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Gli americani se ne andarono subito. Ovviamente. Sparirono il giorno stesso su un volo serale diretto a Washington e nessuno pensò di trattenerli. Su che base, avrebbe detto qualcuno, dato il loro passaporto diplomatico? Ci manca solo un incidente diplomatico, oltre a tutto il resto. Esatto, avrebbe concordato qualcun altro, magari Stuart. Ma la discussione non avvenne perché nessuno ci pensò. I grattacapi erano altri. Entro mezz’ora dall’esplosione Jake aveva cercato di chiamare Frank e Jimmy sui loro cellulari per condividere l’orrore, ma le loro utenze erano state chiuse.
Lui era stato subito sospeso, senza che questo pregiudicasse la sua posizione, e gli era stato detto di tornare a casa.
Formalmente, aveva preso qualche settimana libera senza che si specificasse la data di ritorno. George l’aveva chiamato e gli aveva chiesto di recarsi in un commissariato di polizia dove era stato interrogato. Era stato nominato un altro investigatore capo per analizzare le circostanze dell’incidente. George aspettava fuori, in macchina.
«Sta’ sicuro che questa volta ci sarà un’inchiesta pubblica. Ho parlato con Stuart, che mi ha riso in faccia. “Ma no, George; che cosa vai a pensare?” Del resto era ovvio che dicesse così, no? È nell’aria da anni. Si fanno inchieste per ogni singola cosa, al giorno d’oggi. I pezzi grossi cercheranno di impedirla, ma la merda deve pur finire da qualche parte. Il governo ci odia, e qualcuno deve prendersi la colpa. Sicuro come l’oro che non sarà la polizia. Noi non piacciamo a nessuno e non ce ne importa, diciamo così. Quindi preparati. Si metterà male. E succederà tutto in fretta.» Una settimana dopo venne annunciata l’inchiesta.
Il giovedì Jake fu chiamato a Londra. Uno dei consulenti legali gli parlò insieme a Stuart.
«L’inchiesta sarà diretta da un giudice della Corte suprema e avrà natura giudiziaria. Questo significa che può convocare i testimoni, che le testimonianze sono rese sotto giuramento, e valgono le leggi di oltraggio alla corte e spergiuro. La sua identità sarà protetta in maniera adeguata.»
«Mi chiameranno?» chiese Jake.
L’avvocato lo guardò come se fosse stupido. «Certo. Lei sarà costretto a rispondere a ogni domanda in maniera veritiera. Ci sono certi punti che potranno essere esclusi per ragioni di sicurezza nazionale. Dati come i luoghi delle riunioni, l’apparato tecnico, i nomi delle fonti. Li stiamo affrontando con la consulente legale della commissione. Non si preoccupi. Non le verranno chiesti. E se succede, il legale interverrà. Andrà tutto bene.»
«Gli americani» disse Stuart.
«Sì?» chiese Jake.
«Ne abbiamo discusso ampiamente con il governo e siamo arrivati alla conclusione che il coinvolgimento degli americani non è rilevante nell’ambito del procedimento. Quindi l’inchiesta non sarà a conoscenza dei nostri rapporti con loro. È chiaro?»
«Ma sono stati gli americani a consegnarci Abu Omar e l’intero affare. Stai dicendo che non dobbiamo dire tutta la verità?»
Stuart sospirò. «Terra chiama Jake. Torna con noi nel mondo reale. Stiamo cercando di trovare il giusto mezzo tra la giustizia che dev’essere fatta e…»
«La realtà? E se mi chiedono di loro?»
«Non te lo chiederanno.»
«Perché se me lo chiedono, non mentirò.»
«Certo che no. Ma l’argomento non verrà fuori. Fidati. Non hai niente di cui preoccuparti.»
«C’è un’ultima cosa» disse l’avvocato.
«Sì?»
«Temo che come legale del Servizio non potrò rappresentare anche i suoi interessi.»
«Io sono un impiegato.»
«È solo un cavillo, Jake» intervenne Stuart. «Una di quelle maledette questioni legali.»
«Il problema» spiegò l’avvocato «è che si possono immaginare circostanze in cui i nostri interessi siano diversi. Per esempio, se il Servizio scegliesse di asserire che lei non ha obbedito alle regole previste dal suo incarico o non ha soddisfatto i requisiti professionali minimi…»
«Capito cosa intendo?» disse Stuart con un sorriso caustico. «Non succederà mai, ma i nostri scaltri consulenti dicono così.»
«… o, per esempio, se lei dovesse dichiarare che il Servizio le faceva una pressione indebita, o che non ha protetto a sufficienza il suo benessere personale. Vede, è possibile che i nostri interessi divergano. Per questo le suggeriamo di procurarsi un’assistenza legale indipendente per sé. Le daremo un elenco di esperti in questo ambito che hanno le autorizzazioni adeguate.»
