Gli sbuffi e i gemiti che accompagnavano e quasi sostenevano, da dietro, lo stento, erano del marito, che alla fine spuntò, gracile e sparuto, pallido come un morto, ma con gli occhietti vivi vivi, aguzzi nel pallore.
L'afflizione di veder la moglie in quello stato non gl'impediva tuttavia di mostrarsi, pur nel grave imbarazzo, cerimonioso; ma lo sforzo fatto lo aveva anche, evidentemente, un po' stizzito, forse per timore di non aver dato prova davanti a quei cinque viaggiatori di bastante forza a sorreggere e introdurre nella vettura il pesante fardello di quella moglie.
Preso posto, però, dopo aver porto scusa e ringraziamenti ai compagni di viaggio che si erano scostati per far subito posto alla signora sofferente, poté mostrarsi cerimonioso e premuroso anche con lei e le rassettò le vesti addosso e il bavero della mantiglia che le era salito sul naso.
- Stai bene, cara?
La moglie, non solo non gli rispose, ma con ira si tirò sú di nuovo la mantiglia - piú sú, fino a nascondersi tutta la faccia. Egli allora sorrise afflitto; poi sospirò:
- Eh... mondo!
E volle spiegare ai compagni di viaggio che la moglie era da compatire perché si trovava in quello stato per l'improvvisa e imminente partenza dell'unico figliuolo per la guerra. Disse che da vent'anni non vivevano piú che per quell'unico figliuolo. Per non lasciarlo solo, l'anno avanti, dovendo egli intraprendere gli studii universitari, s'erano trasferiti da Sulmona a Roma. Scoppiata la guerra, il figliuolo, chiamato sotto le armi, s'era iscritto al corso accelerato degli allievi ufficiali; dopo tre mesi, nominato sottotenente di fanteria e assegnato al 12° reggimento, brigata Casale, era andato a raggiungere il deposito a Macerata, assicurando loro che sarebbe rimasto colà almeno un mese e mezzo per l'istruzione delle reclute; ma ecco che, invece, dopo tre soli giorni lo mandavano al fronte. Avevano ricevuto a Roma il giorno avanti un telegramma che annunziava questa partenza a tradimento. E si recavano a salutarlo, a vederlo partire.
La moglie sotto la mantiglia s'agitò, si restrinse, si contorse, rugliò anche piú volte come una belva, esasperata da quella lunga spiegazione del marito, il quale, non comprendendo che nessun compatimento speciale poteva venir loro per un caso che capitava a tanti, forse a tutti, avrebbe anzi suscitato irritazione e sdegno in quei cinque viaggiatori che non si mostravano abbattuti e vinti come lei nel cordoglio, pur avendo anch'essi probabilmente uno o piú figliuoli alla guerra. Ma forse il marito parlava apposta e dava quei ragguagli del figlio unico e della partenza improvvisa dopo tre soli giorni, ecc., perché gli altri ripetessero a lei con dura freddezza tutte quelle parole ch'egli andava dicendo da alcuni mesi, cioè da quando il figliuolo era sotto le armi; e non tanto per confortarla e confortarsi, quanto per persuaderla dispettosamente a una rassegnazione per lei impossibile.
Difatti quelli accolsero freddamente la spiegazione. Uno disse:
- Ma ringrazii Dio, caro signore, che parta soltanto adesso il suo figliuolo! Il mio è già sú dal primo giorno della guerra. Ed è stato ferito, sa? già due volte. Per fortuna, una volta al braccio, una volta alla gamba, leggermente. Un mese di licenza, e via di nuovo al fronte.
Un altro disse:
- Ce n'ho due, io. E tre nipoti.
- Eh, ma un figlio unico... - si provò a far considerare il marito.
- Non è vero, non lo dica! - lo interruppe quello sgarbatamente. - S'avvizia un figlio unico; non si ama mica di piú! Un pezzo di pane, quando s'hanno piú figliuoli, tanto a ciascuno, va bene; ma non l'amore paterno; a ciascun figliuolo un padre dà tutto quello di cui è capace. E s'io peno adesso, non peno metà per l'uno, metà per l'altro; peno per due.
- È vero, sí, quest'è vero, - ammise con un sorriso timido, pietoso e impacciato, il marito. - Ma guardi... (siamo a discorso, adesso, e facciamo tutti gli scongiuri) ma ponga il caso... non il suo, per carità, egregio signore... il caso d'un padre ch'abbia piú figliuoli alla guerra: ne perde (non sia mai!) uno, gli resta l'altro almeno!
- Già, sí; e l'obbligo di vivere per quest'altro, - affermò subito, accigliato, quello. - Il che vuol dire che se a lei... non diciamo a lei, a un padre che abbia un solo figliuolo, capita il caso che questo gli muoja, se della vita lui non sa piú che farsene, morto il figliuolo, se la può togliere, e addio; mentr'io, capisce? bisogna che me la tenga io, la vita, per l'altro che mi resta; e il caso peggiore dunque è sempre il mio!
- Ma che discorsi! - scattò a questo punto un altro viaggiatore, grasso e sanguigno, guardando in giro coi grossi occhi chiari acquosi e venati di sangue.
Ansimava, e pareva gli dovessero schizzar fuori, quegli occhi, dalla interna violenza affannosa d'una vitalità esuberante, che il corpaccio disfatto non riusciva piú a contenere. Si pose una manona sformata davanti la bocca, come assalito improvvisamente dal pensiero dei due denti che gli mancavano; ma poi, tanto non ci pensò piú e seguitò a dire, sdegnato:
- O che i figliuoli li facciamo per noi?
Gli altri si sporsero a guardarlo, costernati. Il primo, quello che aveva il figlio al fronte fin dal primo giorno della guerra, sospirò:
- Eh, per la patria, già...
- Eh, - rifece il viaggiatore grasso, - caro signore, se lei dice cosí, per la patria, può parere una smorfia!
Figlio mio, t'ho partorito
per la patria e non per me...
Storie! Quando? Ci pensa lei alla patria, quando le nasce un figliuolo? Roba da ridere! I figliuoli vengono, non perché lei li voglia, ma perché debbono venire; e si pigliano la vita; non solo la loro, ma anche la nostra si pigliano. Questa è la verità. E siamo noi per loro; mica loro per noi. E quand'hanno vent'anni... ma pensi un po', sono tali e quali eravamo io e lei quand'avevamo vent'anni. C'era nostra madre; c'era nostro padre; ma c'erano anche tant'altre cose, i vizii, la ragazza, le cravatte nuove, le illusioni, le sigarette, e anche la patria, già, a vent'anni, quando non avevamo figliuoli; la patria che, se ci avesse chiamati, dica un po', non sarebbe stata per noi sopra a nostro padre, sopra a nostra madre? Ne abbiamo cinquanta, sessanta, ora, caro lei: e c'è pure la patria, sí; ma dentro di noi, per forza, c'è anche piú forte l'affetto per i nostri figliuoli. Chi di noi, potendo, non andrebbe, non vorrebbe andare a combattere invece del proprio figliuolo? Ma tutti! E non vogliamo considerare adesso il sentimento dei nostri figliuoli a vent'anni? dei nostri figliuoli che per forza, venuto il momento, debbono sentire per la patria un affetto piú grande che per noi? Parlo, s'intende, dei buoni figliuoli, e dico per forza, perché davanti alla patria, per essi, diventiamo figliuoli anche noi, figliuoli vecchi che non possono piú muoversi e debbono restarsene a casa. Se la patria c'è, se è una necessità naturale la patria, come il pane che ciascuno per forza deve mangiare se non vuol morir di fame, bisogna che qualcuno vada a difenderla, venuto il momento. E vanno essi, a vent'anni, vanno perché debbono andare e non vogliono lagrime. Non ne vogliono perché, anche se muojono, muojono infiammati e contenti. (Parlo sempre, s'intende, dei buoni figliuoli!) Ora, quando si muore contenti, senz'aver veduto tutte le brutture, le noje, le miserie di questa vitaccia che avanza, le amarezze delle disillusioni, o che vogliamo di piú? Bisogna non piangere, ridere... o come piango io, sissignori, contento, perché mio figlio m'ha mandato a dire che la sua vita - la sua, capite? quella che noi dobbiamo vedere in loro, e non la nostra - la sua vita lui se l'era spesa come meglio non avrebbe potuto, e che è morto contento, e che io non stessi a vestirmi di nero, come difatti lor signori vedono che non mi sono vestito.
Scosse, cosí dicendo, la giacca chiara, per mostrarla; le labbra livide sui denti mancanti gli tremavano; gli occhi, quasi liquefatti, gli sgocciolavano; e terminò con due scatti di riso che potevano anche esser singhiozzi.
- Ecco... ecco.
Da tre mesi quella madre, lí nascosta sotto la mantiglia, cercava in tutto ciò che il marito e gli altri le dicevano per confortarla e indurla a rassegnarsi, una parola, una parola sola che, nella sordità del suo cupo dolore, le destasse un'eco, le facesse intendere come possibile per una madre la rassegnazione a mandare il figlio, non già alla morte, ma solo a un probabile rischio di vita. Non ne aveva trovata una, mai, tra le tante e tante che le erano state dette. Aveva ritenuto perciò che gli altri parlavano, potevano parlare a lei cosí, di rassegnazione e di conforto, solo perché non sentivano ciò che sentiva lei.
Le parole di questo viaggiatore, adesso, la stordirono, la sbalordirono. Tutt'a un tratto comprese che non già gli altri non sentivano ciò che ella sentiva; ma lei, al contrario, non riusciva a sentire qualcosa che tutti gli altri sentivano e per cui potevano rassegnarsi, non solo alla partenza, ma ecco, anche alla morte del proprio figliuolo.
Levò il capo, si tirò sú dall'angolo della vettura ad ascoltare le risposte che quel viaggiatore dava alle interrogazioni dei compagni sul quando, sul come gli fosse morto quel figliuolo, e trasecolò, le parve d'esser piombata in un mondo ch'ella non conosceva, in cui s'affacciava ora per la prima volta, sentendo che tutti gli altri non solo capivano, ma ammiravano anzi quel vecchio e si congratulavano con lui che poteva parlare cosí della morte del figliuolo.
Se non che, all'improvviso, vide dipingersi sul volto di quei cinque viaggiatori lo stesso sbalordimento che doveva esser sul suo, allorquando, proprio senza che ella lo volesse, come se veramente non avesse ancora inteso né compreso nulla, saltò sú a domandare a quel vecchio:
- Ma dunque... dunque il suo figliuolo è morto?
Il vecchio si voltò a guardarla con quegli occhi atroci, smisuratamente sbarrati. La guardò, la guardò e tutt'a un tratto, a sua volta, come se soltanto adesso, a quella domanda incongruente, a quella meraviglia fuor di posto, comprendesse che alla fine, in quel punto, il suo figliuolo era veramente morto per lui, s'arruffò, si contraffece, trasse a precipizio il fazzoletto dalla tasca e, tra lo stupore e la commozione di tutti, scoppiò in acuti, strazianti, irrefrenabili singhiozzi.
UN CAVALLO NELLA LUNA
Di settembre, su quell'altipiano d'aride argille azzurre, strapiombante franoso sul mare africano, la campagna già riarsa dalle rabbie dei lunghi soli estivi, era triste: ancor tutta irta di stoppie annerite, con radi mandorli e qualche ceppo centenario d'olivo saraceno qua e là. Tuttavia fu stabilito che i due sposi vi passassero almeno i primi giorni della luna di miele, in considerazione dello sposo.
Il pranzo di nozze, preparato in una sala dell'antica villa solitaria, non fu davvero una festa per i convitati.
Nessuno di essi riuscí a vincere l'impaccio, ch'era piuttosto sbigottimento, per l'aspetto e il contegno di quel giovanotto grasso, appena ventenne, dal volto infocato, che guardava qua e là coi piccoli occhi neri, lustri, da pazzo, e non intendeva piú nulla, e non mangiava e non beveva e diventava di punto in punto piú pavonazzo, quasi nero.
Si sapeva che, preso d'un amor forsennato, per colei che ora gli sedeva accanto, sposa, aveva fatto pazzie, fino al punto di tentare di uccidersi: lui, ricchissimo, unico erede dell'antico casato dei Berardi, per una che, dopo tutto, non era altro che la figlia d'un colonnello di fanteria, venuto col reggimento da un anno in Sicilia. Ma il signor colonnello, mal prevenuto contro gli abitanti dell'isola, non avrebbe voluto accondiscendere a quelle nozze, per non lasciare là, come tra selvaggi, la figliuola.
Lo sbigottimento per l'aspetto e il contegno dello sposo cresceva nei convitati, quanto piú essi avvertivano il contrasto con l'aria della giovanissima sposa. Era una vera bambina ancora, vispa, fresca, aliena: e pareva si scrollasse sempre d'addosso ogni pensiero fastidioso con certi scatti d'una vivacità piena di grazia, ingenua e furba nello stesso tempo. Furba però, come d'una birichina ancora ignara di tutto. Orfana, cresciuta fin dall'infanzia senza mamma, appariva infatti chiaramente che andava a nozze affatto impreparata. Tutti, a un certo punto, finito il pranzo, risero e si sentirono gelare a un'esclamazione di lei, rivolta allo sposo:
- Oh Dio, Nino, ma perché fai codesti occhi piccoli piccoli? Lasciami... no, scotti! Perché ti scottano cosí le mani? Senti, senti, papà, come gli scottano le mani. Che abbia la febbre?
Tra le spine, il colonnello affrettò la partenza dei convitati dalla campagna. Ma sí, per togliere quello spettacolo che gli pareva indecente. Presero tutti posto in sei vetture. Quella dove il colonnello sedette accanto alla madre dello sposo, anch'essa vedova, andando a passo per il viale, rimase un po' indietro, perché i due sposi, lei di qua, lui di là, con una mano nella mano del padre e della madre, vollero seguirla per un tratto a piedi, fino all'imboccatura dello stradone che conduceva alla città lontana. Qua il colonnello si chinò a baciar sul capo la figliuola; tossí, borbottò:
- Addio, Nino.
- Addio, Ida, - rise di là la madre dello sposo; e la carrozza s'avviò di buon trotto per raggiungere le altre dei convitati.
