TEXAS
Il sole del tardo pomeriggio infierisce su di noi. Sarà la mia immaginazione, ma fa più caldo, qui. Sì, è autunno, ma pur sempre Texas. Inforchiamo i nostri occhialini da sole, alziamo i finestrini e attiviamo l'aria condizionata per la prima volta. Purtroppo, non ci vuole molto a capire che non funziona. Devono essere anni che John non la ricarica. La alzo al massimo, ma l'aria che emette è acre e muffosa, fresca per modo di dire.
L'altra cosa di cui bisogna prendere atto la sapevo già. Il problema del gas di scarico cui accennava Kevin non è mai stato risolto. Di conseguenza, chiudere i finestrini non è una grande idea. Dalle ventole non spira solamente aria tiepida; si diffonde altresì una nebbiolina di gas di scappamento. Nel giro di pochi minuti, sbadigliamo a più non posso. Spengo l'aria condizionata, e mi sento subito meglio. Anche John si riscuote. Comunque, temo di averlo forzato troppo, oggi.
Parlotta tra sé, come se si fosse scordato della mia presenza. Speriamo di trovare un posto dove fermarci a Shamrock, la prossima città. Controllo sulla guida, e scopro con sollievo che c'è un campeggio sulla 1-40 WEST, parallela alla 66.
Dopo aver sorpassato una bizzarra stazione di servizio art déco anni Trenta, la U Drop Inn, raggiungiamo il campeggio. Dico a John di parcheggiare vicino all'ufficetto. Spegne il motore.
«Siamo a casa?»
È stanco e disorientato. «No, John. Vado a registrarci. Tu stai qui». Afferro borsa e bastone, mi calo lentamente giù dal camper. Mi sento a pezzi, devo fare molta attenzione. A metà strada, mi viene in mente una cosa e torno al camper.
«Ehi, John, mi daresti le chiavi?» dico dolcemente. Senza fare obiezioni, lui me le porge.
Quando mi trascino nell'ufficio con il mio bastone, il vecchio dietro il banco non trova di meglio da fare che guardarmi storto. Scuote la testa e sbuffa, come a dire "Eccone una buona per la rottamazione".
Non ve lo nascondo, detesto questo tipo di sguardo, specialmente da parte dei miei coetanei che si comportano come se il mondo fosse la loro televisione. Mi dà sui nervi, soprattutto considerando che gran parte di noi ha passato i suoi anni migliori a dire ai propri figli che non è buona educazione squadrare la gente così. Questo, poi, ditemi da dove è uscito. È tutt'altro che decorativo, credetemi: berretto da pesca unticcio, un porro sulla fronte a cui si potrebbe appendere la giacca, e la faccia di uno che ha passato gli ultimi dieci anni a sniffare formaggio Limburger.
Lo fisso a mia volta.
«Salve» dice finalmente, strizzando gli occhi. Ho vinto io.
«Buonasera» rispondo, dopo una lunga pausa. «Vorremmo una piazzola per la notte».
«Va bene» dice, un grugnito texano nella voce. «Siamo aperti, oggi. Preferenze?»
Da quel che posso vedere, i posti sembrano tutti uguali, c'è qualche alberello qua e là, ma in generale il luogo è piatto e secco.
«Vicino alle docce non sarebbe male» rispondo. Gli porgo un biglietto da venti. Compila il modulo, ne strappa una parte e me la consegna insieme al resto. Poi riprende a fissarmi.
«Senta, c'è qualcosa che non va?» sbotto, ormai rabbiosa, sul piede di guerra.
«È pronta?» chiede, con tono più gentile.
«Pronta per cosa?» La mia mano si aggrappa alla manopola del bastone.
«Pronta ad accogliere Gesù come suo salvatore?»
«Oh, per l'amor del cielo» esclamo, decisamente stanca per questo. «Magari un'altra volta».
«Non è mai troppo tardi, lo sa?»
«Lo so» concludo, affrettandomi verso l'uscita, facendo appello a tutte le mie forze.
