaricato i piedi e li hai puntati contro le estremità della scala. Come me hai sollevato la scala e te la sei tirata più vicina in posizione verticale. Io ti ho lasciato la scala.

L’abbiamo appoggiata contro la trave che corre sotto il tetto, ho detto io. Tu mi hai passato la pertica. Ho salito la scala con la pertica in pugno.

Inerpicandoti ti guardavi le scarpe, hai detto tu. Mi vedevi dall’alto attraverso i piegamenti e le estensioni delle gambe. Ti sei raschiato via lo sporco dalle suole sugli spigoli dei pioli, depositandovi sopra dei tettucci.

Ti vedevo attraverso le gambe che salivano, ho detto io. Sotto di me premevi le ginocchia e la fronte contro la scala. Hai voltato la testa e hai guardato ripetutamente verso la porta. La porta del granaio era ancora aperta.

A metà scala ti sei fermato, hai detto tu. Da principio non sei riuscito a girarti. Una mano intorno alla pertica, l’altra mano intorno al piolo, sei rimasto lassù un bel pezzo senza far niente. Non sapevi più cosa fare.

Ho incrociato i piedi, ho detto io. Rapidamente ho passato la pertica dalla mano destra nella sinistra, nello stesso tempo mi sono dato una rotazione e con la mano libera ho riafferrato il piolo dietro di me.

Hai continuato a salire con la schiena alla scala, hai detto tu. In alto ti sei tolto le scarpe, strofinandole su un piolo sino a farne uscire i talloni. Le hai lasciate cadere giù. Sei rimasto in calzini. Le dita dei piedi si sono artigliate intorno al piolo. Ti sei appoggiato all’indietro.

Mi sono ben sistemato sulla scala, ho detto io. La porta era ancora aperta. Tu hai incassato la testa nelle spalle.

Hai afferrato la pertica con tutt’e due le mani e l’hai alzata con forza, hai detto tu. Non hai colpito il nido. La stoccata si è limitata a sollevare una tegola dall’assicella. Tutt’e due ci siamo fatti piccoli e abbiamo guardato in cortile dalla porta aperta.

Soltanto tu ti sei fatto piccolo, ho detto io. Io ho subito dato un’altra stoccata. Anche questa volta non ho colpito il nido. Ma l’impatto della pertica l’ha scollato dalla tegola.

È caduto ronzando, hai detto tu. Io mi sono rannicchiato sul piolo più basso. Le nostre teste hanno seguito la caduta del nido. Prima abbiamo guardato entrambi il tetto. Poi le teste si sono abbassate a poco a poco. Da ultimo la tua era china e la mia fissava il terreno davanti a sé. Da questa posizione non ci siamo più mossi.

Il nido è precipitato a spirale, ho detto io. Ha veleggiato sulla polvere dell’aria ed è atterrato sul pavimento del granaio.

Siamo rimasti fermi e zitti, hai detto tu. Dalle teste immobili abbiamo mandato in avanscoperta gli sguardi. La bocca rivolta verso l’alto, il nido giaceva sulla pula e sui chicchi davanti alla porta. Aveva inciso la sua traccia nella polvere lanuginosa del pavimento.

La bocca è rimasta vuota e spopolata, ho detto io. I polli sono svolazzati in cortile dalla porta aperta.

Non hanno toccato il nido, hai detto tu. Hanno solo mangiato i chicchi che lo circondavano. Allora mi sono alzato.

Ti sei allontanato dalla scala tutto curvo, ho detto io. Un braccio con la mano pronta a ghermire l’hai teso per sicurezza dietro di te. Tutto curvo ti sei avvicinato furtivamente al nido. Ma il nido di vespe era vuoto. L’hai visto cadere dal tetto già vuoto.

Il nido non era vuoto, hai detto tu. In uno dei favi ho trovato qualcosa.

Non hai trovato niente, ho detto io. Sei solo rimasto fermo davanti al nido, pronto alla fuga. Dal cortile una raffica di vento è entrata nel granaio. Il colpo di vento ha alzato il nido da terra. Per lo spavento sei balzato sul nido.

L’ho preso in mano, hai detto tu. Ho lacerato ogni singolo involucro. Tu intanto stavi seduto sul piolo.

Sono sceso dalla scala, ho detto io. Ci siamo sdraiati nel fieno col nido. Tu hai estratto per le ali dalla sua cella la vespa spiaccicata.

Il vento ha scacciato i polli e gracchiando e cigolando ha chiuso la porta, hai detto tu.

Non riesco più a vedere la vespa sulla tua mano, ho detto io.

