Giulia la colpì in piena faccia con il calcio del fucile. Deborah volò a terra. Con la testa sotto al divano. E il labbro rotto. E il naso rotto. Rimase lì, con il volto insanguinato che inzuppava di rosso le frange del divano e gli occhi puntati sotto, in quel po' di buio.

Giulia avanzò ancora fino a trovarsi proprio di fronte a Enzo.

Lui con le spalle al muro.

Lei con quel fucile tra le mani.

Glielo puntò contro.

Enzo vide quell'arpione acuminato puntato proprio in mezzo al suo petto. Strinse i pugni sudati e si pisciò addosso.

Ma che cazzo... Io ho un sacco di cose da fare. Ho una fottuta vita davanti. Non è giusto. Devo riscrivere la relazione. Vaffanculo. Perché così? Cazzo, non voglio morire così. Perché?

Avrebbe voluto chiederlo.

E avrebbe voluto una risposta sensata.

Se ci fosse stata una risposta sensata e razionale alla sua morte l'avrebbe potuta anche accettare. Ma sapeva che quella non era roba su cui discutere. Che non c'era niente da capire. Quello era un altro fatto di cronaca nera. Un altro di quei fattacci che si leggono distrattamente nelle cronache cittadine. Solo che stava capitando proprio a lui. Tra tre milioni di romani proprio a lui. A lui, un futuro pezzo grosso dell'IRI, lui che aveva trovato una donna con un cervello che le funzionava...

Cazzo no! Non è giusto.

«Io ti ho dato le chiavi. Io ti ho dato la mia vita. Io ti ho dato la mia casa. Io ti ho dato la mia amica. E tu cosa mi hai dato in cambio? Rispondi, figlio di puttana!» gli chiese.

Che cosa vuole?

Non riusciva a capire. Che cosa gli stava chiedendo quella psicopatica?

Era proprio come nei film allora. Prima di ammazzarti ti fanno sempre una domanda. Una domanda a cui tu dai sempre la risposta sbagliata. Allora tanto vale non rispondere. E poi di che parlava... Chiavi di che?

«No, io non...» furono le uniche cose che riuscì a dire. Non era una risposta, erano solo parole.

Giulia strizzò la bocca in una smorfia di disgusto, tirò il grilletto ed Enzo, seduto su quella sedia di velluto rosso, vide il giavellotto venire in avanti e conficcarglisi proprio al centro del petto. Sentì lo sterno esplodergli al contatto con la punta. Avvertì il passaggio dell'asta di ferro nella carne morbida chiusa dentro la gabbia toracica. E infine capì, dall'improvviso sussultare della sedia sotto al culo, che doveva averlo trapassato come un pollo allo spiedo e che l'asta si era incuneata dentro l'imbottitura dello schienale.

Abbassò lo sguardo su quel coso di ferro che gli spuntava dal petto. La camicia nuova di Battistoni si stava tingendo di rosso. Teneva le braccia abbassate e allargate come un gabbiano a cui hanno spezzato le ali.

Forse se l'afferro con tutte e due le mani, me la sfilo, si disse.

Ci provò.

Afferrò l'asta e tirò.

Un inferno di dolore gli scoppiò nel torace e sentì il sapore salato del sangue risalirgli su per la gola. L'arpione si era aperto dietro la schiena. Impossibile levarselo. Fece cadere di nuovo le braccia e si mise a piangere.

Era lucidissimo.

Sentiva le lacrime scorrergli sulle guance. Non c'era incoscienza nella sua morte. Levò stancamente lo sguardo verso l'alto. Verso Giulia.

Eccola là.

Ancora in piedi. Immobile. Con quel fucile in mano e quella sagola che li univa come un cordone ombelicale di morte.

«Giulia. Per favore. Ti prego. Levami questo coso dal petto, per favore.» Lei se lo guardò. E in quegli occhi opachi non c'era più niente. Nessuna umana pietà. Nessun umano rimorso.

«Levatelo da solo, stronzo!» disse lei stancamente, come un automa a cui è finita la carica. Buttò il fucile in mezzo al tavolo. Tra le bottiglie di spumante e il gelato.

«Non ci riesco...» rispose solamente Enzo.

 

 

64.MONNEZZA Ore 23:42

 

 

«Abbiamo svoltato! Capisci! Lo possiamo ricattare. Se si viene a sapere in giro che è un pervertito sessuale ha chiuso. Con il lavoro. Con la moglie. Con tutto. È un uomo finito. Capisci!» fece Orecchino con un sorriso che andava da un orecchio all'altro. «E come lo ricattiamo?» chiese il Buiaccaro con un'espressione da scolaro attento. «È semplicissimo. Gli si fa una bella fotografia. Anzi gli facciamo un intero servizio fotografico. Nudo. Con quello stronzo sulla pancia. Saremo ricchi...» Era un gran paraculo quel giovane.

«Grande idea! Grande idea!» ripeteva meccanicamente il Buiaccaro felice.

I due si erano messi a un lato dello studio e confabulavano a bassa voce. Furono interrotti dal Monnezza.

«Scusatemi! Vi posso disturbare? Vi vorrei mostrare una cosa...» «Che vuoi?» chiese il Buiaccaro.

II Monnezza pareva scosso.

«Potreste venire un attimo?» I due si guardarono un momento e poi lo seguirono perplessi fino al tavolo dove era ammanettato l'avvocato.

Rinaldi aveva la faccia gonfia come una zampogna.

Un labbro spaccato. Il naso insanguinato. Gli occhi gonfi. E nonostante ciò gli si allargava un sorriso di gioia sulla bocca.

«Ma che cazz...» non riuscì a dire Orecchino che il Monnezza aveva mollato un'altra papagna in faccia all'avvocato.

L'avvocato emise un sottile gemito.

«È un pazzo! Capite! Gli piace se gli meni. È fatto così. È un fottuto pervertito...» disse il Monnezza con fare divulgativo.

Sembrava Piero Angela.

Orecchino non ci vide più. Saltò addosso al Monnezza e i due volarono a terra.

«Sei un coglione. Guarda che gli hai fatto? Lo hai massacrato! E ora? Hai rovinato tutto. Se gli facciamo la foto sembrerà che lo abbiamo menato, aggredito... Nessuno ci crederà mai. Oramai è tutto inutile... Io ti ammazzo. Ti uccido!» diceva Orecchino cercando di mangiarsi un orecchio del Monnezza.

I due presero a rotolare sul pavimento prendendosi a calci e mordendosi e tirandosi i capelli mentre l'avvocato Rinaldi piangeva e rideva contemporaneamente.

 

 

65.MICHELE TRODINI Ore 23:49

 

 

Michele Trodini infilò il potente razzo da quindicimila lire tra i gerani di sua madre. Lo puntò verso la terrazza.

Preciso.

Accese il fiammifero e diede fuoco alla miccia che bruciò rapidamente.