I due sposi rimasero per un pezzo a seguirla con gli occhi. La seguí la sola Ida veramente, perché Nino non vide nulla, non sentí nulla, con gli occhi fissi alla sposa rimasta lí, sola con lui finalmente, tutta, tutta sua. Ma che? Piangeva?
- Il babbo, - disse Ida, agitando con la mano il fazzoletto in saluto. - Là, vedi? Anche lui...
- Ma tu no, Ida... Ida mia... - balbettò, singhiozzò quasi, Nino, facendo per abbracciarla, tutto tremante.
Ida lo scostò.
- No, lasciami, ti prego.
- Voglio asciugarti gli occhi...
- Ma no, caro, grazie: me li asciugo da me.
Nino rimase lí, goffo, a guardarla, con un viso pietoso, la bocca semiaperta. Ida finí d'asciugarsi gli occhi; poi:
- Ma che hai? - gli domandò. - Tu tremi tutto. Dio, no, Nino: non mi star davanti cosí! Mi fai ridere. E non la finisco piú, bada, se mi metto a ridere. Aspetta, ti sveglio.
Gli posò lievemente le mani sulle tempie e gli soffiò su gli occhi. Al tocco di quelle dita, all'alito di quelle labbra, egli si sentí mancar le gambe; fu per cadere in ginocchio; ma lei lo sostenne, scoppiando in una risata fragorosa:
- Su lo stradone? Sei matto? Andiamo, andiamo! Là, guarda: a quella collinetta là! Si vedranno ancora le carrozze. Andiamo a vedere!
E lo trascinò via per un braccio, impetuosamente.
Da tutta la campagna intorno, ove tante erbe e tante cose sparse da tempo erano seccate, vaporava nella calura quasi un alito antico, denso, che si mescolava coi tepori grassi del fimo fermentante in piccoli mucchi sui maggesi, e con le fragranze acute dei mentastri ancor vivi e delle salvie. Quell'alito denso, quei grassi tepori, queste fragranze pungenti, li avvertiva lui solo. Ida dietro le spesse siepi di fichidindia, tra gli irti ciuffi giallicci delle stoppie bruciate, sentiva, invece, correndo, come strillavano gaje al sole le calandre, e come, nell'afa dei piani, nel silenzio attonito, sonava da lontane aje, auguroso, il canto di qualche gallo; si sentiva investire, ogni tanto, dal fresco respiro refrigerante che veniva dal mare prossimo a commuover le foglie stanche, già diradate e ingiallite, dei mandorli, e quelle fitte, aguzze e cinerulee degli olivi.
Raggiunsero presto la collinetta; ma egli non si reggeva piú, quasi cascava a pezzi, dalla corsa; volle sedere; tentò di far sedere anche lei, lí accanto, tirandola per la vita. Ma Ida si schermí:
- Lasciami guardare, prima.
Cominciava a essere inquieta, entro di sé. Non voleva mostrarlo. Irritata da certe curiose ostinazioni di lui, non sapeva, non voleva star ferma; voleva fuggire ancora, allontanarsi ancora; scuoterlo, distrarlo e distrarsi anche lei, finché durava il giorno.
Di là dalla collina si stendeva una pianura sterminata, in un mare di stoppie, nel quale serpeggiavano qua e là le nere vestigia della debbiatura, e qua e là anche rompeva l'irto giallore qualche cespo di cappero o di liquirizia. Laggiú laggiú, quasi all'altra riva lontana di quel vasto mare giallo, si scorgevano i tetti d'un casale tra alte pioppe nere.
Ebbene, Ida propose al marito d'arrivare fin là, fino a quel casale. Quanto ci avrebbero messo? Un'ora, poco piú. Erano appena le cinque. Là, nella villa, i servi dovevano ancora sparecchiare. Prima di sera sarebbero stati di ritorno.
Cercò d'opporsi Nino, ma ella lo tirò sú per le mani, lo fece sorgere in piedi, e poi via di corsa per il breve pendio di quella collinetta e quindi per quel mare di stoppie, agile e svelta come una cerbiatta. Egli, non facendo a tempo a seguirla, sempre piú rosso, e come intronato, sudato, ansava, correndo, la chiamava, voleva una mano:
- Almeno la mano! almeno la mano! - andava gridando.
A un tratto ella si fermò dando un grido. Le si era levato davanti uno stormo di corvi, gracchiando. Piú là, steso per terra, era un cavallo morto. Morto? No, no, non era morto: aveva gli occhi aperti. Dio, che occhi! Uno scheletro, era. E quelle costole! quei fianchi!
Nino sopravvenne, stronfiando, arrangolato:
- Andiamo... subito, via! Ritorniamo indietro!
- È vivo, guarda! - gridò Ida, con ribrezzo e pietà. - Leva la testa... Dio, che occhi! guarda, Nino!
- Ma sí, - fece lui, ancora ansimante. - Son venuti a buttarlo qua. Lascia; andiamocene! Che gusto? Non senti che già l'aria...
- E quei corvi? - esclamò lei con un brivido d'orrore. - Quei corvi se lo mangiano vivo?
- Ma, Ida, per carità! - pregò lui a mani giunte.
- Nino, basta! - gli gridò allora lei, al colmo della stizza nel vederlo cosí supplice e melenso. - Rispondi: se lo mangiano vivo?
- Che vuoi che sappia io, come se lo mangiano. Aspetteranno...
- Che muoja qui, di fame, di sete? - riprese ella, col volto tutto strizzato dalla compassione e dall'orrore. - Perché è vecchio? perché non serve piú? Ah, povera bestia! che infamia! che infamia! Ma che cuore hanno codesti villani? che cuore avete voi qua?
- Scusami, - diss'egli, alterandosi, - tu senti tanta pietà per una bestia...
- Non dovrei sentirne?
- Ma non ne senti per me!
- E che sei bestia tu? che stai morendo forse di fame e di sete, tu, buttato in mezzo alle stoppie? Senti... oh guarda i corvi, Nino, sú... guarda... fanno la ruota. Oh che cosa orribile, infame, mostruosa. Guarda... oh, povera bestia... prova a rizzarsi! Nino, si muove... forse può ancora camminare... Nino, sú, ajutiamola... smuoviti!
- Ma che vuoi che gli faccia io? - proruppe egli, esasperato. - Me lo posso trascinare dietro? caricarmelo su le spalle? Ci mancava il cavallo, ci mancava! Come vuoi che cammini? Non vedi che è mezzo morto?
- E se gli facessimo portare da mangiare?
- E da bere, anche!
- Oh, come sei cattivo, Nino! - disse Ida con le lagrime agli occhi.
E si chinò, vincendo il ribrezzo, a carezzare con la mano, appena appena, la testa del cavallo che s'era tirato sú a stento da terra, ginocchioni su le due zampe davanti, mostrando pur nell'avvilimento di quella sua miseria infinita un ultimo resto, nel collo e nell'aria del capo, della sua nobile bellezza.
Nino, fosse per il sangue rimescolato, fosse per il dispetto acerrimo, o fosse per la corsa e per il sudore, si sentí all'improvviso abbrezzare, stolzò e si mise a battere i denti, con un tremore strano di tutto il corpo; si tirò sú istintivamente il bavero della giacca e, con le mani in tasca, cupo, raffagottato, disperato, andò a sedere discosto, su una pietra.
Il sole era già tramontato. Si udivano da lontano le sonagliere di qualche carro che passava laggiú per lo stradone.
Perché batteva i denti cosí? Eppure la fronte gli scottava e il sangue gli frizzava per le vene e le orecchie gli rombavano. Gli pareva che sonassero tante campane lontane. Tutta quell'ansia, quello spasimo d'attesa, la freddezza capricciosa di lei, quell'ultima corsa, e quel cavallo ora, quel maledetto cavallo... oh Dio, era un sogno? un incubo nel sogno? era la febbre? Forse un malanno peggiore. Sí! Che bujo, Dio, che bujo! O gli s'era anche intorbidata la vista? E non poteva parlare, non poteva gridare. La chiamava: "Ida! Ida!" ma la voce non gli usciva piú dalla gola arsa e quasi insugherita.
Dov'era Ida? Che faceva?
Era scappata al lontano casale a chiedere ajuto per quel cavallo, senza pensare che proprio i contadini di là avevano trascinato qua la bestia moribonda.
Egli rimase lí, solo, a sedere sulla pietra, tutto in preda a quel tremore crescente; e, curvo, tenendosi tutto ristretto in sé, come un grosso gufo appollajato, intravide a un tratto una cosa che gli parve... ma sí, giusta, ora, per quanto atroce, per quanto come una visione d'altro mondo. La luna. Una gran luna che sorgeva lenta da quel mare giallo di stoppie. E, nera, in quell'enorme disco di rame vaporoso, la testa inteschiata di quel cavallo che attendeva ancora col collo proteso; che avrebbe atteso sempre, forse, cosí nero stagliato su quel disco di rame, mentre i corvi, facendo la ruota, gracchiavano alti nel cielo.
Quando Ida, disillusa, sdegnata, sperduta per la pianura, gridando: - Nino! Nino! - ritornò, la luna s'era già alzata; il cavallo s'era riabbattuto, come morto; e Nino... - dov'era Nino? Oh, eccolo là, per terra anche lui.
Si era addormentato là?
Corse a lui. Lo trovò che rantolava, con la faccia anche lui a terra, quasi nera, gli occhi gonfi serrati, congestionato.
- Oh Dio!
E si guardò attorno, quasi svanita; aprí le mani, ove teneva alcune fave secche portate da quel casale per darle a mangiare al cavallo; guardò la luna, poi il cavallo, poi qua per terra quest'uomo come morto anche lui; si sentí mancare, assalita improvvisamente dal dubbio che tutto quello che vedeva non fosse vero; e fuggí atterrita verso la villa, chiamando a gran voce il padre, il padre che se la portasse via, oh Dio! via da quell'uomo che rantolava... chi sa perché! via da quel cavallo, via da sotto quella luna pazza, via da sotto quei corvi che gracchiavano nel cielo... via, via, via...
RESTI MORTALI
Disperazione dei nipoti, che pur gli dovevano volere un gran bene se, dopo che s'era spogliato per loro di tutto il suo, ancora avevano tanta sopportazione di lui, il signor Federico Biobin (zio Fifo, come lo chiamavano) si alzava col lume, e subito, zitto zitto, piccolino com'era di statura, col testoncino a pera che gli lustrava, calvo fino alla nuca, una ventina di duri peluzzi ritinti, dieci per parte drizzati sul musetto da topo, si metteva a frugolare per casa, sorsando, soffiando, dando smusatine, come per tenere in continuo esercizio d'esplorazione il naso puntuto, le labbra armate di quei venti spunzoncini; finché all'improvviso tutta la casa non sobbalzava dal sonno o per un rovinío di scodelle dalla piattaja in cucina o di casse che crollavano a catafascio nel ripostiglio. Accorrevano tutti, chi in camicia, chi in pigiama, chi in sottana.
- Zio, che hai fatto? che è stato?
Dava le risposte piú inaspettate:
- Niente: sento puzza di mobili vecchi.
Ma come se tutto quel fracasso non l'avesse fatto lui e non l'avesse nemmeno sentito, e placido e un po' seccato parlasse ancora dal silenzio che c'era prima nella casa.
Non lasciava giorno, senza che ne facesse una. E il bello si era che i fastidi che dava, i dispetti che faceva, per cui le budella ai nipoti, alle serve, si ritorcevano dentro come una fune, lui li chiamava servizii. Capace di stare giornate sane in cucina a ritagliare e tentar d'incollare striscioline di carta per medicare un vetro rotto della finestra a usciale che dava su una specie di ballatojo, dov'era puzzolentissimo il casottino del cesso. La cuoca si dannava.
- Ma lei che sente la puzza dei mobili vecchi, o non la sente codesta del cesso?
Non la sentiva, quella; e seguitava, sorsando, soffiando, smusando, a tentare d'incollare quelle striscioline di carta.
E ora eccolo giú in giardino, infuriato contro un'ala del cancello che, interrata, non voleva piú andare né avanti né indietro. Illividito dalla congestione e con le vene del cranio che gli scoppiavano, dava certe scrollate che le braccia, appena i ferri del cancello brandivano in contrasto, pareva gli si dovessero staccar nette dal busto. I nipoti gli gridavano dalle finestre:
- Smettila, zio! Non vedi che non s'apre?
- La smetto? O io l'apro, o ci crepo!
Non l'apriva e non ci crepava: veniva sú, tutto slogato, in un bagno di sudore, presentando le manine ridotte una pietà, perché gli fossero unte d'olio e fasciate.
Quando poi era stanco di farne ai suoi di casa, usciva e si metteva a far dispetti alla gente per via: per esempio, certe giornate che pioveva a dirotto, andando a pigliarsi apposta sull'ombrello lo sgrondo di tutte le case, con un'aria cosí parlante di farlo per dispetto, che veniva la tentazione a chi gli passava accanto di strapparlo per un braccio accosto al muro. Il piacere maligno, che sotto sotto ne provava, gli faceva arricciare agli angoli il labbro con tutti quei suoi venti peluzzi irti, quasi in un digrignamento appena percettibile, di cagnolino bizzoso.
L'ultimo fu quello della spolverina grigia d'alpagà, comperata per veste da camera, quando i nipoti, ridendo della compera, gli fecero notare ch'era una spolverina da viaggio, quella.
- Da viaggio? E allora parto!
- Parti? Dove vai?
- A Bergamo, da Ernesto, a salutarlo prima che vada a Genova a imbarcarsi per l'America.
Non ci fu verso di rimuoverlo piú da quel ticchio di partire lí per lí. Anzi, che la sua visita per quel povero Ernesto dovesse essere un gravissimo imbarazzo piuttosto che un piacere nel trambusto in cui doveva trovarsi alla vigilia di salpar per l'America: ragione di piú. E che il medico gli avesse ordinato di star tranquillo e non strapazzarsi per la sclerosi cardiaca di cui era affetto: ragione di piú, anche questa. Voleva morire! Ma come, a Bergamo? morire a Bergamo, mentre Ernesto vi spiantava la casa? Sissignori, morire a Bergamo, nella casa spiantata.