Non è ancora morta, hai detto tu. Fa di sì con la testa. Un’ala è inchiodata diagonalmente nel corpo come una freccia. Le zampe anteriori si aggrappano all’aria.

Ma adesso, ho detto io.

No, hai detto tu. Si stira e tasta la pelle del mio dito, mi fa il solletico. La zampa trema. Il corpo trema. La vespa si inarca. Alza l’ala tremante per volare. È scossa da un fremito interno. Il dolore, o qualunque cosa sia, la fa sobbalzare. Giace qui. Intreccia le zampe sul corpo. Si appallottola, si accartoccia. Le ali guizzano. Mi solleticano la pelle. Il fremito selvaggio che la scuote la fa impennare a testa in giù. Nel respiro il suo corpo si assottiglia. Potresti sentire le ali che sibilano e sussurrano. Il dolore, o qualunque cosa sia, la fa rotolare di qua e di là. Lo grida, il suo dolore. Gira come una trottola. Geme. Scaglia il corpo lontano da sé. Si stira. Si estende e

L’inondazione

C’è un uomo in piedi nel fiume, disse mio fratello. È in mezzo al greto a testa china; le braccia gli pendono lungo il corpo. Dalla riva su cui siamo seduti è sceso nel letto del fiume e ha camminato lentamente sui sassi verso l’acqua; dato che siamo tanto lontani da lui, sembra che sia immediatamente davanti alle onde: con un passo sarebbe nell’acqua fino alle ginocchia, col prossimo il fiume lo trascinerebbe via. Invece non è così vicino, ma a una distanza di qualche metro, in mezzo al greto, davanti alle pozzanghere stagnanti; al limite dovrebbe sentirmi parlare.

Non ti sente, dissi. O ti sente appena, come il gorgoglio delle onde intorno a un ramo. Se gli gridi qualcosa si girerà.

No, disse lui. Si spaventerebbe. Se si gira in fretta, scivola dalla pietra e cade.

Sta guardando qualcosa? domandai.

Non lo so, disse mio fratello. Lo vedo solo di spalle; la striscia del suo viso è scintillante di sole, quindi non distinguo niente.

La sua bocca è aperta per la stanchezza, dissi. Ha camminato a piede asciutto sulle pietre e se ne sta lì e dorme nel letto del fiume. Le ragnatele portate dal vento si sono posate su di lui e gli hanno incollato il viso.

Non dorme, disse mio fratello. Guarda l’acqua.

È saltato giù da qui, dissi, ed è corso verso l’acqua tra i bidoni e i materassi.

Non è corso fino all’acqua, disse mio fratello. Ha camminato lentamente sui sassi e si è fermato in mezzo al greto.

Prendimi per mano e aiutami a scendere, dissi. Andrò da quell’uomo e gli domanderò che cosa sta guardando.

Vieni, disse mio fratello.

Cammina più piano, dissi. Si volterà.

Non ci sente, disse lui. Sta incrociando le braccia sul petto e infilando le mani sotto la giacca per riscaldarsi. Se ne sta lì e guarda davanti a sé.

È tramontato il sole? domandai.

Il sole? domandò mio fratello.

Tutt’a un tratto fa freddo, dissi.

Sei entrato nell’ombra, disse lui.

Nell’ombra degli alberi dell’altra riva? domandai.

No, disse mio fratello, nell’ombra dell’uomo. Il tuo viso è nell’ombra dell’uomo.

Cosa fa l’uomo? domandai.

Guarda una pietra, disse lui.

Non si volta verso di noi? domandai.

Continua a fissare la pietra, disse lui.

Una pietra spigolosa? domandai.

La pietra è rotonda, disse mio fratello. Con la parte inferiore è immersa in una pozza cui conduce un rigagnolo che proviene dal fiume. L’acqua intorno alla pietra è limpida e tranquilla come se stesse per gelare. Posso vedere la mica nel fango del fondo; un ramo marcio sporge dal fango; intorno alla sua estremità si è annodata una striscia di stoffa.

E non ci sono bestie dentro? domandai. Nessun granchio, nessun verme?

C’è dentro una zanzara, disse mio fratello.

Non si muove? domandai.

Nuota in cerchio, disse lui.

È morta? domandai.

Sì, disse.

Se è morta, allora dev’essere l’acqua a muoversi, dissi.

L’acqua sale, disse lui.

Perché l’acqua sale? domandai.

Viene l’alta marea, disse mio fratello.

Questo è un fiume, dissi, e non il mare.

È il mare, disse lui. È l’oceano.

