Luigi Pirandello
DONNA MIMMA
I. donna mimma parte
Quando donna Mimma col fazzoletto di seta celeste annodato largo sotto il mento passa per le vie del paesello assolate, si può credere benissimo che la sua personcina linda, ancora dritta e vivace, sebbene modestamente raccolta nel lungo «manto» nero frangiato, non projetti ombra su l'acciottolato di queste viuzze qua, né sul lastricato della piazza grande di là.
Si può credere benissimo, perché agli occhi di tutti i bimbi e anche dei grandi che, vedendola passare, si sentono pur essi diventare bimbi a un tratto, donna Mimma reca un'aria con sé, per cui subito, sopra e attorno a lei, tutto diventa come finto: di carta il cielo; il sole, una spera di porporina, come la stella del presepio. Tutto il paesello, con quel bel sole d'oro e quel bel cielo azzurro nuovo su le casette vecchie, con quelle sue chiesine dai campaniletti tozzi e le viuzze e la piazza grande con la fontana in mezzo e in fondo la chiesa madre, appena ella vi passa, diventa subito tutt'intorno come un grosso giocattolo di Befana, di quelli che a pezzo a pezzo si cavano dalla scatolona ovale che odora di colla deliziosamente. Ogni dadolino - e ce ne son tanti - è una casa con le sue finestre e la sua veranda, da mettere in fila o in giro per far la strada o la piazza; e questo dado qui piú grosso è la chiesa con la croce e le campane, e quest'altro la fontana, da metterci attorno questi alberetti che hanno la corona di trucioli verdi verdi e un dischetto sotto, per reggersi in piedi.
Miracolo di donna Mimma? No. È il mondo in cui donna Mimma vive agli occhi dei piccoli e anche dei grandi che ridiventano subito piccoli appena la vedono passare. Piccoli, per forza, perché nessuno può sentirsi grande davanti a donna Mimma. Nessuno.
Questo mondo ella rappresenta ai bimbi quando si mette a parlare con essi e dice loro come a uno a uno ella sia andata a comperarli lontano lontano.
- Dove?
Eh, dove! Lontano, lontano.
- A Palermo?
A Palermo, sí, con una bella lettiga bianca, d'avorio, portata da due belli cavalli bianchi, senza sonagli, per vie e vie lunghe, di notte, al bujo.
- Senza sonagli perché?
- Per non far rumore.
- E al bujo?
Sí; ma c'è pure la luna, di notte, le stelle. Ma anche al bujo, sicuro! Si fa pur notte, quando si cammina e cammina a giornate, per tanta via. E poi sempre di notte s'arriva, al ritorno, con quella lettiga, e zitti zitti, che nessuno veda, che nessuno senta.
- Perché?
Ma perché il bambinello comperato da poco non può sentire nessun rumore, ché si spaventerebbe, e neppure può vedere in principio la luce del sole.
- Comperato? Come, comperato?
- Coi denari di papà! Tanti tanti.
- Flavietta?
- Ma sí, Flavietta piú di duecent'onze. Piú piú. Con questi riccioletti d'oro, con questa boccuccia di fragola. Perché papà la volle bionda cosí, ricciutella cosí e con questi occhi grandi d'amore che mi guardano, gioja mia, non mi credi? poche duecent'onze, per quest'occhi soli! Vuoi che non lo sappia, se t'ho comperata io? E pure Niní, sí certo. Tutti vi ho comperati io. Niní un pochino di piú, perché maschietto. I maschietti, amore mio, costano sempre un pochino di piú; lavorano, poi, i maschietti e, lavorando, guadagnano assai, come papà. Ma sapete che pure papà l'ho comperato io? Io, io. Quand'era piccolo piccolo, certo! quando ancora non era niente! Gliel'ho portato io, di notte, con la lettiga bianca alla sua mamma, sant'anima. Da Palermo, sí. Quanto, lui? Uh, migliaja d'onze, migliaja!
I bimbi la guardano allocchiti. Le guardano quel fazzoletto bello, di seta celeste, sempre nuovo, su i capelli ancora neri, lucidi, spartiti in due bande che, su le tempie, formano due treccioline che passano su gli orecchi, dai cui lobi, stirati dal peso, pendono due massicci orecchini a lagrimoni. Le guardano gli occhi un po' ovati, dalle palpebre esili, guarnite di lunghissime ciglia; la pallottolina del naso un po' venata, tra i fori larghi violacei delle nari; il mento un po' aguzzo, su cui s'arricciano metallici alcuni peluzzi. Ma la vedono come avvolta in un'aria di mistero, questa vecchietta pulita, che tutte le donne chiamano, e anche la loro mamma, la Comare, che quando viene a visita capita sempre che la mamma non sta bene, e pochi giorni dopo, ecco, spunta un altro fratellino o un'altra sorellina, che è stata lei ad andarli a comperare, lontano lontano, a Palermo, con la lettiga. La guardano, le toccano pian piano, coi ditini curiosi, un po' esitanti, lo scialle, la veste; ed è, sí, una vecchietta pulita, che non pare diversa dalle altre; ma come può andare poi cosí lontano lontano, con quella lettiga, e come l'ha lei, quest'ufficio nel mondo, di comperare i bambini, e di portarli, i bambini, come la Befana i giocattoli?
Ma essi, dunque... - che cosa? No, non sanno che pensare; ma sentono in sé, vago, un po' del mistero che è in quella vecchietta, la quale è qua con loro adesso, qua che la toccano, ma che se ne va poi cosí lontano a prenderli, i bambini, e dunque anche loro... già... a Palermo, dove? dove lei sa ed essi, piccoli, non sanno; benché certo, là, piccoli piccoli, ci sono stati anche loro, se ella è andata a comperarli là...
Istintivamente con gli occhi le cercano le mani. Dove sono le mani? Lí, sotto lo scialle. Perché non le mostra mai donna Mimma, le mani? Già! con le mani non li tocca mai: li bacia, parla con loro, gestisce tanto con gli occhi, con la bocca, con le guance; ma dallo scialle le mani non le cava mai per far loro una carezza. È strano. Qualcuno, piú ardito, le domanda:
- Non le hai, le mani?
- Gesú! - esclama allora donna Mimma, volgendo uno sguardo d'intelligenza alla mamma come per dire: «E che è? diavolo, questo bambino?».
- Eccole qua! - soggiunge poi subito, mostrando le due manine coi mezzi guanti di filo. - Come non le ho, diavoletto? Gesú, che domande!
E ride, ride, ricacciandosi le mani sotto e tirandosi con esse lo scialle sú sú, fin sopra il naso, per nascondere quelle risatine, che, Dio liberi... Oh Signore! le viene di farsi la croce. Ma guarda che cose possono venire in mente a un bambino!
Pajono fatte, quelle mani, per calcare nello stampo la cera di cui sono formati i Bambini Gesú che in ogni chiesa si portano su l'altare in un canestrino imbottito di raso celeste la notte di Natale. Sente donna Mimma la santità del suo ufficio, quanta religione sia nell'atto della nascita, e agli occhi dei bimbi lo copre con tutti i veli del pudore; e anche parlandone coi grandi non adopera mai una parola, che muova o diradi quei veli; e ne parla con gli occhi bassi e il meno che può. Sa che non è sempre lieto, che spesso anzi è cosí triste il suo ufficio d'accogliere nella vita tanti esserini che piangono appena vi traggono il primo respiro. Può essere una festa il bimbo ch'ella porta in una casa di signori; anche per il bimbo, sí; benché non sempre neanche lí! Ma portarli - e tanti, tanti - nelle case dei poveri... Gli piange il cuore. Ma è lei sola a esercitare, da circa trentacinque anni, quest'ufficio nel paesello. O, per dir meglio, era lei sola, fino a jeri.
Ora è venuta dal continente una smorfiosetta di vent'anni, Piemontesa; gonna corta, gialla, giacchetto verde; come un maschiotto, le mani in tasca: sorella ancora nubile d'un impiegato di dogana. Diplomata dalla R. Università di Torino. Roba da farsi la croce a due mani, Signore Iddio, una ragazza ancora senza mondo, mettersi a una simile professione! E bisogna vedere con quale sfacciataggine: per miracolo, quella sua professione, non se la porta scritta in fronte! Una ragazza! una ragazza, che di queste cose... Dio, che vergogna! E dove siamo?
Donna Mimma non se ne sa dar pace. Volta la faccia, si ripara gli occhi con la mano appena la vede passare sculettando per la piazza, a testa alta, le mani in tasca, la piuma bianca ritta al vento sul cappellino di velluto. E che strepito fanno quei tacchetti insolenti sul lastricato della piazza: - Passo io! passo io!
Non è donna quella: una diavola è! Non può essere creatura di Dio, quella!
- Come? la tabella?
Ah sí? ha fatto appendere la tabella col nome e la professione sul porticino di casa? E si chiama? Elvira... come? signorina Elvira Mosti? Ci sta scritto signorina? E che vuol dire diplomata? Ah, la patente. La vergogna patentata. Dio, Dio, si può credere una cosa simile? E chi la chiamerà quella sfacciata? Ma che esperienza poi, che esperienza può aver lei, se ancora... in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. S'hanno da vedere di queste cose ai giorni nostri? in un paesello come il nostro? Vih... vih... vih...
E donna Mimma scuote in aria le manine coi mezzi guanti di filo come se si vedesse lingueggiar davanti le fiamme dell'inferno.
- Nossignora, grazie, che caffè, signora mia! acqua, un sorso d'acqua mi faccia portare; sono tutta sconcertata! - dice nelle case delle clienti, da cui di tanto in tanto si reca a visita, o a fare, com'ella dice, «un'affacciata», per sapere... no? niente? Lasciamo fare a Dio, signora mia, ringraziato sia sempre in cielo e in terra!
Se n'è fatta quasi una fissazione; non perché tema per sé, che le signore le abbiano a fare un torto per quella lí; figurarsi se può temere una tal cosa conoscendo che signore sono, col timore di Dio, con l'educazione del paese e il rispetto delle cose sante! Neanche per sogno...
- Ma dico, dico, oh Vergine Maria, per la cosa in sé... questo scandalo... una ragazzaccia... Dicono che parla come un carabiniere... che tutte le parolacce le dice chiare, come se fosse una cosa naturale...
È tanto compresa della mostruosità dello scandalo, che non s'accorge dell'impaccio afflitto con cui la guardano le signore. Pare che abbiano da dirle qualche cosa e non ne trovino il coraggio.
Oggi, il medico condotto s'è voltato di là, vedendola passare. Non l'ha vista? Ma sí, che l'ha vista! L'ha vista e s'è voltato. Perché?
Viene a sapere, poco dopo, che quella svergognata lí è andata a trovarlo a casa, col fratello. Certo per raccomandarsi. Chi sa che moine gli avrà fatto, come le sanno fare codeste forestieracce sbandite che nelle grandi città del Continente hanno perduto il santo rossore della faccia; ed ecco che questo rimbambito di medico... Il diploma? E che c'entra il diploma? Ah sí, difatti, per il diploma! Ma via, che non si sanno queste cose? Due smorfiette, due carezzine, e come la paglia pigliano fuoco, gli ominacci; anche i vecchi adesso, senza timor di Dio! Che fa il diploma? che c'entra? Esperienza ci vuole, esperienza.
- Eh, ma anche il diploma, donna Mimma, - le risponde sospirando il farmacista, col quale, passando, s'è lagnata del voltafaccia del medico.
- E io che ho diploma forse? - esclama allora donna Mimma, sorridendo e giungendo per le punte delle dita le due manine coi mezzi guanti di filo. - E sono già trentacinque anni, trentacinque, che tutti quanti siete qua, e pure voi, don Sarino, vi ho portati io, con la grazia di Dio, figliuoli miei; che n'ho fatti di viaggi a Palermo! Ecco, ecco, guardate qua!
E donna Mimma si china a prendere tra quelle due manine che quasi non pajono, ma che pure hanno tanta forza, un bel bimbone della strada, che s'è fermato davanti la farmacia, e lo leva alto, nel sole.
- Anche questo! E quanti ne vedete, tutti io! Sono andata a comperarvi tutti io, a Palermo, senza diploma! A che serve il diploma?
Il giovane farmacista sorride.
- Va bene, donna Mimma, sí... voi... l'esperienza, certo... ma...
E la guarda afflitto e impacciato e neanche lui ha il coraggio di farle intravvedere la minaccia che le pende sul capo.
Finché dalla Prefettura del capoluogo le arriva una carta con tanto di stemma e di bollo, mezza stampata e mezza scritta a mano, nella quale ella non sa legger bene, ma indovina che si parla del diploma che non ha, e che ai sensi degli articoli tali e tali... È ancora dietro a decifrarla, quella carta, che una guardia la viene a invitare a nome del sindaco.
- La moglie? Cosí presto? - domanda donna Mimma, contrariata.
- No, al municipio, - risponde la guardia - per una comunicazione.
Donna Mimma s'acciglia:
- A me? per questa carta?
La guardia si stringe nelle spalle:
- Io non so; venite e saprete.
Donna Mimma va; e, al municipio, trova il sindaco, tutto imbarazzato. Anche lui è stato comperato a Palermo da donna Mimma; e anche due figliuoli donna Mimma è andata a comperare per lui a Palermo e presto per un terzo dovrebbe mettersi in viaggio con la lettiga; ma...
- Ecco qua, donna Mimma! Vedete? Un'altra carta anche a noi, dalla Prefettura. Per voi, sí. E non c'è nulla da fare, purtroppo. Vi s'interdice l'esercizio della professione.
- A me?
- A voi: perché non avete il diploma, cara donna Mimma! La legge.
- Ma che legge? - esclama donna Mimma, che non ha piú una goccia di sangue nelle vene. - Legge nuova?
- Non nuova, no! Ma noi qua, c'eravate voi sola, da tant'anni; vi conoscevamo; vi volevamo bene; avevamo tutta la fiducia in voi, e abbiamo perciò lasciato correre; ma siamo in contravvenzione anche noi, donna Mimma! Queste maledette formalità, capite? Finché c'eravate voi sola... Ma ora è venuta quella là; ha saputo che voi non avete il diploma; e visto che qua non è chiamata da nessuno, capite? ha fatto reclamo alla Prefettura, e voi non potete piú esercitare, o dovete andare a Palermo, davvero questa volta! all'Università, per prendere il diploma anche voi, come quella.
- Io? a Palermo? alla mia età? a cinquantasei anni? dopo trentacinque anni di professione? mi fanno questo affronto? io, il diploma? Un'intera popolazione... Ma come? c'è bisogno di diploma? di saper leggere e scrivere, per queste cose? Io so leggere appena! E a Palermo, io che non mi sono mai mossa di qua? Io mi ci perdo! Alla mia età? Per quella smorfiosa lí, che la voglio vedere, con tutto il suo diploma... Vuole competere con me? E che hanno da insegnare a me, che li fascio e li sfascio tutti quanti, i meglio professori, dopo trentacinque anni di professione? Debbo andare a Palermo davvero? Come? per due anni?
Non la finisce piú donna Mimma: un torrente di lagrime irose, disperate, tra un precipizio di domande saltanti, balzanti. Il sindaco, dolente, vorrebbe arrestar quell'impeto; un po' lo lascia sfogare; di nuovo si prova ad arrestarlo; - due anni passano presto; sí, è duro, certo; ma che insegnare! no! pro forma per avere quel pezzo di carta! per non darla vinta a questa ragazzaccia... - Poi, accompagnandola fino alla soglia dell'uscio, battendole una mano dietro le spalle, come un buon figliuolo, per esortarla a far buon animo, cerca di farla sorridere: via... via... come si smarrirebbe a Palermo, lei, che non passa giorno, ci va tre e quattro volte?
S'è tirato lo scialle nero sul fazzoletto celeste, donna Mimma e le sue manine stringono, di sotto, quello scialle nero sul volto per nascondere le lagrime. Bimbi, quel fazzoletto di seta celeste! - La santa poesia della vostra nascita, ecco, ha preso il lutto: se ne va a Palermo, senza lettiga bianca, a studiar meèutica, e la sepsi e l'antisepsi, l'estremo cefalico, l'estremo pelvi-podalico... Cosí vuole la legge. Donna Mimma piange; non se ne può consolare: sa leggere appena; si smarrirà tra l'irta scienza di quei dotti professori, là, a Palermo, dove ella tante volte è andata con la poesia della sua lettiga bianca.
- Signora mia, signora mia...
Un pianto, un pianto che spezza il cuore, presso ciascuna delle sue clienti, da cui va a licenziarsi, prima di partire. E in ogni casa, si china con le piccole mani tremanti (oh sí, ora le cava fuori senza piú ritegno) a carezzar la testina bionda o bruna dei bimbi, e lascia tra quei riccioli, insieme coi baci, cader le lagrime, inconsolabilmente.
- Vado a Palermo... vado a Palermo.
E i bimbi, sbigottiti, la guardano, e non comprendono perché pianga tanto, questa volta, per andare a Palermo. Pensano che forse è una sciagura anche per loro, per tutti i bimbi che sono ancora là, da comperare.
Dicono le mamme:
- Ma noi v'aspetteremo!
Donna Mimma le guarda con gli occhi lagrimosi, tentenna il capo. Come può farsi quest'inganno pietoso, lei che sa bene com'è la vita?
- Signora mia, due anni?