Partí con quella spolverina grigia; e purtroppo la minaccia di quel pericolo che i nipoti di Roma, senza punto crederci, gli avevano fatto balenare per trattenerlo, s'avverò. La notizia fulminea della morte di zio Fifo lo stesso giorno che arrivò a Bergamo, lasciò quasi basiti i nipoti di Roma per il fatto che, pur senza crederci, l'avevano preveduta; e che, pur avendola preveduta, per quel non crederci, avessero lasciato partire lo zio.
Di quest'ultimo dispetto ai nipoti lontani e dell'altro ancor piú acerbo al nipote vicino, là a Bergamo, zio Fifo, in mezzo alla confusione della casa tutta sossopra per lo sgombero, stecchito sul lettino di ferro, con la sua brava spolverina grigia da cui spuntavano i due piedini giunti, piú che soddisfatto, pareva ora felicissimo.
Tra gli altri mobili della camera scostati dalle pareti e fuori di posto, comodissimo comodissimo ci stava lui, su quel lettino di ferro che nessuno, finché ci stava lui, avrebbe potuto toccare, coi quattro ceri accesi, due da capo, due da piedi; le manine intrecciate sul ventre che gli s'era un po' gonfiato.
Pareva proprio che sorridesse, sornione, con gli occhi chiusi e quei venti spunzoncini ancora drizzati sul musetto da topo.
Difatti, il compito di venire a morire a Bergamo per maggior ristoro del nipote Ernesto in partenza per l'America, lui lo aveva assolto; ora toccava agli altri quello di rimuoverlo di lí, o per seppellirlo nel cimitero di Bergamo o per rispedirlo a Roma se lo volevano là nella tomba di famiglia.
Stimò piú sbrigativo il nipote Ernesto rispedirlo a Roma e lasciare ai cugini la cura e il resto delle spese per i funerali all'arrivo: aveva i minuti contati; sarebbe arrivato a Genova appena in tempo per imbarcarsi. Malauguratamente però, nel fare la spedizione, credette che l'uso della frase «resti mortali» invece della cruda parola «cadavere» fosse lecito, com'era certo piú gentile e pietoso; e se ne volle servire, forse a compensare il povero zio di tutte le imprecazioni che gli aveva scagliate per esser venuto a buttarglisi morto tra i piedi in un frangente come quello.
Ora ai nipoti di Roma venuti alla stazione a ricevere il feretro con molte corone di fiori e un magnifico carro funebre di prima classe a quattro cavalli e piú d'un centinajo d'amici e conoscenti e rappresentanze di sodalizii con labari e bandiere e il parroco per la benedizione alla salma e due belle file di monache e chierici con le candele in mano; appunto per l'uso gentile e pietoso di quella frase, l'ufficiale di dogana presentò una bolletta gravata da una multa di parecchie migliaja di lire.
- Multa? E perché?
- Falso in denunzia.
- Falso? Che falso?
- Ma credono lor signori, che si possa impunemente denunziare un feretro come resti mortali? I resti mortali sono un conto: un mucchietto d'ossa e di cenere in una cassettina di latta; e pagano per tali, secondo una loro tariffa. Un feretro è un altro conto. Per quanto piccolo, bisogna che paghi come feretro. Altra tariffa.
Protestarono i nipoti che intenzione di frode nel cugino Ernesto non poteva esserci stata; ma, anche ammesso e non concesso che ci fosse stata, la multa, se mai, doveva pagarla chi aveva spedito e non chi riceveva. Erano pronti a pagare il di piú della spesa, secondo la tariffa, trattandosi realmente di un feretro e non di resti mortali (benché la distinzione potesse parere a prima giunta sofistica); ma, a ogni modo, la multa no, no e no.
Non avevano nessuna colpa, loro. Il cugino Ernesto era partito per l'America, e responsabile dello sbaglio (non diciamo frode, per carità!) restava allora l'ufficio di spedizione alla dogana di Bergamo che s'era ricevuto a occhi chiusi e aveva «inoltrato» come resti mortali un feretro intero. Per placare il capo-stazione chiamato a dare man forte all'ufficiale di dogana, i nipoti si mostrarono disposti a scusare, del resto, anche l'ufficio di spedizione della dogana di Bergamo, informando che il cugino Ernesto doveva aver spedito in quei giorni chi sa quanti colli, per cui sapendosi in città ch'egli era sul punto di lasciare l'Italia per sempre, quell'ufficiale di dogana, addetto alla spedizione, facilmente aveva potuto supporre che spedisse anche i resti mortali di qualche parente sepolto da tempo nel cimitero di Bergamo, per non lasciarli colà. La colpa, in questo caso, si riduceva soltanto a una mancata verifica. Gli volevano far pagare la multa per questo? Ecco, ma a lui sempre, la multa, se mai; mica a loro che non c'entravano né punto né poco.
Mentre cosí si discuteva nell'ufficio di dogana, fuori nello spiazzale quelli ch'eran venuti per l'accompagnamento funebre vestiti di nero e in tubino, s'erano ritratti e impalati in fila, gomito a gomito, a ridosso al muro, per ripararsi da un terribile sole d'agosto, prossimo al meriggio. C'era a mala pena, lungo quel muro, un filo d'ombra che non arrivava a riparare fino alla punta neanche i piedi; e davanti, tutte le cose, a quella vampa di sole, abbarbagliavano. Cosí tutti impalati, con gli occhi fuori del capo, guardavano l'enorme carro funebre, rimasto in mezzo allo spiazzale, là, ferocemente nero e dorato, e pareva ne avessero un formidabile incubo, come di quelle monache che se ne stavano impassibili, a occhi bassi, cosí infagottate in quelle loro tonache di pesantissimo panno marrone, con quel cappuccetto nero a capanna in capo, tutte bene appettate sotto il modestino bianco insaldato, e le candele accese in mano. Dio, quelle candele, la cui fiamma nel sole non si vedeva, e se ne vedeva invece il fumighío tremolante! Ma che avveniva? Perché non portavano il feretro? Che s'aspettava? Alcuni, piú impazienti, andarono a sentire; poi a poco a poco, tutti, tranne il cocchiere sul carro funebre, le monache, i chierici e i portatori dei labari e delle bandiere, entrarono nel fresco delizioso dell'ufficio della dogana, ch'era un alto e vasto magazzino ingombro tutt'intorno alle pareti di casse rammontate e di balle e di colli.
Vi rintronavano i gridi della contesa tra i nipoti del morto da una parte, e il capo-stazione e gli ufficiali di dogana dall'altra. Gli animi s'erano accesi. Il capo-stazione era irremovibile: o pagare la multa, o niente feretro! Il maggiore dei nipoti, furibondo, minacciava che glielo avrebbero lasciato lí. Non era mica merce, un morto, che si potesse rivendere all'asta! Volevano vedere che cosa il capo-stazione se ne farebbe! E il capo-stazione sghignazzava e rispondeva che, chiestane licenza a chi di dovere, lo avrebbe mandato a seppellire con due facchini; e che poi a far pagare le spese e la tariffa e la multa ci avrebbero pensato con comodo gli uscieri. Un fremito d'indignazione accolse questa risposta e allora l'altro nipote, confortato dal consenso di tutti, lo diffidò dal farlo: avrebbe chiamato responsabile l'amministrazione dei danni morali e materiali, perché non era mica un cane il loro zio da esser mandato a seppellire in quel modo; c'erano là centinaja di persone venute a rendergli i meritati onori funebri, labari e bandiere di sodalizi, un carro di prima classe, un santo sacerdote, monache e chierici con piú di quaranta candele!
E i due nipoti, rossi come gamberi, con le camice bianche che, nello scompiglio dell'esagitazione, strabuzzavano loro dalle maniche nere e perfino di sotto il panciotto, tutti tremanti per lo sfogo violento e piangenti dalla rabbia, furono condotti via.
Ora quell'incubo di carro funebre che se n'andava vuoto e traballante, diretto alla rimessa, e quelle monache e quei chierici che capovolgevano le candele per smorzarle in terra, diedero a tutti, anche ai nipoti, in quell'animazione insolita, un senso di leggerezza, come se zio Fifo, mandato a monte il funerale, non fosse piú morto.
Ma si poteva veramente dir morto zio Fifo, se seguitava a fare con tanta pervicacia ciò che aveva sempre fatto in vita: dispetti a tutti?
So bene che non s'è mai dato il caso che un morto si sia staccate le mani dal petto per cacciarsi una mosca dal naso; ma per zio Fifo riparato dalla doppia cassa di zinco e di noce, là sotto gli occhi del capo-stazione rimasto solo nel magazzino della dogana a grattarsi la testa, mi par proprio lecito immaginare che se le sia staccate davvero, quelle sue gracili manine dal petto, per darsi contentone una bella stropicciatina.
PAURA D'ESSER FELICE
Prima che Fabio Feroni, non piú assistito dal senno antico, si fosse indotto a prender moglie, per lunghi anni, mentre gli altri cercavano un po' di svago dalle consuete fatiche o in qualche passeggiata o nei caffè, da uomo solitario com'era allora, aveva trovato il suo spasso nel terrazzino della vecchia casa di scapolo, ove, tra tanti vasi di fiori, eran pur mosche assai e ragni e formiche e altri insetti, della cui vita s'interessava con amore e curiosità.
Soprattutto si spassava assistendo agli sforzi sconnessi d'una vecchia tartaruga, la quale da parecchi anni s'ostinava, testarda e dura, a salire il primo dei tre gradini per cui da quel terrazzo si andava alla saletta da pranzo.
- Chi sa, - aveva pensato piú volte il Feroni, - chi sa quali delizie s'immagina di trovare in quella saletta, se da tant'anni dura questa sua ostinazione.
Riuscita con sommo stento a superare l'alzata dello scalino, quando già poneva su l'orlo della pedata le zampette sbieche e raspava disperatamente per tirarsi sú, tutt'a un tratto perdeva l'equilibrio, ricadeva giú riversa su la scaglia rocciosa.
Piú d'una volta il Feroni, pur sicuro che essa, se alla fine avesse superato il primo, poi il secondo, poi il terzo scalino, fatto un giro nella saletta da pranzo, avrebbe voluto ritornare giú al battuto del terrazzo, l'aveva presa e delicatamente posata sul primo scalino, premiando cosí la vana ostinazione di tanti anni.
Ma aveva con maraviglia sperimentato che la tartaruga, o per paura o per diffidenza, non aveva voluto mai profittare di quell'ajuto inatteso e, ritratte la testa e le zampe dentro la scaglia, se n'era per un gran pezzo rimasta lí come pietra, e poi, pian piano voltandosi, s'era rifatta all'orlo dello scalino, dando segni non dubbii di volerne discendere.
E allora egli l'aveva rimessa giú; ed ecco poco dopo la tartaruga riprender l'eterna fatica di salir da sé quel primo scalino.
- Che bestia! - aveva esclamato il Feroni, la prima volta.
Ma poi, riflettendoci meglio, s'era accorto d'aver detto bestia a una bestia, come si dice bestia a un uomo.
Infatti, le aveva detto bestia, non già perché in tanti e tanti anni di prova essa ancora non aveva saputo farsi capace che, essendo troppo alta l'alzata di quello scalino, per forza, nell'aderirvi tutta verticalmente, avrebbe dovuto a un punto perder l'equilibrio e cader riversa; ma perché, ajutata da lui, aveva rifiutato l'ajuto.
Che seguiva però da questa riflessione? Che, dicendo in questo senso bestia a un uomo, si viene a fare alle bestie una gravissima ingiuria, perché si viene a scambiare per stupidità quella che invece è probità in loro o prudenza istintiva. Bestia, si dice a un uomo che non accetta l'ajuto, perché non par lecito pregiare in un uomo quella che nelle bestie è probità.
Tutto questo in generale.
Il Feroni poi aveva ragioni sue particolari di recarsi a dispetto quella probità, o prudenza che fosse, della vecchia tartaruga, e per un po' si compiaceva delle ridicole e disperate spinte ch'essa tirava nel vuoto cosí riversa, e alla fine, stanco di vederla soffrire, le soleva allungare un solennissimo calcio.
Mai, mai nessuno che avesse voluto dare a lui una mano in tutti i suoi sforzi per salire.
E tuttavia, neppure di questo si sarebbe in fondo doluto molto Fabio Feroni, conoscendo le aspre difficoltà dell'esistenza e l'egoismo che ne deriva agli uomini, se nella vita non gli fosse toccato di fare un'altra ben piú triste esperienza, per la quale gli pareva d'aver quasi acquistato un diritto, se non proprio all'aiuto, almeno alla commiserazione altrui.
E l'esperienza era questa: che, ad onta di tutte le sue diligenze, sempre, com'egli era proprio lí lí per raggiunger lo scopo a cui per tanto tempo aveva teso con tutte le forze dell'anima, accorto, paziente e tenace, sempre il caso con lo scatto improvviso d'un saltamartino, s'era divertito a buttarlo riverso a pancia all'aria - proprio come quella tartaruga lí.
Giuoco feroce. Una ventata, un buffetto, una scrollatina, sul piú bello, e giú tutto.
Né era da dire che le sue cadute improvvise meritassero scarsa commiserazione per la modestia delle sue aspirazioni. Prima di tutto, non sempre, come in questi ultimi tempi, erano state modeste le sue aspirazioni. Ma poi... - sí, certo, quanto piú dall'alto, tanto piú dolorose, le cadute - ma quella d'una formica da uno sterpo alto due palmi non vale agli effetti quella d'un uomo da un campanile? Oltre che la modestia delle aspirazioni, se mai, avrebbe dovuto far giudicare piú crudele quel giochetto della sorte. Bel gusto, difatti, prendersela con una formica, cioè con un poveretto che da anni e anni stenta e s'industria in tutti i modi a tirar sú e ad avviare tra ripieghi e ripari un piccolo espediente per migliorare d'un poco la propria condizione; sorprenderlo a un tratto e frustrare in un attimo tutti i sottili accorgimenti, la lunga pena d'una speranza pian pianino condotta quasi per un filo sempre piú tenue a ridursi a effetto!