Gli acquisti di Natale. Samir aveva un debole per il Natale. Lo aveva avuto: Mr Masoud non era ancora riuscito a modificare il proprio modo di parlare. Esagerava sempre, spendeva soldi che non aveva, adorava le luci e gli alberi. Decorava la casa come se fosse l’ultima cosa che faceva in vita sua. Anche Aisha lo adorava. Era solo Mr Masoud a recalcitrare. Che spreco. Che consumismo. E che mancanza di sacralità. Sua moglie si spazientiva per quella sua acidità. «Vecchio malmostoso!» gli diceva.
Peggio ancora, Samir aveva tenuto a casa Aisha quel giorno per comprare qualcosa di bello per la mamma e vedere le vetrine di Hamleys e le luci in Regent Street. Samir aveva detto alla scuola che Aisha non stava bene. La moglie di Samir aveva chiesto a Mr Masoud di provvedere lui a chiamare la scuola qualche giorno dopo l’attentato, per spiegare ciò che era successo in realtà. Era uno dei tanti compiti orrendi che richiedeva la morte.
Ogni tanto a Mr Masoud veniva domandato, solitamente da gente bianca, se fosse mai tornato in Pakistan. Tornato. Lui era sempre cortese nel rispondere. «No, mai» diceva. Solo di rado, e con una cauta incertezza nel timore di essere giudicato pedante, aggiungeva: «Non potrei tornarci, non ci sono mai stato».
I suoi genitori erano arrivati in Inghilterra a metà degli anni Sessanta, un paio d’anni prima che nascesse. Perciò non era nemmeno stato concepito nel subcontinente, come gli piaceva dire scherzosamente in privato con la moglie. Avevano costruito la loro vita in quella città, con il negozio di alimentari in una zona prevalentemente abitata da proletari bianchi, che durante gli anni Settanta e Ottanta era diventata una sorta di enclave asiatica, con le sue file di case edoardiane trascurate e sfruttate finanziariamente da proprietari bianchi senza scrupoli. Ora erano abitate in gran parte da giovani professionisti che, come Mr Masoud osservava con approvazione, erano molto più a loro agio tra loro e con se stessi della sua generazione, e badavano poco al colore della pelle o alla fede. Bisognava adattare gli affari ai tempi e Mr Masoud ci era riuscito con successo; infatti ora possedeva altri due negozi nei dintorni. Erano tutti diventati piccoli supermercati luminosi e puliti, aperti dal mattino presto fino alla sera tardi, dove vendevano piatti pronti surgelati, sigarette, verdura fresca, dentifrici, giornali e riviste, whisky e vino. Era orgoglioso del loro aspetto lustro e moderno, e della gamma di prodotti in vendita. Non erano più negozi pachistani.
I suoi genitori erano tornati in patria nei primi anni Ottanta, mentre attraversava una scontrosa adolescenza. Si era rifiutato di seguirli. Allora era una testa calda, più interessato alla musica rock che alle proprie radici. Adesso lo rimpiangeva, ma ormai gli sarebbe stato difficile andare in Belucistan. Non aveva legami lì, tranne i labili contatti con parenti che per lo più non aveva mai visto. E quelli che conosceva erano venuti in Inghilterra. A che cosa sarebbe servito andare in visita, se non a dare prova di superiorità e autocompiacimento per il fatto che lui e i suoi si erano tirati fuori da condizioni tanto primitive e poco promettenti? Oppure, in alternativa, a suscitare domande imbarazzanti sulla sua vita empia e decadente in Occidente (domande pertinenti, di fatto)? Come poteva vedere la vita dei suoi cugini con i loro occhi?
Sua moglie era stata in Pakistan diverse volte, prima che si sposassero nel 1986. Non era un matrimonio combinato, ma i loro genitori si conoscevano. Lui era un buon partito: bello, laureato, di buona famiglia. E riconosceva di esserlo stato: un giovane e intraprendente uomo d’affari in ascesa. Lei aveva rinunciato alle sue velleità di carriera per sposarsi, e solo molto tempo dopo era diventata la responsabile amministrativa di un ambulatorio.
Prima che Samir nascesse, aveva suggerito parecchie volte di andare a trovare i parenti in Pakistan. No, aveva sempre replicato lui, era troppo occupato. Per la verità, andare dalla famiglia di lei a Islamabad era molto più semplice, in prospettiva, che da quella di lui a Quetta.
Quindi. Gli americani. Sempre coinvolti. Perché le nostre autorità dovevano sempre stargli così vicino, come una perenne infatuazione per un compagno di classe? L’inchiesta doveva riprendere il lunedì e si sarebbe scoperto altro. Sempre che il governo non cercasse di mettere a tacere la questione nel fine settimana. Il presidente aveva promesso un’indipendenza reale, ma era tutto da vedere.
Uscirono in silenzio con gli altri familiari.
