18
Ebbero il permesso di coricarsi la mattina, in modo da essere freschi. C’era una vasta scelta di piatti alla mensa: colazione all’inglese, salmone affumicato, bistecca e uova su richiesta. Qualcuno avrebbe inevitabilmente fatto la perversa battuta sull’uomo condannato e la colazione sostanziosa. Jon Brough si era alzato presto, come sempre, e aveva mangiato i soliti muesli, yogurt e frutta. La routine aiutava.
Come a tutti gli altri: ecco in che modo si iniziava una giornata in cui forse si sarebbe ucciso un uomo di proposito in maniera del tutto legale. Doveva in qualche modo sembrare normale, benché non lo fosse. Aveva già ucciso, naturalmente. L’addestramento militare gli aveva conferito un certo automatismo da botta-e-risposta, una quantità di meccanismi che scattavano d’istinto come reazione a una serie di circostanze ben definite fino al momento in cui si premeva il grilletto e – tap-tap – era finita, ma provocava un vuoto emotivo, soprattutto dopo. Era molto diverso dall’essere un soldato semplice che uccide accanto ai commilitoni, tra il caldo e il rumore e l’odore e la nebbia della guerra. Non si chiedeva passione nel suo campo; era la fredda efficienza a trionfare. I colleghi della squadra erano presenti, ovviamente, e occorreva lavorare insieme, ma ognuno di loro si riduceva a essere una variabile oggettiva, come il nemico, mentre si andava verso l’esito finale. Solo l’ennesima angolatura e traiettoria da calcolare all’istante. Era dopo che la mente doveva fare gli straordinari per sistemare i conti e ripristinare gli equilibri. Nemmeno allora, durante la vita militare come in questa, ci si arrendeva all’emozione. I consulenti ti prendevano da parte, ti incoraggiavano ad aprirti e a sfilare tutti i problemi dalla tua vecchia borsa piena di attrezzature, ma quale persona sana di mente l’avrebbe fatto? Una volta che sentivi nominare il disturbo da stress post-traumatico eri spacciato. Tanto valeva prendere la giacca e andarsene.
Smise di guardare dalla finestra e tornò al libro. Sembrava una buona giornata per ciò che li aspettava là fuori.
Adnan aveva i postumi della sbornia. La norma del sabato mattina. Comunque poteva riprendersi senza problemi, come faceva sempre per andare alla partita oltre il parco.
Gli sarebbe piaciuto poterci andare anche quel giorno. I fan del Liverpool stavano percorrendo la M62 sui Pennini, su per il lungo tratto fino in cima, a Saddleworth, e attraverso la brughiera cupa e fredda, con la pioggia battente che avrebbe cessato come per magia una volta da questa parte. Passando accanto alle piccole fattorie bianche ingobbite tra le strade. Superando il solito intasamento alle uscite di Bradford e Leeds, sempre a est lungo la M62, non fino ad arrivare alla costa del Mare del Nord, però. C’era il sole. Era una bella giornata per la partita. Pazienza, l’avrebbe registrata e guardata andando avanti veloce, o forse soltanto visto il commento nel programma Match of the Day. Del resto era impossibile non venire a sapere il risultato, considerato il luogo in cui era diretto.
Leila rabbrividì nella giacca imbottita mentre aspettava sul retro del furgone. Era di gran lunga troppo presto, lo sapeva, ma quell’anonimo mezzo parcheggiato con discrezione e del tutto legalmente non costituiva alcun rischio per la sicurezza. Voleva essere lì quando Rashid avrebbe avuto bisogno di lei; glielo doveva. La squadra che lo sorvegliava aveva riferito che era ancora a casa. Com’era normale che fosse. Con un rapido calcolo scoprì che non sarebbe dovuto uscire prima di altre due ore. Lei era pronta.
Jake aveva ragione. O, meglio, aveva avuto ragione nel dire di aver sbagliato tutto. Per quanto le piacesse, per quanto lo ammirasse, aveva commesso un orrendo errore, una serie di errori, che lei era determinata a non ripetere.