E se ne parte col cuore spezzato, tirandosi lo scialle nero sul fazzoletto celeste.
2. donna mimma studia
Palermo. Vi arriva di sera Donna Mimma: piccola, nell'immensa piazza della stazione.
Oh Gesú, lune? che sono? Venti, trenta attorno. È una piazza? Che grandezza! Ma per dove?
- Di qua, di qua!
Fra tutti quei palazzi, incubi d'ombre gigantesche straforate da lumi, accecata da tanto rimescolío sotto, di sbarbagli, e sopra da tanti strisci luminosi, file, collane di lampade per vie lunghe diritte senza fine, tra il tramestío di gente che le balza di qua, di là, improvvisa, nemica, e il fracasso che da ogni parte la investe, assordante, di vetture che scappano precipitose, non avverte, in quello stupore rotto da continui sgomenti, se non la violenza da cui dentro è tenuta e a cui via via si strappa per cacciarsi a forza in quello scompiglio d'inferno, dopo l'intronamento e la vertigine del viaggio in ferrovia, il primo in vita sua.
Gesú, la ferrovia! Montagne, pianure che si movevano, giravano, e scappavano, via con gli alberi, via con le case sparse e i paesi lontani; e di tratto in tratto l'urto violento d'un palo telegrafico; fischi, scossoni: lo spavento dei ponti e delle gallerie, una dopo l'altra; abbagli e accecamenti, vento e soffocazione in quella tempesta di strepiti, nel bujo... Gesú! Gesú!
- Come dici?
Non sente nulla, non sa piú buttare i piedi, si tiene stretta accosto al nipote che l'accompagna - giovanotto, stendardo della casa - ah! padrone del mondo, lui, che può ridere e andar sicuro, pratico, ché c'è stato, lui, due anni militare qua a Palermo.
- Come dici?
Sí, certo, la carrozza... Che carrozza? Ah già, sí, la carrozza! Come entrare in città, come camminare per via con quel grosso fagotto di panni sotto il braccio fino alla locanda?
Guarda il fagotto: c'è lei lí dentro; e tutta vorrebbe esserci, in quella roba sua lí affagottata sotto il braccio del nipote, lei fatta di pezza e solo odore di panni, per non vedere e non sentire piú nulla.
- Dàllo a me! Dàllo a me!
Vorrebbe tenercisi stretta a quei panni, per sentircisi meglio dentro; ma l'anima è fuori, qua allo sbaraglio di tante impressioni che la assaltano da tutte le parti. Risponde di sí, di sí, ma non capisce bene i cenni che il nipote le fa.
O Gesú mio, ma perché domandare a lei? Come una creaturina nelle mani di lui, farà tutto quello che lui vorrà: sí, la carrozza; sí, la locanda, quella che lui vorrà! Per ora è come in un mare in tempesta, e prendere una carrozza è per lei come agguantare una barca; giungere alla locanda, come toccare la riva. Pensa con terrore, quando, di qui a tre giorni, il nipote ritornerà al paese, dopo averle trovato alloggio e pensione, come resterà lei qua in mezzo a questa babilonia, sola, perduta.
Passando in carrozza diretti alla locanda, il nipote le propone d'andare a veder la fiera in Piazza Marina.
- La fiera? Che fiera?
- La fiera dei Morti.
Si fa la croce donna Mimma. Domani, i Morti, già! Arriva la sera del primo novembre, a Palermo, vigilia dei Morti, lei che a Palermo c'è sempre venuta per comperare la vita! I Morti già... Ma i Morti sono la Befana per i bambini dell'isola: i giocattoli, a loro, non li porta la Vecchia Befana il sei di gennajo: li portano i Morti il due di novembre, che i grandi piangono e i piccoli fanno festa.
- Gente assai?
Tanta, tanta, senza fine, che le carrozze non possono passare: tutti i babbi, tutte le mamme, nonne, zie, vanno alla Fiera dei Morti in Piazza Marina a comperare i giocattoli per i loro piccini. Le bambole? sí, le sorelline piccole. I pupi di zucchero? sí, i piccoli fratellini; quelli, quelli che lei, donna Mimma, alla fiera della Vita, nell'illusione dei bimbi del suo paese lontano, tant'anni è venuta a comperare qua a Palermo e a recar loro laggiú, con la lettiga d'avorio: giocattoli, ma veri, con occhi veri, vivi, manine vere, gracili, fredde, paonazze, serrate; e la boccuccia sbavata che piange.
Sí; ma ora gli occhi di donna Mimma, davanti allo spettacolo tumultuoso di quella fiera sono anche piú meravigliati di quelli d'una bimba; e non può pensare donna Mimma che il sogno de' suoi viaggi misteriosi, quale essa lo rappresentava ai bimbi del suo paese, ora qua, davanti alla fiera, diventa quasi una realtà. Non può pensarlo, non solo perché tra le grida squarciate dei venditori davanti alle baracche illuminate da lampioncini multicolori, tra i sibili dei fischietti, gli scampanellíi, i mille rumori della fiera e il pigia pigia della folla che seguita di continuo ad affluire nella piazza, lo stordimento le cresce e insieme la paura della grande città; ma anche perché è lei qui ora la bimba a cui l'incanto è fatto. E poi quell'aria da cui si sentiva avvolta nel suo paesello, aria di favola che la seguiva per le vie e nelle case in cui entrava, che induceva tutti, grandi e piccoli, a rispettarla, perché dal mistero della nascita era lei quella che recava in ogni casa i bimbi nuovi, la vita nuova al vecchio decrepito paesello; qui ora quell'aria non l'ha piú attorno. Spogliata crudelmente della sua parte, che cosa è adesso qui, in mezzo alla calca della fiera? una povera vecchietta meschina, stordita. L'han cacciata via dal sogno a infrangersi, a sparire qua in mezzo a questa realtà violenta; e non comprende piú nulla, non sa piú né muoversi, né parlare, né guardare.
- Andiamo via... andiamo via...
Dove? Fuori di qui, fuori di questa calca, facile andar via, con un po' di pazienza, piano piano; ma poi? Dentro, da ritrovarsi come prima in sé, sicura, tranquilla, questo sarà difficile: ora alla locanda, domani alla scuola.
Alla scuola, quarantadue diavole, tutte con l'aria sfrontata di giovanotti in gonnella, su per giú come quella ragazzaccia piombata dal Continente nel suo paesello, le si fanno addosso, il primo giorno ch'ella comparisce tra loro col fazzoletto di seta celeste in capo e il lungo scialle nero, frangiato e a pizzo, stretto modestamente attorno alla persona. Uh, ecco la nonna! ecco la vecchia mammana delle favole, piovuta dalla luna, che non osa mostrar le manine e tiene gli occhi bassi per pudore e parla ancora di comperare i bambini! La guardano, la toccano, come se non fosse vera, lí davanti a loro.
- Donna Mimma? Donna Mimma come? Jèvola? Donna Mimma Jèvola? Quant'anni? Cinquantasei? Eh, picciottella per cominciare! Già mammana da trentacinque anni? E come? Fuori della legge? Come gliel'hanno potuto permettere? Ah, sí, la pratica? Che pratica e pratica! Ci vuol altro! Adesso vedrà!
E come entra nell'aula il professor Torresi, incaricato dell'insegnamento delle nozioni generali d'Ostetricia teorica, gliela presentano tirandola avanti tra risa e schiamazzi:
- La nonna mammana, professore, la nonna mammana!
Il professor Torresi, calvo, un po' panciuto, ma un bell'omone dall'aria di corazziere or ora smontato da cavallo, coi baffetti grigi ricciuti e un grosso neo peloso su una guancia (che amore! se lo tira sempre, facendo lezione, quel neo, per non guastarsi i baffi volti studiosamente all'in sú), il professor Torresi si è sempre vantato di saper tenere la disciplina e tratta effettivamente quelle quarantadue diavole come puledre da domar col frustino e a colpi di sprone; ma tuttavia, di quando in quando, non può fare a meno di sorridere a qualche loro scappata, o, piuttosto, di concedere qualche risatina in premio all'adorazione di cui si sente circondato. Vorrebbe fare il viso dell'armi a quella presentazione rumorosa; ma poi, vedendosi davanti quella vecchia recluta buffa, vuol pigliarsela anche lui a godere un po'.
Le domanda come farà, venuta cosí tardi, a raccapezzarsi nelle sue lezioni. Egli ha già - (sú, attente, attente! al posto!) - egli ha già parlato a lungo - (silenzio, perdio! al posto!) - ha già parlato a lungo del fenomeno della gestazione, dall'inizio al parto; ha già parlato a lungo della legge della correlazione organica; ora parla dei diametri fetali, nella lezione scorsa ha trattato di quello fronte-occipitale e del biscromiale; tratterà oggi del diametro bisiliaco. Che ne capirà lei? Va bene, la pratica. Ma che cos'è la pratica? Ecco, attente! attente! (e il professor Torresi si tira il neo peloso su la guancia, che amore!): conoscenza implicita, la pratica. E può bastare? No, che non può bastare. La conoscenza, perché basti, bisogna che da implicita divenga esplicita, cioè, venga fuori, venga fuori, cosí che si possa a parte a parte veder chiara e in ogni parte distinguere, definire, quasi toccar con mano, ma con mano veggente, ecco! O altrimenti, ogni conoscenza non sarà mai sapere. Questione di nomi? di terminologia? No, il nome è la cosa. Il nome è il concetto in noi d'ogni cosa posta fuori di noi. Senza il nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non definita, non distinta.
Dopo questa spiegazione, che lascia allocchita tutta la scolaresca, il professor Torresi si rivolge a donna Mimma e comincia a interrogarla.
Donna Mimma lo guarda sbigottita. Crede che parli turco. Costretta a rispondere, provoca in quelle quarantadue diavole cosí fragorose risate, che il professor Torresi vede in pericolo il suo prestigio di domatore. Grida, pesta sulla cattedra per richiamarle al silenzio, alla disciplina.
Donna Mimma piange.
Quando nell'aula si rifà il silenzio, il professore, indignato, fa una strapazzata, come se non avesse riso anche lui; poi si volta a donna Mimma e le grida che è una vergogna presentarsi a scuola in tale stato d'ignoranza, è una vergogna, ora, far lí la ragazzina alla sua età, con quel pianto. Sú, sú, inutile piangere!
Donna Mimma ne conviene, dice di sí col capo, si asciuga gli occhi; se ne vorrebbe andare. Il professore la obbliga a rimanere.
- Sedete lí! E state a sentire!
Ma che sentire! Non capisce nulla. Credeva di saper tutto, dopo trentacinque anni di professione e invece s'accorge di non saper nulla, proprio nulla.
- A poco a poco, non disperate! - la conforta il professore alla fine della lezione.
- Non disperate, a poco a poco, - le ripetono le compagne, ora impietosite dal pianto.
Ma a mano a mano che quella famosa conoscenza implicita di cui il professor Torresi ha parlato, le diviene esplicita, donna Mimma - veder piú chiaro? altro che veder piú chiaro! - non riesce a vedere piú nulla.
Scomposta, sminuzzata, l'idea della cosa, come prima la aveva in sé, intera e compatta, ora le si confonde, smarrita in tanti animi particolari, ciascuno dei quali ha un nome curioso, difficile, che ella non sa nemmeno pronunziare. Come ritenerli a memoria tutti quei nomi? Ci si prova con tanta pazienza, la sera, nella sua misera cameretta d'affitto, sillabando sul manuale, curva davanti al tavolinetto su cui arde un lumino a petrolio.
- Bi-bis-cro-bis-crom-i-a-biscromia-bis-cromiale.
E riconosce, sí, a poco a poco, a scuola, riconosce con viva sorpresa a uno a uno, dopo molti stenti, tutti quei particolari, e scatta in comiche esclamazioni:
- Ma questo... Gesú, si chiama cosí?
La ragione di distinguerlo, però, di definirlo cosí, con quel nome, non la vede. Il professore gliela fa vedere; la costringe a vederla; ma allora quel particolare le si stacca ancora piú dall'insieme: le s'impone come una cosa che stia a sé; e siccome son tanti e tanti quei particolari, donna Mimma ci si perde; non si raccapezza piú.
È una pietà vederla alle lezioni d'Ostetricia pratica, nella casa di maternità, quando il professore la chiama a una lezione di prova. Tutte le compagne la aspettano lí a quella prova, perché lí ella è adesso nel campo della sua lunga esperienza. Ma sí! Il professore non vuole che ella faccia quello che sa fare, ma che dica quello che non sa dire; e se si tratta di fare e non di dire, non la lascia mica fare a suo modo, come per tant'anni ha fatto, che sempre le è andata bene; ma secondo i precetti e le regole della scienza, come punto per punto egli li ha insegnati; e allora donna Mimma, se si butta a fare, è sgridata perché non osserva appuntino quei precetti e quelle regole; e se invece si trattiene e si sforza di badare a ogni precetto e a ogni regola, ecco, è sgridata perché si smarrisce e si confonde e non riesce piú a far nulla a dovere, con sveltezza e precisione sicura.
Ma non soltanto tutti quei particolari e tutti quei precetti e tutte quelle regole la impacciano cosí. Un'altra, e piú grave, nell'animo di lei, è la cagione di tutto quell'impaccio. Ella soffre come d'una violenza orrenda che le sia fatta là dove piú gelosamente è custodito per lei il senso della vita; soffre, soffre da non poterne piú, allo spettacolo crudo, aperto di quella funzione che ella per tanti anni ha ritenuto sacra - perché in ogni madre la vergogna e i dolori riscattano innanzi a Dio il peccato originale - soffre e vorrebbe anche lí coprirlo quanto piú può, coi veli del pudore, quello spettacolo; e invece no, ecco, via tutti quei veli: il professore glieli butta all'aria e li strappa via brutalmente, quei veli che chiama d'ipocrisia e d'ignoranza; e la maltratta e la beffeggia con sconce parolacce, apposta; e quelle quarantadue diavole attorno, ecco, ridono sguajatamente alle beffe, alle parolacce del professore, senza nessun ritegno, senza nessun rispetto per la povera paziente, per quella povera madre meschina, esposta lí intanto, oggetto di studio e d'esperimento.
Avvilita, piena d'onta e d'angoscia, si riduce nella sua cameretta, alla fine delle lezioni, e piange e pensa se non le convenga di lasciare la scuola e di ritornarsene al suo paesello. Nel lungo esercizio della professione ha messo da parte un buon gruzzoletto, che le potrà bastare per la vecchiaja; se ne starà tranquilla, in riposo, a guardare soddisfatta attorno a sé tutti i bimbi del paese e i piú grandicelli, ragazzette e ragazzetti, e i piú grandicelli ancora, giovanette e giovanotti, e i loro papà e le loro mamme, tutti, tutti quelli che lei in tanti anni pur seppe portare alla luce, senza precetti e senza regole, da vecchia mammana delle favole, con la lettiga d'avorio. Ma allora, dovrà darla vinta a quella ragazzaccia che a quest'ora avrà preso certo il suo posto nel paesello, presso ogni famiglia, di prepotenza; restare a guardarla, lí, con le mani in mano? - Ah, no, no! - Qua: vincere l'avvilimento, soffocare l'onta e l'angoscia, per ritornare al paese col suo bravo diploma e gridarlo in faccia a quella sfrontata che le sa anche lei adesso le cose che dicono i professori, che un conto sono i misteri di Dio, e un altro conto, l'opera della natura.
Se non che, le sue manine esperte...
Donna Mimma se le rimira pietosamente, attraverso le lagrime.
Saprebbero piú muoversi ora, queste manine, come prima? Sono come legate da tutte quelle nuove nozioni scientifiche. Tremano, le sue manine, e non vedono piú. Il professore ha dato a donna Mimma gli occhiali della scienza, ma le ha fatto perdere, irrimediabilmente, la vista naturale.
E che se ne farà domani donna Mimma degli occhiali, se non ci vede piú?
III. donna mimma ritorna
- Flavietta? Ma sí, madamina, anche lei. Che s'immagini! A Palermo, come no? con la lettiga d'avorio e i denari di babbo. Quanti? Eh, piú di mille lire!
- No, onze!
- Già, dicevo lire! onze, madamina: piú di mille. Cara, che mi corregge! Tò, un bacio le voglio fare, cara! e un altro... cara!
Chi parla cosí? Ma guarda! la Piemontesa: quella che due anni fa pareva un maschiotto in gonnella: giacchetta verde, mani in tasca. Ha buttato via giacchetta e cappello, si pettina alla paesana e porta in capo, oh, il fazzoletto di seta celeste, annodato largo sotto il mento, e un bellissimo scialle lungo d'indiana, a pizzo e frangiato. La Piemontesa! E parla di comperare i bambini ora, anche lei, a Palermo, con la lettiga d'avorio e i denari di come? babbo? già, dice babbo lei, perché parla in lingua lei, che s'immagini! e non li dà mica i baci, li fa, e fa furore con codesta sua parlata italiana, vestita cosí da paesanella: una simpatia!
- Piú stretto alla vita lo scialle!
- Sí, cosí, cosí!
- E il fazzoletto... no, piú tirato avanti, il fazzoletto.
- E sú da capo, cosí!
- Largo... un po' piú largo, sotto; piú aperto... cosí, brava!
Ora a terra, modesti, gli occhi per via; e poco male se una guardatina di tanto in tanto scappa di traverso maliziosa, o un sorrisetto scopre su le due guance codeste care fossette. Che zucchero!