Il razzo partì dritto, lasciandosi dietro una scia di fumo rosso, verso l'obbiettivo, ma a metà della traiettoria si avvitò su stesso (un'aletta storta?) e deviò puntando in giù, verso il primo piano. Michele lo vide sparire dentro una finestra. Una vampata di luce blu riempì la stanza e poi ci fu un botto assordante.

Si girò verso il papà e il nonno pronto a essere massacrato per la cazzata che aveva combinato, ma il nonno e il papà erano troppo presi a sparare.

Michele strinse i denti e facendo finta di niente prese un altro razzo.

 

INIZIA IL CONTO ALLA ROVESCIA!

Meno dieci!

 

 

66. ROBERTA PALMIERI

 

 

Roberta Palmieri era là là per raggiungere il quarto e ultimo orgasmo. Quello di fuoco. Quello che l'avrebbe portata più in alto, al piacere superiore. All'estasi suprema. Al nirvana. Al contatto con i pleiadianì.

Sì, sì, stava arrivando.

Porcalaputtana se stava arrivando.

Se lo sentiva montarle dentro, allargarsi inesorabile e inarrestabile come un fiume che ha rotto gli argini.

Quell'orgasmo l'avrebbe svuotata e riempita mille volte di piacere.

In testa sentiva un baccano.

Un baccano di esplosioni. Si chiese per un attimo se non venisse da fuori. No, impossibile, era tutto nella sua testa.

Incominciò ad accelerare il ritmo. Alzandosi e abbassandosi come un'invasata sopra Davide Razzini che continuava a stare sotto di lei rigido come un baccalà, in stato ipnotico, steso sul pavimento.

«Sì Davide! Bravissimohh Davide! Eccolo... Eccoloooo...» E arrivò.

Con un botto che le fece saltare tutti e due i timpani.

Stranamente al posto del piacere atteso c'era dolore. Un dolore d'inferno. Sentì il fuoco infinito ustionarle le budella. Aprì gli occhi.

Un nebbione padano aveva riempito la stanza. Il suo salotto mediorientale era completamente distrutto.

Si guardò il ventre. E vide che le sue interiora erano diventate esteriora. Le budella le colavano giù, come un gigantesco lombrico floscio, a terra. Viscide, rosse e bruciate.

Provò a tirarsi su.

Non ci riuscì.

Le gambe!

Le sue gambe giacevano a terra, a un metro da lei, staccate di netto dal busto in un lago di sangue e carbone.

Appena si rese conto che si reggeva in un equilibrio precario sull'erezione di Davide Razzini incominciò a ondeggiare pericolosamente.

Ma Davide aprì gli occhi.

Quell'esplosione doveva averlo tirato fuori dall'ipnosi.

Nello stesso istante in cui si risvegliò, la sua erezione scemò.

Roberta Palmieri crollò di faccia contro il pavimento.

 

 

67. GAETANO COZZAMARA

 

 

Niente da fare.

Gaetano era disperato.

Quell'Angela era una vera profumiera. Bona come il pane ma profumiera nell'animo. Di quelle che te ne fanno sentire solo l'odore. E poi che era tutta questa fedeltà a un buzzurro di Nola quando aveva davanti Mister Tanga Bagnato '92.

«Insomma non vuoi venire... Non vuoi festeggiare l'inizio dell'anno nelle braccia di un altro uomo» disse sconfortato.

La sua corte stava scadendo di qualità.

«Te l'ho detto, ci verrei... È che se lo scopre il mio fidanzato...» «E chi sarà mai questo fidanzato?» «Eccolo! È laggiù!» Gaetano si girò e vide il fidanzato di Angela Coticone.

«È quello?» disse a bocca aperta.

«Sì. E lui. È lui l'amore mio!» Il mondo crollò addosso a Gaetano per la seconda volta in quella serata.

L'uomo di Angela Coticone era il Mastino di Dio.

A Gaetano fu subito chiaro che lui della vita non ci aveva mai capito un cazzo.

Come faceva una così a stare con quell'anello di congiunzione tra le scimmie e i lemuri?

Non c'era più morale, giustizia, niente.

Tutti gli sforzi che lui aveva fatto per raffinarsi, per crearsi un gusto e per migliorarsi li aveva fatti in definitiva per loro, per le donne. Aveva sognato di diventare un modello di riferimento. Un oggetto sessuale. Bello lo era sempre stato. Ora era anche colto e sapeva vivere, vestirsi, eppure... Eppure la verità era che lui si portava a letto quelle cesse di nobili romane per poche lire e una così, una che aveva fatto l'alberghiero e non sapeva mettere in fila due parole e che avrebbe dovuto cadérgli ai piedi, lo schifava e amava quella bestia.

«Ma hai visto chi è?» le disse non riuscendo a trattenersi.

Il Mastino era completamente ubriaco. Uno zombi. Barcollava con tutti i suoi centodieci chili. Gli occhi scomparsi nelle occhiaie. La bocca deformata da un ghigno orrendo. In canottiera. La pelle gli brillava di sudore. Puzzava come una carogna. Al suo passaggio tutti si spostavano inorriditi.

Il Mastino strappò di mano a una ragazza una bottiglia di vodka e se la scolò tutta con una lunga sorsata.

«Quelli del palazzo di fronte rispondono al fuoco. Devono essere dei cornuti del Casalotti. Ci odiano perché siamo meridionali. Perché siamo poveri. Ma ora la vedranno, fottuti leghisti...» abbaiò rivolto alla platea.

Si girò un attimo, come indeciso, e si avventò sul megaschermo Sony 58 canali tirandolo su da terra e strappandone i fili come fossero radici marce. Ambra che ballava nel video sparì. Se lo mise sulle spalle e si avviò verso il terrazzo e la nebbia. I videoregistratori e i decodificatori gli penzolavano dietro alle spalle come feti attaccati a cordoni ombelicali.

«Hai visto!? È un bestione psicopatico. Come fai ad amarlo?» disse Gaetano scuotendo disperato la ragazza per le braccia.

«È macho... Mi piace.» «Vaffanculo! Io a quello lo devo bloccare!» disse Gaetano e si lanciò di corsa verso il terrazzo.

 

Meno nove!

 

 

68. CRISTIANO CARUCCI

 

 

Cristiano e Ossadipesce si trovavano uno accanto all'altro, stesi su una pelle di orso adagiata su un enorme letto di quercia e non riuscivano a smettere di ridere.

Ma che roba c'era in quel solvente?

Qualsiasi cosa ci fosse dentro funzionava. Cazzo se funzionava.

Davanti a loro la stanza della caldaia era scomparsa e si trovavano dentro a un festino vichingo in piena regola.

Dalle grosse e scure travi di legno del soffitto pendevano enormi catene che sostenevano mazzi di fiaccole accese. Un rozzo camino con degli alari di marmo decorati faceva il resto dell'illuminazione. Un cervo con tutte le sue brave corna rosolava sullo spiedo. Un cartello con caratteri gotici era appeso al muro. Sopra c'era scritto: Buon 836 d.C. Auguri a tutti.