Identifichiamo la piazzola, e John scende dal camper. Mi pare che stia un po' meglio, è perfettamente in grado di collegare l'elettricità. Lo osservo con attenzione, prima o poi potrei doverlo fare io. Se peggiora nel corso del viaggio, toccherà a me. Sempre che io non accolga Gesù come mio salvatore, nel qual caso potrebbe farlo lui.
Finito di armeggiare, siamo talmente esausti che crolliamo - John sul letto, io con la testa sul tavolo subito dopo aver ingoiato l'ultima medicina. (Preferisco dormire seduta, adesso. Sdraiarsi è un atto troppo intenzionale, gravido di responsabilità e presentimenti.) Sono solo le quattro e un quarto, ma è come se fossero le dieci di sera. Pur riuscendo a stento a tenere gli occhi aperti, mi ricordo di lasciare una luce accesa, per non svegliarci nel buio pesto, questa volta.
Quando riapro gli occhi, l'aria nel camper è calda e immobile. Non sono al buio, ma sono sola. John è sparito. Agguanto il bastone, mi alzo e mi affaccio allo sportello: non è seduto al tavolino. Non è da nessuna parte. Vado nel panico.
Ci sono diversi camper qui intorno, ma non c'è anima viva. Siamo abbastanza vicini ai bagni, provo lì.
«C'è nessuno?» grido dall'entrata dei servizi degli uomini. Niente. Zoppico dentro. Deserto. Piastrelle, rotoli di carta igienica e tanfo acre di urina.
Mi dirigo verso l'ufficio, qualche centinaio di metri più in là. Lungo il percorso, passo in rassegna ogni possibile sventura - John travolto da un'auto mentre cammina sull'autostrada; John disperso per sempre nel chissà dove; John in stato confusionale portato via da sconosciuti.
Riesco a guadagnare l'ufficio. Sono già esausta e prossima alle lacrime. Per fortuna, il seguace di Gesù è dietro il bancone, e anche se non manca di fissarmi per bene, quanto meno è civile.
«Salve» dice. La sua lentezza mi innervosisce, ma devo essere gentile perché è la mia unica possibilità.
«Non è che per caso ha visto passare mio marito? È alto circa un metro e ottanta, un po' curvo, camicia verde e berretto da golf marrone».
Il buon vecchio Gesù mi osserva per un secondo. Temo che riattacchi con la sua tiritera, e invece no. «Un tizio che risponde alla sua descrizione è passato di qui poco fa».
«Davvero? E quando?»
«Sarà stato un quarto d'ora» dice, con un po' più di energia, con un tono più umano, che mi infonde un briciolo di speranza.
«Allora è lui. Senta, mi può aiutare? Ha degli attimi di smarrimento. Ho paura che possa perdersi, o farsi del male».
«Chiamiamo la polizia?»
«Non esageriamo». Basta polizia, per oggi. «Ha la macchina? Potremmo fare un giro. Non dev'essere lontano».
Gesù sembra parecchio allarmato dalla prospettiva.
«Sono sicura che non ci vorrà molto».
«Io non posso lasciare il mio posto. Perché non ci va lei con il camper?»
Comincio ad avere davvero paura. «Non so guidare quel baraccone. Per favore. Non glielo chiederei se non fosse importante».
Riflette un istante, e non gli viene così naturale. Lo prenderei a sberle, ma è l'unico che può aiutarmi. Non c'è nessun altro in giro. Resta in silenzio per trenta secondi buoni.
«Per favore» ripeto.
Finalmente parla. «Sento se la può portare Terry. È il nostro sorvegliante. Ha un furgone».
«Benissimo. Facciamo presto, la prego».
Un nuovo attacco di profonda meditazione. Infine alza la cornetta e digita metodicamente dei numeri. Nel frattempo, mi immagino John vagare nel traffico, assordato dai clacson. Non credo che sia folle fino a questo punto, ma chi può dirlo, ormai. Osservo il viso di Gesù che ascolta il telefono suonare. È come guardare una casa vuota attraverso una zanzariera. Sento qualcuno rispondere.
«Terry? Sono Chet, ti chiamo dall'ufficio. C'è una signora che ha bisogno di aiuto. Ci chiedevamo...»
Si interrompe per un attimo e ascolta. Intuisco che Terry non collabora.