Mr Masoud si abbottonò il soprabito mentre passavano dalla cupezza dell’edificio a quella esterna. Il tempo non prometteva bene, ma non stava ancora piovendo. Prese sua moglie a braccetto mentre scendevano la scalinata del municipio, poi svoltarono in Napier Street diretti al parcheggio multipiano. Camminavano spediti; davanti al municipio c’era trambusto, una manifestazione di qualche genere trattenuta dietro le transenne da poliziotti in giubbotto catarifrangente. C’erano grida e pugni agitati ed espressioni inferocite. Affrettarono il passo mentre il rumore cresceva.
Jake beveva acqua da una bottiglia di plastica, seduto in una stanza che gli era stata destinata.
«Weekend libero?» chiese Chris, uno degli autisti.
«Magari!» rispose Jake con un sorriso dolente. «Andiamo, allora?»
«Fai con calma.»
«Va bene, devo muovermi. Avanti a testa alta.» Prese il portabiti in cui aveva sistemato con cura i suoi vestiti e scesero nel seminterrato con Phil, l’altro autista, che li precedeva per dare loro il via libera. Phil si mise alla guida del minibus mentre Chris sedette nel posto del passeggero. Jake salì sul retro, dietro il vetro oscurato.
«C’è una manifestazione» disse Phil. «Quei teppisti di Britain First, a quanto pare. Faremo il giro dall’altra parte.» Guidò il minibus con scioltezza intorno ai pilastri e su per la rampa. L’agente della sicurezza premette l’interruttore per aprire la porta del garage, che sferragliò pacatamente fino a mostrare la strada e poi il cielo grigio. Phil andò avanti e la porta si abbassò piano con ferrea risolutezza. Si affacciò sulla strada, guardò da entrambi i lati e stava per svoltare a destra verso la circonvallazione interna quando disse: «Oh-oh».
A sinistra Jake vide cinque giovani che correvano lungo un lato della strada.
Inseguivano qualcuno che sulle prime stava dietro un lampione e non si vedeva. Poi le scorse: due figure vestite eleganti che si tenevano a braccetto e si dirigevano a disagio verso il minibus, voltandosi impaurite dai loro inseguitori.
«Che palle» disse Chris. «Ci mancava solo questa. Meglio andare indietro.»
Phil si immise nella via, poi fece retromarcia. Il cambio cigolò mentre retrocedeva veloce con una mano sul volante, la testa voltata per vedere dove stava andando.
«Così va bene» disse Chris, e inchiodarono.
«Rimani in macchina» ordinò Jake a Phil.
«Siamo noi che dovremmo tenerti…»
«Stai al posto di guida» insistette Jake, facendo scorrere la portiera per aprirla.
Li avevano già sbattuti a terra quando Chris e Jake arrivarono e li presero a calci. Uno di loro, che doveva avvicinarsi ai trenta, doppio mento, capelli a spazzola, occhi duri e pigri, alzò lo sguardo. «Ehi, ehi. Che cazzo c’è qui? Che cazzo siete, il soccorso internazionale?»
Chris non diede risposte ma di lì a poco l’uomo si ritrovò sulla schiena, a rotolare e sanguinare a profusione dal centro del viso. Jake ne afferrò un altro e lo fece finire a gambe all’aria con un calcio forte e ben assestato. Gli prese il braccio destro e glielo piegò dietro la schiena, alzandolo finché quello non emise un sonoro gemito, con il viso schiacciato contro la scabra superficie del marciapiede. L’unica decisione da prendere, ora, era se slogargli o meno la spalla. Stabilì che non era necessario. Gli fu difficile, però, frenare l’impulso di spingere fino a sentirla cedere e a udire il crac, trattenersi dal prenderlo a pugni, dal lasciar scorrere il sangue e l’adrenalina, dal sentire l’euforia di lasciar andare tutto e fare a pezzi quel disgraziato. Gli altri uomini – ragazzi, in realtà – stavano già indietreggiando mentre Chris avanzava, con un occhio al loro compagno che era bocconi, fuori combattimento, e strizzava gli occhi cercando di riprendersi.
I ragazzi si misero a correre, ma venivano loro incontro gli amici, che avevano appena notato lo scompiglio.
Chris aiutò la coppia anziana a rialzarsi e li sospinse in fretta nei sedili posteriori del minibus. Prima di mollare la presa, Jake disse sottovoce al suo uomo: «Stai sdraiato così finché non ce ne siamo andati. Posso fare di peggio. Sta’ attento». Si alzò e, mentre Chris guardava intorno per vedere se c’erano altre minacce, salì nel minibus.
Chris balzò al posto del passeggero e Phil partì in scioltezza. «Abbiamo lasciato un po’ un disastro, lì dietro» disse. «Dove si va prima? Ospedale o polizia?»
Jake si ritrovò a guardare Mr e Mrs Masoud. Il marito, che tremava tutto, si portò un fazzoletto fresco di stiro al viso ferito per asciugarsi il sudore, la sporcizia e le lacrime. Dopo un po’ levò lo sguardo, vide Jake e sbatté le palpebre per lo shock. Jake annuì. Mrs Masoud disse a Phil, con calma sorprendente: «Nessuno dei due. Non vogliamo darvi problemi».