Una compagnia di guerrieri vichinghi si abboffava accasciata sul lungo tavolaccio imbandito al centro della tavola. Mangiavano come porci. Afferravano con quelle manone rozze i polli arrosto e se li cacciavano in bocca interi e urlavano e brindavano scolandosi addosso botticelle di birra Peroni e petando fragorosamente. Parlavano in una lingua sconosciuta. Erano grossi e brutti con i capelli lunghi e sporchi, intrecciati con fili di cuoio. In testa avevano elmi con le corna o con le ali di falco. Pellicce sui petti muscolosi. Sandali capresi ai piedi. Un paio, un po' più raffinati, usavano la spada per affettare i formaggi e uno addirittura si arrotolava qualcosa che sembravano linguine al pesto. Le ragazze che servivano a tavola erano bonissime. Con lunghi capelli biondi. Gli zigomi svedesi. Minigonne di daino. Camiciole a balconcino da cui spuntavano poppe enormi.

«Cazzo se funziona 'sta roba!» ripetevano a turno. «Cazzo! Sembra vero! Hai visto quella quant'è bona...» diceva Cristiano.

«Cri' non sai! A capotavola c'è Obelix! Guarda!» urlò Ossadipesce aggrappandosi all'amico.

«Ma che cazzo dici? Questi sono vichinghi e i vichinghi non c'entrano un beato fico secco con Obelix. Obelix è un gallo.» «Sei proprio un poveraccio. Secondo te Asterix e Obelix non sono mai stati dai vichinghi?!» «No. Mai.» «Lo sai qual è il tuo problema? È che sei ignorante e presuntuoso. Lo hai mai letto Asterix in America? Con chi cazzo credi che è andato in America Asterix? Con i vichinghi.»

 

 

69. ANSELMO FRASCA

 

 

Anselmo Frasca era felice.

Gli sembrava di essere tornato giovane. Durante la guerra.

Quando combatteva con gli alpini. Non aveva paura delle granate. Non più, ora che si sentiva già un piede nella fossa.

Vedeva i razzi passargli accanto e scoppiare contro la facciata del palazzo. Quei bastardi, lassù, sul terrazzo, si erano organizzati per bene. Una potenza di fuoco notevole. Ma il vecchio sapeva che per vincere le battaglie non bastano i mezzi, ci vogliono gli eroi.

Un petardo gli finì accanto. Lo afferrò proprio mentre stava per finire la miccia e lo gettò di sotto.

«Nonno, sei un mito!» disse Michele ammirato.

«Grazie, figliolo!» rispose con il cuore gonfio di orgoglio e uscì fuori allo scoperto. Sotto la mira dei cecchini nemici.

Nascosto dietro il tavolo il signor Trodini urlava: «Nonno Anselmo, non fare il pazzo. Torna qui.» Ma il nonno non ascoltava.

Aveva un asso nella manica.

Corse in camera. Si piegò con l'artrite che urlava e tirò fuori da sotto al letto il suo vecchio moschetto della guerra. Aprì l'armadio ansimando e prese le cartucce. Lo caricò.

E al grido di "Savoia!" si lanciò di nuovo sul terrazzo.

 

 

70. GAETANO COZZAMARA

 

 

In terrazza Gaetano Cozzamara attraversava il nebbione alla ricerca del Mastino di Dio.

Doveva bloccarlo. Fermarlo. Impedirgli di lanciare il televisore di sotto.

Ma non vedeva niente. Distingueva solo qualche scura figura nel fumo. Gli striscioni del Nola.

Quei folli lì, erano gli ultra. Una banda di teppisti sciroccali, capitanati dal Mastino di Dio. Facevano sempre invasione di campo. Menavano agli arbitri.

Ora avevano fatto del terrazzo la loro base di lancio contro la palazzina di fronte. Ne vide cinque o sei con la faccia coperta dai fazzoletti che pigliavano la rincorsa e tiravano delle specie di bombe a mano che esplodevano tra le macchine di sotto, sul tetto e i terrazzi di fronte.

Finalmente, tra le spirali di fumogeni colorati intravide la mostruosa figura del Mastino di Dio. Era montato sulla balaustra e reggeva sopra la testa quel monolito di televisore. sembrava Maciste nelle miniere di re Salomone.

Gaetano corse verso di lui, salì sul cornicione nonostante soffrisse di vertigini e gli afferrò una gamba.

La bestia si voltò e ringhiò rabbioso: «Che vuoi?» «Mastino. Sono Cozzamara. Cozzamara Gaetano. Il terzino. Ti scongiuro, ti imploro, non gettare il televisore di sot...»

Meno otto!

 

 

71. ANSELMO FRASCA

 

 

Anselmo Frasca, con i pesanti occhiali da vista sul naso, aveva fatto fuoco contro quel bestione che stava per buttare di sotto un televisore.

 

Meno sette!

 

 

72. GAETANO COZZAMARA

 

 

Il proiettile gli entrò nel collo e uscì dalla base della nuca. Che succede? si chiese Gaetano.

Era come una puntura di ape. Solo tre milioni di volte più dolorosa. Si poggiò una mano là dove gli faceva male e scoprì di avere un buco. Un buco dove poteva infilare mezzo indice. Si guardò la mano. Rossa di sangue.

Le gambe gli cedettero di colpo.

Per non cadere si attaccò più forte alla coscia del Mastino e disse solo: «Che mi hanno fatto, Mastino?» Quello sembrava come pietrificato. Sopra la testa la televisione. Gaetano non riusciva più a vedergli gli occhi, la faccia.

Era tutto sfocato.

Sentì solo una voce lontana: «Quei figli di puttana ti hanno sparato. Ti hanno sparato alla testa...» La presa sulla coscia del Mastino perse di forza e Gaetano si sentì risucchiare dal baratro sotto di lui. Vedeva le sue mani scivolare sui jeans del Mastino.

Lui ci provava a chiudere le dita ma erano diventate di pongo.

«Sto cadendo di sotto. Aiutami!» mormorò.

Forse lo aveva detto troppo piano perché quel deficiente continuava a rimanere immobile, con quel fottuto televisore tra le mani. Poi finalmente il Mastino gettò il televisore di sotto e allungò un braccio per afferrarlo.

Anche Gaetano allungò un braccio.

Troppo tardi.

I polpastrelli dei due si sfiorarono un attimo.

Gaetano capì che era finita, che non aveva più da preoccuparsi per gli imbucati, per la contessa, per Coticone Angela, per le donne e per il suo futuro.

 

Meno sei!

 

 

73. THIERRY MARCHAND

 

 

Thierry Marchand teneva gli occhi chiusi. Aspettava che la sbornia passasse per rimettersi in piedi.

Il Sony Black Trinitron 58 canali lo colpì in pieno.

Gli sfondò il cranio uccidendolo sul colpo.

Non soffrì.