Quando era stata selezionata come agente operativo aggiunto di Rashid, si era sfogata. «Non credere di poter usare la mia fede come una specie di utensile. Non pensare che interverrò come un’emblematica musulmana che viene a operare la sua magia su questa persona. Non permetterò che le mie credenze vengano usate in questo modo. Non comincerò a dibattere di dottrina e non gli traccerò una strada verso la salvezza spirituale.»
Jake aveva lasciato che terminasse prima di dire: «Non hai capito niente. Volevo coinvolgerti. L’essere musulmana non significa niente. Ai fini del caso è irrilevante che tu sia musulmana o, se è per questo, una donna. Sei la persona giusta, sei brava nel lavoro – più di me, probabilmente – ed è quello di cui abbiamo bisogno. Mi fido del tuo giudizio e delle tue capacità, tutto qui. Io sono a corto di idee, abbiamo bisogno delle tue».
Prima che il caso di Abu Omar arrivasse al suo tremendo epilogo, un giorno erano in ufficio a scrivere ognuno per conto proprio.
«Sono tutte stupidaggini burocratiche» aveva detto lui a un tratto.
«Cosa?»
«Sembra che la gente pensi che si possa ridurre questo lavoro a un metodo. Le formalità prima di incontrare qualcuno, le liste di controllo, la valutazione dei rischi, i profili psicologici, le formalità dopo gli incontri, i rapporti sul caso…»
«Sì, be’…»
«Analisi strategiche, studio della copertura, norme per le fonti confidenziali, gruppi di collegamento, riunioni sulla strategia operativa, diagnosi di benessere. Il lavoro in realtà è abbastanza semplice. Due o più persone si uniscono, una rivela all’altra qualche segreto, e quella converte ciò che le viene detto in qualcosa di prezioso e utilizzabile, senza mettere a repentaglio la vita dell’altra persona.»
«Fino a un certo punto.»
«Scusa?» Non era abituato a essere contraddetto. Non da lei.
«Non può essere tutto soggettivo. Non più. Ci dev’essere un certo rigore.»
«Esatto. Tutte quelle chiacchiere non aiutano. Sono soltanto prolisse. Dobbiamo dare un taglio alle stronzate.»
Leila ora capiva che la sua petulanza era un modo di rimuovere ciò che lo preoccupava davvero: Abu Omar e la traiettoria funesta di quel caso.
Un tempo Jake era stato il suo modello. Le aveva mostrato come si facevano le cose. Anche se, con la sua modestia, avrebbe senz’altro detto che non esistevano modelli. Era stato quello che aveva parole sagge, quello che faceva colpo con il suo atteggiamento e i suoi risultati. Quello che aveva gestito Rashid con tanta semplicità.
Ma l’aveva sfinita, a prescindere dal dolore e dall’ingiustizia che aveva patito. Nonostante George avesse detto di essere tollerante con lui, Leila capiva che Jake aveva fallito, che gli era mancato il coraggio. Alla base non poteva dire che Stuart avesse sbagliato a estrometterlo dal caso, perfino così avanti. Ora era rimasta lei a raccogliere i pezzi.
Pensò a tutto quello che aveva imparato. «Trova qualcosa che ti piaccia in loro, per quanto difficile. Per lo più si considerano esclusi, ma non lo sono; ricorda che in genere non sono esclusi più di quanto lo siamo noi. Sono solo bisognosi, ma occorre rispondere a quel bisogno. Non serve essere intelligenti, quanto essere giusti. Questi sono solo rapporti umani ordinari in circostanze straordinarie. Non li sfruttare, trova un terreno comune. Non sono le pratiche di spionaggio che contano, quanto il legame.»
La faceva impazzire di rabbia. Si era sbagliato di grosso, ed era ingiustificabile, nonostante le attenuanti che cercava di dargli. Si era sbagliato sul caso di Abu Omar. Probabilmente si era sbagliato su tutto, con le sue piccole prediche sull’integrità personale e l’autenticità. Molte erano frasi fatte. Era probabile che non ci avesse mai creduto nemmeno lui. Aveva detto che l’avrebbe delusa, e lo aveva fatto. Quando si sarebbero rivisti in ufficio, avrebbe chiarito con lui. E non avrebbe più commesso gli stessi errori. Per il momento, però, doveva concentrarsi e ripassare ancora una volta ciò che avrebbe detto a Rashid.