Non sperare piú, non piú illudersi, non desiderare piú nulla; andare innanzi cosí, in una totale remissione, abbandonato alla discrezione della sorte - l'unica sarebbe stata questa: lo capiva bene Fabio Feroni. Ma, ahimè, speranze e desiderii e illusioni gli rinascevano, quasi a dispetto, irresistibilmente: erano i germi che la vita stessa gettava e che cadevano anche nel suo terreno, il quale, per quanto indurito dal gelo dell'esperienza, non poteva non accoglierli, impedire che mettessero una pur debole radice e sorgessero pallidi, con timidità sconsolata nell'aria cupa e diaccia della sua sconfidenza.
Tutt'al piú, poteva fingere di non accorgersene; o anche dire a se stesso che non era mica vero ch'egli sperava questo, desiderava quest'altro; o che si faceva la piú piccola illusione che quella speranza o quel desiderio potessero mai ridursi a effetto. Tirava via, proprio come se non sperasse né desiderasse piú nulla, proprio come se non s'illudesse piú per niente; ma pur guardando, quasi con la coda dell'occhio, la speranza, il desiderio, l'illusione soppiatta, e seguendoli serio serio, quasi di nascosto da se stesso.
Quando poi il caso, all'improvviso, immancabilmente, dava a essi il solito sgambetto, egli n'aveva sí un soprassalto, ma fingeva che fosse una scrollatina di spalle e rideva agro e annegava il dolore nella soddisfazione sapor d'acqua di mare di non aver punto sperato, punto desiderato, di non essersi illuso per nientissimo affatto; e che perciò quel demoniaccio del caso questa volta, eh no, questa volta non gliel'aveva fatta davvero!
- Ma si capisce! Ma si capisce! - diceva in questi momenti agli amici, ai conoscenti, suoi compagni d'ufficio, là nella biblioteca ov'era impiegato.
Gli amici lo guardavano senza comprender bene che cosa si dovesse capire.
- Ma non vedete? è caduto il Ministero! - soggiungeva il Feroni. - E si capisce!
Pareva che lui solo capisse le cose piú assurde e inverosimili, da che non sperando piú, per cosí dire, direttamente, ma coltivando per passatempo speranze immaginarie, speranze che avrebbe potuto avere e non aveva, illusioni che avrebbe potuto farsi e non si faceva, s'era messo a scoprire le piú strambe relazioni di cause e d'effetti per ogni minimo che; e oggi era la caduta del Ministero, e domani la venuta dello Scià di Persia a Roma, e doman l'altro l'interruzione della corrente elettrica che aveva lasciato al bujo per mezz'ora la città.
Insomma, Fabio Feroni s'era ormai fissato in ciò che egli chiamava lo scatto del saltamartino; e, cosí fissato, era caduto in preda naturalmente alle piú stravaganti superstizioni, che, distornandolo sempre piú dalle sue antiche, riposate meditazioni filosofiche, gli avevan fatto commettere piú d'una vera e propria stranezza e leggerezze senza fine.
Prese moglie, un bel giorno, lí per lí, come si beve un uovo, per non dar tempo al caso di mandargli tutto a gambe all'aria.
Veramente, egli guardava da un pezzo (al solito, con la coda dell'occhio) quella signorina Molesi, che stava presso la biblioteca: Dreetta Molesi, che piú gli pareva bella e piena di grazia e piú diceva a tutti ch'era brutta e smorfiosa.
Alla sposina che, avendo una gran fretta anche lei, si lamentava della troppa fretta di lui, disse che aveva già tutto pronto da tempo: la casa, cosí e cosí, che ella però non doveva chiedere di visitare avanti, perché gliela riserbava come una bella sorpresa per il giorno delle nozze; e non volle dire neppure in che via fosse, temendo che di nascosto o con la madre o col fratello andasse a visitarla, tentata dalle minuziose descrizioni ch'egli le aveva fatto di tutti i comodi ch'essa offriva e della vista che si godeva dalle finestre, e dei mobili che aveva acquistati e disposti amorosamente nelle varie camerette.
Discusse a lungo con lei sul viaggio di nozze: a Firenze? a Venezia? Ma quando fu sul punto, partí per Napoli, certo d'aver cosí gabbato il caso: d'averlo cioè spedito a Firenze e a Venezia da un albergo all'altro per guastargli le gioje della luna di miele, mentr'egli se le sarebbe godute, quieto e riparato, a Napoli.
Tanto Dreetta quanto i parenti rimasero storditi di questa improvvisa risoluzione di partire per Napoli, quantunque già un poco avvezzi a simili repentini cambiamenti in lui sia d'umore sia di propositi. Non s'immaginavano che una ben piú grande sorpresa li aspettava al ritorno dal viaggio di nozze.
Dov'era la casetta, il nido già apparecchiato da tempo e descritto con tanta minuzia? Dov'era? Nel sogno che Fabio Feroni destinava, come tutti gli altri, al caso perché si spassasse a distruggerglielo a sua posta con qualcuna delle sue improvvise prodezze. Là, in due camerette ammobigliate, scelte lí per lí in treno, ritornando da Napoli, tra le tante disponibili negli annunzi d'affitti di un giornale, si vide condotta Dreetta appena giunta a Roma.
L'ira, l'indignazione questa volta ruppero tutti i freni finora imposti dalla buona creanza e dalla poca confidenza. Dreetta e i parenti gridarono all'inganno, anzi peggio, all'impostura. Perché mentire cosí? far vedere una casa apparecchiata di tutto punto, piena di tutti i comodi, perché?
Fabio Feroni, che s'aspettava quello scoppio, attese paziente che le prime furie svaporassero, sorridendo contento di quel suo martirio, e cercandosi con le dita nelle narici qualche peluzzo da tirare.
Dreetta piangeva? i parenti lo ingiuriavano? Era bene, era bene che fosse cosí, per tutta la gioja ch'egli aveva or ora goduta a Napoli, per tutto l'amore che gli riempiva l'anima. Era bene che fosse cosí.
Perché piangeva Dreetta? Per una casa che non c'era? Eh via, poco male! ci sarebbe stata!
E spiegò ai parenti perché non avesse apparecchiato avanti la casetta e perché avesse mentito; spiegò che la sua menzogna, del resto, appariva tale un po' anche per colpa loro, cioè delle troppe domande che gli avevano rivolte quand'egli sul principio aveva dichiarato d'aver tutto pronto da tempo e di voler fare alla sposina una bella sorpresa. Aveva pronto il denaro, ed eccolo lí; venti mila lire, risparmiate e raccolte in tanti anni e con tanti stenti; e la sorpresa che preparava a Dreetta era questa: di darle in mano quel denaro, perché pensasse lei, lei soltanto, a metter sú il nido di suo gusto, come una necessità e non come un sogno. Ma, per carità! non seguisse ella in nulla e per nulla la descrizione immaginaria che lui gliene aveva fatta un tempo; tutto diverso doveva essere; scegliesse lei con l'ajuto della mamma e del fratello; egli non voleva saperne nulla; perché, se minimamente avesse approvato questa o quella scelta e se ne fosse compiaciuto, addio ogni cosa! E volle infine prevenirli che se speravano ch'egli delle loro compere e dell'assetto della casa e di tutto quanto si dichiarasse contento, se lo levassero pure dal capo, perché fin d'ora, a ogni modo, se ne dichiarava scontento, scontentissimo.
Fosse per questo, fosse per la cordialità dei padroni di casa, buoni vecchi all'antica, marito e moglie con una figliuola nubile, Dreetta non s'affrettò piú di comporsi il nido. Rimasero d'accordo coi padroni di casa, che avrebbero sloggiato alla nascita del primo figliuolo.
Intanto i primi mesi di matrimonio furono un fiume di pianto nascosto per Dreetta, la quale, volendo vivere a modo del marito, ancora non s'era accorta ch'egli diceva tutto il contrario di quello che desiderava.
Fabio Feroni in fondo desiderava tutto ciò che avrebbe potuto far contenta la sposina; ma sapendo che, se avesse manifestato e seguito quei desiderii, il caso li avrebbe subito rovesciati, per prevenirlo, manifestava e seguiva i desiderii contrarii: e la sposina viveva infelice. Quand'ella infine se n'accorse e cominciò a fare a suo modo, cioè tutt'al contrario di quel che diceva lui, la gratitudine, l'affetto, l'ammirazione di Fabio Feroni per lei raggiunsero il colmo. Ma il pover'uomo si guardò bene dall'esprimerli; si sentí felice anche lui, e cominciò a tremarne.
Cosí pieno di gioja, come fare a nasconderla? a dichiararsi scontento?
E guardando la sua piccola Dreetta già incinta, gli occhi gli s'invetravano di lagrime; lagrime di tenerezza e di riconoscenza.
Negli ultimi mesi la moglie, col fratello e la mamma si diede attorno, per metter sú la casetta. La trepidazione di Fabio Feroni divenne in quei giorni piú che mai angosciosa. Sudava freddo a tutte le espressioni di giubilo della sposina, soddisfatta della compera di questo o di quel mobile.
- Vieni a vedere... vieni a vedere... - gli diceva Dreetta.
Con tutte e due le mani egli avrebbe voluto turarle la bocca. La gioja era troppa; quella era anzi la felicità, la vera felicità raggiunta. Non era possibile che non accadesse da un momento all'altro una disgrazia. E Fabio Feroni si mise a guardare attorno e avanti e indietro con rapidi sguardi obliqui per scoprire e prevenir l'insidia del caso, l'insidia che poteva annidarsi anche in un granellino di polvere; e si buttava con le mani a terra, gattone, per impedire il passo alla moglie se scorgeva sul pavimento qualche buccia su cui il piedino di lei avrebbe potuto smucciare. Ecco, forse l'insidia era là, in quella buccia! O forse... ma sí!, in quella gabbia lí, del canarino... Già una volta Dreetta era montata su un sediolino, col rischio di cadere, per rimetter la canapuccia nel vasetto. Via quel canarino! E alle proteste, al pianto di Dreetta, egli, tutt'arruffato, ispido, come un gatto fustigato:
- Per carità, - s'era messo a gridare, - ti prego, lasciami fare! lasciami fare!
E gli occhi sbarrati gli andavano di continuo in qua e in là, con una mobilità e una lucentezza che incutevano paura.
Finché una notte ella non lo sorprese in camicia con una candela in mano, che andava cercando l'insidia del caso entro le tazzine da caffè capovolte e allineate sul palchetto della credenza nella sala da pranzo.
- Fabio, che fai?
E lui, ponendosi un dito su la bocca:
- Ssss... zitta! Lo scovo! Ti giuro che questa volta lo scovo... Non me la fa!
Tutt'a un tratto, o fosse un topo, o un soffio d'aria, o uno scarafaggio sui piedi nudi, il fatto è che Fabio Feroni diede un urlo, un balzo, un salto da montone, e s'afferrò con le due mani il ventre gridando che lo aveva lí, lí, il saltamartino, lí dentro, lí dentro lo stomaco! E dalli a springare, a springare in camicia per tutta la casa, poi giú per le scale e poi fuori, per la via deserta, nella notte, urlando, ridendo, mentre Dreetta scarmigliata gridava ajuto dalla finestra.
VISITARE GL'INFERMI
In meno d'un'ora per tutto il paese si sparse la notizia che Gaspare Naldi era stato colpito d'apoplessia in casa del Cilento, suo amico, dal quale s'era recato per condolersi della recente morte del figliuolo.
Tutti, in prima, piú che afflizione ne provarono sbigottimento e ciascuno con ansia domandò piú precisi ragguagli. Ma la prima costernazione fu presto ovviata dalla riflessione confortante che il Naldi, quantunque di florido aspetto e ancor giovane, era pur dentro minato da incurabile malattia cardiaca. Sicché, via! poteva aspettarsi da un momento all'altro, poverino, una fine cosí.
I primi visitatori, amici e conoscenti, accorsero alla casa del Cilento ansanti, pallidi, con occhi da spiritati. - «Non è ancor morto?» - Volevano vederlo.
Porta, usci, finestre tutto spalancato. E nelle camere, fra il trambusto, pareva spirasse nell'ombra dalle poltroncine vestite di tela bianca un fresco refrigerante per chi veniva da fuori, ove il sole d'agosto ardeva fierissimo. E un odor di garofani, in quel fresco d'ombra... - ah! delizioso.
Per la scala, una frotta di curiosi, gente del vicinato, uomini, donne, ragazzi, intenti a spiare chi saliva e chi scendeva; a coglier di volo qualche notizia. Un bambino s'affannava a salire e a ridiscendere gli scalini troppo alti per lui e, reggendosi con una manina paffuta al muro, a ogni scalino, rimbalzando tutto fin nelle gote e sorridendo con la boccuccia sdentata, emetteva una vocina frale:
- E-èh!
Puteva di piscio, carinello, ma non lo sapeva.
Altri due ragazzi, giocando tra loro a piè della scala, vennero a lite; la madre allora tra gli zittíi della ressa, dovette scendere e portarseli via. Li picchiò, appena fuori, stizzita di non poter assistere per causa loro a quello spettacolo.
- Ah, i figli, che croce!
Dopo l'umile saletta, un modestissimo salotto: in mezzo a questo, un letto, messo sú alla meglio, tra la fretta e lo spavento.
I primi visitatori si spinsero a guardare, uno dietro l'altro, di su la soglia dell'uscio; ma non poterono vedere che le gambe del moribondo, intere fino al grosso volume paonazzo e villoso degli organi genitali; e si strinsero tra loro istintivamente dal ribrezzo che pur li attirava a guardare. Due infermieri avevano sollevato il lenzuolo da piedi, e lo reggevano alto in modo da impedir la vista del volto a chi guardasse dall'uscio.
- Ma che gli fanno? Perché? - domandò qualcuno.
Nessuno lo seppe dire. Unica risposta, di là dal lenzuolo levato, il rantolo del moribondo, che pareva si lagnasse cosí d'una crudele e sconcia violenza che stessero a fargli inutilmente, profittando che non si poteva piú muovere.
Intanto, altri visitatori sopraggiungevano.
Un medico, il piú vecchio dei tre che stavano attorno al letto, disse alla fine con voce imperiosa:
- Signori, troppi fiati qua dentro!
I visitatori si ritrassero a parlottare nell'attigua saletta, atteggiati in volto d'un cordoglio misto a una certa ambascia indefinita, guardinga.
I nuovi venuti domandavano ansiosamente notizie:
- Com'è stato? Quand'è stato?