«Lo so. Dice di aver bisogno di aiuto. Io non mi posso muovere di qui».
Altro scambio di battute. Non riesco più a trattenermi. «Mi fa parlare con lui, per favore?»
Chet è completamente spiazzato, all'idea. Il telefono è diventato improvvisamente come il suo ufficio. Non lo può abbandonare. Sono costretta a strappargli di mano la cornetta. «Pronto, Terry?»
C'è una lunga pausa e mi viene il sospetto di essermi imbattuta in una setta di cristiani fuori di testa, ma quando Terry parla, sembra tutto sommato normale. «Lei chi è?» chiede.
«Terry, sono la donna che ha bisogno di aiuto. È un'emergenza. Mio marito è scomparso, ho paura che possa farsi del male. A volte è in stato confusionale. Le spiace venire qui? Le chiedo soltanto di accompagnarmi a fare un giro. Pagherò più che volentieri la benzina e il disturbo».
«Sono lì tra un minuto, signora».
E in effetti, dopo un minuto, un pickup bordeaux con le borchie dorate si ferma rombando davanti alla porta dell'ufficio e dà un colpo di clacson. Sento un profondo ritmo di womp womp vibrare dalla radio.
«Grazie mille» dico a Chet, che adesso ha lo sguardo nel vuoto. Sto addirittura sperando che dica qualcosa di spiritualmente incoraggiante, perché ne avrei bisogno, ma a quanto pare non gli viene. Si limita a fissarmi.
La musica cessa. Mi dirigo fuori preparandomi ad arrampicarmi sul sedile del passeggero del pickup, ma in realtà non è molto alto. Mentre mi infilo dentro, realizzo che sto salendo su un furgone con un perfetto sconosciuto. Do un'occhiata al guidatore e penso che è così che probabilmente comincia la maggior parte delle deposizioni dei testimoni di un sequestro. Non sarebbe mai dovuta salire su quel furgone con quell'uomo.
Terry, vi dirò, mi fa accapponare la pelle. Avrà vent'anni, i segni dell'acne sulle guance sporgenti, lunghi capelli castano slavato che spuntano da un cappello di lana nero che non viene lavato da anni. Nera la maglietta, neri i pantaloni sformati (da cui spuntano catene), nero il mezzo guanto sulla mano destra - tutto ciò che indossa è nero. Sul davanti della maglietta una fotografia verdastra di un uomo dall'aspetto terrificante con capelli lunghi verde acido, viso incipriato e una X insanguinata incisa sulla fronte. Sotto l'immagine c'è scritto:
100% HARDCORE
MANGIACARNE
SUCCHIASANGUE
SUCCHIAVITA
ZOMBIE
HELLBILLY!
Ma superato il primo impatto, lo guardo meglio e non posso fare a meno di pensare al mio Kevin alla sua età; tanto desideroso di sembrare un duro e tradito dalla dolcezza dello sguardo. Il furgone sa di sigaretta, di sudore e del deodorante alla fragola a forma di stella fiammeggiante appeso allo specchietto retrovisore.
«Io sono Terry» esclama, tendendomi la mano guantata perché io la stringa. Noto che sulla sinistra ha una parola tatuata appena sotto le nocche: OFF!
«Ella». Gli stringo la mano e mi sforzo di sorridere. Non è il momento di fare la difficile. Se Satana ha deciso di aiutarmi in barba al tizio rimasto in ufficio, che sia. Anche se credo che entrambi farebbero bene a riconsiderare i loro modelli.
«Sta sudando» mi dice. Strana cosa da dire.
Mi tocco la fronte e mi rendo conto che ha perfettamente ragione.
«Sono preoccupata per mio marito».
«Chester non è stato di grande aiuto» commenta, tirandosi i rari peli sul mento.
Guardo questo ragazzino. «No, non si può proprio dire» rispondo bruscamente. «E tu, mi darai una mano?»
Stringe le labbra con ostentazione e annuisce. «Vedrà che lo troviamo» dichiara, imboccando la 1-40.
Come se non ne avessi già abbastanza, di questa strada malnata, oggi. Dopo un chilometro, vediamo un uomo in giacca beige che cammina sul ciglio.
«È lui?» chiede Terry, indicandolo.