Stuart Calloway alzò il ricevitore e disse a Shirley che aveva bisogno di parlare con il commissario capo. Rimase in linea mentre lei chiamava il responsabile del suo staff.
A Stuart riferì: «Non è disponibile. È in riunione».
«Be’, di’ al responsabile del suo staff di tirarlo fuori dalla riunione seduta stante. Nel frattempo chiamami Julian.»
Julian era a capo dei consulenti legali, giovane e da poco tra i Treasury Solicitors, i legali degli enti pubblici, quindi un ragazzo prodigio. Aveva la fiducia del governo, meno quella di Stuart, era un individuo alto, slanciato, piuttosto bello, con modi vaghi e incuranti, che nascondeva un pericoloso intelletto acuminato.
«Allora, cosa possiamo addossare a Jake Winter?»
«Addossargli?»
«Perché se ne vada in fretta.»
«Be-e-e’, suppongo…»
«Sì?»
«Potremmo considerare l’idea di sfruttare il suo approccio verso la possibilità che gli americani abbiano riservato un trattamento inumano ad Abu Omar.»
«Tortura? Credi che la tollererebbe?»
«Nemmeno per un momento. Da tutti i suoi appunti di allora, da tutte le registrazioni dei suoi interrogatori emerge la figura di un bravo soldatino diligente. E non posso immaginare che qualcuno in quella posizione non capisca i propri obblighi, dopo il fiasco dell’Iraq.»
«Ma?»
«Le sue risposte sotto giuramento. È molto più ambiguo su quello che gli americani possono aver fatto o meno.»
«E potrebbero aver maltrattato la risorsa?»
«Chi lo sa? Direi di no. Conoscono i terreni minati quanto noi. Parlo spesso con i legali che si trovano laggiù. Dicono che sono rigorosi come in guerra. Lo so, è ovvio che lo dicano, no? Anche lì soffia un vento di novità. Ma non è questo il punto. Se si vogliono forzare le cose, si potrebbero scegliere le discrepanze tra le dichiarazioni di Winter sui documenti e le registrazioni, quando sa di essere messo a verbale, e ciò che ha detto nel clima surriscaldato dell’inchiesta. Si potrebbe sostenere che le discrepanze suggeriscono una tacita accettazione del fatto che le disgrazie accadono. Una tacita accettazione non è accettabile. È una violazione di tutti i nostri codici.»
«Non mi piace. Anche se sarebbe una soddisfazione inchiodare un ipocrita moralista come Jake per la sua mancanza di etica.»
«Be’, è rischioso e senza precedenti, ma può essere una strada legalmente percorribile. Lei potrebbe anche avere il plauso delle associazioni a difesa dei diritti umani, all’occasione, se gioca bene le sue carte.»
«Ne dubito. Non avrebbero molta gloria in questo. Ma potrebbe mettere qualcuno al lavoro per studiare le varie opzioni? Oggi stesso? Vorrei rifletterci un po’ prima che cominci la baldoria, questo pomeriggio.»
«Certo.»
Finalmente era arrivato. La squadra di sorveglianza riferì del suo avvicinamento e, com’era previsto, si sentì un bussare incerto alla porta. Il capo della sorveglianza disse nel microfono: «Può entrare. È pulito». La squadra di sorveglianza e quella armata, che era appostata, sarebbero rimaste nelle vicinanze, tenendosi pronte a passare allo stadio successivo. L’avrebbero allertata di eventuali problemi.
Il ragazzo aprì la porta e le passò accanto in fretta.
«Dov’è Jake?» chiese subito.
«Mi dispiace, Rashid» rispose. «Il suo…»
«No» replicò lui. «Non potete farmi questo. Fai venire Jake.»