È il fiume, dissi, e noi siamo soli. Non c’è nessun uomo davanti a noi.

Sì, disse. Siamo soli. Dalla riva siamo scesi nella scarpata e poi nel letto del fiume e siamo fermi davanti a una pietra in mezzo al greto. La parte superiore della pietra è ancora fuori dall’acqua; ha delle scanalature simili alle spire di un guscio di lumaca; c’è dentro del fango secco, non c’è altro da vedere.

Forse una formica, dissi.

Due, disse mio fratello, due formiche. Si sono salvate sulla roccia e vi si aggirano sopra. Dall’aereo sembrano formiche. Agitano le braccia verso di noi e gridano.

Sono bambini? domandai.

Sì, disse mio fratello. Sono distesi sulla roccia, aggrappati ai licheni. Un bambino si alza e guarda l’acqua: starà ancora salendo? dice all’altro: non vedo niente. Ho freddo.

Anch’io ho freddo, dissi.

Mettiti il mio pullover, disse mio fratello.

È meglio che torniamo, dissi.

No, disse lui.

Cosa c’è? domandai. Perché gridi?

L’acqua, disse lui.

Parla più forte, dissi. Nel rumore dei motori non capisco niente.

L’acqua è avanzata e ha costretto quei due su una piccola superficie, disse lui. Un bambino si trascina dietro l’altro. Ma l’acqua è di nuovo ferma; non rivela alcun movimento. Un tetto di paglia galleggia su e giù; la banderuola sul colmo gira velocemente mentre il tetto galleggia; laggiù il vento dev’essere tempestoso. Dove la paglia è stata strappata via dalle travi, svolazzano i vestiti che l’inondazione ha fatto uscire dalle cassepanche e dagli armadi; l’acqua ha schiacciato e stortato il tetto.

Cosa fanno i bambini? domandai.

Parlano, disse mio fratello.

Di che cosa parlano? domandai.

Parlano dell’acqua, disse lui.

Quanto è grande lo spazio che hanno ancora? domandai.

Potresti farci tre passi, disse. Siedono l’uno di fianco all’altro a gambe tese, le mani aperte posate sulla roccia accanto a sé. Sotto i loro talloni c’è l’acqua; è limpida e tranquilla. Loro però gridano forte; lo vedo dalle facce che si aprono nere, che si levano verso di noi; dal naso di uno scorre il sangue. Questo bambino ha solo la scarpa destra, che ci indica a sua volta con la sua punta; sulle dita del piede sinistro vedo il calzino arricciato. I piedi dell’altro bambino sono nudi; i malleoli si strofinano insieme.

Dov’è la nostra corda? domandai.

L’abbiamo dimenticata, disse lui.

E l’acqua? domandai.

L’acqua li circonda ancora, disse. Sono seduti al centro del cerchio asciutto e parlano a voce bassa e precipitosa. Improvvisamente alzano le teste e fissano la banderuola: soltanto adesso che è ferma la sentono cigolare; noi quassù non ne sappiamo niente. Proprio ora l’acqua entra un poco nel cerchio in un punto e bagna il tacco di uno dei bambini. Anche se nel buio non vedono l’acqua, i due smettono subito di parlare; però non si stringono tra loro: stanno seduti a orecchie tese, a bocca aperta. In questo momento

No, dissi.

In questo momento, disse mio fratello, un maiale morto esce dalle tenebre e passa lentamente davanti ai bambini. Senza rendersi conto del movimento delle loro braccia, i bambini si strofinano gli occhi col dorso della mano e fissano il maiale. La pancia del maiale coi capezzoli riluce chiara mentre dondola sull’acqua; urta nel tetto, raschia brevemente la trave e rotola oltre. Un maiale, dice l’uno all’altro pieno di stupore. Un maiale, dice l’altro e stupefatto si lecca il sangue dalle labbra. E mentre stanno seduti e parlano del maiale, all’orizzonte nasce in fondo all’acqua una vibrazione che si diffonde per i paesi e per i boschi senza che noi la vediamo.

Torniamo indietro, dissi, torniamo indietro!

E a un tratto, disse lui, a un tratto, a un tratto l’acqua si alza, l’acqua si alza, a un tratto l’acqua si alza e, l’acqua si alza, a un tratto l’acqua si alza, l’acqua si alza e   e e         e   e e e eeee

No! dissi.

E          adesso, disse lui.

La vespa morta

Ha l’odore di un fiammifero bruciato, ho detto io. Ha l’odore di un pezzo di pane masticato. Ha l’odore del fango dopo un’inondazione. Ha l’odore del fuoco sotto la pioggia.