«No» rispondo. «John ha una camicia verde». Intravedo dai buchi del guanto sulle nocche che Terry ha una parola tatuata anche sulla mano destra. Se volesse cercarsi un altro impiego, mi viene da pensare, avere le mani tatuate non è considerato esattamente un punto a favore dalla maggior parte dei datori di lavoro.
Sospiro, un po' più rumorosamente di quel che avrei voluto. Terry mi guarda, e mi stupisco di avvertire partecipazione nella sua voce. «Lo troveremo. Stia tranquilla».
«Grazie».
Per un attimo cala il silenzio. Terry si volta verso di me e dice «L'aveva anche mia nonna».
«Aveva cosa?»
«Non lo so» risponde, alzando le spalle. «Come la chiamano loro. Il nome di quel tale. La malattia. Prendeva e vagava per il quartiere. Hanno dovuto chiuderla in un ospizio. Dopo un anno è morta».
Terry sospira dolcemente. «Era l'unica della mia famiglia che non valeva meno di un cazzo». Sbircia nello specchietto retrovisore, poi me. «Scusi».
Questo giovanotto evidentemente mi considera una vecchia signora che non si esprime come uno scaricatore di porto. Lo guardo e cerco di sorridere. «Niente paura. È un'emergenza».
Scruto ai lati della strada. Ci sono negozietti sparsi qua e là. Potrebbe essersi fermato in uno di questi. Oltrepassiamo un benzinaio, poi un'insegna multicolore a forma di gelato con scritto GELATERIA IGLOO. In uno spiazzo, un grosso pinguino ci saluta dal fianco di un chioschetto bianco di calcestruzzo. Poco più oltre ci sono dei tavolini. Ed ecco che vedo John. È seduto a mangiare un gelato ricoperto di cioccolato.
«Eccolo!» grido. «Fermati».
«Dove?»
Indico freneticamente a sinistra. «La gelateria. Là!»
Terry entra nel parcheggio e si ferma praticamente accanto a John. Lui mi guarda. Sono sicura che non mi riconosce perché sono in questo strano furgone. Apro la portiera e scendo.
«John». Gli vado incontro e gli getto le braccia al collo. «Gesù Cristo, John». Sono pronta a fare una sceneggiata proprio qui, in mezzo alla gelateria Igloo. Lo stringo più forte che posso.
«Ella?»
Mi aggrappo a lui disperatamente. «Ho bisogno di te. Ho bisogno di averti vicino. Non ci resta molto tempo, John».
«Non capisco cosa vuoi dire, Ella».
Mi stacco e lo fisso dritto negli occhi. «Tesoro, mi hai fatto prendere un colpo». I clienti della gelateria Igloo cominciano a voltarsi. Abbasso la voce.
John lecca il suo cono, mi guarda come se niente fosse. «Volevo solo fare un giro».
«Oh, lui voleva solo fare un giro». Cerco di non perdere il controllo. Non voglio mettermi a urlare davanti a tutta questa gente. «Hai idea di come fare a tornare indietro? Sapresti da che parte andare?»
Indica la strada da cui siamo venuti. «Da quella parte».
«Dammi quell'affare» dico, prendendogli il cono di mano. Gli do una leccata. È dolce, freddo, ha un sapore meraviglioso e mi viene da piangere. Mi siedo sulla panchetta e non riesco a smettere.
John mi circonda con un braccio, mi stringe a sé. «Perché piangi?»
«Niente» rispondo.
A quel punto, Terry scende dal furgone e si avvicina.
«E quello chi è?» chiede John, diffidente.
Ci metto un momento a ricompormi. Restituisco a John il suo gelato. Tiro su con il naso, cerco il fazzoletto nella manica per soffiarmelo. «Questo è Terry, il ragazzo che mi ha aiutato a ritrovarti».
«Mmm» brontola John. Guarda Terry come se fosse un avanzo di galera, il che non si può escludere, ma penso di no.
Mi soffio di nuovo il naso. «Terry» dico, con la voce rotta, «possiamo offrirti un gelato?»
Timido cenno di assenso. Gli porgo venti dollari. «Ne porti uno anche a me?»