Immediatamente dopo, sopra quel miscuglio senza senso di carne francese e tecnologia giapponese, atterrò il corpo senza vita di Gaetano Cozzamara.

 

 

74. ANSELMO FRASCA

 

 

«Maledetti occhi vecchi!» mormorò tra sé Anselmo Frasca.

Aveva colpito qualcuno che era caduto di sotto.

Bene!

Ma non era riuscito a prendere la bestia a cui aveva mirato. Per poco però.

Ricaricò velocemente. Non voleva che la bestia si rintanasse.

Mirò e fece fuoco di nuovo.

Il fucile gli esplose tra le mani.

 

 

75. MICHELE TRODINI

 

 

Michele Trodini sentì uno scoppio proprio dietro le spalle e il nonno prese a urlare come se lo sgozzassero.

Si girò e lo vide saltare per il terrazzino come un rospo con le convulsioni. Zompava come se avesse vent'anni. Dei bei salti di almeno un metro e mezzo.

Poi si accorse che al nonno gli mancava qualcosa. Non aveva più una mano. Il braccio finiva con il polso. Niente più palmo, dita. Non c'era più niente.

Suo papà era troppo preso a lanciare gli ultimi trik trak per accorgersi del resto. Aveva la faccia nera di fuliggine, la camicia strappata e due occhi da invasato.

«Papà! Papà!» gli disse Michele tirandolo per un braccio.

«Che vuoi? Non vedi che abbiamo la vittoria in mano. Perché non lanci i razzi...» «Papà! Il nonno...» disse piangendo Michele.

«Che c'è anco...» Il signor Trodini si mise le mani sulla bocca. Il nonno si era accasciato a terra e si reggeva il moncherino con l'altra mano.

«Nonno Anselmo!» disse il signor Trodini.

«Non è niente... Non è niente. Sono cose che succedono in battaglia» rantolò il vecchio con una smorfia di dolore sul volto.

«Come sono cose che succedono?! Nonno...» «Non vi preoccupate per me. Ne ho fatto fuori uno. Continuate voi. Ce l'abbiamo quasi fatta...» «Michele impara! Tuo nonno è un eroe! Bisogna portarlo subito all'ospedale. Cerchiamo la mano, forza. Possono riattaccargliela.» Papà e figlio si misero alla ricerca della mano mentre il nonno soffriva in silenzio. Il fuoco nemico continuava più violento che mai.

Non c'era.

Quella fottuta mano non c'era più. Guardarono dovunque. Tra i gerani. Tra le rose. Nella fontanella di cemento dei pesci.

Niente.

La mano non c'era più. Poi Michele finalmente la vide.

«Eccola, eccola papà! E là!» Era finita di sotto. Nel parcheggio. Sopra il cofano di una Ford Escort station-wagon.

«Corri Michele. Valla a prendere!» Michele non se lo fece dire due volte.

 

Meno cinque!

 

 

76. CRISTIANO CARUCCI

 

 

Dopo l'incursione collettiva nel mondo dei vichinghi Cristiano e Ossadipesce, stesi sul divano letto, avevano preso strade psichedeliche individuali. Ossadipesce aveva l'impressione di essere Daitan 3, il robot giapponese. Si sentiva le ossa di cromovanadio, i pugni di titanio, e se ne stava lì pronto al combattimento contro alieni provenienti da chissà dove.

Cristiano invece continuava a estrarre e rimettere in una immaginaria fondina la sua colf d'argento. Si sentiva bene, vestito da bounty killer. Con gli stivali impolverati di sabbia della Sierra Nevada, lo spolverino e il cappellaccio sugli occhi.

«Senti, vogliamo uscire? Io non ce la faccio più a rimanere qui... Mi sono stancato di aspettare la morte nera. Io mi sento parecchio operativo. Voglio andare al centro sociale a fargli saltare il culo» disse Ossadipesce con voce metallica.

«Chi è la morte nera?» «Lascia stare. Che ore saranno?» «Ma, non lo so... Sarà quasi mezzanotte. Sei sicuro che vuoi uscire? Non si sta male in questo saloon.» «No. Usciamo» disse Ossadipesce muovendosi con movimenti meccanici.

«Va bene. Usciamo. Però dobbiamo affrontare una prova molto difficile. Passare attraverso la cucina e noi due stiamo fuori come due terrazzini. Se mia madre mi vede così come minimo mi manda da don Picchi. Quindi ci dobbiamo concentrare. Dobbiamo sembrare normali. Tranquilli come due persone normali. Passiamo uno alla volta. Se andiamo insieme ci mettiamo a ridere e lei sgama tutto.» «Va bene.» «Allora vai tu per primo. Ascoltami però. Tu apri la porta e saluti tutti con la mano, non parli perché manderesti tutto a puttane. Anzi no, così è più sospetto. Ascoltami bene. Devi dire: Buon anno e tante care cose. Così sembrerà normale. Poi come se niente fosse ti avvii verso la porta, tranquillo, esci e mi aspetti. Semplice?» «Semplice!» «Ce la puoi fare?» «Ce la posso fare.» «Bene. Allora vai. Io ti seguo a ruota.» «Allora vado?» disse ancora Ossadipesce con un attimo di incertezza.

«Vai. Ce la puoi fare.» Ossadipesce con gesti meccanici si infilò il rivestimento corazzato di tungsteno che non era nient'altro che la sua giacca di pelle e si mise lo zainetto con sulle spalle.

 

Meno quattro!

 

 

77. GIULIA GIOVANNINI

 

 

Gli invitati erano scappati come un branco di sorci stipati in un solaio.

Si erano infilati tutti, uno dietro l'altro, nello studio e da lì in corridoio e poi fuori, sul pianerottolo.

«Mammina, sono stata brava, hai visto? La piccolina tua è stata brava... Li ho cacciati via» disse ora Giulia ad alta voce.

Sapeva che sua madre non era lì.

Non sono pazza fino a questo punto.

Sapeva che mamminacara era in vacanza a Ovindoli. Ma che c'era di male se faceva finta che ci fosse anche lei lì, insieme alla sua figlia adorata, a festeggiare quel bel capodanno.

Sarebbe bello.

Le avevano lasciato un porcile di casa.

Quasi quasi metto a posto.

Poi rifletté che non era ancora mezzanotte.

Bisogna prima brindare.

Brindare alla nuova Giulia. Alla donna che si sa far rispettare. Alla donna che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno.

Vide che la senzatette, sotto al divano, si stava riprendendo. Si muoveva appena e mugugnava qualcosa. Si lamentava a bassa voce. Aveva una pozza di sangue sotto al naso.

Giulia si avvicinò. La guardò un po'. Poggiò le mani sulle anche e le diede un calcio, non troppo forte, sul costato.

«Ehi?! Ehi?! Forza! Vattene!» Quella tirò su la testa. Aprì un occhio e vomitò.

Tutta la roba che si era mangiata. Gli spaghetti con le cozze, il salmone. Lì, sul parquet che lei aveva lucidato pochi giorni prima.