«Non posso. È in ospedale. La sua bambina è stata investita da una macchina.» Dov’era la sua bussola morale in quel momento?
Rashid la guardò, interrogativo. «Non sapevo che avesse dei figli.»
Leila sapeva che non aveva né figli né una compagna. Aveva cercato un riscontro della menzogna scelta tra i documenti del caso e ora era sicura che Jake non avesse mai parlato della sua vita personale con Rashid. Non sarebbe stato da lui. Pensò per un breve istante alla propria famiglia, Anoushka e Robbie, ma non poté permettersi di indugiare su di loro.
«Be’, sai» disse. «Di solito vengono al secondo posto. Ma ora…»
Lui ci pensò. «Va bene. Non se ne fa nulla, allora. Me ne vado. Sta andando tutto a puttane.»
«Non lo si poteva evitare.»
«Lo so. Ma questo è un brutto momento. Terribile.»
«Capisco. Allora che cosa facciamo?»
«Abbandono.»
«E cosa ti porterebbe? Sai bene quanto me come la prenderebbe quella gente. Non si può abbandonare una cosa del genere.»
«Veditela tu. E proteggimi come hai promesso. Non ci sono alternative, per come la vedo.»
«No. Andiamo avanti come deciso. Non ti fidi di me?»
«Sì, certo. Solo che…»
«Cosa? Conosco la faccenda alla perfezione quanto Jake. Abbiamo messo a punto tutto insieme, noi tre.»
«Questa cosa che mi avete scaraventato addosso è troppo per me. È più facile annullare tutto. Pensa a qualche scusa.»
«Non ci sono scuse. Non è facile. Faremo del nostro meglio per badare a te, ma quei ragazzi saranno comunque a piede libero e faranno ciò che vogliono. Andiamo avanti, non cambia niente, tranne che Jake non c’è.»
«Non mi piace. È una situazione di merda.»
«Nessuno pretende che ti piaccia. Nemmeno a me piace. Ma non cambia niente. Sei al sicuro quanto prima. Non abbiamo tempo di pensarci. Questo è il momento. Siamo dove siamo. Non abbiamo molta scelta. A meno che tu non ti fidi di me, dobbiamo seguire il piano. Niente esitazioni. Il momento è ora. In questo preciso secondo.»
«No, no, no» replicò, ma mentre alzava gli occhi per guardarla Leila capì che aveva vinto.
«Va bene, allora» disse lei dopo una pausa. «Hai avuto contatti con qualcuno?»
«Nessuno» rispose.
«Ti sei preparato secondo le istruzioni?»
«Sì.»
«Gli altri?»
«Come ho appena detto, non ci ho parlato. A quanto ne so, ognuno fa quel che deve.»
«Ecco lo zaino» disse Leila, glielo diede e lui se lo mise su una spalla.
Rashid la guardò, pieno di dubbi. «Non mi piace per niente.»
«A nessuno piace. Ma bisogna tenere i nervi saldi. Molto probabilmente andrà tutto bene. Farai la tua parte, ci troveremo al posto convenuto mezz’ora dopo e stabiliremo il piano per la prossima settimana. Ma dobbiamo giocarcela bene.»
«D’accordo» disse, con le domande ancora negli occhi.
Le venne la tentazione di sussurrare qualche frase inutile come «Sei molto coraggioso» o «Sarò con te a ogni passo» per ammorbidire il commiato con sentimentalismo. Non farlo mai, aveva detto Jake, non mascherare mai la realtà. Aveva ragione su questo. Quei momenti dovevano essere vissuti in tutta la loro intensità, da entrambe le parti.
«Se la caverà?» chiese Rashid.
Lei tossì. L’immaginaria figlia di Jake. «Non lo so. Speriamo. Noi non possiamo farci niente. Dobbiamo solo concentrarci su questo. Ti conviene andare. Hai tutto chiaro in testa?»
«Direi di sì.»
«Potresti toglierti la giacca, per favore?»
«Come?»
«Sai che dobbiamo farlo, Rashid.»