E l'avvenimento uscí a poco a poco dal vago delle prime notizie, si precisò, forse allontanandosi dal vero. Alcuni particolari di nessuna importanza risaltarono e si dipinsero con tanta evidenza agli occhi di tutti, che ciascuno poi rifacendo il racconto, non poté piú fare a meno di riferirli con le medesime parole, allo stesso punto, con la medesima espressione e lo stesso gesto: il particolare, per esempio, del bicchier d'acqua chiesto dal Naldi alla serva del Cilento nel sentirsi venir male, e che poi non poté bere.
- Ah no?
- Non poté berlo!
- Io sono venuto,- diceva Guido Póntina, ricco proprietario e assessore del Comune, - mezz'ora appena dopo il colpo.
- Ma che fece, scusi? cadde proprio a terra? - domandò il piccolo De Petri, afflitto, malaticcio, felice in quel momento di poter rivolgere la parola a un personaggio di conto come il Póntina.
- Stramazzò. Ma io lo trovai già adagiato su quella poltrona, - rispose il Póntina, rivolgendosi però agli altri.
Si voltarono tutti a guatar quella poltrona che se ne stava lí in un angolo all'ombra, vecchia, stinta, pacifica.
- Ancora, - riprese il Póntina, - i sensi non li aveva perduti. - «Animo, Gaspare!» - gli dissi. - «Vedrai che non è nulla!» - Ma lui, che non poteva piú parlare, con la sinistra illesa si prese il braccio destro morto, cosí... e si mise a piangere.
- Il braccio soltanto... morto? - domandò un giovane biondo, molto pallido, intentissimo al racconto.
- E la gamba, si sa. Tutto il lato destro. Colpo a sinistra, paralisi a destra.
Questa cognizione medica il Póntina se la lasciò cadere dalle labbra con aria d'umile superiorità verso gli altri ascoltatori, come una cosa, oh Dio, naturalissima, ch'egli sapesse da tanto tempo: l'aveva appresa invece un momento prima dai medici, e ora se ne faceva bello con quegli ignari, allo stesso modo che dell'essere accorso tra i primi, dell'aver visto ancora sulla poltrona il Naldi, e del cenno che questi gli aveva fatto del suo braccio morto.
- Sí, era venuto questa mattina dalla campagna, - narrava in un altro crocchio vicino l'avvocato Filippo Deodati, alto, magro, diafano, fortemente miope. Parlando, in pensiero com'era sempre delle parole da usare e dell'efficacia dei gesti, intercalava a quando a quando pause sapienti, anche per dar tempo a chi l'ascoltava d'assaporare quel suo parlar dipinto. - Sapete, la sua deliziosa villa in Val Mazzara... Che aria! Sarà circa a tre chilometri da qui.
- Tre? dici quattro... no, piú! piú! - corresse uno degli ascoltatori, come se con quei «piú! piú» lo aizzasse a dir piú presto.
Ma il Deodati gli sorrise e seguitò placido:
- E abbondiamo: cinque? tanto peggio! Ora figuratevi: due ore, per lo meno, sotto questo sole d'agosto... nella calura asfissiante... per lo stradone... erto cosí... su un baroccino tirato da un'asina vecchia!
Uno, allora, esclamò, con gesto quasi di rabbia:
- Pazzie!
- E dicono, - aggiunse subito un altro, - che, entrato in paese, fu visto da un suo parente.
- No, che parente! - corresse un terzo, come se volesse mangiarselo. - Scardi, Nicolino Scardi, perdio! Me l'ha detto lui stesso.
- Io so un parente!
- Scardi, ti dico, perdio! me l'ha detto lui stesso. Lo vide che frustava alla disperata l'asinella. Voleva raggiungere, chi sa perché, la postale di Siculiana. - «Gaspare! Gaspare!» - gli gridò anzi Nicolino. - «E piano! cosí t'ammazzi!» - «Lasciami correre!» - gli rispose lui. - «Mi fa bene! Mi fa bene!».
- E correva alla morte! - sospirò guardando tutti a uno a uno, un ometto calvo, panciutello, che arrivava sí e no ad afferrarsi le manocce pelose dietro la schiena.
- Fece dunque, - riprese il Deodati, - la sua visita di condoglianza al buon Cilento, per cui era salito dalla campagna. Aveva già terminato la visita... stava per andarsene... quando qui appunto, in questa saletta qui, lí a quel posto... la serva del Cilento lo trattenne per raccomandargli, non so, un suo nipote falegname. Il povero Gaspare, col cuore che gli conosciamo tutti, prometteva ajuto... protezione... sapete come faceva lui... che si stropicciava sempre, parlando, la palma della mano qui sul fianco... Tutto a un tratto... che è?... si sente venir male... dice: - «Per favore, un bicchier d'acqua»... - La serva corre in cucina, torna col bicchiere, glielo porge... lui fa per recarsi il bicchiere alle labbra... non può... la mano, invece d'andare in sú, gli va in giú... cosí... cosí... tremando e versando l'acqua... il bicchiere gli cade di mano... i ginocchi gli si piegano... e stramazza...
- O-òh! guardate, - suggerí piano l'ometto calvo, accostandosi, con un dito della manoccia teso, - lí, guardate... i cocci del bicchiere... lí...
Tutti si voltarono a guatar costernati quei cocci nell'angolo, come dianzi quegli altri la poltrona. Ma giunse in quella dalla stanza del moribondo un puzzo intollerabile, che fece arricciare il naso a tutti.
- Buon segno! - esclamò qualcuno, avviandosi per recarsi in un'altra stanza. - Si scarica.
Parecchi confermarono:
- Buon segno, sí... buon segno!
E tutti, turandosi il naso, seguirono il primo.
Stavano in quell'altra camera i parenti del moribondo; il fratello Carlo, un nipote, un cognato e lo zio canonico, insieme con altri visitatori, tutti in silenzio.
Si rispondeva ai saluti, fatti a bassa voce, o con gli occhi o con un lieve cenno della mano o del capo. Carlo Naldi, come se i sopraggiunti fosser venuti a dirgli: - «Tuo fratello è guarito, cammina», - scattò in piedi per recarsi dal moribondo. Alcuni si provarono a trattenerlo.
- No, lasciatemi. Voglio vederlo!
E andò, seguito dal figlio.
Anch'essi, entrando, si turbarono al puzzo pestifero; ma si trattennero presso il letto e sorvegliarono gl'infermieri, perché il letto e il giacente fossero ripuliti a dovere. Poi fecero dare una spruzzata d'aceto alla camera.
Gaspare Naldi, di corporatura potente, sorretto il busto da una pila di guanciali, con una vescica di ghiaccio in capo, il volto paonazzo, aveva schiuso gli occhi insanguati e guardava un po' accigliato, quasi per uno sforzo di riconoscere colui che s'era chinato sul letto a spiarlo negli occhi.
- Gaspare! Gaspare! - chiamò il fratello, con la speranza, nella voce, che il colpito l'udisse.
Ma il morente seguitò a guardarlo ancora un pezzo, accigliato; poi contrasse, come in un sorriso, la sola guancia sinistra e aprí alquanto la bocca da questo lato; si provò a far piú volte spracche con la lingua inceppata, come se volesse inghiottire, ed emise un suono inarticolato, tra il gemito e il sospiro, richiudendo lentamente le palpebre.
- M'ha riconosciuto! - disse allora piano Carlo Naldi agl'infermieri seduti alle sponde del letto, quasi non credendo a se stesso. - Vuol parlare, e non può! M'ha riconosciuto!
Sopraffatto di nuovo dal coma, il moribondo si rimise subito dopo a rantolare.
- Dottore, ha visto? M'ha riconosciuto! - ripeté il Naldi al giovine medico Matteo Bax lasciato di guardia dagli altri tre medici curanti.
- Come no? Sissignore! - disse il Bax, sorgendo in piedi militarmente e sgranando gli occhi ceruli, vitrei, da matto.
- Stia, stia seduto.
- No, dovere, che c'entra? La conoscenza, nossignore, non l'ha ancora perduta. Ogni tanto, qualche lucido intervallo.
- C'è speranza, dunque?
- Il caso è grave; io parlo franco, sa? ma le speranze, nossignore, chi lo dice? non sono perdute. Ancora io non dispero ecco. Però è un caso d'embolía cerebrale, e...
- Ah, - fece, accostandosi con timida curiosità, in punta di piedi, il Deodati, venuto dall'altra stanza per assistere, nonostante il puzzo, alla scena commovente tra i due fratelli. - Non è colpo apoplettico?
- Embolia cerebrale, - ripeté a bassa voce il dottor Bax, come confidasse un gran segreto e spiegò brevemente la parola e il male.
Il Deodati uscí dal salotto e si recò a raggiungere gli amici nell'altra stanza.
- Speriamo che di qui a domattina si risolva, - continuò il Bax. - Vigoroso... un gigante. Eh, dovrà stentare la morte ad abbatterlo. Noi intanto non abbiamo nulla da fare... parlo franco io. Assecondiamo la natura: questo il nostro compito, ecco! Da un momento all'altro potrebbe determinarsi una crisi benefica.
S'accostò al letto e consultò il polso del giacente.
- I polsi si mantengono. Applicheremo piú tardi due carte senapate ai piedi. Me l'hanno lasciato detto i miei colleghi. Non mi prendo nessuna libertà, io.
Il Bax era all'inizio della carriera, e però costretto a codiare un po' l'uno, un po' l'altro dei medici piú accontati, tutti - s'intende - asini per lui. Mah! Riteneva una fortuna l'essere stato chiamato in quell'occasione, al letto d'uno in vista come il Naldi; gli conferiva una certa importanza e l'avrebbe rialzato nel concetto di tanta gente che affluiva d'ora in ora a visitar l'infermo, cui egli per ciò assisteva col massimo zelo. Nel vederlo cosí faccente attorno al letto, nessuno (egli credeva) avrebbe sospettato che gli altri medici curanti lo avessero chiamato unicamente perché lo sapevano resistentissimo al sonno.
- Sentite, eh? Ma se lo supponevo io! - diceva frattanto Filippo Deodati nell'altra stanza. - Ma che colpo apoplettico d'Egitto! Possibile, cosí, un colpo? È caso d'embolía. Un caso d'embolía cerebrale, bello e buono, di quelli genuini... tipico, via!
- Com'hai detto? - domandarono alcuni.
- Embolía? Che significa? - domandarono altri.
- Eh, dal greco... embolé... perdio, me ne ricordo ancora dal liceo. Quando la circolazione del sangue non si svolge piú regolarmente, perché il cuore, capite, è indebolito, che avviene? avviene che nel cuore si formano certi... grumi di sangue... grumi, grumi.... Qualche volta uno di questi grumi si stacca dal cuore, capite? e gira... Oh! Fino a tanto che incontra vasi capaci, questo grumo, naturalmente, passa; ma quando poi arriva al cervello dove i vasi sono piú fini d'un capello... eh, allora... embolé: interponimento... - mi spiego? - avviene l'arresto e il colpo.
Gli ascoltatori si guardarono l'un l'altro negli occhi senza fiatare, come colpiti tutti dall'oscura minaccia di quel male. Un piccolo grumo! Si stacca... gira... e poi... embolé, interponimento... Da che dipende la vita d'un uomo! Può accadere a tutti un caso simile.
E ciascuno pensò di nuovo a sé, alle condizioni della sua salute, guardando con crudeltà quelli tra gli astanti che si sapevano di salute cagionevole. Uno tra questi, dalle spalle in capo, quasi senza collo, sempre acceso in volto, piú miope del Deodati, sospirò agitando sotto gli sguardi dei radunati piú volte di seguito le palpebre dietro le lenti che gli rimpicciolivano gli occhi.
- Intanto, - seguitò il Deodati, - se l'arresto non si risolve prima delle ventiquattr'ore, la parte cerebrale non nudrita degenera, capite? e avviene il rammollimento.
- Povero Gaspare! - esclamò con angoscia intensa, esasperata, l'uomo miope senza collo.
E l'ometto calvo, panciutello, osservò, facendo rincorrere i pollici delle manocce pelose, che lí, sul ventre, poteva facilmente intrecciarsele.
- Che processo crudele di causa e d'effetti! Il bimbo morto del Cilento si chiama dietro un uomo qua, padre di sei altri bambini.
L'osservazione piacque, e tutti i presenti scossero malinconicamente il capo.
- Sei? Dica sette! - corresse uno. - La povera moglie è incinta di nuovo.
Poi si guardò attorno e domandò:
- Non si potrebbe avere un bicchier d'acqua? Che sete!
- Pensare, - sospirò Guido Póntina, - che a quest'ora sarebbe laggiú in campagna, tra la sua famiglia, in mezzo ai suoi contadini, come tutti gli altri giorni. Maledetto il momento che gli venne in mente di salire in paese quest'oggi! Perché, sentite: è vero purtroppo e non si nega ch'era continuamente sotto la minaccia di... di questo grumo che dice Deodati; ma probabilmente, probabilissimamente, senza la causa determinante di queste due ore di sole, tra le scosse e gli sbalzi del baroccino...
- Eh, ma se voi del municipio, - lo interruppe il Deodati a questo punto, - non ci volete pensare a riparar lo stradone!
- Come no? - rispose vivamente il Póntina. - Ci s'è pensato!
- Sí! Avete fatto scaricare i mucchi del brecciale, per dar modo ai ragazzi di fare alle sassate. Chi li stende? Debbono stendersi da sé?
- Basta, certamente, - interloquí per metter pace l'ometto calvo, - il povero Naldi avrebbe potuto vivere due, tre, cinque, magari dieci anni ancora!
- Si sa! Certo! È cosí! - approvarono a bassa voce alcuni.
- Contraddizioni inesplicabili! - esclamò il Deodati. - Ma già... è inutile! La fatalità. Si ha un bel guardarsi di tutto e aver cura timorosa e meticolosa della propria salute: arriva il giorno destinato, e addio.
L'uomo miope, senza collo, a questa osservazione si alzò; sbuffò forte, approvando col capo; non ne poteva piú; e andò ad affacciarsi al balcone. Gli pareva che tutti, parlando del Naldi, leggessero la condanna a lui. Eppure non se ne andava; restava lí, come se qualcuno ve lo costringesse.