«Guarda che hai fatto, cretina! Il mio parquet. Ora pulisci!» Deborah incominciò a pulire con le mani quello che aveva rigettato cercando di farne un mucchietto e intanto piangeva.

«Lascia stare! Non sai fare niente. Faccio io... Vattene!» le disse. E si sentiva dalla voce che era stanca, annullata.

Senzatette si rialzò e con una mano sul naso rotto si avviò verso il corridoio singhiozzando.

La porta di casa sbatté.

Giulia prese una bottiglia di spumante e un bicchiere, di quelli buoni. Si sedette davanti alla televisione.

Era pronta.

A mezzanotte avrebbe brindato alla nuova vita.

 

Meno tre!

 

 

78. DAVIDE RAZZINI

 

 

Dove stava? Che gli era successo?

Doveva essere morto.

Sentiva nel naso l'odore di zolfo mischiato a quello di sangue e di bistecca ai ferri. Nelle orecchie esplosioni e urla.

Sono finito all'inferno.

Non ricordava niente. La sua memoria arrivava fino a quando aveva deciso di andarsene e poi più niente.

Mi sono alzato, ho detto che dovevo andare da mia madre e...

Un buco nero.

Tutte le ossa del corpo gli facevano male e quindi rimaneva immobile. A occhi chiusi. Respirava appena. Si sentiva svuotato di tutte le forze e gli facevano male il pisello. Come se glielo avessero tirato cercando di strapparglielo.

Aveva freddo e batteva i denti.

Capì di essere nudo e bagnato Bugnato di qualcosa di viscido e appiccicoso che gli si andava seccando tra i peli.

All'inferno non fa caldo...

Provò ad alzare la testa. Poco. Giusto per vedere se gli funzionava ancora il collo. Funzionava.| Poteva anche piegare le dita.

Forse era ancora vivo.

Ma dove era finito?

Aprì gli occhi.

Era in una stanza semibuia. Bagliori di fuochi lontani la illuminavo a tratti di rosso e blu. Una stanza dove c'era stata un'esplosione. I quadri a terra. I vetri delle finestre rotti. Calcinacci.

La riconobbe.

È il salotto della pazza.

Sentiva un pesò sullo Stomaco A1lungò una mano e quello rotolò a terra, accanto a lui.

Si poggiò sui gomiti.

E vide Roberta Palmieri, anzi pezzi di Roberta Palmieri. Due gambe abbrustolite sparse per la stanza. Le viscere sul tappeto persiano. E una carcassa fumante accanto a lui.

Neanche Rita Levi Montalcini con l'aiuto dell'Orrendo Subotnik e del Centro grandi ustionati di Latina avrebbero potuto ricomporre quella roba.

Si alzò in piedi urlando.

Urlava e saltava per la stanza.

E capì.

Capì tutto.

Era stato lui. Era stato lui a fare quella carneficina. Proprio lui. L'aveva ammazzata e fatta a pezzi.

Chi altro poteva essere stato.

Era un pazzo omicida psicopatico. Aveva cancellato dalla memoria l'orrore che aveva commesso.

Urlando, «L'ho uccisa! L'ho uccisa! Devo morire!», si gettò a rottadicollo, nudo come mamma lo aveva fatto, dalla finestra.

Era solo il primo piano.

 

 

79. ENZO DI GIROLAMO

 

 

Vedeva Ambra. Ambra e le ragazze di "Non è la RAI".

Lì, davanti a lui, nello schermo della televisione.

Erano distanti eppure vicinissime.

Aveva l'impressione di essere in mezzo a quel casino di giovani adolescenti.

Sarebbe stato bello starci.

Enzo Di Girolamo si mosse appena e fu attraversato da una scossa di dolore che gli fece scoppiare dei funghi blu davanti agli occhi.

Sto morendo, cazzo...

Il sangue continuava a fluire infinito dalla ferita e si sentiva i boxer e i calzini zuppi e i piedi sguazzare nei mocassini.

Vedeva Giulia seduta davanti alla televisione. Si era come paralizzata. Immobile. Con la bottiglia di spumante in mano. Aveva gli occhi puntati sullo schermo ma non seguiva.

Enzo non riusciva a sentire bene quello che stava dicendo Ambra. I suoni gli arrivavano a ondate come una marea. Cercò di concentrarsi ma gli occhi gli si chiudevano. Sentiva le palpebre pesanti come tapparelle rotte.

Che stava dicendo Ambra?

Tre minuti a mezzanotte. Solo tre minuti. Solo tre.

Dal prossimo anno giuro che smetto di farmi storie. Voglio stare solo. Un single. Voglio riscrivere la relazione, la posso fare meglio...

Alla tele c'era un negro enorme che provava a battere il record di scoppio delle borse dell'acqua calda. Ci soffiava dentro. Una dietro l'altra. Gli sarebbe piaciuto provare anche a lui.

Tossì e una fitta gli fece esplodere dentro un fuoco intollerabile. Talmente intollerabile da sembrare irreale. Inconsistente.

Sputò sangue.

Ambra ballava. Più scatenata del solito. Intorno al negro che continuava a far scoppiare borse dell'acqua calda. E cantava: «Ti giuro amore, un amore eterno, se non è amore me ne andrò all'inferno.» Enzo chiuse gli occhi.

E ci fu solo bianco.

 

 

80. OSSADIPESCE

 

 

Ossadipesce era tutto concentrato sul difficile passaggio che lo attendeva. La stanza aveva preso a rollare peggio di una nave da crociera in una tempesta ma lui non ci faceva caso.

Devo salutare con la mano. Devo dire: Salve a tutti! Buon anno nuovo e tante care cose. Poi punto la porta di casa e me ne vado. Facile. Facile da morire.

Teneva gli occhi chiusi per evitare di beccheggiare. Respirò forte. Poggiò la mano sulla maniglia della porta della cucina. Tranquillo.

Tu stai benissimo. Devi solo salutare.

Cercò di mettersi più eretto. Di darsi un contegno. Strinse la maniglia.

Sapeva esattamente quello che doveva fare. Sapeva di essere in grado, se si concentrava, di rispedire in un angolo buio del suo cervello quella roba allucinogena che gli girovagava come uno sciame di api impazzite nel cranio, non per molto, ma quanto bastava a superare il fottuto esame dei portieri di merda.

Abbassò la maniglia.

Uno spiraglio si aprì sulla luce più intensa della cucina, sul rumore della televisione sparata a palla, su risa e chiacchiere.

Perfetto. Perfettissimo. Tutto normale.

Aprì la porta del tutto, chiuse gli occhi e balbettò: «Salve a tutti! Buon anno e tante care cose!» Riaprì gli occhi, piano, e mise a fuoco le immagini che aveva davanti.

E quello che vide lo fece vacillare.

Spalancò la bocca.