Le diede la giacca che era calda del suo corpo. Leila la frugò lentamente, metodicamente, con calma, tastando le cuciture e l’imbottitura e cercando nelle tasche. Niente. Chiamò uno della squadra che aspettava fuori. Lui e Rashid evitarono di guardarsi e non si scambiarono una parola mentre lo perquisiva. Uscì senza dire niente.
«Va bene» disse Leila. «Niente deviazioni, lo sai. Per nessun motivo. Vai dritto per la tua strada, come abbiamo detto. Quella. Non un’altra. Cammina a ritmo costante. Passo normale. Pronto?»
«Pronto quanto potrò mai esserlo.»
Si guardarono e sorrisero. Un attimo dopo era sparito e la porta si chiuse con un leggero tonfo.
«Bob. Come va la vita?»
«Ciao, Stuart. È una telefonata di cortesia?»
«Non proprio. Ho pensato che potesse essere il momento giusto per sondare il terreno. Come vanno le cose?»
«Sembra tutto sotto controllo. Per quanto possibile.»
Il commissario capo ridacchiò. «Siamo un po’ nervosi laggiù a Londra?»
«Ovviamente no» rispose Stuart, affabile. «Bob, vengo al punto. Devo parlarti. È venuto fuori qualcosa di nuovo. Informazioni da una fonte super-riservata. Da non usare come prova giudiziale per nessun motivo. Con un pedigree ineccepibile, e si pensa che abbia colto nel segno.»
«Sì?»
Stuart si alzò e cominciò a camminare dietro la scrivania. «Non posso che calcare sulla riservatezza. La fonte è in una posizione potenzialmente molto esposta. Va controcorrente. Ho già avvertito il ministro dell’Interno e il capo della polizia ne è a conoscenza a grandi linee. Ho suggerito che entrambi negassero di avere questa informazione, se interrogati, e lo chiedo anche a te. Io stesso rifiuterò di essere messo alle strette sull’argomento. La mia squadra sul campo non sa niente della fonte né della notizia.»
«Dove vuoi arrivare, Stuart?»
«L’informazione ci è appena stata data. Non posso in nessun modo trovarmi a risponderne, ne negherò l’esistenza. Interessa direttamente la tua operazione. Secondo il rapporto che ho in mano quello che chiamano un “ripasso” è tutt’altro che una prova generale. Quegli individui sono equipaggiati per uccidere. Potremmo avere tra le mani una copia dell’incidente alla stazione. Data la quantità di gente presente, è possibile che sia peggio. Ognuno dei quattro terroristi è equipaggiato con un congegno esplosivo.» Teneva in mano una circolare, come per dare maggior credibilità alla sua parlantina sciolta.
«Compresa la tua fonte primaria?»
«Compresa lei, sì. Ovviamente, può darsi che operi in perfetta buona fede.»
«Non mi concederò un “Te l’avevo detto”. Ma te l’avevo detto. Ti rendi conto delle implicazioni?»
«Sì. Lungi da me suggerire che cosa fare. Ma potresti pensare di chiudere l’operazione prima che quelli si avvicinino allo stadio. Fermarli con ogni mezzo.»
«E l’informazione è affidabile?»
«L’origine è molto solida. Posso garantire che sia accurata? Certo che no. È nella natura dell’intelligence…»
«Capisci le difficoltà? I miei agenti sono in grado di eseguire un arresto immediato, naturalmente, ma molto dipende dalla risposta del soggetto. Ai miei agenti è stato ordinato di dispiegarsi con estrema cautela per ragioni di pubblica sicurezza.»
«Infatti. Non vorrei essere nella tua posizione. Ma valutando la pubblica sicurezza…»
«Non ho bisogno che tu mi ricordi le mie responsabilità» disse il commissario capo, duro. «L’esperienza del mio predecessore ha fornito un monito a tutti noi, caso mai ne avessimo avuto bisogno.»
«Ovviamente. So che non saresti entusiasta di trovarti sulla stessa barca.»