Terry mi rivolge un sorriso triste, decisamente troppo triste per un ragazzo della sua età. Resto seduta accanto a John, un braccio intorno alla sua vita.
Poco dopo, Terry arriva con due coni crema e cioccolato e il resto del biglietto da venti. Prendo il mio gelato e gli chiudo la mano attorno a spiccioli e monete.
Si è tolto il guanto e posso finalmente leggere la parola tatuata sulla mano destra. FUCK. Adesso capisco l'OFF sull'altra mano.
Come dargli torto.
Quella sera, andiamo a letto presto - niente aperitivo, niente diapositive, niente TV. Preparo toast al formaggio e zuppa di pomodoro, e prescrivo un bel Valium a tutti e due. Non amo ricorrere a questi espedienti, ma stasera devo essere ben certa che John dormirà. Mi costringo a restare sveglia finché non lo sento russare, poi chiudo la porta e inserisco il blocco. Mi stendo accanto a lui in modo che non possa alzarsi senza svegliarmi. Stasera non lascio nulla al caso.
Quando finalmente mi concedo di rilassarmi, non ho più sonno. Comincio a pensare ai ragazzi. Avevo in programma di chiamare Cindy, oggi, ma nella confusione me ne sono scordata. Penso all'impiego di Cindy al Meijer Thrifty Acres, a quanto lavora, a come questi grandi magazzini sfruttano i loro dipendenti.
Quanti straordinari non pagati. So bene che è stanca, a furia di alzarsi alle quattro tutti i giorni. Poi comincio a pensare al mio vecchio lavoro, quello che facevo all'inizio del nostro matrimonio. Ero una semplice commessa da Winkleman, ma mi piaceva stare in mezzo alla gente tutto il giorno, mi piacevano i vestiti, e sicuramente avevamo un gran bisogno di soldi. Quando arrivò Cindy, diedi le dimissioni, riproponendomi di tornare, prima o poi, ma non è mai accaduto. John forse non sarebbe stato entusiasta di avere una 'moglie che lavora', era implicito che io mi sarei occupata dei bambini, e a me stava bene.
Con il trascorrere degli anni, qualche volta mi passava per la testa di tornare a lavorare, ma in casa c'era sempre tanto da fare. Ricordo di averci pensato seriamente quando Kevin era piccolo e seminava il terrore per casa. (Ingurgitava tutto quello che gli capitava a tiro - insetti, detersivi, piante, medicinali - si ficcava in bocca qualunque cosa. Al centro antiveleni mi davano del tu.) Quel bambino mi mandava per stracci. E non facevo in tempo a calmarlo che tornava Cindy da scuola e tutto ricominciava da capo. Lavorare fuori casa sarebbe stato un sogno, all'epoca.
Non ho mai pensato di attaccare il mio talento al chiodo. Il fatto è che non ho mai saputo se avevo talento per qualcosa, a parte essere moglie e madre. Certo, mi piaceva molto occuparmi dell'esposizione, in negozio. Talvolta avevo persino l'opportunità di allestire una vetrina. Ho sempre avuto istinto per queste cose - combinare colori, tessuti, lavorazioni, modelli. Al negozio, erano tutti molto soddisfatti del mio lavoro. Il signor Biliti, il direttore, un ometto magro con i baffi e qualche problema di forfora, mi faceva sempre i complimenti. Ricordo la sua delusione quando gli dissi che ero incinta. Sorrise, si congratulò con me e cominciò immediatamente a ignorarmi. Nel giro di poco, fu come se non esistessi. Sapeva come sarebbe finita. Lavorava in un negozio di abbigliamento femminile, dopotutto.
Per essere sincera, ci ho ripensato raramente, dopo essermene andata. Stavo bene dov'ero, contenta di essere una madre, di avere una casa, un marito. E John era un buon marito. Abbiamo offerto un nido confortevole ai nostri figli. Venivamo entrambi da famiglie dominate da tiranni, adulteri e martiri, avevamo vissuto in mezzo a scenate e litigi, quindi decidemmo di fare esattamente il contrario di quello che avevano fatto i nostri genitori. In fin dei conti, si è rivelata un'ottima strategia.