Gli sembrò che le gambe gli si frantumassero come pezzi di gesso presi a martellate. Il cuore gli si annodò nel torace e dovette reggersi alla porta per non cadere a terra.

Davanti a lui...

... c'erano cento poliziotti.

Nelle loro divise nere della polizia di Los Angeles. I manganelli in mano. Le mani sulle impugnature delle pistole. I cani lupo che gli abbaiavano contro. I cappelli con lo stemma. E in mezzo a questa mandria di piedipiatti, Ossadipesce riconobbe i due di "Miami Vice", il bianco e il nero, quei due fighetti di merda che vanno sempre in giro in maglietta e giacca di raso. Quei due di cui non si ricordava neanche il nome. Gli puntavano addosso le loro magnum stringendole con tutte e due le mani.

«Bastardo spacciatore del cazzo. Metti in alto le mani. E se provi a scappare il tuo culo avrà sei buchi per scoreggiare. Tira fuori la merce» gli urlò contro quello bassetto con i capelli biondi.

 

Meno due!

 

 

81. MARIO CINQUE

 

 

Mario Cinque, il portiere della palazzina Ponza, era stanco. Aveva mangiato come un maiale. Aveva bevuto come un dromedario. Aveva sentito per tutta la sera le insulse barzellette del Cerquetti. Ci aveva provato a ridere.

Ora basta però.

Era stanco.

Anelava la branda più di ogni altra cosa. Stava aspettando lo scoccare della mezzanotte per poter brindare in fretta e tornarsene di corsa a casa con sua moglie che pareva divertirsi più di lui.

Per fortuna mancavano solo due minuti.

«Lo sapete come si fa a sapere se un rubino è vero? È facile. Lo metti vicino al rubinetto e se il rubinetto dice: papà! È vero.» Basta! Io non ce la faccio più! pensò Mario e poi sbottò: «Vi immaginate domani che cosa ci aspetta. Avranno bruciato il giardinetto con i fuochi. Tirato la roba di sotto. Vomitato sulle scale. Sentite che stanno facendo là fuori...» «Madonna mia, Mario. Sei sempre il solito. Non c'è una volta che sei un po' ottimista. Che ti rilassi... Adesso stiamo qui, tutti contenti e tu ci vuoi rovinare tutto...» disse la signora Carucci, mentre incominciava a togliere gli involucri di carta stagnola dalle bottiglie di spumante.

Quando a un tratto una porta si aprì.

Mario fu il primo a girarsi. Sulla porta c'era il giovane alto e magro che era venuto a cercare Cristiano. Sembrava che avesse messo due dita nella presa della corrente. Gambe aperte e braccia lungo i fianchi.

Tutti gli invitati a mano a mano che si accorgevano della sua presenza smettevano di parlare.

Aveva qualcosa di inquietante. Se ne stava là immobile e rigido, a occhi chiusi e ondeggiava in avanti.

Improvvisamente alzò uno di quelle sue braccia lunghe da orango e sempre a occhi chiusi disse con una voce citofonica: «Salve a tutti! Buon anno e tante care cose.» E aprì gli occhi.

E non aveva gli occhi.

Aveva solo due biglie tonde e piccole e rosse.

Spalancò la bocca e si terrorizzò come se avesse visto in faccia la fame, la peste e il colera tutti insieme. Quasi cadde, ma riuscì a puntellarsi con una mano contro lo stipite della porta.

«D'accordo. Ora alzo le mani. Ma vi prego, vi prego, non mi sparate» balbettò e mise le mani sopra la testa.

Mario Cinque, la signora Carucci e tutti gli altri lo guardavano attoniti.

Non capivano.

Quello continuò: «Va bene. Eccola. Ve la do. Ve la do. Lo giuro. Basta che non mi sparate.» «Massimo! Che stai dicendo Massimo? Sei impazzito? Ti senti male?» riuscì a dire la signora Carucci con una mano sulla bocca.

«Va bene. Ora me lo tolgo. Va bene. Eccola.» «Che cosa? Che cosa?» «Eccola qui. È solo un po' di calabrese. Non ho nient'altro, giuro su Dio. Non sono uno spacciatore.» Ossadipesce con gesti teatrali e con estrema prudenza, che diede al signor Mario la sensazione che si sentisse veramente sotto il tiro di qualche pistola, si tolse lo zainetto dalle spalle. Lo aprì e ne tirò fuori una busta di plastica piena di paglia.

«Eccola. Giudicate voi. È tanta? È pochissima!» Ma che sta facendo? si chiese allibito il signor Mario. Dev'essere schizofrenico. Dev'essersi bevuto il cervello.

Il pazzo intanto gli si era avvicinato e lo guardava fisso con quelle biglie spiritate.

Nella stanza non volava una mosca.

«Capo. Eccola. Io però ti conosco. Io te la do e tu mi spari alle spalle.» «Ragazzo. Stai tranquillo. Nessuno ti vuole far del male» riuscì a dire il signor Mario.

Il folle gli porse la busta e lui stava per prenderla (non si contraddicono i pazzi) quando quello con un guizzo da acrobata se la riprese, la rinfilò nello zaino e si lanciò di nuovo nella stanza di Cristiano chiudendosi la porta alle spalle e urlando: «Figli di puttana bastardi. Non l'avrete mai la mia erba.»

Meno uno!

 

 

82. MONNEZZA

 

 

«Basta! Fate la pace voi due. Stringetevi la mano.» Il Buiaccaro dopo diversi tentativi e qualche cazzotto ricevuto era finalmente riuscito a dividerli.

Ora i due stavano in piedi uno da una parte e uno dall'altra dello studio e si guardavano in cagnesco. Orecchino aveva un occhio pesto, la giacca strappata e una mano sbucciata. Il Monnezza respirava come un bufalo asmatico. Aveva un graffio su una guancia e si reggeva con una mano i pantaloni a brandelli.

«No. Quello è uno stronzo. Ci ha rovinato... Ci ha rovinato... Non ci farò mai la pace» diceva Orecchino con il magone in gola.

«È un pazzo! Io gli scasso la faccia...» mugugnava tra sé il Monnezza.

«Forza! Fate subito la pace e auguratevi buon anno!» disse il Buiaccaro guardando l'orologio.

I due guardinghi come due cani maschi si giravano attorno.

«Basta! È mezzanotte esatta. Stringetevi la mano.» II Monnezza obbediente allungò la mano. Orecchino allungò la mano controvoglia.

E tutto lo studio fu scosso da un boato.

 

Zero!

INCOMINCIA L'ANNO NUOVO!

 

 

83. CRISTIANO CARUCCI

 

 

Cristiano si stava infilando con calma il cappotto e la sciarpa e si preparava ad affrontare la madre e gli invitati quando vide Ossadipesce rientrare in camera urlando: «Cristiano! Cristiano! Siamo fottuti! Ci hanno preso! Ci hanno preso! La polizia! Dobbiamo disfarci della roba.» Correva. Girava per la stanza in preda al panico.

«Dobbiamo scappare...» Cristiano lo guardava perplesso.