«Non sarei entusiasta, Stuart, di mettere in pericolo la vita della gente in questa città. Questa informazione cambia tutto. Lo sapevi bene con tutta quell’assurdità del “lungi da me”. Questo ci mette in una situazione difficile, per quanto riguarda il rapporto scritto. E se l’arresto immediato va a finire male, i miei agenti non potranno avvalersi della tua informazione per difendersi.»
«Mi dispiace, ma dobbiamo garantire la massima protezione alla fonte.»
«E se operassimo con superflua letalità, te ne laverai le mani? Sono da solo?»
«Non è facile, Bob. Vorrei che lo fosse. Questione di competenze.»
«Ne parlerò con l’investigatore capo. Arrivederci.»
«È stato un piacere parlare con te, Bob. Mi fido del tuo giudizio, a prescindere.»
«Non mi importa di quello che pensi del mio giudizio, Stuart. Faresti meglio a occuparti del tuo.»
«Buona fortuna.» Ma la linea era già morta. Un po’ spinoso, pensò Stuart, ma molto diplomatico.
I «guaiti», li chiamavano i capi. I tentennamenti e balbettamenti dell’ultimo minuto, dovuti con ogni probabilità alla paura dell’epilogo. O, più caritatevolmente, alla coscienza: quella cosa che credeva di aver perso anni prima nella gelida fornace che è Whitehall. Aveva trascorso un’insolita notte insonne. Che il sonno privo di colpe sia il sonno indisturbato dell’innocente non è affatto vero. Era felice di rivedere quelle vecchie amiche, la paura e l’incertezza, che lo tiravano indietro dall’orlo del precipizio e incombevano di nuovo. Era vivo, ancora una volta.
Era giunto il momento. Rashid camminava deciso verso lo stadio, non troppo veloce né troppo lento. Era importante non mostrarsi a disagio, benché fosse difficile non esserlo quando si aveva addosso gli occhi del mondo segreto. Quante pistole erano puntate su di lui in quel momento? Tieni i nervi saldi e, come ha detto lei, tra poco sarà tutto finito. Valutò che doveva trovarsi a circa venti minuti dal campo, perciò probabilmente di lì a mezz’ora si sarebbe già allontanato, urtando quelli che uscivano dallo stadio, diretto all’appuntamento con Leila.
Faceva freddo ma il giorno era luminoso. Passeggiando lungo le case a schiera, socchiuse gli occhi mentre guardava il cielo. Era contento di avere la giacca. Abdullah si stava avvicinando dal lato opposto dello stadio, Bilal e Adnan dagli altri due quartieri.
Così si sarebbe sentito mercoledì, ma con più cupezza. Gli venne in mente che non sarebbe stato necessario rifare quel percorso. Doveva discuterne con Leila, o Jake nel caso fosse già tornato, per capire se poteva svignarsela dopo l’ultimo incontro con gli altri ragazzi, una volta che ognuno avrebbe seguito la propria traiettoria. Tanto a quel punto non poteva fare più nulla. Non avrebbe potuto tornare indietro, una volta conclusa l’azione. Quindi a cosa sarebbe servito? Sarebbe stato soltanto pericoloso. Sperava che riuscissero ad arrestare i suoi compagni facilmente e senza troppo clamore. Non impazziva per loro, ma erano comunque persone, checché ne pensassero gli altri. Jake aveva detto che se ne sarebbe occupati. Gli piaceva. Era un uomo in gamba. Poveretto, con sua figlia. Ma non aveva tempo di pensarci. Che tempistica di merda.
Gli piaceva anche Leila. Era una tipa a posto, per essere di Manchester. Aveva un po’ paura di lei. Non del vecchio Jake, però. Avrebbe potuto fregarlo come voleva, tanto si fidava. Era un libro aperto. Ma aveva scelto di non farlo.
Tranne, in realtà, per il fatto di non avergli detto che cosa aveva combinato laggiù.