Le signore mamme si sentono chiamar madame (- Riverisco, madama! - A servirla, madama! -) e sono tutte contente (poverine, con tanto di pancia!). Contente che ormai, a trattare con lei, è proprio come se sapessero parlare in lingua anche loro e le avessero familiari tutte le finezze e le «civiltà» del Continente. Ma sí, perché si sa, via, che in Continente usa cosí, usa cosà... E poi, che è niente? la soddisfazione di vedersi spiegare tutto, punto per punto, come da un medico, coi termini precisi della scienza che non possono offendere, perché la natura, Dio mio, sarà brutta, ma è cosí; Dio l'ha fatta cosí; e meglio saperle come sono, le cose, per regolarsi, guardarsi a un bisogno, e poi anche, alle strette, ma almeno conoscere di che e perché si soffre. Volere di Dio, sí certo; lo dice la Santa Scrittura: «tu donna partorirai con gran dolore», ma si manca forse di rispetto a Dio studiando la sapienza delle sue disposizioni? L'ignoranza di donna Mimma, poveretta, si contentava del volere di Dio e basta. Questa qua, ora, rispetta Dio lo stesso e poi, per giunta, spiega tutto, come Dio l'ha voluta e disposta, la croce della maternità.
Dal canto loro i bambini, a sentirsi raccontare con ben altra voce e ben altre maniere la favola meravigliosa dei notturni viaggi a Palermo con la lettiga d'avorio e i cavalli bianchi sotto la luna, restano a bocca aperta, perché - raccontata cosí - è proprio come se fosse loro letta o che la leggessero loro da sé in un bel libro di fiabe, di cui la fata, eccola qua, balzata viva davanti a loro, da poterla toccare: questa fata bella che in lettiga sotto la luna ci va davvero, se davvero porta loro da Palermo le sorelline nuove, i nuovi fratellini. La mirano; quasi la adorano, dicono:
- No: brutta, donna Mimma! non la vogliamo piú!
Ma il guajo è che non la vogliono piú, ora, neppur loro, le donne del popolo, perché donna Mimma con esse, roba di massa, si sbrigava senza tante cerimonie, le trattava come se non avessero diritto di lagnarsi delle doglie, e anche spesso, se s'andava per le lunghe, era capace di lasciarle per correre premurosa a dar pazienza a qualche signora, anch'essa soprapparto; mentre questa qua - oh amore di figlia; tutta bella, bella di faccia e di cuore! - gentile, paziente anche con loro, senza differenza che se una signora manda subito subito a chiamarla, risponde con garbo ma senza esitare che cosí subito no, perché ha per le mani una poveretta e non la può lasciare; proprio cosí! tante volte! E dire poi, una ragazza che non li ha mai provati finora questi dolori che cosa sono, saperli cosí bene compatire e cercare d'alleviarli in tutte, signore e poverette, allo stesso modo! E via il cappello e via tutte le frasche e le arie di signora con cui era venuta, per acconciarsi come loro, da poveretta, con lo scialle e il fazzoletto in capo, che le sta un amore!
Invece, donna Mimma... che? col cappello? ma sí, correte, correte a vederla! è arrivata or ora da Palermo, col cappello, con un cappellone grosso cosí, Madonna santa, che pare una bertuccia, di quelle che ballano sugli organetti alla fiera! Tutta la gente è scasata a vederla; tutti i ragazzi di strada l'hanno accompagnata a casa battendo i cocci, come dietro alla nonna di carnevale.
- Ma come, il cappello, davvero?
Il cappello, sí. O che non ha preso il diploma all'Università come la Piemontesa, lei? Dopo due anni di studii... e che studii! I capelli bianchi ci ha fatto, ecco qua, in due anni, che prima di partire per Palermo li aveva ancora neri. Studii, che il signor dottore, adesso, se si vuol provare un poco a competere con lei, glielo farà vedere che non è piú il caso di metterla nel sacco con quelle sue parole turchine, perché le sa dire anche lei adesso, e meglio di lui, le parole turchine.
Il cappello? Ma che stupidaggine di teste piccole di paese! Viene di diritto e di conseguenza il cappello dopo due anni di studi all'Università. Tutte lí, quelle che studiavano con lei, lo portavano; e anche lei, dunque, per forza.
La professione dell'ostrè... no, te... trètica, la professione dell'ostrètica, adesso, c'è poca differenza con quella del dottore. Gli stessi studii, quasi. E i dottori non vanno mica col berretto per via! Ma perché sarebbe allora andata a Palermo? perché avrebbe studiato due anni all'Università? perché avrebbe preso il diploma, se non per mettersi in tutto a paro, di studi e di stato, con la Piemontesa diplomata dall'Università di Torino?
Trasecola donna Mimma, si fa di tutti i colori appena viene a sapere che la Piemontesa, lei, non porta piú il cappello, ora, ma scialle e il fazzoletto. - Ah sí? se l'è levato? porta il "manto" e il fazzoletto celeste. E che fa? che dice? Ah, che i bambini li comperano a Palermo? Con la lettiga? Ah, traditora! Ah, infame! Ma dunque, per levare il pane a lei di bocca, a lei, il pane? Assassina! Per entrare in grazia della gente ignorante del paese? Infame! Infame! E la gente... come! si piglia da lei quest'impostura? da lei che prima andava dicendo ch'eran tutte sciocchezze e falsi pudori? Ma allora, se questa spudorata doveva ridursi a far la mammana in paese cosí, come per trentacinque anni naturalmente l'aveva fatto lei, perché costringerla a partire per Palermo, a studiare due anni all'Università, e prendere il diploma? Solo per aver tempo di rubarle il posto, ecco perché! levarle il pane di bocca, mettendosi a far come lei, vestendosi come lei, dicendo le stesse cose che prima diceva lei! infame! assassina! impostora e traditora! Ah che cosa... ah Dio, che cosa... che cosa...
Ha tutto il sangue alla testa, donna Mimma; piange di rabbia; si storce le mani, ancora col cappellone in capo; pesta un piede; il cappellone le va di traverso; ed ecco, per la prima volta, le scappa di bocca una parolaccia sconcia: no, non se lo leverà piú lei, no, per sfida, ora, questo cappello: qua, qua in capo! Se quella se l'è levato, lei se l'è messo e lo terrà! Il diploma ce l'ha; a Palermo c'è stata; s'è ammazzata due anni a studiare: Ora si metterà a far lei qua in paese, non piú la comaretta, la mammanuccia, ma l'Ostrètica diplomata dalla Regia Università di Palermo.
Povera donna Mimma, dice ostrètica, cosí su le furie facendo le volte per la stanzuccia della sua casa, dove tutti gli oggetti par che la guardino sbigottiti perché s'aspettavano d'esser salutati con gioja e carezzati da lei dopo due anni d'assenza. Donna Mimma non ha occhi per loro; dice che vorrà vederla in faccia, quella lí (e giú un'altra parolaccia sconcia), se avrà il coraggio di parlare davanti a lei di lettighe d'avorio e di comperare i bambini; e or ora, senza neppur riposarsi un minuto, si vuol mettere in giro, da tutte le signore del paese, - cosí, cosí col cappello in capo, sissignori! - per vedere se anche loro avranno il coraggio, ora ch'ella è ritornata col diploma, di cangiarle la faccia per quella fruscola lí!
Esce di casa; ma appena per via, subito di nuovo la maraviglia, le risa della gente, i lazzi dei monellacci impertinenti e ingrati, che si sono scordati di chi li ha accolti prima nel mondo, ajutando la mamma a metterli alla luce.
- Musi di cane! Cazzarellini! Ah, figli di...
Le tirano bucce, sassolini sul cappellone, la accompagnano con rumori sguajati, saltarellandole intorno.
- Donna Mimma? Oh guarda! - dicono le signore, restando allo spettacolo che si para loro davanti, buffo e compassionevole, perché donna Mimma con quel suo cappellone di traverso e gli occhi ovati rossi di pianto e di rabbia, vuole - cosí conciata - apparir loro come l'ombra del rimorso, e in quegli occhi rossi di pianto e di rabbia ha un rimprovero per loro pieno di profondo accoramento, quasi che a Palermo a studiare la avessero mandata loro, per forza, e loro la avessero fatta ritornare da Palermo con quel cappellone che, essendo il frutto naturale, quantunque spropositato, di due anni di studio all'Università, rappresenta il tradimento che loro signore le hanno fatto.
Tradimento sí, tradimento, signore mie, tradimento perché, se volevate la mammana come donna Mimma era prima, una mammana col fazzoletto in capo e lo scialle, che raccontasse ai vostri bimbi la favola della lettiga e dei fratellini comperati a Palermo coi denari di papà, non dovevate permettere che il fazzoletto di seta celeste e lo scialle di donna Mimma e le vecchie favole di lei fossero usurpati da questa sfrontata continentale che prima, venendo dall'Università col cappello anche lei, li aveva derisi in donna Mimma; dovevate dirle: "No, cara: tu hai obbligato donna Mimma a studiare due anni a Palermo, a mettersi là il cappello anche lei per non esser derisa dalle fraschette sfrontate come te, e tu ora qua te lo levi? e ti metti il fazzoletto e lo scialle e ti metti a raccontare la favola della lettiga, per prendere il posto di quella che hai mandato via a studiare? Ma questa è per te un'impostura! per quella, invece, vestire cosí, parlare cosí, era naturale! No, cara, tu ora fai a donna Mimma un tradimento, e come l'hai derisa tu, prima, col fazzoletto e lo scialle e la vecchia favola della lettiga, la farai deridere dagli altri, ora, col cappellone e la scienza ostetrica appresa all'Università". Cosí, signore miei dovevate dire a codesta Piemontesa. O se davvero vi piace di piú, ora, la mammana "civile" che vi sappia spiegar tutto bene, punto per punto, come si fanno e come si possono anche non fare i figliuoli, obbligate allora la Piemontesa a rimettersi il cappello, per non far deridere donna Mimma che come un medico ha studiato e col cappello è ritornata!
Ma voi vi stringete nelle spalle, signore mie, e fate intendere a donna Mimma che ormai non sapete come comportarvi con l'altra che già vi ha assistito una volta e bene, proprio bene, sí... e che per la prossima assistenza vi trovate già impegnate... e, quanto all'avvenire, per non compromettervi, dite di sperare in Dio che basta, ora, questa croce per voi, d'aver altri figliuoli.
Donna Mimma piange; vorrebbe consolarsi un poco almeno coi bambini, e per farli accostare si toglie dal capo lo spauracchio di quel cappellaccio nero; ma inutilmente. Non la riconoscono piú, i bambini.
- Ma come? - dice donna Mimma piangendo. - Tu Flavietta, che mi guardavi prima con codesti occhi d'amore; tu, Niní mio, ma come? non vi ricordate piú di me? di donna Mimma? Sono andata io, io a comperarvi a Palermo coi denari di papà; io, con la lettiga d'avorio, figlietti miei, venite qua!
I bimbi non vogliono accostarsi; restano scontrosi, ostili a guardarla da lontano, a guardarle quel cappellaccio nero su le ginocchia; e donna Mimma, allora, dopo essersi provata a lungo ad asciugarsi il pianto dagli occhi e dalle guance, alla fine, vedendo che non ci riesce e che anzi fa peggio, se lo rimette in capo quel cappellaccio e se ne va.
Ma non è solo per questo cappellaccio nero, come donna Mimma pensa, che tutto il paesello le si è voltato contro. Se non fosse per la stizza e il dispetto, potrebbe buttarlo via donna Mimma, il cappellaccio; ma la scienza? Ahimè, la scienza che le strappò dal capo il bel fazzoletto di seta celeste e le impose invece codesto cappellaccio nero; la scienza appresa tardi e male; la scienza che le ha tolto la vista e le ha dato gli occhiali; la scienza che le ha imbrogliato tutta l'esperienza di trentacinque anni; la scienza che le è costata due anni di martirio alla sua età; la scienza, no, non potrà piú buttarla via, donna Mimma; e questo è il vero male, il male irreparabile! Perché si dà il caso, ora, che una vicina, sposa da appena un anno e già sul punto d'esser mamma, non trova questa sera nelle quattro stanzette della sua casa un punto, un punto solo, dove quietar la smania da cui si sente soffocare; va sul terrazzino, guarda... no, si sente lei guardata stranamente da tutte le stelle che sfavillano in cielo; e se lo sente acuto nelle carni come un formicolío di brividi, tutto questo pungere di stelle; e comincia a gemere e a gridare che non ne può piú! Si può aspettare; le dicono che si può aspettare fino a domani; ma lei dice di no, dice che, se dura cosí, prima che venga domani, lei sarà morta, e allora, poiché l'altra, la Piemontesa, è occupata altrove e ha mandato a dire che proprio gliene duole ma questa notte non può venire; giacché ora sono in due nel paesello a far questo mestiere, via, si può provare a chiamare donna Mimma.
Eh? che? donna Mimma? e che è donna Mimma? uno straccio per turare i buchi? Lei non vuol fare da "sostituta" a quell'altra là! Ma alla fine s'arrende alle preghiere, si pianta prima pian piano il cappello in capo, e va. Ahimè, è possibile che non colga ora questa occasione donna Mimma per dimostrare che ha studiato due anni all'Università come quell'altra, e che sa fare ora come quell'altra, meglio di quell'altra, con tutte quante le regole della scienza e i precetti dell'igiene? Disgraziata! Le vuol mostrare tutte a una a una queste regole della scienza; tutti a uno a uno li vuole applicare questi precetti dell'igiene; tanto mostrare, tanto applicare, che a un certo punto bisogna mandare a precipizio per l'altra, per la Piemontesa, e anche per il medico ora, se si vuol salvare questa povera mamma e la creaturina, che rischiano di morire impedite, soffocate, strozzate da tutte quelle regole e da tutti quei precetti.
E ora per donna Mimma è finita davvero. Dopo questa prova, nessuno - ed è giusto - vorrà piú saperne di lei. Invelenita contro tutto il paese, col cappellaccio in capo, ogni giorno ella scende in piazza, ora, a fare una scenata davanti la farmacia, dando dell'asino al dottore e della sgualdrinella a quella ladra Piemontesa che è venuta a rubarle il pane. C'è chi dice che s'è data al vino, perché dopo queste scenate, ritornando a casa, donna Mimma piange, piange inconsolabilmente; e questo, come si sa, è un certo effetto che il vino suol fare.
La Piemontesina, intanto, col fazzoletto di seta celeste in capo e il lungo scialle d'indiana stretto intorno alla svelta personcina, corre da una casa all'altra, con gli occhi a terra, modesti, e lancia di tanto in tanto di traverso una guardatina maliziosa e un sorrisetto che le scopre su le due guance le fossette. Dice con rammarico ch'è un vero peccato che donna Mimma si sia ridotta cosí, perché dal ritorno di lei in paese ella sperava un sollievo; ma sí, un sollievo, visto che questi benedetti papà siciliani troppi, troppi denari hanno, da spendere in figliuoli, e notte e giorno senza requie la fanno viaggiare in lettiga.
L'ABITO NUOVO
L'abito che quel povero Crispucci indossava da tempo immemorabile, nessuno riusciva piú a considerarlo come una cosa soprammessa al suo corpo, una cosa che si potesse cambiare. Agli occhi di tutti egli era ormai in quel suo abito, come un vecchio cane randagio nel suo pelame stinto e strappato.
Per questa ragione, l'avvocato Boccanera, suo principale, non aveva mai pensato di potergli regalare uno dei tanti suoi abiti smessi ancora in buono stato. Cosí com'era, gli serviva a meraviglia; scrivano e galoppino a centoventi lire al mese.
Quel giorno, il signor avvocato Boccanera stava a tenergli un interminabile e amorevole discorso. Di solito, bastava che gli dicesse, con un certo ammiccamento degli occhi: "Crispucci, eh?" e Crispucci intendeva tutto. In quel momento, però, davanti la scrivania, tutto ripiegato e scivolante come un'S, le due lunghe braccia da scimmia ciondoloni, pareva che non capisse piú nulla.
Apriva di tratto in tratto la bocca, ma non per parlare. Era una contrazione delle guance, o piuttosto, come un'increspatura di tutta la faccia gialliccia, che, scoprendogli i denti, poteva parere una smorfia, cosí di scherno come di spasimo; ma forse era soltanto un segno d'attenzione.
- Dunque, caro Crispucci, tutto considerato, vi consiglio di partire. Sarà per me un guajo serio; ma partite. Avrò pazienza per una quindicina di giorni. Eh, almeno quindici giorni vi ci vorranno per tutte le pratiche da sbrigare e le formalità. E anche perché, mi figuro, venderete tutto.
Crispucci aprí le braccia, con gli occhi biavi fissi nel vuoto.
- Eh sí, vendere, vi conviene vendere. Gioje, abiti, mobili. Il grosso è nelle gioje. Cosí a occhio, dalla descrizione dell'inventario, ci sarà da cavarne da centocinquanta a duecento mila lire; forse piú. C'è anche un vezzo di perle. Quanto agli abiti (voi capite) non li potrà certo indossare la vostra figliuola. Chi sa che abiti saranno! Ma ne caverete poco, non vi fate illusioni. Gli abiti si svendono, anche se ricchissimi. Forse dalle pellicce (pare ce ne sia una collezione) sapendo fare, qualche cosa caverete. Oh, badate: per le gioje, sarebbe bene che appuraste da quali negozianti furono acquistate. Forse lo vedrete dagli astucci. Vi avverto che i brillanti sono molto cresciuti di prezzo. E qui nell'elenco ce ne son segnati parecchi. Ecco: una spilla... un'altra spilla... anello... anello... un bracciale... un altro anello... ancora un anello... una spilla... bracciale... bracciale... Parecchi come vedete.