Doveva essere un'altra allucinazione.

L'Ossadipesce vero lo stava aspettando fuori. Un'allucinazione meno spettacolare e meno interessante di quella dei vichinghi o di quella del pistolero, ma sicuramente più reale. Questo Ossadipesce urlava come un ossesso e aveva afferrato il mobile dei vestiti e lo spingeva contro la porta.

«Che stai facendo?» «Vieni! Vieni!» disse afferrandolo forte per un polso. Cristiano sentiva sua madre e gli altri oltre l'armadio che urlavano e spingevano contro la porta.

«Aprite! Aprite! Cristiano! Cristiano apri! Che succede?» Ossadipesce lo trascinò nella stanza della caldaia nonostante lui facesse resistenza.

«Lasciami! Lasciami per favore. Mia madre vuole entrare...» «No, quella non è tua madre. Ascoltami! Ascoltami bene! Sono quelli di "Miami Vice". Vogliono l'erba. Sanno imitare la voce di tua mamma alla perfezione. Vieni.» Ossadipesce corse ansimando fino alla vecchia caldaia. Aprì con gesti nevrotici lo sportello del bruciatore.

Un bagliore di fiamme rischiarò la stanza buia.

Si girò verso Cristiano.

E aveva in faccia il ghigno della follia.

Tremava. Strizzava gli occhi. Sbavava. Sorrideva.

«Che vuoi fare?» balbettò Cristiano capendo che quella che stava vivendo non era un'altra allucinazione.

Era tutto vero.

Assolutamente vero.

«Sbarazzarmi delle prove.» «Aspetta! Aspet...» urlò Cristiano e gli si gettò contro.

Ma Ossadipesce fu più rapido, con un unico gesto lanciò lo zaino dentro al bruciatore.

Cristiano sentì la gola annodarsi.

Non tentò nemmeno di correre fuori. Di scappare.

Era tardi.

Troppo tardi.

Inutile oramai.

Disse solo: «Là dentro c'è la dinamite, cazzo.» Non ci sarebbe stato un altro capodanno per Massimo Ossadipesce Russo né per Cristiano Carucci.

Esattamente allo scoccare della mezzanotte la palazzina Capri esplose.

 

 

84.

 

 

Tutte le finestre si disintegrarono provocando una pioggia di schegge di cristallo che ricaddero sul parcheggio, nella piccola pineta, tra gli scivoli e la vecchia giostra arrugginita del parco giochi, sulla Cassia, sulla palazzina Ponza e sui comprensori vicini. Lo spostamento d'aria prodotto dalla deflagrazione fece volare per molti metri le macchine posteggiate nel parcheggio. La guardiola finì dall'altra parte della strada. L'albero di Natale prese fuoco. Le palline di vetro colorate esplosero per il calore. Le palme nane nei grandi vasi si frantumarono contro il muro di recinzione.

E ci fu il fuoco.

Che montò rapido. Dal seminterrato fino all'attico. Attraverso la tromba delle scale e quella dell'ascensore. Un rogo infernale che invase gli appartamenti facendo un olocausto e vomitando grandi fiammate rosse fuori dagli infissi.

Il fuoco attraversò le vecchie condotte sotterranee del gas che univano la palazzina Capri con quella Ponza come due gemelli siamesi.

 

 

85.

 

 

A mezzanotte e cinquantotto secondi anche la palazzina Ponza esplose.

La deflagrazione fu molto più forte perché nel seminterrato c'erano i serbatoi del gas.

Il tetto saltò come un tappo di champagne sommergendo il parcheggio e la Cassia e la zona circostante di tegole marrone e mattoni.

Un fungo con una enorme testa di fuoco e fumo e polvere si levò in aria, sopra la Cassia, gonfio dei gas di combustione.

I fuochi d'artificio che coloravano il cielo romano di comete e stelle cadenti apparirono subito piccoli, poveri e modesti di fronte a quel mostro infernale che tingeva di rosso e nero le nuvole cariche di pioggia.

Un gigante deforme in un mondo di nani artificiali.

Fu visto in tutta la città.

Dovunque.

Ai Parioli. A Prati. A Trastevere. A San Giovanni. E l'esplosione fu sentita più in là, nelle periferie più lontane, oltre il raccordo anulare, ai Castelli.

E i romani, che festeggiavano l'anno nuovo nelle case, sui terrazzi, nelle strade, nelle piazze, nelle macchine ferme sul lungotevere rimasero a bocca aperta, sgomenti. Poi incominciarono ad applaudire, tutti, sempre più forte, a fischiare, a ballare, ad abbracciarsi felici e a stappare fiumi di spumante di fronte a quel mostro pirotecnico.

Si diceva che quel fuoco artificiale era stata una sorpresa organizzata dal sindaco.

Aveva ragione Ossadipesce quando aveva detto: «Voglio fare un botto che si ricorderà per anni e anni. Un botto così serio che tutti quei poveracci con i loro fuochi da mocciosi faranno un figura meschina.»

 

 

86. Ore 03:20

 

 

Finalmente un acquazzone diluviale scese sulla città e chiuse la festa. Anche i più irriducibili che erano ancora in giro a festeggiare dovettero tornare a casa.

Chi esausto e felice di imbustarsi a letto. Chi meno.

L'incendio che era avvampato ribelle fu domato da quell'acquazzone violento.

 

 

87. Ore 06:52

 

 

Alle sei e cinquantadue, cadeva sulle macerie una pioggia continua, sottile e impalpabile. Faceva freddo e non c'era vento. Il cielo coperto da una coltre continua di nuvole, la valle vicina nascosta dalla nebbia, i palazzi stessi e il fumo formavano una sola cosa grigia. L'odore di bruciato, un misto di plastica, benzina e legno dei pini unito a quello della pioggia prendeva alla gola.

Alcuni sparuti focolai continuavano a bruciare tra le macerie e spire di fumo basse avvolgevano quello che restava delle palazzine.

La Cassia era stata chiusa. Transenne erano state montate per non fare avvicinare i curiosi e bloccare il passaggio delle macchine. Davanti al comprensorio mancava l'asfalto per duecento metri. Se lo era portato via l'esplosione. Carcasse fumanti e contorte di automobili giacevano sparse in mezzo alla strada. Gli scheletri abbrustoliti dei pini cingevano quello che restava dei muri di recinzione. L'enorme cartello del "Lupo Mannaro" si era squagliato colando sulla discoteca annerita. I tubi dell'acqua esplosi per il calore avevano formato un lago in cui passavano i mezzi di soccorso alzando schizzi da motoscafo.

Ambulanze, camion dei vigili del fuoco, macchine della polizia erano parcheggiate in disordine davanti all'ingresso del comprensorio. Squadre di pompieri nei loro impermeabili arancione lavoravano in silenzio tra le colline di macerie alla ricerca dei sopravvissuti. Rumore di seghe elettriche. Sbattere dei picconi contro il cemento.