Erano persone anche quelle che aveva ucciso. Gli era stato detto che erano nemici e ci aveva creduto, all’inizio. Vecchi e giovani, uomini e donne, bambini a volte, che piangevano e supplicavano in quel modo lamentoso così snervante che smaniavi di finirli in fretta. Sapevi che se li avessi risparmiati, avresti avuto la loro orrenda, entusiasta gratitudine. Allora li avrebbe fatti fuori qualcun altro. E avrebbe fatto fuori anche te. Quindi non potevi far altro che indurire il cuore, esibire uno sguardo vitreo e farlo. Finché non ce la facevi più ed era come se gli argini saltassero dentro di te. Ma non potevi darlo a vedere.
Quelli erano i pensieri che ti venivano in una fredda domenica pomeriggio quando il sole era svanito dal cielo lasciando il blu della sera che si scuriva, e i lampioni davano fuoco alla città.
Erano di nuovo in movimento, per fortuna. Tutti e tre nell’auto appostata insieme all’autista, trepidanti. Non si poteva non trepidare. Se ci fosse stato bisogno di loro, Jon li avrebbe condotti oltre il cordone di agenti. Sperava che non fosse necessario.
Sentivano le comunicazioni mentre il convoglio clandestino, che aveva Romeo come capo involontario, avanzava verso lo stadio lungo la strada stabilita. «Quale poteva essere stato l’intoppo?» mugugnarono gli altri due tiratori. «Non ne ho idea» rispose, anche se credeva di saperlo.
Arrivò un messaggio: «Si ritiene che Romeo non, ripeto non, stia portando alcun esplosivo». Il guidatore accese il motore e li portò alla tappa successiva, quindi si trovarono a uno sputo di distanza dal corteo.
Aveva tempo di prendere un caffè alla macchinetta andando su per le scale verso la sala operativa? No, decise, anche se ne avrebbe avuto bisogno. Era di gran lunga troppo nervosa per fare una deviazione. Forse uno degli altri avrebbe preparato un infuso prima che si entrasse nel vivo.
Usò la sua tessera per aprire la porta e un paio di persone si voltarono a guardarla. La maggioranza, però, era concentrata sull’azione. L’atmosfera era tranquilla lì dentro e le luci erano soffuse. L’ampia sala aveva diverse zone distinte. Il capo dell’unità armata, con le cuffie indosso, sedeva a un tavolo circondato dai suoi. La sorveglianza era sistemata poco distante, con i coordinatori che tenevano un occhio sul quadro d’insieme. La cellula di intelligence verso cui era diretta, in un altro angolo, era composta dalla polizia e dai suoi stessi colleghi che dovevano raccogliere le informazioni dai supporti tecnici e dal chiacchiericcio sulle onde radio per trasmetterle alla squadra di comando al centro, su un palco leggermente rialzato, presidiato dall’investigatore capo in un completo costoso. In realtà, sembrava che avessero poco da fare; il loro lavoro si poteva considerare finito, avendo portato tutti fin lì. Ormai l’intelligence si riduceva a Rashid. C’erano capannelli di persone ai margini della sala, impegnati in lavori di cui Leila non sapeva niente. In altre stanze attigue si svolgevano misteriose attività accessorie, alcune delle quali, lo sapeva, svolte da persone con cui lavorava.
Gran parte dei presenti guardava gli schermi appesi al soffitto, che davano un resoconto confuso degli avvenimenti. Sulle scrivanie c’erano altri schermi con una definizione migliore, che impiegati di basso rango osservavano intensamente, in cerca di qualcosa fuori posto.
Si fermò un momento per dare un senso a quello che vedeva. A poco a poco il mosaico di immagini in movimento cominciò a unirsi. Ogni schermo era etichettato: Alpha (che era Adnan), Zulu (Abdullah), Bravo (Bilal) e Romeo (Rashid). Un quinto schermo mostrava lo spiazzo davanti allo stadio e sul sesto c’era una mappa in movimento su cui i punti che rappresentavano i ragazzi convergevano inesorabilmente verso il centro. I ragazzi procedevano in quella direzione ognuno a modo suo. Bilal strascicava i piedi e dondolava le spalle, Abdullah guardava fisso davanti a sé, Adnan passeggiava con incuranza, le mani in tasca, mentre il lungo passo allampanato e l’espressione nervosa di Rashid attirarono la sua attenzione. Il parlottio delle comunicazioni era tranquillizzante.