A questo punto Crispucci alzò una mano. Segno che voleva parlare. Le rarissime volte che gli avveniva, ne dava l'avviso cosí. E questo segno della mano era accompagnato da un'altra increspatura della faccia ch'esprimeva lo stento e la pena di tirar sú la voce da quell'abisso di silenzio in cui la sua anima era da tanto tempo sprofondata.
- Po... potrei, - disse, - farmi ardito... uno di... uno di questi anelli... alla sua signora?
- Ma no, che dite, caro Crispucci? - scattò il signor avvocato. - La mia signora, vi pare? uno di quegli anelli!
Crispucci abbassò la mano; accennò di sí piú volte col capo.
- Mi scusi.
- Ma no, anzi vi ringrazio. Piangete? No, via, via, caro Crispucci! Non ho voluto offendervi! Sú, sú. Lo so, lo comprendo è per voi una cosa molto triste; ma pensate che non accettate per voi codesta eredità: voi non siete solo, avete una figliuola, a cui non sarà facile trovar marito, senza una buona dote, che ora... Eh, lo so! è a un prezzo ben duro! Ma i denari son denari, caro Crispucci, e fanno chiudere gli occhi su tante cose. Avete anche la madre. Non avete molta salute, e...
Crispucci, che aveva approvato col capo le precedenti considerazioni del signor avvocato, a questa su la sua salute, sgranò gli occhi con un piglio scontroso. S'inchinò; si mosse per uscire.
- E non prendete le carte? - gli disse l'avvocato, porgendogliele di su la scrivania.
Crispucci tornò indietro, asciugandosi gli occhi con un sudicio fazzoletto, e prese quelle carte.
- Dunque partite domani?
- Signor avvocato, - rispose Crispucci, guardandolo, come deciso a dire una cosa che gli faceva tremare il mento; ma s'arrestò, lottò un pezzo per ricacciare indietro, nell'abisso di silenzio, quel che stava per dire; alzò un poco le spalle, aprí un poco le braccia e andò via.
Stava per dire: "Parto, se vossignoria accetta per la sua signora un anellino di questa mia eredità!".
Di là, agli altri scritturali dello studio che da tre giorni si spassavano a torturarlo, punzecchiandolo con fredda ferocia, aveva promesso, digrignando i denti, a chi una veste di seta per la moglie, a chi un cappello con le piume per la figliuola, a chi un manicotto per la fidanzata.
- Magari!
- E qualche camicia fina, velata e ricamata, aperta davanti, per tua sorella?
- Magari!
Voleva che di quella eredità tutti, con lui, fossero insozzati.
Leggendo nell'inventario la descrizione del ricchissimo guardaroba della defunta, e di quel che contenevano di biancheria gli armadii e i cassettoni, s'era figurato di poterne vestire tutte le donne della città.
Se un resto di ragione non lo avesse trattenuto, si sarebbe fermato per via a prendere per il petto i passanti e a dir loro:
- Mia moglie era cosí e cosí; è crepata or ora a Napoli; m'ha lasciato questo e quest'altro; volete per vostra moglie, per vostra sorella, per le vostre figliuole, una mezza dozzina di calze di seta, su fino alla coscia, finissime, traforate?
Un giovanotto spelato, dalla faccia itterica, che aveva la malinconia di voler parere elegante, si sentiva finir lo stomaco da tre giorni, in quella stanza degli scritturali, a tali profferte. Era da una settimana soltanto nello studio, e piú che da scrivano faceva da galoppino; ma voleva conservare la sua dignità; non parlava quasi mai, anche perché nessuno gli rivolgeva la parola; si contentava d'accennare un sorrisetto vano a fior di labbra, non privo d'un certo sprezzo lieve lieve, ascoltando i discorsi degli altri, e tirava fuori dalle maniche troppo corte o ricacciava indietro con mossettine sapienti i polsini ingialliti.
Quel giorno, appena Crispucci uscí dalla stanza del signor avvocato, prese dall'attaccapanni il cappello e il bastone per andargli dietro, mentre gli altri scrivani, ridendo, gridavano dall'alto della scala:
- Crispucci, ricordati! La camicia per mia sorella!
- La veste di seta per mia moglie!
- Il manicotto per la mia fidanzata!
- La piuma di struzzo per la mia figliuola!
Per istrada lo investí, con la faccia piú scolorita che mai dalla bile:
- Ma perché fate tante sciocchezze? Perché seminate la roba cosí? Porterà scritta forse in qualche parte la provenienza? Vi tocca una fortuna come questa, e non sapete profittarne. Siete impazzito?
Crispucci si fermò un momento a guatarlo di traverso.
- Fortuna, sí! - ribatté quello. - Fortuna prima e fortuna adesso! Prima, per esservene liberato tant'anni fa, quando vi scappò di casa.
- Te ne sei informato?
- Me ne sono informato. Ebbene? Che noje, che impicci che fastidi ne aveste piú? Ora è morta; e non vi sembra un'altra fortuna? Perdio! Non solo perché è morta, ma anche perché di stato vi farà cangiare!
Crispucci si fermò a guatarlo di nuovo.
- T'hanno detto forse che ho una figliuola da maritare?
- Vi parlo cosí per questo!
- Ah! Franco.
- Franchissimo.
- E vuoi che pigli l'eredità?
- Sareste un pazzo a non farlo! Duecentomila lire!
- E con duecentomila lire, vorresti che dessi la figliuola a te?
- Perché no?
- Perché, se mai, con duecentomila lire, potrei comprare una vergogna meno sporca della tua.
- Oh, voi m'offendete!
- No. Ti stimo. Tu stimi me, io stimo te. Per una vergogna come la tua non darei piú di tremila lire.
- Tre?
- Cinque, va là! e un po' di biancheria. Hai una sorella anche tu? Tre camíce di seta anche a lei, aperte davanti! Se le vuoi, te le do.
E lo piantò lí, in mezzo alla strada.
A casa non disse una parola né alla madre né alla figliuola. Del resto, non aveva mai ammesso, da sedici anni, dal giorno della sciagura in poi, nessun discorso che non si riferisse ai bisogni momentanei della vita. Se l'una o l'altra accennava minimamente a qualche considerazione estranea a questi bisogni, si voltava a guardarle con tali occhi, che subito la voce moriva loro sulle labbra.
Il giorno appresso partí per Napoli, lasciandole non solo nell'incertezza piú angosciosa sul conto di quella eredità, ma anche in una grande costernazione, se - Dio liberi - commettesse qualche grossa pazzia.
Le donne del vicinato fomentavano questa costernazione, riferendo e commentando tutte le stranezze commesse da Crispucci in quei tre giorni. Qualcuna, con rosea e fresca ingenuità, alludendo alla defunta, domandava:
- Ma com'è ch'era tanto ricca?
E un'altra:
- Ho sentito dire che si chiamava Margherita. La biancheria intanto, dicono che è cifrata R e B.
- E B? No, R e C, - correggeva un'altra - Rosa Clairon, ho sentito dire.
- Ah, guarda, Clairon... Cantava?
- Pare di no.
- Ma sí che cantava! Ultimamente no, piú. Ma prima cantava.
- Rosa Clairon, sí... mi pare.
La figliuola, a questi discorsi, guardava la vecchia nonna con un lustro di febbre negli occhi affossati, e una fiamma fosca sulle guance magre. La vecchia nonna, con la grossa faccia gialla, sebacea, quasi spaccata da profonde rughe rigide e precise, s'aggiustava sul naso gli occhialoni che, dopo l'operazione della cateratta, le rendevano mostruosamente grandi e vani gli occhi tra le rade ciglia lunghe come antenne d'insetto, e rispondeva con sordi grugniti a tutte quelle ingenuità delle vicine.
Molte delle quali sostenevano con calore, che via, in fin dei conti, non solo non era da stimar pazzo, ma forse neppure da biasimare quel povero signor Crispucci, se voleva che nessuno di quegli abiti, nessun capo di quella biancheria toccasse le carni immacolate della sua figliuola. Meglio darli via, se non voleva svenderli. Naturalmente, come vicine di casa, credevano di poter pretendere che, a preferenza, fossero distribuiti tra loro. Almeno qualche regaluccio, via! Chi sa che fiume di sete gaje e lucenti, che spume di merletti, tra rive di morbidi velluti e ciuffi di bianche piume di cappelli, sarebbero entrati fra qualche giorno nello squallore di quella stamberga.
Solo a pensarci, ne avevano tutte gli occhi piccoli piccoli. E Fina, la figliuola, ascoltandole e vedendole cosí inebriate, si storceva le mani sotto il grembiule, e alla fine scattava in piedi e andava via.
- Povera figliuola, - sospirava allora qualcuna. - È la pena.
E un'altra domandava alla nonna:
- Credete che il padre la farà vestir di nero?
La vecchia rispondeva con un altro grugnito, per significare che non ne sapeva nulla.
- Ma certo! Le tocca!
- È infine la madre.
- Se accetta l'eredità!
- Ma vedrete che prenderà il lutto anche lui.
- No no, lui no.
- Se accetta l'eredità!
La vecchia si agitava sulla seggiola, come Fina si agitava sul letto, di là. Perché questo era il dubbio smanioso: che egli accettasse l'eredità.
Tutte e due, di nascosto, al primo annunzio della morte, s'erano recate dal signor avvocato Boccanera, spaventate dalle furie con cui Crispucci aveva accolto la notizia di quell'eredità, e lo avevano scongiurato a mani giunte di persuaderlo a non commettere le pazzie minacciate. Come sarebbe rimasta, alla morte di lui, quella povera figliuola, che non aveva avuto mai, mai un momento di bene da che era nata? Egli metteva in bilancia un'eredità di disonore e una eredità d'orgoglio: l'orgoglio d'una miseria onesta. Ma perché pesare con questa bilancia la fortuna che toccava alla povera figliuola? Era stata messa al mondo senza volerlo, quella poverina, e finora con tante amarezze aveva scontato il disonore della madre; doveva ora per giunta essere sacrificata anche all'orgoglio del padre?
Durò un'eternità - diciotto giorni - l'angoscia di questo dubbio. Neppure un rigo di lettera in quei diciotto giorni. Finalmente, una sera, per la lunga scala erta e angusta le due donne intesero un tramestio affannoso. Erano i facchini della stazione che portavano sú, tra ceste e bauli, undici pesanti colli.
A piè della scala, Crispucci aspettò che i facchini andassero a deporre il carico nel suo appartamento al quarto piano; li pagò; quando la scala ritornò quieta, prese a salire adagio adagio.
La madre e la figliuola lo attendevano trepidanti sul pianerottolo, col lume in mano. Alla fine lo videro apparire, a capo chino, con un cappello nuovo, verdastro, insaccato in un abito nuovo, peloso, color tabacco, comprato certo bell'e fatto a Napoli in qualche magazzino popolare. I calzoni lunghi gli strascicavano oltre i tacchi delle scarpe pur nuove; la giacca gli sgonfiava da collo.
Né l'una né l'altra delle due donne ardí di muovere una domanda. Quell'abito parlava da sé. Soltanto la figliuola, nel vederlo diretto alla sua stanza, prima che ne richiudesse l'uscio, gli chiese:
- Hai cenato, papà?
Crispucci, dalla soglia, voltò la faccia, e con una smorfia nuova di riso e una nuova voce rispose:
- Wagon-restaurant.
IL CAPRETTO NERO
Senza dubbio il signor Charles Trockley ha ragione. Sono anzi disposto ad ammettere che il signor Charles Trockley non può aver torto mai, perché la ragione e lui sono una cosa sola. Ogni mossa, ogni sguardo, ogni parola del signor Charles Trockley sono cosí rigidi e precisi, cosí ponderati e sicuri, che chiunque, senz'altro, deve riconoscere che non è possibile che il signor Charles Trockley, in qual si voglia caso, per ogni questione che gli sia posta, o incidente che gli occorra, stia dalla parte del torto.
Io e lui, per portare un esempio, siamo nati lo stesso anno, lo stesso mese e quasi lo stesso giorno; lui, in Inghilterra, io in Sicilia. Oggi, quindici di giugno, egli compie quarantotto anni; quarantotto ne compirò io il giorno ventotto. Bene: quant'anni avremo, lui il quindici, e io il ventotto di giugno dell'anno venturo? Il signor Trockley non si perde; non esita un minuto; con sicura fermezza sostiene che il quindici e il ventotto di giugno dell'anno venturo lui e io avremo un anno di piú, vale a dire quarantanove.
È possibile dar torto al signor Charles Trockley?
Il tempo non passa ugualmente per tutti. Io potrei avere da un sol giorno, da un'ora sola piú danno, che non lui da dieci anni passati nella rigorosa disciplina del suo benessere; potrei vivere, per il deplorevole disordine del mio spirito, durante quest'anno, piú d'una intera vita. Il mio corpo, piú debole e assai meno curato del suo, si è poi, in questi quarantotto anni, logorato quanto certamente non si logorerà in settanta quello del signor Trockley. Tanto vero ch'egli, pur coi capelli tutti bianchi d'argento, non ha ancora nel volto di gambero cotto la minima ruga, e può ancora tirare di scherma ogni mattina con giovanile agilità.
Ebbene, che importa? Tutte queste considerazioni, ideali e di fatto, sono per il signor Charles Trockley oziose e lontanissime dalla ragione. La ragione dice al signor Charles Trockley che io e lui, a conti fatti, il quindici e il ventotto di giugno dell'anno venturo avremo un anno di piú, vale a dire quarantanove.
Premesso questo, udite che cosa è accaduto di recente al signor Charles Trockley e provatevi, se vi riesce, a dargli torto.
Lo scorso aprile, seguendo il solito itinerario tracciato dal Baedeker per un viaggio in Italia, Miss Ethel Holloway, giovanissima e vivacissima figlia di Sir W. H. Holloway, ricchissimo e autorevolissimo Pari d'Inghilterra, capitò in Sicilia, a Girgenti, per visitarvi i maravigliosi avanzi dell'antica città dorica. Allettata dall'incantevole piaggia tutta in quel mese fiorita del bianco fiore dei mandorli al caldo soffio del mare africano pensò di fermarsi piú d'un giorno nel grande Hôtel des Temples che sorge fuori dell'erta e misera cittaduzza d'oggi, nell'aperta, campagna, in luogo amenissimo.
Da ventidue anni il signor Charles Trockley è vice-console d'Inghilterra a Girgenti, e da ventidue anni, ogni giorno, sul tramonto, si reca a piedi, col suo passo elastico e misurato, dalla città alta sul colle alle rovine dei Tempii akragantini, aerei e maestosi su l'aspro ciglione che arresta il declivio della collina accanto, la collina akrea, su cui sorse un tempo, fastosa di marmi, l'antica città da Pindaro esaltata come bellissima tra le città mortali.
Dicevano gli antichi che gli Akragantini mangiavano ogni giorno come se dovessero morire il giorno dopo, e costruivano le loro case come se non dovessero morir mai. Poco ora mangiano, perché grande è la miseria nella città e nelle campagne, e delle case della città antica, dopo tante guerre e sette incendii e altrettanti saccheggi, non resta piú traccia. Sorge al posto di esse un bosco di mandorli e d'olivi saraceni, detto perciò il Bosco della Cívita. E i chiomati olivi cinerulei s'avanzano in teoria fin sotto alle colonne dei Tempii maestosi e par che preghino pace per quei clivi abbandonati. Sotto il ciglione scorre, quando può, il fiume Akragas che Pindaro glorificò come ricco di greggi. Qualche greggiola di capre, attraversa tuttavia il letto sassoso del fiume: s'inerpica sul ciglione roccioso e viene a stendersi e a rugumare il magro pascolo all'ombra solenne dell'antico tempio della Concordia, integro ancora. Il caprajo, bestiale e sonnolento come un arabo, si sdraja anche lui sui gradini del pronao dirupati e trae qualche suono lamentoso dal suo zufolo di canna.
Al signor Charles Trockley questa intrusione delle capre nel tempio è sembrata sempre un'orribile profanazione; e innumerevoli volte ne ha fatto formale denunzia ai custodi dei monumenti, senza ottener mai altra risposta che un sorriso di filosofica indulgenza e un'alzata di spalle. Con veri fremiti d'indignazione il signor Charles Trockley di questi sorrisi e di queste alzate di spalle s'è lagnato con me che qualche volta lo accompagno in quella sua quotidiana passeggiata. Avviene spesso che, o nel tempio della Concordia, o in quello piú sú di Hera Lacinia, o nell'altro detto volgarmente dei Giganti, il signor Trockley s'imbatta in comitive di suoi compatriotti, venute a visitare le rovine. E a tutti egli fa notare, con quell'indignazione che il tempo e l'abitudine non hanno ancora per nulla placato o affievolito, la profanazione di quelle capre sdrajate e rugumanti all'ombra delle colonne. Ma non tutti gl'inglesi visitatori, per dir la verità, condividono l'indignazione del signor Trockley. A molti anzi sembra non privo d'una certa poesia il riposo di quelle capre nei Tempii, rimasti come sono ormai solitari in mezzo al grande e smemorato abbandono della campagna. Piú d'uno, con molto scandalo del signor Trockley, di quella vista si mostra anzi lietissimo e ammirato.