Ci siamo sempre considerati una squadra. Nessuno è più importante dell'altro. Non mi sono mai messa a completa disposizione di John, come certe donne. Se voleva un panino, che alzasse le chiappe e se lo facesse da solo. Siamo stati molto moderni, in questo senso. Si chiama matrimonio, non servitù della gleba.
Ed è per questo che mi hanno tanto ferito le sue recenti affermazioni circa la casa che sarebbe la 'sua' casa, e tutto il resto comprato con i 'suoi' soldi. Lo so che è la malattia a farlo parlare così, che le persone nel suo stato assumono questo atteggiamento rispetto ai soldi e così via. In ogni caso, un tempo non mi avrebbe mai detto cose del genere.
Non sono nemmeno sicura che ricordi che abbiamo avuto due case, la prima a Detroit e la seconda a Madison Heights. Come tanta altra gente, ce ne siamo andati da Detroit pochi anni dopo i disordini del '67. Fu un grande dolore, per me, lasciare quella casa. Ci avevamo vissuto quasi vent'anni. Ma le cose cambiano, cambia il quartiere. I bianchi erano terrorizzati, si trasferivano in massa. Eravamo sotto pressione, agenti immobiliari bussavano alla porta e ti dicevano che 'loro' sarebbero venuti ad abitare alla porta accanto, circolavano notizie di furti e rapine. Voci, voci. Voci che mi facevano passare la voglia di passeggiare nel mio quartiere.
Quando ero piccola, abitavo in Tillman Street, in una zona molto povera. Neri e bianchi vivevano gli uni accanto agli altri, e non era un problema, allora. Nella nostra via c'era di tutto - bulgari, irlandesi, cecoslovacchi, tanti polacchi, un ebreo, alcuni francesi (i Miller, ladri dal primo all'ultimo) e un nero, il signor Williams, che viveva con la figlia, Zula Mae; persino una coppia mista, una donna bianca con un nero. Non era un problema, perché eravamo tutti poveri. Non possedevamo nulla e convivevamo in pace.
Dopo i disordini, era crollato tutto. Coleman Young fu eletto sindaco e mise bene in chiaro che i bianchi gli stavano sull'anima. Ci fece capire che sarebbe stato meglio per noi prendere Eight Mile Road e proseguire dritto. Nel giro di poco tempo, tutte le persone che conoscevo, le mie sorelle, mio fratello, gli amici, i vicini, si trasferirono fuori Detroit Tranne noi. Di nuovo, mi trovai a vivere spalla a spalla con i neri e mi dissi che non c'era problema, ma questa volta era diverso. Ci facevano sentire che Detroit era la loro città, ormai. E noi, evidentemente, non eravamo abituati a essere una minoranza. Non avrei voluto abbandonare la mia casa, ci ero affezionata. Però finimmo per andarcene.
Ancora adesso mi spezza il cuore pensare a quel che accadde. Degrado, case abbandonate. Michigan Central Station, il National Theatre, J.L. Hudson, lo Statler, il Michigan Theatre, tutti distrutti o lasciati andare in malora. Ora sento dire che i bianchi stanno tornando in città. Ristrutturano palazzi, costruiscono nuovi condomini, uffici, zone residenziali. Le cose cambiano un'altra volta. Non so cosa pensare. Il bianco diventa nero, il nero diventa bianco. E in questi giorni, in questi giorni sospesi, io e John viviamo nel mezzo, in una zona grigia dove nulla più sembra reale, e luoghi che furono un tempo così importanti per noi sono spariti per sempre.
Devo andare in bagno, ma non mi va di alzarmi. Voglio restare qui sdraiata un altro po'. Mi chiedo cosa ne sia stato di tutte le persone che lavoravano da Winkleman. Molti erano più vecchi di me. Adesso sono morti, questo è certo, come la maggior parte dei nostri amici, quelli che si trasferirono con noi dalla città ai sobborghi. I Jillette, i Near, i Meeker, i Turnbloom, tutti andati, con l'eccezione di qualche vedovo superstite.