Vide George al tavolo della cellula di intelligence e lo salutò con un cenno della mano. Lui annuì di rimando, cupo, e lei gli si avvicinò. Mancava poco.
A Londra, Stuart decise di fare un salto alla sala operativa. Farsi vedere e incoraggiare la truppa non poteva nuocere. Doveva essere quasi l’ora.
Entrò in silenzio. Non era un centro di comando, lo sapeva. Non si davano ordini, lì. Ormai l’operazione era interamente in mano altrui, e lui non aveva alcun potere. Le informazioni erano state date e le carte distribuite. Non restava che aspettare. Avvertiva la tensione nei mormorii. Sarebbe stato sorprendente se non ci fosse stato un certo brivido, considerato quel che era accaduto l’ultima volta.
Andò in un punto dove poteva vedere meglio. La gente si voltava, e lui annuiva, benevolo. Qualcuno gli offrì una sedia, che rifiutò con un sorriso. Non disse niente, come nessun altro, del resto.
Si sorprese vagamente che Jake Winter non ci fosse. Aveva investito così tanto in quella impresa, alimentato quel caso, trascorso scomode notti a farlo progredire, assistito il suo uomo. Quello era il bambino di Jake e Stuart gli aveva suggerito di venire. Poteva essere l’irritazione, concluse Stuart. Non doveva essere stato piacevole per Jake essere estromesso dall’azione a uno stadio tanto avanzato. Non sembrava il tipo da serbare rancore ma, come si diceva, «chi vivrà, vedrà». La sua assenza non era una perdita poi tanto grande.
Ci fu una certa agitazione nella stanza, quando il commissario capo entrò in divisa completa e berretto. Fece un sorriso facile, disinvolto, e disse cordialmente: «Avete di meglio da fare che guardare me» per poi raggiungere con passo indolente il palco centrale su cui sedeva il Silver Control, la squadra di comando diretta dall’investigatore capo. Si udì un parlottio sommesso e l’investigatore capo si alzò. Mettendo una mano sulla spalla dell’uomo, il capo sorrise come se avesse sentito una bella battuta, e si avviarono lentamente insieme verso la sala riunioni vetrata in fondo. Il tempo scorreva nella storia raccontata dagli schermi, con le piccole figure che convergevano nel centro della mappa in movimento. Altri che Leila non riconobbe arrivarono nello stesso momento e si mossero in fretta nella sala operativa. L’agente a capo del personale andò dall’unità armata e sussurrò qualcosa al responsabile. Questi si alzò e andò anche lui nella sala conferenze. Il capo del personale venne poi al tavolo della cellula di intelligence, accostandosi a George. «I superiori si riuniscono per qualche minuto, signore. Il capo si chiedeva se lei volesse partecipare come osservatore.» George si alzò, si mise la giacca e si strinse nelle spalle, guardando Leila.
Leila smise di osservare gli schermi. Sembrava che gli uomini nella sala vetrata fossero riuniti per un incontro conviviale. Sorridevano e ogni tanto si sentiva uno scoppio di risa. Poi si fecero seri, protendendosi, zelanti, verso il capo che si mise a parlare. Alcuni annuirono e infine se ne andarono a turno, tornando in fretta alle scrivanie.
«Che cosa succede?» chiese Leila.
«Stanno staccando la presa» rispose George. «La squadra di arresto entra in azione ora.»
Guardò gli schermi e poi il suo orologio. I ragazzi erano ancora ad almeno cinque minuti dallo stadio. «Perché?»
«Non ne ho idea» rispose.
«Ma…»
«Non c’è tempo, Leila. Devo parlare con Londra.» Aveva già il telefono in mano.
Rashid si sentiva più tranquillo, ora. Stava andando tutto secondo il piano. Non vedeva i suoi inseguitori, ma sapeva che erano lì e la loro presenza invisibile lo calmava. Sono qui per proteggermi, almeno in parte, pensò. Ancora qualche minuto e sarebbe finita.