Altri del crocchio si opposero all'osservazione del Deodati, e allora venne fuori, intercalata d'aneddoti personali, la vita del Naldi in quegli ultimi anni, da che egli cioè, guarito miracolosamente d'una polmonite, s'era ritirato in campagna con la famiglia, per consiglio dei medici, i quali gli avevano assolutamente proibito d'attendere agli affari. Per qualche tempo il Naldi, sí, aveva seguito la prescrizione, vivendo come un patriarca in mezzo alla numerosa famiglia e ai contadini, curando scrupolosamente la salute. S'era finanche provvisto d'una piccola farmacia e d'una bibliotechina medica, con l'ajuto delle quali s'era dilettato di tanto in tanto, a un bisogno, a far da medico alla moglie, ai figliuoli, ai contadini suoi dipendenti, là a Val Mazzara.
- Che aria!
- E la villa, l'avete veduta? con quel magnifico pergolato.
- Era il suo orgoglio, quel pergolato!
- Dovette pagarla cara, quella terra, no?
- Ma no, che cara! Gliela vendette il Lopez, affogato, prima di fallire. È che lui poi ci ha speso tanto.
- Gran lavoratore!
In quest'ultimo anno, difatti, contento della recuperata salute, aveva ripreso a lavorare, a cavalcare per mezze giornate per recarsi alle zolfare di sua proprietà; e a chi lo richiamava ai consigli dei medici, mostrava sotto la camicia una pelle di coniglio sul petto.
- E ne tengo un'altra dietro, a guardia delle spalle, - diceva. - Appena sudo, mi cambio. Ohè, sei figliuoli ho; non posso star mica dentro uno scaffale!
Con quella pelle di coniglio addosso si sentiva ormai invulnerabile, come se si fosse munito d'una corazza contro la morte, e questa superstiziosa fiducia lo rendeva imprudente e quasi felice.
- E intanto, in un attimo - concluse l'ometto calvo. - Chi sa a quanti contadini avrà lasciato detto stamane, prima di partire: «Per far questo o quest'altro, aspettate il mio ritorno».
Il Póntina approvò col capo, soddisfatto che si fosse tratta tanta materia di discorso da un'idea manifestata prima da lui.
Due o tre consultarono l'orologio. Era l'ora della cena pei piú; ma nessuno avrebbe voluto andar via. La catastrofe poteva essere imminente.
Entrò nella stanza, un momento, il dottor Bax, e tutti si voltarono a guardarlo. Il piccolo De Petri, atteggiato di mestizia, gli domandò:
- A che siamo?
Il Bax aprí le braccia in risposta, chiudendo gli occhi e traendo un gran sospiro.
- Ma c'è tempo?
- Signor mio, non si può dire!
- Sú per giú...
- Nulla, nulla, - rispose il giovane medico, infastidito. - Da un momento all'altro può sopravvenire la paralisi cardiaca. Se non sopravviene, ne avremo a lungo.
«Non chiamerei questo medico, neppure in punto di morte!» disse tra sé il De Petri stizzito.
Alcuni si mossero per andar via: non potevano farne a meno: erano attesi in casa per la cena. Ma, prima d'andarsene, vollero rivedere il moribondo, ed entrarono nel salotto, col cappello in mano, in punta di piedi. Contemplarono un pezzo in silenzio il giacente, a cui il nipote introduceva tra le labbra, cautamente un cucchiajo a metà pieno d'una mistura rosea. Il moribondo continuava a rantolar sordamente, facendo gorgogliar la mistura nella gola, come se si divertisse a fare un gargarismo. Ritornarono poco dopo, per la visita serale, i tre medici curanti. A uno a uno, appena arrivati, consultarono a lungo i polsi del colpito, prima il destro, poi il sinistro, tra il silenzio sgomento degli astanti che spiavano ogni loro movimento, come in attesa d'un responso fatale, inappellabile. Il giovane dottor Bax riferiva in breve a bassa voce ai tre colleghi, che dimostravano di non prestargli ascolto, lo stato dell'infermo durante la loro assenza.
- Zitto, collega: va bene! - disse, seccato, il piú vecchio dei tre, e tirò giú il lenzuolo per osservare il petto e il ventre del moribondo agitati continuamente, per lo stento della respirazione, da conati quasi serpentini. Quella vista angosciò cosí gli astanti che molti distrassero lo sguardo da quel ventre illuminato da una candela sorretta da un infermiere. Un altro dei medici, magro, rigido, impassibile, posò le dita nodose sull'attaccatura del collo, a sinistra, ove lenta e forte pulsava visibilmente l'arteria poi tutta la mano, sul cuore. Il terzo si mise a solleticar con un dito la pianta del piede destro, paralitico, per accertarsi se non vi permanesse ancora un ultimo resto di sensibilità.
Il medico magro rigido disse a uno degli infermieri:
- Avvicinate la candela.
E con due dita sollevò la palpebra dell'occhio destro già spento.
Poi, tutti e tre, seguiti dal giovane dottor Bax, si recarono al balcone, e vi sedettero al fresco a confabulare. Dopo alcuni minuti uno d'essi s'alzò e, accostandosi alla mensola, trasse dall'astuccio una siringhetta, la pulí, la provò due volte facendone sprillare un po' d'acqua; poi la riempí di caffeina e s'appressò al letto.
- La candela!
- Dottore, dottore, perché prolungar cosí lo strazio di questa agonia? - gemette affannosamente lo zio canonico, impallidito alla vista dello strumento.
- È nostro dovere, reverendo, - rispose asciutto asciutto il medico, scoprendo la gamba del giacente.
- Ma lasciamo fare a Dio... - insisté con voce piagnucolosa il canonico.
Il medico, senza dargli retta, cacciò l'ago nella gamba insensibile; e l'altro chiuse gli occhi per non vedere.
Poco dopo, lasciate al Bax alcune prescrizioni per la notte, i tre medici andarono via, seguiti da quasi tutti i visitatori.
Rimasero nel salotto i due infermieri e il canonico.
Ardeva sulla mensola una candela, la cui fiamma era continuamente agitata dalla brezza serale che entrava dal balcone.
Il volto del moribondo, al debole lume tremolante, pareva annerito sui bianchi guanciali. I peli dei baffi rossicci sembravano appiccicati sul labbro, come quelli d'una maschera. Sotto i baffi, dalla bocca aperta, un po' storta a destra, il rantolo usciva angoscioso e, sotto il lenzuolo, era palese l'orrenda fatica del ventre e del petto per la respirazione.
I due infermieri sedevano in ombra, silenziosi, alla sponda del letto: uno suzzava con un bioccolo di bambagia dalle gote del giacente l'acqua che sgocciolava dalla vescica di ghiaccio; l'altro reggeva su le ginocchia un cuscino, sul quale il moribondo allungava, per ritrarla subito dopo irrequietamente, la gamba illesa.
Su un quadricello presso la mensola sorgeva un uccellaccio imbalsamato, dal collo e dalle zampe esili e lunghissime, il quale pareva guardasse spaventato, con gli occhi di vetro, gli attori muti di quella lugubre scena.
A piè del letto, il canonico, curvo, le braccia appoggiate sulle gambe, le mani intrecciate, pregava con gli occhi chiusi, e sotto le palpebre, a tratti, si vedeva quasi fervere la muta preghiera.
Il trapunto della leggera cortina del balcone si disegnava lieve sulla blanda e chiara suffusione del chiarore lunare: alito di deliziosa frescura.
Il dottor Bax rientrò nel salotto, e notò subito che lo stento della respirazione cresceva di momento in momento. Già il volto del Naldi aveva assunto il caratteristico aspetto cianotico: la bocca aperta sprofondava, e tra le ciglia appena schiuse e alle narici un che di muffito o di fuligginoso.
- Tenete sempre la vescica un po' a manca, cosí, - disse a bassa voce agli infermieri.
Questi lo guardarono, come per domandargli se dicesse sul serio. Un piacere e nient'altro poteva essere, stare a guardare il moribondo con quella specie di berretto, a tocco di giudice, anziché dritto, sulle ventitré. Ma già - si capiva - tanto per dire qualche cosa...
E infatti il dottor Bax, sapendo bene che non c'era piú altro da fare, si recò al balcone. Di lí, appoggiato alla ringhierina di ferro, contemplò a lungo l'ampia vallata che sotto il colle su cui sorge la città s'allarga degradando fino al mare laggiú in fondo rischiarato quella sera dalla luna. Compreso dal mistero della morte, contemplò in alto gli astri impalliditi dal chiaror lunare. Ma nessuna relazione, veramente, agli occhi suoi tra quel cielo e quell'anima che agonizzava crudelmente dentro la stanza. Favole! Il Naldi sarebbe finito tutto laggiú... E cercò con gli occhi, in un punto noto della vallata, la macchia fosca dei cipressi del camposanto. Laggiú... laggiú... tutto e per sempre. E, nella sincerità ancora illusa della sua giovinezza, immaginò, attraverso gli stenti superati per procacciarsi quella professione di medico il suo compito in mezzo agli uomini: alleviare le sofferenze, allontanare la morte, l'orrenda fine, laggiú.
Fu scosso, a un tratto, da un borbottío sommesso dentro la stanza. Un prete nottante, dall'abito frusto, leggeva con un pajo di rozzi occhiali sul naso, curvo sul moribondo, in un vecchio e unto libricciuolo, intercalando frequentemente nella lettura ora un Pater ora un'Ave, che i due infermieri e il canonico ripetevano a bassa voce. Terminata la preghiera, il prete, dagli occhi impassibili, s'infrociò una grossa presa di tabacco. Era stato chiamato per la notte come «ricordante» al capezzale del moribondo. Notava con soddisfazione che aveva ben poco da fare, poiché questo non era piú in sensi. Di tanto in tanto una preghiera per accompagnare il trapasso, e sufficit. Si scosse con una mano un po' di tabacco dal petto, poi si rassettò la tonaca sulle gambe, poi si guardò le unghie e soffiò per il caldo.
- Caldo... ah, caldo...
- Non si respira, - disse uno degli infermieri.
Il dottor Bax rientrò dal balcone; guardò accigliato il prete che rispose allo sguardo con un sorriso triste e vano, e uscí dal salotto. Attraversando la sala d'ingresso, scorse nella parete a sinistra un uscio, a cui finora non aveva badato. L'uscio era socchiuso. Intravide una camera illuminata debolmente, in cui erano raccolte alcune donne in silenzio. Ne usciva in quel momento Carlo Naldi con in mano una tazza di brodo.
- Dottore, venga, - disse il Naldi. - Provi lei a farle prendere questo po' di brodo.
- Io? a chi? - domandò, confuso, il Bax.
- A mia cognata.
- Ah, la moglie: è di là?
- Sí, venga.
Il Bax s'era sentito sempre a disagio in presenza delle donne; tuttavia, costretto, entrò premuroso:
- Dov'è? dov'è?
La moglie del moribondo sedeva su un seggiolone, con un gomito appoggiato sul bracciuolo e la faccia nascosta in un fazzoletto. Al richiamo insistente del dottore, mostrò il volto lungo, cereo, smunto. Pareva movesse con pena le palpebre: non aveva piú forza neanche di piangere. Gli occhi le andarono all'uscio della camera rimasto aperto, e subito immaginò che il marito fosse morto e che già se lo fossero portato via, in chiesa. Rassicurata, si lasciò piegare dalla voce estranea del medico a mandar giú qualche sorso di brodo, ma subito reclinò il volto sul fazzoletto, come se stesse per rigettarlo, e allungò l'altra mano per allontanare la tazza. Nondimeno, il dottor Bax uscí dalla camera molto soddisfatto di sé, quasi convulso, e appena nella saletta d'ingresso si fermò perplesso, un tratto, a grattarsi la fronte, come per rendersi conto di quella sua soddisfazione, di cui non vedeva bene il perché.
A sera inoltrata si riunirono di nuovo nell'altra stanza quasi tutti i visitatori del giorno. Alcuni, tra i celibi, si proponevano di rimaner l'intera notte colà, dato che il Naldi non fosse morto prima di giorno; gli altri si sarebbero trattenuti fino al piú tardi possibile: e chi sa, forse avrebbero assistito anche loro alla morte, che pareva dovesse avvenire da un momento all'altro. Del resto, fuori, in città, non si sarebbe trovato modo di passar la serata.
All'avvocato Filippo Deodati avvenne di poter rifare il racconto della visita del Naldi al Cilento, col particolare saliente del bicchier d'acqua, a un nuovo visitatore, il quale, arrivato la sera stessa da un paese vicino, era accorso alla notizia cosí come si trovava, con gli stivaloni, il fucile appeso alla spalla e la cartuccera al ventre. Costui non sapeva ancora accordarsi bene al contegno degli altri, parlava un po' troppo forte, mostrava ancor troppo viva la sorpresa, l'afflizione, l'ansia di sapere, in mezzo agli altri che si tenevano silenziosi e circospetti, rispondendo alle sue domande o con un moto degli occhi o con un sospiro.
Appena entrato nel salotto, alla vista del moribondo, il nuovo visitatore s'era impuntato per istintivo orrore; poi, pian piano, s'era accostato al letto, osservando paurosamente il Naldi.
- Perché fa cosí? - domandò a un infermiere.
Il moribondo, sempre piú angosciato, agitava senza requie la mano sinistra illesa; riusciva talvolta a sollevare e a trarsi giú dal petto il lembo rimboccato del lenzuolo; tal'altra, non riuscendovi, levava il braccio a vuoto, con l'indice e il pollice della mano convulsa congiunti, quasi in atto di spaventosa minaccia.
Il nuovo visitatore n'era rimasto atterrito.
- Perché fa cosí? - domandò di nuovo.
- Vuol togliersi la vescica dal capo, - rispose l'infermiere.
- Ma che! Non gli dar retta! - interloquí Filippo Deodati. - Movimenti riflessi.
- Se l'è già tolta due volte! - insisté l'infermiere.
Il Deodati lo guardò con aria di commiserazione.
- E che importa? Movimenti riflessi. Non sa piú quel che si faccia. Ha già perduto i centri frenici; è evidente. A prestare un po' d'attenzione ci s'accorge che fa tre movimenti soli, costantemente gli stessi.