Piú di tutti lieta e ammirata se ne mostrò, lo scorso aprile, la giovanissima e vivacissima Miss Ethel Holloway. Anzi, mentre l'indignato vice-console stava a darle alcune preziose notizie archeologiche, di cui né il Baedeker né altra guida hanno ancor fatto tesoro, Miss Ethel Holloway commise l'indelicatezza di voltargli le spalle improvvisamente per correr dietro a un grazioso capretto nero, nato da pochi giorni, che tra le capre sdraiate springava qua e là come se per aria attorno gli danzassero tanti moscerini di luce, e poi di quei suoi salti arditi e scomposti pareva restasse lui stesso sbigottito, ché ancora ogni lieve rumore, ogni alito d'aria, ogni piccola ombra, nello spettacolo per lui tuttora incerto della vita, lo facevano rabbrividire e fremer tutto di timidità.
Quel giorno, io ero col signor Trockley, e se molto mi compiacqui della gioja di quella piccola Miss, cosí di subito innamorata del capretto nero, da volerlo a ogni costo comperare; molto anche mi dolsi di quanto toccò a soffrire al povero signor Charles Trockley.
- Comperare il capretto?
- Sí, sí! comperare subito! subito!
E fremeva tutta anche lei, la piccola Miss, come quella cara bestiolina nera; forse non supponendo neppur lontanamente che non avrebbe potuto fare un dispetto maggiore al signor Trockley, che quelle bestie odia da tanto tempo ferocemente.
Invano il signor Trockley si provò a sconsigliarla, a farle considerare tutti gl'impicci che le sarebbero venuti da quella compera: dovette cedere alla fine e, per rispetto al padre di lei, accostarsi al selvaggio caprajo per trattar l'acquisto del capretto nero.
Miss Ethel Holloway, sborsato il denaro della compera, disse al signor Trockley che avrebbe affidato il suo capretto al direttore dell'Hôtel des Temples, e che poi, appena ritornata a Londra, avrebbe telegrafato perché la cara bestiolina, pagate tutte le spese, le fosse al piú presto recapitata; e se ne tornò in carrozza all'albergo, col capretto belante e guizzante tra le braccia.
Vidi, incontro al sole che tramontava fra un mirabile frastaglio di nuvole fantastiche, tutte accese sul mare che ne splendeva sotto come uno smisurato specchio d'oro, vidi nella carrozza nera quella bionda giovinetta gracile e fervida allontanarsi infusa nel nembo di luce sfolgorante; e quasi mi parve un sogno. Poi compresi che, avendo potuto, pur tanto lontana dalla sua patria, dagli aspetti e dagli affetti consueti della sua vita, concepir subito un desiderio cosí vivo, un cosí vivo affetto per un piccolo capretto nero, ella non doveva avere neppure un briciolo di quella solida ragione, che con tanta gravità governa gli atti, i pensieri, i passi e le parole del signor Charles Trockley.
E che cosa aveva allora al posto della ragione la piccola Miss Ethel Holloway?
Nient'altro che la stupidaggine, sostiene il signor Charles Trockley con un furore a stento contenuto, che quasi quasi fa pena, in un uomo come lui, sempre cosí compassato.
La ragione del furore è nei fatti che son seguiti alla compera di quel capretto nero.
Miss Ethel Holloway partí il giorno dopo da Girgenti. Dalla Sicilia doveva passare in Grecia, dalla Grecia, in Egitto; dall'Egitto nelle Indie.
È miracolo che, arrivata sana e salva a Londra su la fine di novembre, dopo circa otto mesi e dopo tante avventure che certamente le saranno occorse in un cosí lungo viaggio, si sia ancora ricordata del capretto nero comperato un giorno lontano tra le rovine dei Tempii akragantini in Sicilia.
Appena arrivata, secondo il convenuto, scrisse per riaverlo al signor Charles Trockley.
L'Hôtel des Temples si chiude ogni anno alla metà di giugno per riaprirsi ai primi di novembre. Il direttore, a cui Miss Ethel Holloway aveva affidato il capretto, alla metà di giugno, partendo, lo aveva a sua volta affidato al custode dell'albergo, ma senz'alcuna raccomandazione, mostrandosi anzi seccato piú d'un po' del fastidio che gli aveva dato e seguitava a dargli quella bestiola. Il custode aspettò di giorno in giorno che il vice-console signor Trockley, per come il direttore gli aveva detto, venisse a prendersi il capretto per spedirlo in Inghilterra, poi, non vedendo comparir nessuno, pensò bene, per liberarsene, di darlo in consegna a quello stesso caprajo che lo aveva venduto alla Miss, promettendoglielo in dono se questa, come pareva, non si fosse piú curata di riaverlo, o un compenso per la custodia e la pastura, nel caso che il vice-console fosse venuto a chiederlo.
Quando, dopo circa otto mesi, arrivò da Londra la lettera di Miss Ethel Holloway, tanto il direttore dell'Hôtel des Temples, quanto il custode, quanto il caprajo si trovarono in un mare di confusione; il primo per aver affidato il capretto al custode; il custode per averlo affidato al caprajo, e questi per averlo a sua volta dato in consegna a un altro caprajo con le stesse promesse fatte a lui dal custode. Di questo secondo caprajo non s'avevano piú notizie. Le ricerche durarono piú d'un mese. Alla fine, un bel giorno, il signor Charles Trockley si vide presentare nella sede del vice-consolato in Girgenti un orribile bestione cornuto, fetido, dal vello stinto rossigno strappato e tutto incrostato di sterco e di mota, il quale, con rochi, profondi e tremuli belati, a testa bassa, minacciosamente, pareva domandasse che cosa si volesse da lui, ridotto per necessità di cose in quello stato, in un luogo cosí strano dalle sue consuetudini.
Ebbene, il signor Charles Trockley, secondo il solito suo, non si sgomentò minimamente a una tale apparizione; non tentennò un momento: fece il conto del tempo trascorso, dai primi d'aprile agli ultimi di dicembre, e concluse che, ragionevolmente, il grazioso capretto nero d'allora poteva esser benissimo quest'immondo bestione d'adesso. E senza neppure un'ombra d'esitazione rispose alla Miss, che subito gliel'avrebbe mandato da Porto Empedocle col primo vapore mercantile inglese di ritorno in Inghilterra. Appese al collo di quell'orribile bestia un cartellino con l'indirizzo di Miss Ethel Holloway e ordinò che fosse trasportata alla marina. Qui, lui stesso, mettendo a grave repentaglio la sua dignità, si tirò dietro con una fune la bestia restia per la banchina del molo, seguito da una frotta di monellacci; la imbarcò sul vapore in partenza, e se ne ritornò a Girgenti, sicurissimo d'aver adempiuto scrupolosamente all'impegno che s'era assunto, non tanto per la deplorevole leggerezza di Miss Ethel Holloway, quanto per il rispetto dovuto al padre di lei.
Jeri, il signor Charles Trockley è venuto a trovarmi in casa in tali condizioni d'animo e di corpo, che subito, costernatissimo, io mi son lanciato a sorreggerlo, a farlo sedere, a fargli recare un bicchier d'acqua.
- Per amor di Dio, signor Trockley, che vi è accaduto?
Non potendo ancora parlare, il signor Trockley ha tratto di tasca una lettera e me l'ha porta.
Era di Sir H. W. Holloway, Pari d'Inghilterra, e conteneva una filza di gagliarde insolenze al signor Trockley per l'affronto che questi aveva osato fare alla figliuola Miss Ethel, mandandole quella bestia immonda e spaventosa.
Questo, in ringraziamento di tutti i disturbi, che il povero signor Trockley s'è presi.
Ma che si aspettava dunque quella stupidissima Miss Ethel Holloway? Si aspettava che, a circa undici mesi dalla compera, le arrivasse a Londra quello stesso capretto nero che springava piccolo e lucido, tutto fremente di timidezza tra le colonne dell'antico Tempio greco in Sicilia? Possibile? Il signor Charles Trockley non se ne può dar pace.
Nel vedermelo davanti in quello stato, io ho preso a confortarlo del mio meglio, riconoscendo con lui che veramente quella Miss Ethel Holloway dev'essere una creatura, non solo capricciosissima, ma oltre ogni dire irragionevole.
- Stupida! stupida! stupida!
- Diciamo meglio irragionevole, caro signor Trockley, amico mio. Ma vedete, - (mi son permesso d'aggiungere timidamente) - ella, andata via lo scorso aprile con negli occhi e nell'anima l'immagine graziosa di quel capretto nero, non poteva, siamo giusti, far buon viso (cosí irragionevole com'è evidentemente) alla ragione che voi, signor Trockley, le avete posta davanti all'improvviso con quel caprone mostruoso che le avete mandato.
- Ma dunque? - mi ha domandato, rizzandosi e guardandomi con occhio nemico, il signor Trockley. - Che avrei dovuto fare, dunque, secondo voi?
- Non vorrei, signor Trockley, - mi sono affrettato a rispondergli imbarazzato, - non vorrei sembrarvi anch'io irragionevole come la piccola Miss del vostro paese lontano, ma al posto vostro, signor Trockley, sapete che avrei fatto io? O avrei risposto a Miss Ethel Holloway che il grazioso capretto nero era morto per il desiderio de' suoi baci e delle sue carezze; o avrei comperato un altro capretto nero, piccolo piccolo e lucido, simile in tutto a quello da lei comperato lo scorso aprile e gliel'avrei mandato, sicurissimo che Miss Ethel Holloway non avrebbe affatto pensato che il suo capretto non poteva per undici mesi essersi conservato cosí tal quale. Seguito con ciò, come vedete, a riconoscere che Miss Ethel Holloway è la creatura piú irragionevole di questo mondo e che la ragione sta intera e tutta dalla parte vostra, come sempre, caro signor Trockley, amico mio.
SEDILE SOTTO UN VECCHIO CIPRESSO
Era stato, nel suo miglior tempo (come tanti ancora lo ricordavano), uno di quegli uomini che non si sa mai perché siano cosí: ti guardano con certi occhi; ti scoppiano a ridere in faccia all'improvviso senza motivo; o ti voltano le spalle lasciandoti in asso lí per lí. Per quanto pratichi con loro, non riesci mai a imparare che diavolo covino nel fondo; sempre distratti e come assenti; benché poi, quando meno te l'aspetti, li vedi montare sulle furie per certe cose da nulla, di cui non avresti mai supposto che si potessero accorgere: o, peggio, resti quasi avvilito per conto loro, venendo a sapere dopo qualche tempo che, per futilissimi motivi da te neanche avvertiti, ti han serbato di nascosto un profondo e velenosissimo rancore, mentre li vedi fiduciosi accordar la loro simpatia e la loro stima a cert'altri, dai quali pur sanno d'aver ricevuto male davvero, un mese addietro.
Strambo e un po' ridicolo era anche nella figura e nel portamento. Le gambe, già sottili per sé, strette in quei calzoncini da cavallerizzo, parevano due stecchi; e su quelle gambe la giacca, sempre a due petti, gli segnava cosí preciso il busto, che sembrava uno di quei torsi avvitati su un gambo a tre piedi che si vedono nelle botteghe d'abiti bell'e fatti. Su quel busto, il testoncino, ritto sul collo stralungo; baffetti a punta, e due occhietti acuti e vivaci d'uccello, che gli sbattevano continuamente.
A vederlo cosí, e sapendo ch'era uno dei primi avvocati del paese, ciascuno avrebbe voluto raffigurarselo altrimenti. L'avvocato Lino Cimino rompeva subito sul viso a quei delusi una delle sue solite risate.
Qualche amico, di quelli che gli volevano bene veramente, aveva piú volte tentato di fargli notare che non stava, per un uomo come lui, far certi atti, dir certe cose, dare in pascolo senza ritegno ai maligni certe segrete afflizioni della sua vita famigliare. Ma sí! A far le spese della maldicenza generale pareva provasse un'oscena voluttà; come per esempio quando si metteva con gesti sguajati e sconce parole a gridar vendetta al cielo perché la moglie gli aveva messo al mondo una dopo l'altra quattro figlie femmine; quasi gliel'avesse fatto apposta per dimostrare che lui - perdio, lui! - non era capace di generare un maschio.
Escandescenze che trattenevano dal fargli altri richiami per l'afflizione che davano. Pareva incredibile che potesse affogare in tali meschinità volgari un uomo di tanto valore, che commoveva e sbalordiva tutti quando l'estro, parlando, gli s'accendeva, o quando, nei ragionamenti sui casi della vita, sapeva trovar certe considerazioni che subito, i piú oscuri e confusi, diventavano chiari e perspicui agli occhi di chi stava ad ascoltarlo.
La sua casa, intanto, era un inferno per le continue scenate con la moglie, che rischiavano ogni volta di buttare all'aria la famiglia. Ora l'uno ora l'altro degli amici doveva accorrere, chiamato, a rimetter pace; uno segnatamente, a cui egli per quelle sue solite improvvise simpatie aveva subito accordato la piú cieca fiducia; questa volta però, a giudizio di tutti, non mal collocata. Il giovane avvocato Carlo Papía.
Lo aveva accolto nel suo studio, appena laureato. Le quattro figliuole, allora bambine, vedendolo accorrere, gli andavano incontro festanti, perché sapevano che di lí a poco, con la sua venuta, il sorriso sarebbe ritornato sulle labbra della madre e anche del padre; e, appena rimessa la pace, volevano andare a spasso con lui; ed era ogni volta una zuffa per accaparrarsi una sua mano: ne volevano una per ciascuna, e lui a disperarsi ridendo e mostrando che ne aveva due sole e che non poteva accontentarle tutt'e quattro. In paese, vedendolo in mezzo a quelle quattro bambine chiacchierine e affettuose, gli amici gli facevano festa e gli predicevano che presto, cosí ben protetto ed entrato nelle grazie della famiglia, avrebbe avuto il premio dei lunghi sacrifizii che la sua laurea doveva esser costata ai suoi poveri parenti da un pezzo decaduti.
Ma può un marito impunemente chiamar di mezzo tra sé e la moglie piú giovane di lui un altr'uomo anche piú giovane della moglie, di piacevole aspetto e di modi graziosi, esercitati a persuadere l'amore e l'accordo? Scoperto il tradimento, l'avvocato Lino Cimino si comportò naturalmente da quello strambo che era. Incongruenze su incongruenze, una piú pazza dell'altra. Non si vuol negare che è inutile studiarsi di tener segrete certe cose perché non trapelino a nessuno: ad onta d'ogni diligenza ci s'accorge poi per tanti segni che tutti invece sanno e che solo per pietà han finto d'ignorare. Ma certamente peggio è fare lo scandalo e poi, di fronte alle ultime conseguenze di esso, arrestarsi e rimanere cosí a mezzo nella vergogna di cui abbiamo voluto dar pubblico spettacolo, deludendo col non concluder nulla l'attesa degli spettatori.
Prima scacciò la moglie, senza pensare di vendicarsi anche sopra l'amante, dichiarando anzi davanti a tutti che gli era grato del servizio che gli aveva reso; poi si riprese in casa la moglie, per pietà delle bambine, a patto che non si facesse mai piú rivedere da lui; ma la prima volta che incontrò il Papía per istrada, cavò di tasca la rivoltella e pim! pam! all'impazzata; chi scappò di qua, chi di là; e alla fine il Papía si ritrovò con una feritina a un braccio, e lui tra due guardie che gli attanagliavano i polsi. Assolto, si fece costruire un villino a due piani che pareva una carcere; relegò la moglie nel piano di sopra con le bambine; e lui, sotto, per sfregio si portò di notte a dormire anche donnacce da conio: e tant'altre pazzie e vergogne commise che gli avrebbero alienato, oltre la considerazione degli amici, anche tutti i clienti, se il timore d'averlo avversario non li avesse trattenuti dal rivolgersi ad altri.
Sapete quando una smania si mette allo stomaco, di quelle che levano il respiro; per cui non si sa piú né come né dove rivoltarsi; e si graffia il letto; si graffierebbero i muri; si urlerebbe se se n'avesse la forza; e tutto, la vista stessa delle cose dà un fastidio intollerabile, e sopra tutto ogni proposta di rimedio che ci venga da coloro che stanno attorno a guardarci, irritati per contagio della nostra esasperazione; e questo è l'unico sollievo, come per uno sfogo che riusciamo a prenderci senza che ci sia stato offerto? Per fortuna dura poco una tale smania. Ma all'avvocato Lino Cimino, gli si mise allo stomaco, e non gli passò piú, per anni e anni.