«Eccone uno. È qua sotto! Venite ad aiutarmi!» fece a un tratto un pompiere mentre cercava di sollevare una pesante trave. Il volto era coperto dal cappuccio su cui grondava la pioggia. L'uomo si accucciò e vide che era morto.

«Un cadavere! Ha la testa aperta in due. Chiamate quelli dell'ambulanza...» urlò buttando di lato la trave e poggiando stancamente le mani sui fianchi.

Fatica sprecata.

Finora li avevano trovati tutti morti.

E le speranze di trovarne vivi erano poche. L'esplosione era stata troppo violenta.

Il pompiere aiutato da altri due afferrò il corpo per le braccia e lo tirò fuori.

Una donna.

Indossava un lungo abito da sera rosso bruciato in più punti. Era anziana. Aveva le mani magre e grinzose dei vecchi, ora annerite dal fuoco. Anelli grossi alle dita e intorno ai polsi bracciali d'oro pesante e l'orologio funzionava ancora. Quel che restava della testa era poco e completamente carbonizzato.

 

 

88.FILOMENA BELPEDIO Ore 07:00

 

 

Aveva visto tutto.

La polizia che sfondava la porta ed entrava in casa sua. I vicini ficcanaso sul pianerottolo. Il suo cadavere sul divano. Il medico che alzava la testa dal suo petto e faceva segno di sì. Sì, è morta. Aveva visto quando l'avevano infilata dura e bianca dentro un sacco di plastica nera.

E la messa.

«La solitudine può portare a dei gesti estremi e irrimediabili. È dovere della Chiesa capire. Preghiamo! Preghiamo per l'anima di Filomena, una donna buona...» aveva detto il prete.

Suo figlio, suo marito e la nuova moglie di suo marito avevano gli occhi lucidi.

Poi padre e figlio si erano abbracciati e avevano cominciato a piangere.

Lo vedi che ti volevano bene.

E aveva visto quei quattro gatti che conosceva seguire il carro in cui era stesa. Il Verano. La fossa. La terra.

E finalmente il buio...

Dov'è finito il buio? si domandò Filomena.

C'era luce. Poca. Ma c'era.

Una luce pallida e smorta filtrava attraverso le macerie che La coprivano.

Macerie?! Macerie di che?

Non lo so. Giuro su Dio che non lo so! E non lo voglio sapere.

Era a testa in giù con il sangue in testa, rovesciata in una strana posizione e tutto il peso le gravava sul collo.

Una grossa trave dura le premeva contro la schiena e le impediva di muoversi, di girarsi. E quindi continuava a starsene ferma, immobile, in quella posizione scomoda.

Non si sentiva le gambe. Anzi meglio, ci sentiva dentro un milione di formiche. Mosse una mano, scavò nei calcinacci e si diede un pizzico su una coscia.

Niente.

Era come pizzicare la gamba di un altro. Di un cadavere.

Ho le gambe spezzate!

Provò a mettere il male da una parte e a riflettere.

Non sei morta. Non sei riuscita a suicidarti. Sei viva! Viva!

Lontano, oltre quella tomba di mattoni, legno e cemento che la sovrastava, sentiva l'ululare sordo delle sirene, il rumore delle seghe elettriche.

Doveva essere giorno.

Era bagnata e aveva freddo. Non sei neanche riuscita a suicidarti! Sei talmente incapace che non sai nemmeno ammazzarti! Complimenti.

Il collo le faceva male. Sentiva i muscoli tirarle come gomene di nave all'ormeggio.

Ora mi metto a urlare. Chiedo aiuto.

Ma non lo fece. Cercò di muovere le dita dei piedi.

Si muovono! Si muovono!

La trave contro la schiena la faceva impazzire. Appena si muoveva le strusciava contro la carne viva. Doveva cambiare posizione.

Mi sono buttata giù tutti quei sonniferi... Perché non sono morta?

Perché la tua padrona, quella che tira i fili della tua vita, non .ha voluto.

La tua unica padrona.

La Sfiga.

Aveva afferrato la trave con le mani e la spingeva. Non si smuoveva di un centimetro. Forse spingeva dalla parte sbagliata. Doveva fare forza più in basso, con la schiena. Spingere nonostante la ferita che le bruciava.

Forza vecchia! Fai un bel respiro e spingi. Fregatene del male.

Fece così e la trave cedette di colpo.

Le crollò addosso una pioggia di calcinacci e mattoni. Sulla testa. Sulla schiena ferita. Rimase così. La terra in bocca.

Forza vecchia, hai visto che non sei morta nemmeno questa volta? Tirati fuori da questo buco.

Mosse una gamba. Mosse l'altra.

Non sono rotte allora. Sono solo addormentate!

Prese a scavare con le mani. Come un san Bernardo impaz zito. Spezzandosi le unghie, ferendosi le mani. Spostò da un lato una larga tavola di legno e vide il cielo grigio sopra di lei.

La pioggia le bagnò il viso. Stette un attimo così. A occhi chiusi. Accecata dalla luce. A farsi lavare la faccia da quella pioggia fredda.

Non era morta.

Che aspetti? Che venga notte?

Urlando di dolore si piegò su se stessa e si tirò su aggrappandosi alla trave di cemento.

E sbucò fuori. Come un fungo.

Si guardò intorno.

Non capiva.

Poi riconobbe i pini, quelli che stavano davanti al suo terrazzino, neri. Vide la Cassia e i palazzi di fronte.

Solo che casa sua non c'era più e nemmeno la palazzina di fronte. Erano state rase al suolo, sostituite da mucchi di macerie fumanti.

Ci deve essere stata un'esplosione.

Si mise in piedi a fatica.

Aveva la camicia da notte completamente strappata. Aveva il collo che le urlava appena girava la testa. Le mani massacrate e la ferita sulla schiena che pulsava, ma stava bene.

Che vuoi fare? Guardarti il panorama? Forza, muovi il culo!

Si avviò a quattro zampe, arrampicandosi sopra le montagne di macerie. Le squadre di vigili del fuoco cercavano tra le pietre. Una ruspa scavava. Le autoambulanze con le luci blu. E a un lato, in quel che rimaneva del parcheggio, c'era una fila di cadaveri. Una decina. Anneriti. Irriconoscibili. Carcasse bruciate nei loro vestiti buoni.

Sono morti tutti! Tutti quanti. Io sola sono sopravvissuta.

Ne era sicura.

Nessuno si accorse di lei.

Nessuno fece caso a quella donna grassa e brutta in camicia da notte e con i capelli appiccicati alla testa che camminava a quattro zampe su quei cumuli di macerie.

Attraversò le rovine come un fantasma invisibile.

E forse lo era veramente.

Erano tutti troppo presi nei lavori di scavo.

Superò a passi incerti i resti contorti del cancello del "Comprensorio delle Isole" e si avviò a piedi nudi, sotto la pioggia, sulla Cassia.

Dove stava andando?

A vivere.