E pareva, nel dar questi schiarimenti, assaporasse uno di quei piaceri che avvengono proprio di rado, almeno dal modo con cui accarezzava con la voce quei termini di scienza: «movimenti riflessi», «centri frenici».
Entrò, in quella, a tempesta, il piccolo De Petri, annunziando:
- Il deputato! Il deputato! L'onorevole Delfante!
E corse nell'altra stanza a ripetere l'annunzio:
- L'onorevole Delfante. L'ho visto io dalla finestra.
Carlo Naldi posò il sigaro e accorse nella saletta, seguito da molti altri, per accogliere il deputato:
- Dov'è? dov'è?
L'onorevole Delfante era già entrato nel salotto coi due che l'accompagnavano, il consigliere delegato della Prefettura e il funzionante sindaco. Al suo arrivo i due infermieri sorsero in piedi, a capo scoperto, come davanti a un re, e anche il prete s'alzò e si trasse indietro.
La vista del moribondo, al debole lume tremolante della candela, era divenuta insostenibile: quel corpo gigantesco, a cui la morte teneva adunghiato il cervello, si contorceva orribilmente nella lotta incosciente, tremenda, delle ultime forze - e respirava ancora!
Non di meno, l'onorevole Delfante, con le ciglia aggrottate, le mani dietro la schiena, sostenne a lungo lo strazio di quello spettacolo. Strinse forte la mano a Carlo Naldi, senza dir nulla, e si volse di nuovo a contemplare il giacente, ch'era stato suo amico d'infanzia e compagno di scuola. Tra le mille seccature le ansie, le smanie dell'ambizione, ecco l'immagine di un'improvvisa morte! - E scosse amaramente il capo, con gli angoli della bocca contratti in giú.
- Che siamo! - mormorò, e uscí, a capo chino, dalla camera del moribondo, per recarsi nell'altra stanza, seguito da quasi tutti i presenti a quella scena.
Eran tutti inorgogliti di quella degnazione dell'onorevole deputato, e beati della fortuna d'averlo lí con loro. Gli fu porto da sedere nel balcone, al fresco, e molti gli si strinsero attorno, in silenzio. Quindi, prima uno, poi un altro, gli rivolsero qualche domanda a bassa voce, alla quale egli non seppe tenersi dal rispondere. Poco dopo la conversazione navigava per l'agitato mare della politica, dietro la sconquassata nave ministeriale, di cui il Delfante era fedele pòmpilo seguace, non per convinzione, ma per misero tornaconto.
Il fratello del moribondo si teneva discosto, seduto su una poltroncina: gli faceva male un dente, e fumava per stordire il dolore. Alcuni, vedendolo fumare, pensaron d'accendere il sigaro anche loro.
Soltanto il piccolo De Petri era in gran pensiero. Si doveva sí o no ordinare la cassa da morto? Nessuno ci pensava, e intanto... Dove diavolo s'era cacciato quello sciocco presuntuoso del dottor Bax? E gli abiti per l'ultima vestizione? Al povero Naldi toccava anche di morire fuori della propria casa! Bisognava mandar qualcuno a cercare questi abiti. E un altro pensiero ancora: gli annunzi funebri, a stampa.
- Se non ci si pensa prima a queste cose... - diceva piano a tutti il piccolo De Petri.
S'era portato con sé il registro degli elettori del Comune, e sul tavolinetto, insieme col giovine biondo molto pallido, passava in rassegna e segnava col lapis il nome di coloro a cui si doveva inviare la partecipazione di morte del Naldi. In quella cernita la sua lingua maledica trovò quasi la pietra da affilarsi. E, di tanto in tanto, a qualche nome, diceva:
- No, a questo cornuto, no!
E, a qualche altro:
- No, a questo ladro, neppure!
L'onorevole Delfante sciolse finalmente la seduta; rientrò nella stanza e strinse di nuovo la mano a Carlo Naldi:
- Coraggio, fratello mio!
Prima d'andarsene, volle rivedere il moribondo. E al dottor Bax che gli stava accanto, domandò:
- Se domani tornassi, lo troverei?
- Agonia lunga, - rispose il Bax. - Ma fino a domani forse no!
- Speriamo! - sospirò l'onorevole Delfante. - Ormai la morte è cessazione di pena.
E andò via, tirandosi dietro gran parte dei visitatori.
Dopo la mezzanotte, eran soltanto in sei, oltre i parenti, il prete e il dottor Bax.
I parenti s'erano riuniti nell'altra stanza, attorno alla moglie del moribondo. Nella stanza di questo i due infermieri accanto al letto dormicchiavano, e il prete, per non imitarli infornava tabacco: aveva posato sul guanciale allato alla testa del giacente un piccolo crocifisso, sicuro che questo al morente, per la notte, poteva bastare.
Gli altri, nell'altra stanza, presso il balcone, comodamente sdrajati, conversavano fra loro fumando.
Una disputa s'era accesa tra il Bax e l'avvocato Filippo Deodati intorno ad alcuni strani fenomeni spiritici esperimentati in quei giorni da un cultore fanatico di questa nuova sollecitudine intellettuale - come l'avvocato Deodati la definiva.
- Ciarlatanerie! - esclamò a un certo punto il Bax.
- Naturalissimo che tu dica cosí! - rispose con un sorrisetto il Deodati. - Anch'io, per altro, son quasi della tua opinione. Tuttavia penso, chi sa! è presunzione certo ritenere che l'uomo, con questi suoi cinque limitatissimi sensi e la povera intelligenza che gliene risulta... possa... dico, possa percepire... e concepire tutta quanta la natura. Chi sa quant'altre sue leggi, quant'altre sue forze e vie ci restano ignote. E chi sa se veramente... dico non si riesca a stabilire... quasi un sesto senso... mediante il quale non si rivelino a noi... senza tuttavia riflettersi su la nostra coscienza (e perciò, badate, paurosamente) fenomeni inaccessibili nello stato normale.
- Già! - fece il Bax. - I tavolini giranti e parlanti. Sesto senso? Autosuggestione, caro mio!
- Eppure! - sospirò il Deodati, che guardava ancora in giro gli amici per coglier l'effetto delle sue prime parole. - Eppure... ecco: io vorrei spiegarmi il perché di certe nostre paure... sí, dico... la paura, per esempio, che ci fanno i morti. Andresti tu, poniamo, domani o quando che sarà, a dormir solo, di notte, accanto alla cassa mortuaria del nostro povero Naldi, dentro la cattedrale, dove fosse soltanto un lampadino acceso, pendente dall'altissima volta, tra le grandi ombre, oppresso dalla poderosa solenne vacuità di quell'interno sacro? Oh Dio, il silenzio, immagina! e un topo che roda il legno d'un confessionale o d'una panca... giú, in fondo, sotto la cantoria.
- Dei morti, - disse con calma il Bax, - ho avuto paura anch'io che a buon conto, ohè, medico sono e di morti n'ho visti, come potete figurarvi!
- E tagliati.
- Anche. Veramente allora ero studente. Tu sai che mi son sempre levato all'ora dei galli. Basta, - «Matteo» - mi avevano detto la sera avanti alcuni miei colleghi, - «tu che sei mattiniero, domattina di buon'ora va' ad accaparrarti con Bartolo alla Sala Anatomica un buon pezzo da studiare: testa e busto». Bartolo era il bidello della Sala. Che tipo, se l'aveste conosciuto! Parlava coi cadaveri; nettava a perfezione i teschi e se li vendeva cinque lire l'uno. Cinque lire, una testa d'uomo! È vero che, molte, vanno anche assai meno. Basta. State a sentire, che vi racconterò come un morto mi spense la candela.
- La candela?
- La candela, sí. Accettai l'incarico dei miei compagni; e il giorno appresso, poco dopo le quattro, mi recai alla Sala. Il cancello, davanti al giardino che circonda il basso edificio, era aperto, o meglio, accostato: segno che i becchini avevano già portato il carico alla Sala. Bartolo si vestiva nella stanzetta a sinistra dell'androne, la quale ha una finestra prospiciente il giardino. Io vidi, entrando, il lume attraverso le stecche della persiana. Contemporaneamente, Bartolo udí lo scalpiccío dei miei passi sulla ghaja del vialetto. «Chi è là?» «Io, Bax.» «Ah, entri pure!» «Abbiamo di già?» «Abbiamo, sissignore. Ma la sala è al bujo. Abbia pazienza un momentino: son bell'e vestito.» «Fa' pure con comodo. Ho con me la candela.» Entrai. Non ero mai entrato solo, a quell'ora, nella Sala. Paura no, ma vi assicuro che una certa inquietudine nervosa me la sentivo addosso, attraversando quelle stanze in fila, silenziose, rintronanti, prima di giungere alla sala in fondo. Guardavo fiso la fiamma della mia candela, che riparavo con una mano per non veder l'ombra del mio corpo fuggente lungo le pareti e sul pavimento. I becchini avevano lasciato aperto l'uscio. Sei casse erano posate su le lastre di marmo dei tavolini. I cadaveri giungevano a noi dalle chiese, ancor vestiti, e tante volte anche coi fiori dentro. Un mio compagno, tra parentesi, non si faceva scrupolo di mettersi qualcuno di quei fiori all'occhiello o di comporne qualche mazzolino che poi regalava apposta alle belle donnine: - «Amore e morte!» - diceva lui. Basta. Reggevo con una mano la candela; con l'altra scoperchiavo cautamente le casse e guardavo dentro. Chi arriva prima, si sceglie il meglio. Io cercavo un bel collo, un buon torace. Apro la prima cassa. Un vecchio. Apro la seconda. Una vecchia. Apro la terza. Un vecchio. Mannaggia! Faccio per sollevare il coperchio della quarta e - ffff! - un soffio, che mi spegne la candela. Getto un grido, lascio il coperchio; la candela mi cade di mano. «Bartolo! Bartolo!» grido, atterrito, nel bujo. Bartolo accorre col lume e mi trova... pensateci voi! i capelli irti sulla fronte, gli occhi fuori del capo. «Ch'è stato?» «Ah, Bartolo! Apri quella cassa!» Bartolo apre, guarda dentro, poi guarda me: «Ebbene?» mi fa. «Una bella ragazza.» Prendo animo e guardo dietro le sue spalle. «È morta?» Bartolo si mette a ridere. «No, viva...» «Non scherzare! M'ha spento la candela!» «Che ha fatto? Le ha spento la candela? Vuol dire che non voleva esser veduta da un giovanotto cosí coricata. Eh, poverina, di' un po', è vero?» E, cosí dicendo, agitò piú volte una mano cerea del cadavere. Bisognava sentire le sue risate, perché prima le diceva, e poi ci rideva sopra: le sue risate, là, tra tutte quelle casse, mentre l'alba cominciava a stenebrare appena, scialba, umidiccia, l'ampia Sala, a cui tutti i disinfettanti non riescono a togliere quell'orrendo tanfo di mucido.
- Ma quel soffio? - domandarono due o tre a questo punto, costernati.
- Gas! - rispose Bax con un gesto di noncuranza, e rise allegramente.
Uno degli infermieri, con gli occhi rossi dal sonno interrotto, venne cempennante ad annunziare che il moribondo era gelato dai piedi al petto e bagnato di sudor freddo.
- Ma respira ancora?
- Sissignore, ma venga a vedere però: pare strozzato. Credo che ci siamo.
Il prete e l'altro infermiere, svegliati anch'essi di soprassalto, s'erano buttati in ginocchio e avevano subito attaccato con la lingua ancora imbrogliata la litania.
Entrò il Bax con gli amici rimasti a vegliare; alcuni s'inginocchiarono; il Deodati rimase in piedi col Bax, che s'accostò al moribondo per toccargli la fronte, se era gelata. Il piccolo De Petri restò nell'altra stanza, intento ancora a scegliere i nomi dal registro degli elettori.
- Sancta Dei Genitrix,
- Ora pro nobis.
- Sancta Virgo Virginum,
- Ora pro nobis.
Tranne il prete, tutti tenevano gli occhi fissi al moribondo. Ecco come si muore! Domani, entro una cassa, e poi sotterra, per sempre! Per il Naldi era finita; e cosí sarebbe stato per tutti: su quel letto, un giorno, ciascuno - gelido, immobile - e intorno, la preghiera dei fedeli, il pianto dei parenti.
Dopo la fronte il dottor Bax venne a toccare i piedi del moribondo, poi le gambe, le cosce, il ventre, per sentire dov'era già arrivato il gelo della morte. Ma il Naldi respirava, respirava ancora: pareva singhiozzasse, cosí il rantolo gli scoteva la testa.
Nel silenzio della casa scoppiarono pianti. L'uscio su la saletta fu aperto di furia. Entrò nel salotto il fratello Carlo, a cui la commozione agitava convulsamente il mento e le palpebre. Subito il Bax accorse per trattenerlo sulla soglia.
- Mi lasci, mi lasci, - disse Carlo Naldi, ma, in quella, un empito di pianto gli scoppiò di sotto il fazzoletto; e allora si ritrasse da sé per non interrompere la preghiera.
Poco dopo, il giacente fu scosso una, due, tre volte, a brevi intervalli, da un conato rapido, serpentino; il rantolo si cangiò in ringhio e l'ultimo fu strozzato a mezzo dalla morte.
Gli astanti, che avevano seguito atterriti quell'estrema convulsione, fissavano ora immobili il cadavere.
- Finito, - fece a bassa voce il dottor Bax.
Il volto del Naldi si mutò rapidamente: da paonazzo diventò prima terreo, poi pallido.
Il piccolo De Petri accorse:
- Prima vestirlo! - disse agli infermieri. - Poi si farà vedere ai parenti. Prima vestirlo! Gli abiti? Sono di là. Aspettate. Ci ho pensato io.
- Senza fretta! senza fretta! - ammoní il dottor Bax. - Lasciate prima rassettare il cadavere.
- Intanto, come si fa? - riprese il De Petri. - Il signor Carlo vuole assolutamente che si facciano venire i figli del povero Gaspare, almeno i due maggiori, dice, perché vedano il padre.
- Ma no, perché? - osservò il Deodati, tutto compunto. - Perché, poveri ragazzi?
- È la volontà dello zio. Io, per me, non lo farei! Ma insomma, chi va? chi corre?