Con la moglie riammessa in casa e l'amante andato via dal paese tranquillamente dopo l'assoluzione di lui, vana, a parere di tutti, era stata la vendetta, come stolido lo scandalo. Che la moglie fosse ora tenuta come in prigione, senza poter neanche guardare dai vetri delle finestre sempre chiuse, non bastava. Non bastava perché, intanto, aveva la compagnia delle bambine (e neanche questo, se vogliamo, era da approvare, non potendo esser buona guida per le figliuole chi s'era dimenticata d'esser madre diventando una cattiva moglie); e poi, in compenso della condanna d'esser privata d'ogni libertà di comparire davanti agli altri, aveva ottenuto almeno d'essersi liberata di lui, pur seguitando a pesargli addosso. Dal piano di sotto egli se la sentiva camminare sul capo; e tante volte la sentiva anche ridere e cantare. Aveva, sí, finito di rovinare la famiglia già decaduta dei Papía e teneva segretamente sotto una persecuzione implacabile il giovine; ma neppur questo gli poteva bastare, perché sapeva che il Papía s'era allontanato dal paese, non tanto per la sua persecuzione, quanto per non sentirsi sbattere in faccia da tutti continuamente il male che aveva fatto, non già a lui suo benefattore, ma a se stesso e ai suoi, lasciandosi pigliare come un imbecille in quella tresca. Ora, cosí essendo (e il Cimino sentiva bene ch'era proprio cosí), seguitare a pestarlo, gli pareva desse piú soddisfazione agli altri che a sé; e quasi quasi avrebbe desiderato che qualcuno, reagendo, si fosse attentato a risollevar quell'imbecille dalla condanna di tutti per rimetterglielo di fronte, a provocare di nuovo, e piú acerbo, il suo sdegno, a risuscitare piú tremende le sue furie.
Nessuno si mosse; e a poco a poco svaporarono del tutto le furie e lo sdegno. Del Papía non s'intese piú parlare. Passarono gli anni; e quando le figliuole, già cresciute, trovarono marito tra i clienti dello studio che se le portarono via, senza festa e mortificate, in questo e in quel paesello della provincia; nessuno pensò piú a ciò che dovesse ormai esser la vita per il Cimino, nella casa vuota, con la moglie sú, sola; e lui sotto, solo. Allontanandosi sempre piú nel tempo, lo scompiglio cagionatogli da quanto gli era avvenuto, parve si fosse cosí freddato nello squallore dell'abitudine, che il ricordo stesso, forse, vi stava già come seppellito.
Risaltò, quel ricordo, all'improvviso e inaspettatamente, come uno spettro pauroso agli occhi di tutti, e parve un'atroce punizione che una giustizia oscura avesse per tanti anni covata di nascosto, allorché si vide da un canto ricomparire per le vie della città (e non si seppe mai donde) il Papía che chiedeva l'elemosina, tutto lacero e disfatto, irriconoscibile, con una barbaccia scoposa, già grigia, e mezzo cieco; e, dall'altro, ridotto un'ombra dopo un pajo di mesi che se n'era stato in casa per una segreta infermità, il Cimino: oh Dio, con la nuca che pareva gli fosse cresciuta un palmo su dal solino, liscia e cosí indurita, che la testa era costretta a star giú, immobile, quasi sotto un giogo; il mento rattratto sulla fossetta del collo, e gli occhi in una fissità continua, spasimosa e spaventevole, nel pallore del volto emaciato e pur gonfio, sparso qua e là di chiazze, come di quel nero che vajola la pietra dura di certe case antiche. Dichiarandosi dopo tanti anni, il male insidioso ch'era frutto dello scompiglio e delle follie vergognose in cui s'era avvoltolato per vendicarsi dell'infedeltà della moglie, lo aveva acchiappato e attanagliato in quel modo orribile alla nuca, la quale difatti aveva, cosí dura e scoperta, un che d'osceno.
Gli occhi, pur fissi in quel loro spasimo acuto, avevano ancora tanta luce, che nessuno poteva pensare che l'intelligenza in lui si fosse spenta. Ma facevano paura, quegli occhi. E i clienti uno dopo l'altro, abbandonarono lo studio, dov'egli, puntuale ogni mattina, seguitò tuttavia ad aspettarli, seduto alla scrivania ormai sgombra di carte, guardando la bussola di panno verde ingiallito, che non s'apriva piú. All'ora solita, chiuso lo studio, si recava a passeggiare nel viale solitario, all'uscita della città, da cui si godeva una gran veduta di poggi e di vallate.
Dove quel viale svoltava per proseguire sulla costa un po' piú sporgente della collina accanto, c'era una panchina a ridosso d'un cipresso. Il viale era tutto d'alberelli nuovi e freschi. Quel cipresso vi era come estraneo e solo. Perdute le scaglie, era divenuto per la vecchiaja una gigantesca pertica, liscia e morta, con un pennacchio appena in cima, come una spazzola da lumi. Nessuno mai andava a sedere sulla piccola panchina a ridosso di quel vecchio cipresso malauguroso. Vi andava a sedere il Cimino, per ore e ore, immobile, come un lugubre fantoccio che qualcuno per burla avesse posato lí.
Fu un poco prima di sera, ma già quasi a bujo. Stando egli a sedere su quella panchina, si vide passar davanti per il viale deserto il Papía con una mano protesa come a parar l'ombra e l'altra che cercava col bastone la via.
Lo chiamò.
La panchina, pur con tanto aperto davanti, aveva quel che di racchiuso fa l'ombra della sera attorno a ogni cosa che ancora si riesca a vedere.
Quegli, mezzo cieco, sentendosi chiamare, s'accostò e si protese a guardare: lo riconobbe e, come se un brivido gli passasse per le carni, stolzò e subito si mise a piangere con lo stomaco, sussultando; si abbatté sulla panchina, e i singhiozzi che non riuscivano ad arrivargli alla gola, s'appalesarono soltanto in un fiottar fitto del naso.
Non si dissero nulla.
Sentendolo piangere, l'altro che non poteva voltare la testa, allungò una mano e gliela batté pian piano piú volte su una gamba.
E rimasero cosí, appajati nell'atroce miseria da tutto il male che s'erano fatto e da cui nasceva, forse per un solo momento, quella disperata pietà che non li poteva piú in nessun modo consolare.
IL GATTO, UN CARDELLINO E LE STELLE
Una pietra. Un'altra pietra. L'uomo passa e le vede accanto. Ma che sa questa pietra della pietra accanto? E della zana, l'acqua che vi scorre dentro? L'uomo vede l'acqua e la zana; vi sente scorrer l'acqua e arriva finanche a immaginare che quell'acqua confidi, passando, chi sa che segreti alla zana.
Ah che notte di stelle sui tetti di questo povero paesello tra i monti! A guardare il cielo da questi tetti si potrebbe giurare che le stelle questa notte non vedano altro, cosí vivamente vi sfavillano sopra.
E le stelle ignorano anche la terra.
Quei monti? Ma possibile non sappiano che sono di questo paesello che sta in mezzo a loro da quasi mill'anni? Tutti sanno come si chiamano. Monte Corno, Monte Moro; ed essi non saprebbero neppure d'esser monti? E allora anche la piú vecchia casa di questo paesello ignorerebbe d'esser sorta qui, di far cantone qua a questa via che è la piú antica di tutte le vie? È mai possibile?
E allora?
Allora credete pure, se vi piace, che le stelle non vedano altro che i tetti del vostro paesello tra i monti.
Io ho conosciuto due vecchi nonni che avevano un cardellino. La domanda, come i tondi occhietti vivaci di quel cardellino vedessero le loro facce, la gabbia, la casa con tutti i vecchi arredi, e che cosa la testa di quel cardellino potesse pensare di tutte le cure e amorevolezze di cui lo facevano segno, non s'era mai certamente affacciata ai due vecchi nonni, tanto eran sicuri che, quando il cardellino veniva a posarsi sulla spalla dell'uno o dell'altra e si metteva a pinzar loro il collo grinzoso o il lobo dell'orecchio esso sapeva benissimo che quella su cui si posava era una spalla e quello che pinzava un lobo d'orecchio, e che la spalla e l'orecchio eran quelli di lui e non quelli di lei. Possibile che non li conoscesse entrambi? che lui era il nonno e lei la nonna? e che non sapesse che tutti e due lo amavano tanto perché era stato il cardellino della nipotina morta, la quale lo aveva cosí bene ammaestrato; a venir sulla spalla, a bezzicare cosí l'orecchia, a svolare per casa fuori della gabbia?
Nella gabbia, sospesa tra le tende al palchetto della finestra, stava la notte soltanto, e, di giorno, nei brevi momenti che si recava a beccare il suo miglio e a bere con molti inchini smorfiosi una gocciolina d'acqua. Era insomma come la sua reggia, la gabbia, e la casa era il suo vasto regno. E spesso sul paralume della lampada a sospensione nella sala da pranzo o sulla spalliera del seggiolone del nonno andava a prodigare i suoi gorgheggi e anche... - si sa, un cardellino!
- Sudicione! - lo sgridava la vecchia nonna, come gliela vedeva fare. E correva con lo strofinaccio sempre pronto a ripulire, come se per casa ci fosse un bambino da cui ancora non si potesse pretendere il giudizio di far certe cose con regola e al loro posto. E si ricordava intanto di lei, la vecchia nonna, della nipotina si ricordava, che quel servizio lí, povero amore, per piú d'un anno gliel'aveva fatto fare, finché poi, da brava...
- Ti ricordi, eh?
E il vecchio - ricordarsi? se la vedeva ancora lí per casa, piccina piccina, cosí! E tentennava a lungo il capo.
Erano rimasti soli, loro due vecchi soli con quell'orfanella cresciuta da piccola in casa, che doveva esser la gioja della loro vecchiaja; e invece, a quindici anni... Ma era rimasto vivo di lei - trilli e ali - il ricordo, in quel cardellino. E dire che dapprima non ci avevan pensato! Nell'abisso di disperazione in cui erano piombati, dopo la sciagura, potevano mai pensare a un cardellino? Ma su le loro spalle curve, sussultanti all'impeto dei singhiozzi, lui, il cardellino, - lui, lui - era venuto da sé a posarsi lieve, movendo la testolina di qua e di là, poi aveva allungato il collo, e una beccatina, di dietro, all'orecchio, come per dire che... sí, era una cosa viva di lei; viva, viva ancora, e che aveva ancora bisogno delle loro cure, dello stesso amore che avevano avuto per lei.
Ah con qual tremore lo aveva preso, il vecchio, nella sua grossa mano e mostrato alla sua vecchia, singhiozzando! Che baci su quel capino, su quel beccuccio! Ma non voleva esser preso, lui, imprigionato in quella mano; armeggiava con le zampine, con la testina; pinzava in risposta ai baci dei due vecchi.
La vecchia nonna era certa certissima che con quei gorgheggi il cardellino chiamava ancora la sua padroncina, e che svolando di qua, di là per le stanze, la cercava, la cercava senza requie, non sapendo darsi pace di non trovarla piú; e che eran tutti discorsi per lei, quei lunghi gorgheggi lí; domande, proprio domande che meglio di cosí, con le parole, non si sarebbero potute fare; domande ripetute tre, quattro volte di seguito, che attendevano una risposta e dimostravan la stizza di non riceverla.
Ma come, se poi era anche certo, certissimo che il cardellino sapeva della morte? Se sapeva, chi chiamava? da chi attendeva risposta a quelle domande che meglio di cosí, con le parole, non si sarebbero potute fare?
Oh Dio mio, cardellino era infine! Ora la chiamava, ora la piangeva. Si poteva forse mettere in dubbio che in quel momento lí, per esempio, cosí tutto rinchioccito sul regoletto della gabbia, col capino rientrato e il beccuccio in sú e gli occhietti semichiusi pensasse a lei morta? Certi pigolii brevi, sommessi, lasciava andare di tratto in tratto in quei momenti, che eran la prova piú evidente che pensava a lei e la piangeva e si lamentava. Erano uno strazio quei pigolii.
Il vecchio nonno non diceva di no alla sua vecchia. N'era cosí certo anche lui! Pur non di meno, saliva pian piano su la seggiola, come per bisbigliar davvicino qualche parolina di conforto a quella povera animuccia in pena, e intanto, quasi senza voler vedere lui stesso quello che faceva, riapriva lo sportellino a scatto della gabbia che s'era richiuso.
- Ecco che scappa! ecco che scappa, il birichino! - esclamava il vecchio, voltandosi sulla sedia a seguirlo con gli occhi ridenti, le due mani aperte davanti al volto come a pararlo.
E allora nonno e nonna litigavano. Litigavano perché tante e tante volte glielo aveva detto lei, che lo lasciasse stare quand'era cosí, che non andasse a frastornarlo dalla sua pena. Ecco, lo sentiva ora?
- Canta, - diceva il vecchio.
- Ma che canta! - rimbeccava lei con una scrollata di spalle. - Te ne sta dicendo di cotte e di crude! Arrabbiatissimo è!
E accorreva a calmarlo. Ma che calmare! Scattava via di qua, di là, proprio impermalito; e con ragione, perché gli doveva parere di non esser considerato in quei momenti lí.
E il bello era che il nonno, non solo si pigliava tutti quei rimbrotti senza dire alla nonna che lo sportellino a scatto della gabbiola era chiuso e che forse il cardellino pigolava cosí lamentosamente per questo, ma piangeva sentendo parlare a quel modo la sua vecchia correndo appresso al cardellino, piangeva e riconosceva tra sé, crollando il capo tra le lagrime:
- Poverino, ha ragione... poverino, ha ragione... non si sente considerato!
Lo sapeva bene infatti, il nonno, che cosa volesse dire non sentirsi considerati. Tutti e due, poveri vecchi, non eran considerati da nessuno ed erano messi alla berlina, perché non vivevano piú d'altro ormai che di quel cardellino, e perché si condannavano a star perpetuamente con tutte le finestre chiuse; e lui anche, il vecchio nonno, a non metter piú il naso fuori della porta, perché era vecchio sí e piangeva lí in casa come un bambino, ma oh! mosche sul naso non se n'era fatte posar mai, e se qualcuno, per via, avesse avuto la cattiva ispirazione di farsi beffe di lui, la vita (ma che prezzo ormai aveva piú la vita per lui?) come niente, come niente se la sarebbe giocata. Sissignori, per quel cardellino lí, se qualcuno avesse avuto la cattiva ispirazione di dirgli qualche cosa. Tre volte, in gioventú, era stato proprio a un pelo... là, o la vita o la libertà! Ah, ci metteva poco lui a perder la vista degli occhi!
Ogni qual volta questi propositi violenti gli s'accendevano nel sangue, s'alzava il vecchio nonno, spesso col cardellino su la spalla, e andava a guatare con occhi truci dai vetri della finestra le finestre delle case dirimpetto.
Che fossero case, quelle lí dirimpetto; che quelle fossero finestre, coi vetri intelajati, le ringhierine, i vasi di fiori e tutto; che quelli sú fossero tetti con fumajuoli, tegole, grondaje, non poteva mica dubitare il vecchio nonno che sapeva anche a chi appartenevano, e chi vi stava, e come ci si viveva. Il guajo è che non gli s'affacciava per nulla alla mente la domanda, che cosa fossero invece per il cardellino che gli stava accoccolato su la spalla, quella sua casa e quelle altre case dirimpetto; e anche là per quel magnifico gattone bianco soriano che se ne stava tutto aggruppato sul davanzale di quella finestra dirimpetto, con gli occhi chiusi a crogiolarsi al sole. Finestre? vetri? tetti? tegole? casa mia? casa tua? Per quel gattone bianco lí che dormiva al sole, casa mia? casa tua? Ma se poteva entrarci, tutte erano sue! Case? Che case! Posti dove si poteva rubare; posti dove si poteva dormire piú o meno comodamente; o fingere anche di dormire.
Credevano davvero quei due vecchi nonni che tenendo sempre chiuse le finestre e chiusa la porta di casa, un gatto, volendo, non potesse trovare un'altra via per entrare a mangiarsi quel cardellino lí?
E non era poi troppo pretendere che il gatto sapesse che quel cardellino lí era tutta la vita di quei due vecchi nonni perché era stato della nipotina morta che lo aveva cosí bene ammaestrato a svolar per casa fuori della gabbia? e che sapesse che il vecchio nonno, una volta che lo aveva sorpreso dietro una delle finestre a spiare tutto intento attraverso i vetri chiusi il volo spensierato di quel cardellino per la stanza, era andato furente ad ammonir la padrona che guai, guai se un'altra volta lo avesse sorpreso lí? Lí? quando? come? La padrona... i nonni... la finestra... il cardellino?
E cosí, un giorno, se lo mangiò - ma sí, quel cardellino che per lui poteva anche essere un altro - se lo mangiò entrando in casa dei due vecchi, chi sa come, chi sa donde. La nonna - era quasi sera - intese appena, di là, come un piccolo squittio, un lamento; il nonno accorse, intravide una cosa bianca che s'avventava scappando per la cucina e, per terra, sparse, alcune piccole piume del petto, le piú tenere, che, mossa l'aria al suo entrare, si scossero lievi, lí sul pavimento. Che grido! E trattenuto invano dalla sua vecchia, s'armò, corse come un pazzo in casa della vicina. No, non la vicina, il gatto, il gatto voleva uccidere il vecchio, là, sotto gli occhi di lei; e sparò nella saletta da pranzo, come lo vide lí quieto a seder sulla credenza, sparò una, due tre volte, fracassando le stoviglie, finché non accorse, armato anche lui, il figlio della vicina, che sparò sul vecchio.
Una tragedia. Fra grida e pianti il nonno fu trasportato moribondo, ferito al petto, alla sua casa, alla sua vecchia.
Il figlio della vicina era fuggito per le campagne. La rovina in due case; lo scompiglio in tutto il paesello per tutta una notte.