- Bisognerà svegliarli a quest'ora, poveri piccini! Non sanno nulla, - seguitò afflittissimo il Deodati. - Condurli qua, a un simile spettacolo! Con che cuore? Io non capisco. M'opporrei!
- Vado io, - s'offerse uno degli infermieri.
Già rompeva l'alba, e la prima luce entrava squallida dal balcone spalancato a rischiarar torbidamente quella camera, in cui per uno perdurava la notte senza fine.
I due fanciulli, il maggiore di dodici anni, l'altro di dieci, arrivarono quando il padre era già vestito e impalato sul letto. Pallidi ancora di sonno, i due poveri piccini guardavano il padre con occhi sbarrati dal pauroso stupore, e non piangevano; si misero a piangere quando la madre irruppe e si buttò sul cadavere, disperatamente, senza gridare, vibrando tutta dal pianto soffocato con violenza, là, sull'ampio petto esanime del marito.
Il prete s'accostò afflitto per persuaderla a lasciare il cadavere.
- Via, via, signora, coraggio! Per i suoi bambini, coraggio!
Ma ella si teneva avvinghiata a quel petto.
- La volontà di Dio, signora! - aggiunse il prete.
- No, Dio no! - gridò Carlo Naldi, stringendo un braccio al prete. - Dio non può voler questo! Lasci star Dio!
Il prete volse gli occhi al cielo e sospirò; mentre la vedova, a quelle parole, si mise a piangere forte insieme ai figliuoli.
- C'è di buono, - faceva intanto notare il piccolo De Petri al Deodati, - che non restano male, quanto a... È sempre qualche cosa, nella tremenda sventura.
- Certo, certo. Intanto, scappiamo! - gli rispose il Deodati. - Casco dal sonno. Me la svigno zitto zitto.
- Te felice! - sospirò il De Petri. - Io non posso. Sono di casa.
- Levami una curiosità, ora che ci penso: il Cilento non s'è visto, dov'è? dove s'è cacciato?
- È alloggiato con la famiglia in una casa qua, del vicinato. Poveraccio, ha il suo dolore, per la morte del figliuolo; non gli è bastato l'animo d'assistere anche a quello degli altri.
Il Deodati, poco dopo, se la svignò insieme con gli altri rimasti a vegliare. Cammin facendo, s'imbatterono in parecchi amici, tra i piú mattinieri, che si recavano in casa del Cilento.
- Finito! Finito! - annunziarono.
- Ah sí? Morto? Quando? - domandarono quelli, delusi.
- Adesso, poco fa.
- Perbacco! Se venivamo un po' prima... Voi l'avete veduto? Com'è morto?
- Ah, terribile, miei cari! - rispose il Deodati. - S'è contorto, scrollato tre volte, come un serpe. Poi s'è cangiato subito in volto; è diventato terreo, poi come di cera. Andate, andate: ci sarà da fare. I parenti son rimasti soli. Noi caschiamo dal sonno: abbiamo vegliato tutta la notte. Andate, andate.
Quei mattinieri fecero le viste d'andare. Ma arrivati a un certo punto, si confessarono a vicenda di non aver cuore d'assistere allo strazio della vedova e degli altri parenti. Qualcuno manifestò il timore di riuscire importuno; altri, l'inutilità della loro presenza.
Cosí nessuno andò.
Alcuni ritornarono a casa per rimettersi a dormire; altri vollero trar profitto dall'essersi levati cosí per tempo, facendosi una bella passeggiata per il viale all'uscita del paese, prima che il sole s'infocasse.
- Ah, come si respira bene di mattina! Valgono piú per la salute due passi fatti cosí di buon'ora, che camminare poi tutto il giorno in preda alle brighe quotidiane.
I PENSIONATI DELLA MEMORIA
Bella fortuna, la vostra! Accompagnare i morti al camposanto e ritornarvene a casa, magari con una gran tristezza nell'anima e un gran vuoto nel cuore, se il morto vi era caro; e se no, con la soddisfazione d'aver compiuto un dovere increscioso e desiderosi di dissipare, rientrando nelle cure e nel tramenío della vita, la costernazione e l'ambascia che il pensiero e lo spettacolo della morte incutono sempre. Tutti, a ogni modo, con un senso di sollievo, perché, anche per i parenti piú intimi, il morto - diciamo la verità - con quella gelida immobile durezza impassibilmente opposta a tutte le cure che ce ne diamo, a tutto il pianto che gli facciamo attorno, è un orribile ingombro, di cui lo stesso cordoglio - per quanto accenni e tenti di volersene ancora disperatamente gravare - anela in fondo in fondo a liberarsi.
E ve ne liberate, voi, almeno di quest'orribile ingombro materiale, andando a lasciare i vostri morti al camposanto. Sarà una pena, sarà un fastidio; ma poi vedete sciogliersi il mortorio; calare il feretro nella fossa; là, e addio. Finito.
Vi sembra poca fortuna?
A me, tutti i morti che accompagno al camposanto, mi ritornano indietro.
Fanno finta d'esser morti, dentro la cassa. O forse veramente sono morti per sé. Ma non per me, vi prego di credere! Quando tutto per voi è finito, per me non è finito niente. Se ne rivengono meco, tutti, a casa mia. Ho la casa piena. Voi credete di morti? Ma che morti! Sono tutti vivi. Vivi, come me, come voi; piú di prima.
Soltanto - questo sí - sono disillusi.
Perché - riflettete bene: che cosa può esser morto di loro? Quella realtà ch'essi diedero, e non sempre uguale, a se stessi, alla vita. Oh, una realtà molto relativa, vi prego di credere. Non era la vostra; non era la mia. Io e voi, infatti, vediamo, sentiamo e pensiamo, ciascuno a modo nostro noi stessi e la vita. Il che vuol dire, che a noi stessi e alla vita diamo ciascuno a modo nostro una realtà: la projettiamo fuori e crediamo che, cosí com'è nostra, debba essere anche di tutti; e allegramente ci viviamo in mezzo e ci camminiamo sicuri, il bastone in mano, il sigaro in bocca.
Ah, signori miei, non ve ne fidate troppo! Basta appena un soffio a portarsela via, codesta vostra realtà! Ma non vedete che vi cangia dentro di continuo? Cangia, appena cominciate a vedere, a sentire, a pensare un tantino diversamente di poc'anzi; sicché ciò che poc'anzi era per voi la realtà, v'accorgete adesso ch'era invece un'illusione. Ma pure, ahimè, c'è forse altra realtà fuori di questa illusione? E che cos'altro è dunque la morte se non la disillusione totale?
Però, ecco, se sono tanti poveri disillusi i morti, per l'illusione che si fecero di se medesimi e della vita; per quella che me ne faccio io ancora, possono aver la consolazione di viver sempre, finché vivo io. E se n'approfittano! V'assicuro che se n'approfittano.
Guardate. Ho conosciuto, piú di vent'anni fa, a Bonn sul Reno, un certo signor Herbst. Herbst vuol dire autunno; ma il signor Herbst era anche d'inverno, di primavera e d'estate, cappellajo, e aveva bottega in un angolo della Piazza del Mercato, presso la Beethoven-Halle.
Vedo quel canto della piazza, come se vi fossi ancora, di sera; ne respiro gli odori misti esalanti dalle botteghe illuminate, odori grassi; e vedo i lumi accesi anche davanti la vetrina del signor Herbst, il quale se ne sta su la soglia della bottega con le gambe aperte e le mani in tasca. Mi vede passare, inchina la testa e mi augura, con la special cantilena del dialetto renano:
- Gute Nacht, Herr Doktor.
Sono trascorsi piú di vent'anni. Ne aveva, a dir poco, cinquantotto il signor Herbst, allora. Ebbene, forse a quest'ora sarà morto. Ma sarà morto per sé, non per me, vi prego di credere. Ed è inutile, proprio inutile che mi diciate che siete stati di recente a Bonn sul Reno e che nell'angolo della Marktplatz accanto alla Beethoven-Halle non avete trovato traccia né del signor Herbst né della sua bottega di cappellajo. Che ci avete trovato invece? Un'altra realtà, è vero? E credete che sia piú vera di quella che ci lasciai io vent'anni fa? Ripassate, caro signore, di qui ad altri vent'anni, e vedrete che ne sarà di questa che ci avete lasciato voi adesso.
Quale realtà? Ma credete forse che la mia di vent'anni fa, col signor Herbst su la soglia della sua bottega, le gambe aperte e le mani in tasca, sia quella stessa che si faceva di sé e della sua bottega e della Piazza del Mercato, lui, il signor Herbst? Ma chi sa il signor Herbst come vedeva se stesso e la sua bottega e quella piazza!
No, no, cari signori: quella era una realtà mia, unicamente mia, che non può cangiare né perire, finché io vivrò, e che potrà anche vivere eterna, se io avrò la forza d'eternarla in qualche pagina, o almeno, via, per altri cento milioni d'anni, secondo i calcoli fatti or ora in America circa la durata della vita umana sulla Terra.
Ora, com'è per me del signor Herbst tanto lontano, se a quest'ora è morto; cosí è dei tanti morti che vado ad accompagnare al camposanto e che se ne vanno anch'essi per conto loro assai piú lontano e chi sa dove. La realtà loro è svanita; ma quale? quella ch'essi davano a se medesimi. E che potevo saperne io, di quella loro realtà? Che ne sapete voi? Io so quella che davo ad essi per conto mio. Illusione la mia e la loro.
Ma se essi, poveri morti, si sono totalmente disillusi della loro, l'illusione mia ancora vive ed è cosí forte che io, ripeto, dopo averli accompagnati al camposanto, me li vedo ritornare indietro, tutti, tali e quali: pian piano, fuori della cassa, accanto a me.
- Ma perché, - voi dite, - non se ne ritornano alle loro case, invece di venirsene a casa vostra?
Oh bella! ma perché non hanno mica una realtà per sé, da potersene andare dove loro piace. La realtà non è mai per sé. Ed essi l'hanno, ora, per me, e con me dunque per forza se ne debbono venire.
Poveri pensionati della memoria, la disillusione loro m'accora indicibilmente.
Dapprima, cioè appena terminata l'ultima rappresentazione (dico dopo l'accompagnamento funebre) quando rinvengon fuori dal feretro per ritornarsene con me a piedi dal camposanto, hanno una certa balda vivacità sprezzante, come di chi si sia scrollato con poco onore, è vero, e a costo di perder tutto, un gran peso d'addosso. Pure, rimasti come peggio non si potrebbe, vogliono rifiatare. Eh sí! almeno, via, un bel respiro di sollievo. Tante ore, lí, rigidi, immobili, impalati su un letto, a fare i morti. Vogliono sgranchirsi: girano e rigirano il collo; alzano ora questa ora quella spalla; stirano, storcono, dimenano le braccia; vogliono muover le gambe speditamente e anche mi lasciano di qualche passo indietro. Ma non possono mica allontanarsi troppo. Sanno bene d'esser legati a me, d'aver ormai in me soltanto la loro realtà, o illusione di vita, che fa proprio lo stesso.
Altri - parenti - qualche amico - li piangono, li rimpiangono, ricordano questo o quel loro tratto, soffrono della loro perdita; ma questo pianto, questo rimpianto, questo ricordo, questa sofferenza sono per una realtà che fu, ch'essi credono svanita col morto, perché non hanno mai riflettuto sul valore di questa realtà.
Tutto è per loro l'esserci o il non esserci d'un corpo.
Basterebbe a consolarli il credere che questo corpo non c'è piú, non perché sia già sotterra, ma perché è partito, in viaggio, e ritornerà chi sa quando.
Sú, lasciate tutto com'è: la camera pronta per il suo ritorno; il letto rifatto, con la coperta un po' rimboccata e la camicia da notte distesa; la candela e la scatola dei fiammiferi sul comodino; le pantofole davanti la poltrona, a piè del letto.
- È partito. Ritornerà.
Basterebbe questo. Sareste consolati. Perché? Perché voi date una realtà per sé a quel corpo, che invece, per sé, non ne ha nessuna. Tanto vero che - morto - si disgrega, svanisce.
- Ah, ecco, - esclamate voi ora. - Morto! Tu dici che, morto, si disgrega; ma quando era vivo? Aveva una realtà!
Cari miei, torniamo daccapo? Ma sí, quella realtà ch'egli si dava e che voi gli davate. E non abbiamo provato ch'era un'illusione? La realtà ch'egli si dava, voi non la sapete, non potete saperla perché era in lui e fuori di voi; voi sapete quella che gli davate voi. E non potete forse dargliela ancora, senza vedere il suo corpo? Ma sí! tanto vero, che subito vi consolereste, se poteste crederlo partito, in viaggio. Dite di no? E non seguitaste forse a dargliela tante volte, sapendolo realmente partito, in viaggio? E non è forse quella stessa che io do da lontano al signor Herbst, che non so se per sé sia vivo o morto?
Via, via! sapete perché voi piangete, invece? Per un'altra ragione piangete, cari miei, che non supponete neppur lontanamente. Voi piangete perché il morto, lui, non può piú dare a voi una realtà. Vi fanno paura i suoi occhi chiusi, che non vi possono piú vedere; quelle sue mani dure gelide, che non vi possono piú toccare. Non vi potete dar pace per quella sua assoluta insensibilità. Dunque, proprio perché egli, il morto, non vi sente piú. Il che vuol dire che vi è caduto con lui, per la vostra illusione, un sostegno, un conforto: la reciprocità dell'illusione.
Quand'egli era partito, in viaggio, voi, sua moglie, dicevate:
- Se egli da lontano mi pensa, io sono viva per lui.
E questo vi sosteneva e vi confortava. Ora ch'egli è morto, voi non dite piú:
- Io non sono piú viva per lui!
Dite invece:
- Egli non è piú vivo per me!
Ma sí ch'egli è vivo per voi! Vivo per quel tanto che può esser vivo, cioè per quel tanto di realtà che voi gli avete dato. La verità è che voi gli deste sempre una realtà molto labile, una realtà tutta fatta per voi, per l'illusione della vostra vita, e niente o ben poco per quella di lui.
Ed ecco perché i morti se ne vengono da me, ora. E con me - poveri pensionati della memoria - amaramente ragionano su le vane illusioni della vita, di cui essi al tutto si sono disillusi, di cui non posso ancora disilludermi al tutto anch'io, benché come loro le riconosca vane.