E il gatto mica se lo ricordava, un momento dopo, che s'era mangiato il cardellino, un qualunque cardellino; e mica aveva capito che il vecchio aveva sparato contro di lui. Aveva fatto un bel balzo, al botto, era scappato via e ora - eccolo là - se ne stava tranquillo, cosí tutto bianco sul tetto nero a guardare le stelle che dalla cupa profondità della notte interlunare - si può essere certissimi - non vedevano affatto i poveri tetti di quel paesello tra i monti, ma cosí vivamente vi sfavillavano sopra che si poteva quasi giurare non vedessero altro, quella notte.
LA VENDETTA DEL CANE
Senza sapere né come né perché, Jaco Naca s'era trovato un bel giorno padrone di tutta la poggiata a solatío sotto la città, da cui si godeva la veduta magnifica dell'aperta campagna svariata di poggi e di valli e di piani, col mare in fondo, lontano, dopo tanto verde, azzurro nella linea dell'orizzonte.
Un signore forestiere, con una gamba di legno che gli cigolava a ogni passo, gli s'era presentato, tre anni addietro, tutto in sudore, in un podere nella vallatella di Sant'Anna infetta dalla malaria, ov'egli stava in qualità di garzone, ingiallito dalle febbri, coi brividi per le ossa e le orecchie ronzanti dal chinino; e gli aveva annunziato che da minuziose ricerche negli archivi era venuto a sapere che quella poggiata lí, creduta finora senza padrone, apparteneva a lui: se gliene voleva vendere una parte, per certi suoi disegni ancora in aria, gliel'avrebbe pagata secondo la stima d'un perito.
Rocce erano, nient'altro; con, qua e là, qualche ciuffo d'erba, ma a cui neppure le pecore, passando, avrebbero dato una strappata.
Intristito dal veleno lento del male che gli aveva disfatto il fegato e consunto le carni, Jaco Naca quasi non aveva provato né meraviglia né piacere per quella sua ventura, e aveva ceduto a quello zoppo forestiere gran parte di quelle rocce per una manciata di soldi. Ma quando poi, in meno d'un anno, aveva veduto levarsi lassú due villini, uno piú grazioso dell'altro, con terrazze di marmo e verande coperte di vetri colorati, come non s'erano mai viste da quelle parti: una vera galanteria! e ciascuno con un bel giardinetto fiorito e adorno di chioschi e di vasche dalla parte che guardava la città, e con orto e pergolato dalla parte che guardava la campagna e il mare; sentendo vantar da tutti, con ammirazione e con invidia, l'accorgimento di quel segnato lí, venuto chi sa da dove, che certo in pochi anni col fitto dei dodici quartierini ammobigliati in un luogo cosí ameno si sarebbe rifatto della spesa e costituito una bella rendita; s'era sentito gabbato e frodato: l'accidia cupa, di bestia malata, con cui per tanto tempo aveva sopportato miseria e malanni, gli s'era cangiata d'improvviso in un'acredine rabbiosa, per cui tra smanie violente e lagrime d'esasperazione, pestando i piedi mordendosi le mani, strappandosi i capelli, s'era messo a gridar giustizia e vendetta contro quel ladro gabbamondo.
Purtroppo è vero che, a voler scansare un male, tante volte, si rischia d'intoppare in un male peggiore. Quello zoppo forestiere, per non aver piú la molestia di quelle scomposte recriminazioni, sconsigliatamente s'era indotto a porger sottomano a Jaco Naca qualche giunta al prezzo della vendita: poco; ma Jaco Naca, naturalmente, aveva sospettato che quella giunta gli fosse porta cosí sottomano perché colui non si riteneva ben sicuro del suo diritto e volesse placarlo; gli avvocati non ci sono per nulla; era ricorso ai tribunali. E intanto che quei pochi quattrinucci della vendita se n'andavano in carta bollata tra rinvii e appelli, s'era dato con rabbioso accanimento a coltivare il residuo della sua proprietà, il fondo del valloncello sotto quelle rocce, ove le piogge, scorrendo in grossi rigagnoli su lo scabro e ripido declivio della poggiata, avevano depositato un po' di terra.
Lo avevano allora paragonato a un cane balordo che, dopo essersi lasciato strappar di bocca un bel cosciotto di montone, ora rabbiosamente si rompesse i denti su l'osso abbandonato da chi s'era goduta la polpa.
Un po' d'ortaglia stenta, una ventina di non meno stenti frutici di mandorlo che parevano ancora sterpi tra i sassi, erano sorti laggiú nel valloncello angusto come una fossa, in quei due anni d'accanito lavoro; mentre lassú, aerei davanti allo spettacolo di tutta la campagna e del mare, i due leggiadri villini splendevano al sole, abitati da gente ricca, che Jaco Naca naturalmente s'immaginava anche felice. Felice, non foss'altro, del suo danno e della sua miseria.
E per far dispetto a questa gente e vendicarsi almeno cosí del forestiere, quando non aveva potuto piú altro, aveva trascinato laggiú nella fossa un grosso cane da guardia; lo aveva legato a una corta catena confitta per terra, lasciato lí, giorno e notte, morto di fame, di sete e di freddo.
- Grida per me!
Di giorno, quand'egli stava attorno all'orto a zappettare, divorato dal rancore, con gli occhi truci nel terreo giallore della faccia, il cane per paura stava zitto. Steso per terra, col muso allungato su le due zampe davanti, al piú, sollevava gli occhi e traeva qualche sospiro o un lungo sbadiglio mugolante, fino a slogarsi le mascelle, in attesa di qualche tozzo di pane ch'egli ogni tanto gli tirava come un sasso, divertendosi anche talvolta a vederlo smaniare, se il tozzo ruzzolava piú là di quanto teneva la catena. Ma la sera, appena rimasta sola laggiú, e poi per tutta la nottata, la povera bestia si dava a guaire, a uggiolare, a sguagnolare, cosí forte e con tanta intensità di doglia e tali implorazioni d'ajuto e di pietà, che tutti gl'inquilini delle due ville si svegliavano e non potevano piú riprender sonno.
Da un piano all'altro, dall'uno all'altro quartierino, nel silenzio della notte, si sentivano i borbottíi, gli sbuffi, le imprecazioni, le smanie di tutta quella gente svegliata nel meglio del sonno; i richiami e i pianti dei bimbi impauriti, il tonfo dei passi a piedi scalzi o lo strisciar delle ciabatte delle mamme accorrenti.
Era mai possibile seguitare cosí? E da ogni parte eran piovuti reclami al proprietario, il quale, dopo aver tentato piú volte e sempre invano, con le buone e con le cattive, d'ottenere da quel tristo che finisse d'infliggere il martirio alla povera bestia, aveva dato il consiglio di rivolgere al municipio un'istanza firmata da tutti gl'inquilini.
Ma anche quell'istanza non aveva approdato a nulla. Correva, dai villini al posto ove il cane stava incatenato, la distanza voluta dai regolamenti: se poi, per la bassura di quel valloncello e per l'altezza dei due villini, i guaiti pareva giungessero da sotto le finestre, Jaco Naca non ci aveva colpa: egli non poteva insegnare al cane ad abbajare in un modo piú grazioso per gli orecchi di quei signori; se il cane abbajava, faceva il suo mestiere; non era vero ch'egli non gli desse da mangiare; gliene dava quanto poteva; di levarlo di catena non era neanche da parlarne, perché, sciolto, il cane se ne sarebbe tornato a casa, e lui lí aveva da guardarsi quei suoi beneficii che gli costavano sudori di sangue. Quattro sterpi? Eh, non a tutti toccava la ventura d'arricchirsi in un batter d'occhio alle spalle d'un povero ignorante!
- Niente, dunque? Non c'era da far niente?
E una notte di quelle, che il cane s'era dato a mugolare alla gelida luna di gennajo piú angosciosamente che mai, all'improvviso, una finestra s'era aperta con fracasso nel primo dei due villini, e due fucilate n'eran partite, con tremendo rimbombo, a breve intervallo. Tutto il silenzio della notte era come sobbalzato due volte con la campagna e il mare, sconvolgendo ogni cosa; e in quel generale sconvolgimento, urla, gridi disperati! Era il cane che aveva subito cangiato il mugolío in un latrato furibondo, e tant'altri cani delle campagne vicine e lontane s'erano dati anch'essi a latrare a lungo, a lungo. Tra il frastuono, un'altra finestra s'era schiusa nel secondo villino, e una voce irata di donna e una vocetta squillante di bimba non meno irata, avevano gridato verso quell'altra finestra da cui erano partite le fucilate:
- Bella prodezza! Contro la povera bestia incatenata!
- Brutto cattivo!
- Se ha coraggio, contro il padrone dovrebbe tirare!
- Brutto cattivo!
- Non le basta che stia lí quella povera bestia a soffrire il freddo, la fame, la sete? Anche ammazzata? Che prodezza! Che cuore!
- Brutto cattivo!
E la finestra s'era richiusa con impeto d'indignazione.
Aperta era rimasta quell'altra, ove l'inquilino, che forse s'aspettava l'approvazione di tutti i vicini, ecco che, ancor vibrante della violenza commessa, si aveva in cambio la sferzata di quell'irosa e mordace protesta femminile. Ah sí? ah sí e per piú di mezz'ora, lí seminudo, al gelo della notte, come un pazzo, costui aveva imprecato non tanto alla maledettissima bestia che da un mese non lo lasciava dormire, quanto alla facile pietà di certe signore che, potendo a piacer loro dormire di giorno, possono perdere senza danno il sonno della notte, con la soddisfazione per giunta... eh già, con la soddisfazione di sperimentar la tenerezza del proprio cuore, compatendo le bestie che tolgono il riposo a chi si rompe l'anima a lavorare dalla mattina alla sera. E l'anima diceva, per non dire altra cosa.
I commenti, nei due villini, durarono a lungo quella notte; s'accesero in tutte le famiglie vivacissime discussioni tra chi dava ragione all'inquilino che aveva sparato, e chi alla signora che aveva preso le difese del cane.
Tutti erano d'accordo che quel cane era insopportabile; ma anche d'accordo ch'esso meritava compassione per il modo crudele con cui era trattato dal padrone. Se non che, la crudeltà di costui non era soltanto contro la bestia, era anche contro tutti coloro a cui, per via di essa, toglieva il riposo della notte. Crudeltà voluta; vendetta meditata e dichiarata. Ora, la compassione per la povera bestia faceva indubbiamente il giuoco di quel manigoldo; il quale, tenendola cosí a catena e morta di fame e di sete e di freddo, pareva sfidasse tutti, dicendo:
- Se avete coraggio, per giunta, ammazzatela.
Ebbene, bisognava ammazzarla, bisognava vincere la compassione e ammazzarla, per non darla vinta a quel manigoldo!
Ammazzarla? E non si sarebbe fatta allora scontare iniquamente alla povera bestia la colpa del padrone? Bella giustizia! Una crudeltà sopra la crudeltà, e doppiamente ingiusta, perché si riconosceva che la bestia non solo non aveva colpa ma anzi aveva ragione di lagnarsi cosí! La doppia crudeltà di quel tristaccio si sarebbe rivolta tutta contro la bestia, se anche quelli che non potevano dormire si mettevano contro di essa e la uccidevano! D'altra parte, però, se non c'era altro mezzo d'impedire che colui martoriasse tutti?
- Piano, piano, signori, - era sopravvenuto ad ammonire il proprietario dei due villini, la mattina dopo, con la sua gamba di legno cigolante. - Per amor di Dio, piano, signori!
Ammazzare il cane a un contadino siciliano? Ma si guardassero bene dal rifar la prova! Ammazzare il cane a un contadino siciliano voleva dire farsi ammazzare senza remissione. Che aveva da perdere colui? Bastava guardarlo in faccia per capire che, con la rabbia che aveva in corpo, non avrebbe esitato a commettere un delitto.
Poco dopo, infatti, Jaco Naca, con la faccia piú gialla del solito e col fucile appeso alla spalla, s'era presentato davanti ai due villini e, rivolgendosi a tutte le finestre dell'uno e dell'altro, poiché non gli avevano saputo indicare da quale propriamente fossero partite le fucilate, aveva masticato la sua minaccia, sfidando che si facesse avanti chi aveva osato attentare al suo cane.
Tutte le finestre eran rimaste chiuse; soltanto quella dell'inquilina che aveva preso le difese del cane e ch'era la giovine vedova dell'intendente delle finanze, signora Crinelli, s'era aperta, e la bambina dalla voce squillante, la piccola Rorò, unica figlia della signora, s'era lanciata alla ringhiera col visino in fiamme e gli occhioni sfavillanti per gridare a colui il fatto suo, scotendo i folti ricci neri della tonda testolina ardita.
Jaco Naca, in prima, sentendo schiudere quella finestra, s'era tratto di furia il fucile dalla spalla; ma poi, vedendo comparire una bambina, era rimasto con un laido ghigno sulle labbra ad ascoltarne la fiera invettiva, e alla fine con acre mutria le aveva domandato:
- Chi ti manda, papà? Digli che venga fuori lui: tu sei piccina!
Da quel giorno, la violenza dei sentimenti in contrasto nell'animo di quella gente, da un canto arrabbiata per il sonno perduto, dall'altro indotta per la misera condizione di quel povero cane a una pietà subito respinta dall'irritazione fierissima verso quel villanzone che se ne faceva un'arma contro di loro, non solo turbò la delizia di abitare in quei due villini tanto ammirati, ma inasprí talmente le relazioni degli inquilini tra loro che, di dispetto in dispetto, presto si venne a una guerra dichiarata, specialmente tra quei due che per i primi avevano manifestato gli opposti sentimenti: la vedova Crinelli e l'ispettore scolastico cavalier Barsi, che aveva sparato.
Si malignava sotto sotto, che la nimicizia tra i due non era soltanto a causa del cane, e che il cavalier Barsi ispettore scolastico sarebbe stato felicissimo di perdere il sonno della notte, se la giovane vedova dell'intendente delle finanze avesse avuto per lui un pochino pochino della compassione che aveva per il cane. Si ricordava che il cavalier Barsi, nonostante la ripugnanza che la giovane vedova aveva sempre dimostrato per quella sua figura tozza e sguajata, per quei suoi modi appiccicaticci come l'unto delle sue pomate, s'era ostinato a corteggiarla, pur senza speranza, quasi per farle dispetto, quasi per il gusto di farsi mortificare e punzecchiare a sangue non solo dalla giovane vedova, ma anche dalla figlietta di lei, da quella piccola Rorò che guardava tutti con gli occhioni scontrosi, come se credesse di trovarsi in un mondo ordinato apposta per l'infelicità della sua bella mammina, la quale soffriva sempre di tutto e piangeva spesso, pareva di nulla, silenziosamente. Quanta invidia, quanta gelosia e quanto dispetto entravano nell'odio del cavalier Barsi ispettore scolastico per quel cane?
Ora, ogni notte, sentendo i mugolii della povera bestia, mamma e figliuola, abbracciate strette strette nel letto come a resistere insieme allo strazio di quei lunghi lagni, stavano nell'aspettativa piena di terrore, che la finestra del villino accanto si schiudesse e che, con la complicità delle tenebre, altre fucilate ne partissero.
- Mamma, oh mamma, - gemeva la bimba tutta tremante - ora gli spara! Senti come grida? Ora lo ammazza!
- Ma no, sta' tranquilla, - cercava di confortarla la mammina, - sta' tranquilla, cara, che non lo ammazzerà! Ha tanta paura del villano! Non hai visto che non ha osato d'affacciarsi alla finestra? Se egli ammazza il cane, il villano ammazzerà lui. Sta' tranquilla!
Ma Rorò non riusciva a tranquillarsi. Già da un pezzo, della sofferenza di quella bestia pareva si fosse fatta una fissazione. Stava tutto il giorno a guardarla dalla finestra giú nel valloncello, e si struggeva di pietà per essa. Avrebbe voluto scendere laggiú a confortarla, a carezzarla, a recarle da mangiare e da bere, e piú volte, nei giorni che il villano non c'era, lo aveva chiesto in grazia alla mamma. Ma questa, per paura che quel tristo sopravvenisse, o per timore che la piccina scivolasse giú per il declivio roccioso, non gliel'aveva mai concesso.
Glielo concesse alla fine, per far dispetto al Barsi, dopo l'attentato di quella notte. Sul tramonto, quando vide andar via con la zappa in collo Jaco Naca, pose in mano a Rorò per le quattro cocche un tovagliolo pieno di tozzi di pane e con gli avanzi del desinare, e le raccomandò di star bene attenta a non mettere in fallo i piedini, scendendo per la poggiata. Ella si sarebbe affacciata alla finestra a sorvegliarla.
S'affacciarono con lei tanti e tant'altri inquilini ad ammirare la coraggiosa Rorò che scendeva in quel triste fossato a soccorrere la bestia. S'affacciò anche il Barsi alla sua, e seguí con gli occhi la bimba, crollando il capo e stropicciandosi le gote raschiose con una mano sulla bocca. Non era un'aperta sfida a lui tutta quella carità ostentata? Ebbene: egli la avrebbe raccolta, quella sfida. Aveva comperato la mattina una certa pasta avvelenata da buttare al cane, una di quelle notti, per liberarsene zitto zitto. Gliel'avrebbe buttata quella notte stessa. Intanto rimase lí a godersi fino all'ultimo lo spettacolo di quella carità e tutte le amorose esortazioni di quella mammina che gridava dalla finestra alla sua piccola di non accostarsi troppo alla bestia, che poteva morderla, non conoscendola.
Il cane abbajava, difatti, vedendo appressarsi la bimba e, trattenuto dalla catena, balzava in qua e in là, minacciosamente. Ma Rorò, col tovagliolo stretto per le quattro cocche nel pugno, andava innanzi sicura e fiduciosa che quello, or ora, certamente, avrebbe compreso la sua carità. Ecco, già al primo richiamo scodinzolava, pur seguitando ad abbajare; e ora, al primo tozzo di pane, non abbajava piú. Oh poverino, poverino, con che voracità ingojava i tozzi uno dopo l'altro! Ma ora, ora veniva il meglio... E Rorò, senza la minima apprensione, stese con le due manine la carta coi resti del desinare sotto il muso del cane che, dopo aver mangiato e leccato a lungo la carta, guardò la bimba, dapprima quasi meravigliato, poi con affettuosa riconoscenza. Quante carezze non gli fece allora Rorò, a mano a mano sempre piú rinfrancata e felice della sua confidenza corrisposta: quante parole di pietà non gli disse; arrivò finanche a baciarlo sul capo, provandosi ad abbracciarlo mentre di lassú la mamma, sorridendo e con le lagrime agli occhi, le gridava che tornasse sú. Ma il cane ora avrebbe voluto ruzzare con la bimba: s'acquattava, poi springava smorfiosamente, senza badare agli strattoni della catena, e si storcignava tutto, guaendo, ma di gioja.
Non doveva pensare Rorò, quella notte, che il cane se ne stesse tranquillo perché lei gli aveva recato da mangiare e lo aveva confortato con le sue carezze? Una sola volta, per poco, a una cert'ora, s'intesero i suoi latrati; poi, piú nulla. Certo il cane, sazio e contento, dormiva. Dormiva, e lasciava dormire.
- Mamma, - disse Rorò, felice del rimedio finalmente trovato. - Domattina, di nuovo, mamma, è vero?
- Sí, sí, - le rispose la mamma, non comprendendo bene, nel sonno.
E la mattina dopo, il primo pensiero di Rorò fu d'affacciarsi a vedere il cane che non s'era inteso tutta la notte.
Eccolo là: steso di fianco per terra, con le quattro zampe diritte, stirate, come dormiva bene! E nel valloncello non c'era nessuno: pareva ci fosse soltanto il gran silenzio che, per la prima volta, quella notte, non era stato turbato.
Insieme con Rorò e con la mammina, gli altri inquilini guardavano anch'essi stupiti quel silenzio di laggiú e quel cane che dormiva ancora, lí disteso, a quel modo. Era dunque vero che il pane, le carezze della bimba avevano fatto il miracolo di lasciar dormire tutti e anche la povera bestia?
Solo la finestra del Barsi restava chiusa.
E poiché il villano ancora non si vedeva laggiú, e forse per quel giorno, come spesso avveniva, non si sarebbe veduto, parecchi degli inquilini persuasero la signora Crinelli ad arrendersi al desiderio di Rorò di recare al cane - com'ella diceva - la colazione.
- Ma bada, piano, - la ammoní la mamma. - E poi sú, senza indugiarti, eh?
Seguitò a dirglielo dalla finestra, mentre la bimba scendeva con passetti lesti, ma cauti, tenendo la testina bassa e sorridendo tra sé per la festa che s'aspettava dal suo grosso amico che dormiva ancora.
Giú, sotto la roccia, tutto raggruppato come una belva in agguato, era intanto Jaco Naca, col fucile. La bimba, svoltando, se lo trovò di faccia, all'improvviso, vicinissimo; ebbe appena il tempo di guardarlo con gli occhi spaventati: rintronò la fucilata, e la bimba cadde riversa, tra gli urli della madre e degli altri inquilini, che videro con raccapriccio rotolare il corpicciuolo giú per il pendio, fin presso al cane rimasto là, inerte, con le quattro zampe stirate.
RONDONE E RONDINELLA
Chi fosse Rondone e chi Rondinella né lo so io veramente, né in quel paesello di montagna, dove ogni estate venivano a fare il nido per tre mesi, lo sa nessuno.
La signorina dell'ufficio postale giura di non essere riuscita in tanti anni a cavare un suono umano, mettendo insieme i k, le h, i w e tutti gli f del cognome di lui e del cognome di lei, nelle rarissime lettere che ricevevano. Ma quand'anche la signorina dell'ufficio postale fosse riuscita a compitare quei due cognomi, che se ne saprebbe di piú?
Meglio cosí, penso io. Meglio chiamarli Rondone e Rondinella, come tutti li chiamavano in quel paesello di montagna: Rondone e Rondinella, non solo perché ritornavano ogni anno, d'estate, non si sa donde, al vecchio nido; non solo perché andavano, o meglio, svolavano irrequieti dalla mattina alla sera per tutto il tempo che durava il loro soggiorno colà; ma anche per un'altra ragione un po' meno poetica.
Forse nessuno in quel paesello avrebbe mai pensato di chiamarli cosí, se quel signore straniero, il primo anno, non fosse venuto con un lungo farsetto nero di saja, dalle code svolazzanti, e in calzoni bianchi; e anche se, cercando una casetta appartata per la villeggiatura, non avesse scelto la villetta del medico e sindaco del paese, piccola piccola, come un nido di rondine, sú in cima al greppo detto della Bastía, tra i castagni.
Piccola piccola, quella villetta, e tanto grosso lui, quel signore straniero! Oh, un pezzo d'omone sanguigno, con gli occhiali d'oro e la barba nera, che gl'invadeva arruffata e prepotente le guance, quasi fin sotto gli occhi, pur senza dargli alcun'aria fosca o truce, perché gli spirava anzi da tutto il corpo vigoroso una cordialità franca e ridente.
Con la testa alta sul torace erculeo pareva fosse sempre sul punto di lanciarsi, con impeto d'anima infantile, a qualche richiamo misterioso, lontano, che lui solo intendeva: o sú in vetta al monte, o giú nella valle sterminata, ora da una parte ora dall'altra. Ne ritornava, sudato, infocato, anelante e sorridente, o con una conchiglietta fossile in un pugno, o con un fiorellino in bocca, come se proprio quella conchiglietta o quel fiorellino lo avessero chiamato all'improvviso da miglia e miglia lontano, sú dal monte o giú dalla valle.
E vedendolo andar cosí, con quel farsetto nero e quei calzoni bianchi, come non chiamarlo Rondone?
La Rondinella era arrivata, il primo anno, circa quindici giorni dopo di lui, quand'egli aveva già trovato e apparecchiato il nido lassú, tra i castagni.
Era arrivata improvvisamente, senza che egli ne sapesse nulla, e aveva molto stentato a far capire che cercava di quel signore straniero, e voleva esser guidata alla casa di lui.
Ogni anno la Rondinella arrivava due o tre giorni dopo, e sempre cosí, all'improvviso. Un anno solo, arrivò un giorno prima di lui. Il che dimostra chiaramente che tra loro non c'era intesa, e che qualche grave ostacolo dovesse impedir loro d'aver notizia l'uno dell'altra. Certo, come dai bolli postali su le lettere si ricavava, abitavano nel loro paese in due città diverse.
Sorse sin da principio il sospetto ch'ella fosse maritata, e che ogni anno, lasciata libera per tre mesi, venisse là a trovar l'amante, a cui non poteva neanche dar l'annunzio del giorno preciso dell'arrivo. Ma come conciliare questi impedimenti e tanto rigor di sorveglianza su lei con la libertà intera, di cui ella poi godeva nei tre mesi estivi in Italia?
Forse i medici avevano detto al marito che la Rondinella aveva bisogno di sole; e il marito accordava ogni anno quei tre mesi di vacanza, ignaro che la Rondinella, oltre che di sole, anzi piú che di sole, andava in Italia a far cura d'amore.
Era piccola e diafana, come fatta d'aria; con limpidi occhi azzurri, ombreggiati da lunghissime ciglia: occhi timidi e quasi sbigottiti, nel gracile visino. Pareva che un soffio la dovesse portar via, o che, a toccarla appena appena, si dovesse spezzare. A immaginarla tra le braccia di quel pezzo d'omone impetuoso, si provava quasi sgomento.
Ma tra le braccia di quell'omone, che nella villetta lassú l'attendeva impaziente, con un fremito di belva intenerita, ella, cosí piccola e gracile, correva ogni anno a gettarsi felice, senza nessuna paura, non che di spezzarsi, ma neppur di farsi male un pochino. Sapeva tutta la dolcezza di quella forza, tutta la leggerezza sicura e tenace di quell'impeto, e s'abbandonava a lui perdutamente.
Ogni anno, per il paese, l'arrivo di Rondinella era una festa.
Cosí almeno credeva Rondinella.
La festa, certo, era dentro di lei, e naturalmente la vedeva per tutto, fuori. Ma sí, come no? Tutte le vecchie casette, che il tempo aveva vestite d'una sua particolar patina rugginosa, aprivano le finestre al suo arrivo, rideva l'acqua delle fontanelle, gli uccelli parevano impazziti dalla gioja.
Rondinella, certo, intendeva meglio i discorsi degli uccelli, che quelli della gente del paese. Anzi questi non li intendeva affatto. Quelli degli uccelli pareva proprio di sí, perché sorrideva tutta contenta e si voltava di qua e di là al cinguettio dei passeri saltellanti tra i rami delle alte querce di scorta all'erto stradone, che saliva da Orte al borgo montano.
La vettura, carica di valige e di sacchetti, andava adagio, e il vetturino non poteva fare a meno di voltarsi indietro di tratto in tratto a sorridere alla piccola Rondinella, che ritornava al nido come ogni anno, e a farle cenno con le mani, che lui già c'era, il suo Rondone: sí, lassú, da tre giorni; c'era, c'era.
Rondinella alzava gli occhi al monte ancora lontano, su cui i castagni, ove non batteva il sole, s'invaporavan d'azzurro, e forzava gli occhi a scoprire lassú lassú il puntino roseo della villetta.
Non la scopriva ancora; ma ecco là il castello antico, ferrigno, che domina il borgo; ed ecco piú giú l'ospizio dei vecchi mendicanti, che hanno accanto il cimitero, e stanno lí come a fare anticamera, in attesa che la signora morte li riceva.
Appiè del borgo, incombente su lo stradone serpeggiante, il boschetto delle nere elci maestose dava a Rondinella, ogni volta che vi passava sotto, un senso di freddo e quasi di sgomento. Ma durava poco. Subito dopo, passato quel boschetto, si scopriva su la Bastía la villetta.
Come vivessero entrambi lassú, nessuno sapeva veramente; ma era facile immaginarlo. Una vecchia serva andava a far la pulizia, ogni mattina, quand'essi scappavan via dal nido e si davano a svolare, come portati da una gioja ebbra, di qua e di là, instancabili, o sú al monte, o giú nella valle, per le campagne, per i paeselli vicini. C'è chi dice d'aver veduto qualche volta Rondone regger su le braccia, come una bambina, la sua Rondinella.
Tutti nel paese sorridevano lieti nel vederli passare in quella gioja viva d'amore, quando, stanchi delle lunghe corse, venivan per i pasti alla trattoria. S'eran già tutti abituati a vederli, e sentivano che un'attrattiva, un godimento sarebbero mancati al paese, se quel Rondone e quella Rondinella non fossero ritornati qualche estate al loro nido lassú. Il medico non pensava ad affittare ad altri la villetta, sicuro ormai, dopo tanti anni, che quei due non sarebbero mancati.
Sul finire del settembre, prima partiva lei; due o tre giorni dopo partiva lui. Ma gli ultimi giorni avanti la partenza, non uscivano piú dal nido neppure per un momento. Si capiva che dovevan prepararsi al distacco per tutt'un anno, tenersi stretti cosí, a lungo, prima di separarsi per tutt'un anno. Si sarebbero riveduti? Avrebbe potuto lei, cosí piccola e gracile, resistere al gelo di tanti mesi senza il fuoco di quell'amore, senza piú il sostegno della grande forza di lui? Forse sarebbe morta, durante l'inverno; forse egli, l'estate ventura, ritornando al vecchio nido, l'avrebbe attesa invano.
L'estate veniva, il Rondone arrivava e aspettava con trepidazione uno, due, tre giorni; al terzo giorno ecco la Rondinella, ma d'anno in anno sempre piú gracile e diafana, con gli occhi sempre piú timidi e sbigottiti.
Finché, la settima estate...
No, non mancò lei. Lei venne, tardi. Mancò lui; e fu dapprima per tutto il paese una gran delusione.
- Ma come, non viene? Non è ancora venuto? verrà piú tardi.
Il medico, assediato da queste domande, si stringeva nelle spalle. Che poteva saperne? Era dolente anche lui, che mancasse al paese il lieto spettacolo del Rondone e della Rondinella innamorati, ma era anche seccato piú d'un po', che la villetta gli fosse rimasta sfitta.
- A fidarsi...
- Ma certo qualcosa gli sarà accaduta.
- Che sia morto?
- O che sia morta lei, piuttosto?
- O che il marito abbia scoperto...
E tutti guardavano con pena la rosea villetta, il nido deserto, su in cima alla Bastía, tra i castagni.
Passò il giugno, passò il luglio, stava per passare anche l'agosto, quando all'improvviso corse per tutto il paese la notizia:
- Arrivano! arrivano!
- Insieme, tutti e due, Rondone e Rondinella?
- Insieme, tutti e due!
Corse il medico, corsero tutti quelli che stavan seduti nella farmacia, e i villeggianti dal caffè su la piazza; ma fu una nuova delusione e piú grande della prima.
Nella vettura, venuta sú da Orte a passo a passo, c'era sí la Rondinella (c'era, per modo di dire!), ma accanto a lei non c'era mica il Rondone. Un altro c'era, un omacciotto biondo, dalla faccia quadra, placido e duro.
Forse il marito. Ma no, che forse! Non poteva essere che il marito, colui! La legalità, pareva, fatta persona. E, legalità, pareva dicesse ogni sguardo degli occhi ovati dietro gli occhiali; legalità, ogni atto, ogni gesto; legalità, legalità, ogni passo, appena egli smontò dalla vettura e si fece innanzi al medico, che era anche il sindaco, per pregarlo, in francese, se poteva di grazia fargli avere una barella per trasportare una povera inferma, incapace di reggersi sulle gambe, a una certa villetta, sita - come gli era stato detto - in un luogo...
- Ma sí, lo so bene: la villetta è mia!
- No, prego, signore: sita, mi è stato detto ed io ripeto, in un luogo troppo alto, perché una vettura vi possa salire.
Ah, gli occhi di Rondinella come chiaramente dicevano intanto dalla vettura, ch'ella moriva per quell'uomo composto e rispettabile, che sapeva parlare cosí esatto e compito! Essi soli, quegli occhi, vivevano ancora, e non piú timidi ormai, ma lustri dalla gioja d'aver potuto rivedere quei luoghi, e lustri anche d'una certa malizietta nuova, insegnata loro (troppo tardi!) dalla morte ahimè troppo vicina.
- Ridete, ridete tutti, ridete forte a coro, accanto a me, - diceva quella malizietta dagli occhi a tutta la gente che guardava attorno alla vettura, costernata e quasi smarrita nella pena, - ridete forte di quest'uomo composto e rispettabile, che sa parlare cosí esatto e compito! Egli mi fa morire, con la sua rispettabilità, con la sua quadrata esattezza scrupolosa! Ma non ve ne affliggete, vi prego, poiché ho potuto ottener la grazia di morir qua; vendicatemi piuttosto ridendo forte di lui. Io ne posso rider piano e ormai per poco e cosí con gli occhi soltanto. Vedete la vostra Rondinella come s'è ridotta? Dacché volava, deve andare in barella, ora, alla villetta lassú.»
- E il Rondone? il tuo Rondone? - chiedevano ansiosi a quegli occhi gli occhi della gente attorno alla vettura. - Che ne è del tuo Rondone, che non è venuto? Non è venuto perché tu sei cosí? O tu sei cosí, perché egli è morto?
Gli occhi di Rondinella forse intendevano queste domande ansiose; ma le labbra non potevano rispondere. E gli occhi allora si chiudevano con pena.
Con gli occhi chiusi, Rondinella pareva morta.
Certo qualche cosa doveva essere accaduta; ma che cosa, nessuno lo sa. Supposizioni, se ne possono far tante, e si può anche facilmente inventare. Certo è questo: che Rondinella venne a morir sola nella villetta lassú; e di Rondone non si è saputo piú nulla.
QUANDO SI COMPRENDE
I passeggeri arrivati da Roma col treno notturno alla stazione di Fabriano dovettero aspettar l'alba per proseguire in un lento trenino sgangherato il loro viaggio su per le Marche.
All'alba, in una lercia vettura di seconda classe, nella quale avevano già preso posto cinque viaggiatori, fu portata quasi di peso una signora cosí abbandonata nel cordoglio che non si reggeva piú in piedi.
Lo squallor crudo della prima luce, nell'angustia opprimente di quella sudicia vettura intanfata di fumo, fece apparire come un incubo ai cinque viaggiatori che avevano passato insonne la notte, tutto quel viluppo di panni, goffo e pietoso, issato con sbuffi e gemiti sú dalla banchina e poi sú dal montatojo.