Impari a temere la morte dei tuoi genitori, fratelli, moglie o marito, ma nessuno ti prepara alla morte dei tuoi amici. Ogni volta che scorri l'agenda, ti tocca ricordare - questa non c'è più, questo non c'è più, questi non ci sono più. Nomi, numeri, indirizzi cancellati. Pagina dopo pagina, andato, andato, andato. Il senso di perdita che provi non riguarda solo la persona. È la morte della tua giovinezza, la morte del divertimento, di conversazioni fitte e troppo alcol, lunghi fine settimana, dolori condivisi, vittorie, gelosie, segreti che non avresti potuto confidare a nessun altro, ricordi comuni solo a voi due. È la morte della partita a carte mensile. Dovete sapere questo: anche se siete come noi, e vi aggirate ancora su questa terra, c'è qualcuno del vostro passato assolutamente convinto che ormai non ci siate più.
Alle quattro e ventitré mi riscuoto dal mio solito sonno leggero: John incombe su di me, denti scoperti, vene pulsanti di rabbia sulle tempie. Credo di avervi detto che a volte non riesce a distinguere i sogni dalla realtà. Capita che si svegli e non sappia dov'è o chi è. E dà fuori di testa.
«John, cosa c'è?» chiedo, alzandomi a sedere.
Mi squadra, bocca aperta, respiro spezzato.
«John, ma che cosa c'è?» ripeto, vedendo qualcosa luccicargli in mano. Ci siamo, penso, è passato definitivamente dall'altra parte. «Cos'hai lì? Cosa credi di fare? Era solo un sogno».
«Non è vero» ruggisce. «Sono sveglio. Dove siamo? Questa non è casa nostra. Dove mi hai portato?»
«John. Questo è il nostro camper. Siamo in vacanza, ricordi? Io sono tua moglie, Ella».
«Tu non sei Ella» ringhia, a denti stretti.
«Certo che sono Ella. Credimi. Sono tua moglie, Ella».
Il suo sguardo si addolcisce leggermente, come se quello che dico cominciasse ad acquistare un senso per lui. «Cos'hai in mano, John?»
Protende la mano, così riesco a vedere cosa stringe. È un coltello.
Il coltello del burro.
«Da' qui, imbecille». Gli allungherei volentieri una bella sberla.
Avergli dato dell'imbecille sembra dimostrargli che sono veramente Ella. Mi porge il coltello e sento qualcosa sulla lama, qualcosa di appiccicoso.
«Ti stavi facendo un panino, John?» Lo osservo da vicino.
«No».
«E allora come mai hai la faccia sporca di burro di noccioline?» Prendo un fazzolettino di carta, lo inumidisco con la saliva e gli pulisco il labbro.
«Non lo so».
«Dio santo. Torna a letto, John».
Non è la prima volta che succede. L'ultima volta, a casa, mi ha svegliato stringendomi il colletto della camicia da notte. Ma prima ancora c'era stata la scena più spaventosa. Prendeva a martellate il comodino, domandando disperatamente dove fosse. È stato dopo questi episodi che ho cominciato ad avere grossi problemi di insonnia. Non sono in ansia per la mia incolumità. La morte non mi spaventa granché. Quello che mi atterrisce è l'idea di John che si ritrova da solo passata la crisi. L'idea di uno di noi due senza l'altro.
Il cielo del mattino è sfrontatamente blu. John si sveglia silenzioso ma allegro, mentre io ho un diavolo per capello. Facciamo colazione con tè, pappa d'avena e pane tostato, ingoiamo le medicine, prepariamo i bagagli e partiamo. Riprendere la strada è un sollievo. Decido di mettere una bella pietra sopra la giornata di ieri e concentrarmi su quello che ci aspetta. Abbiamo una lunga striscia di Texas da attraversare, più di duecento chilometri.
Il paesaggio è piatto e deprimente - pietre roventi, terra riarsa infestata di sterpaglia. A scanso di equivoci, dico a John di fermarsi a fare il pieno. Dopo aver inserito la carta di credito e dato un occhio a John, faccio una rapida puntata ai bagni, poi compro spuntini e due bottiglie di acqua minerale. (Detesto spendere soldi per l'acqua, ma mi sento più sicura.)
Quando torno John sta ancora mettendo il carburante. Mi sa che lo sta facendo scendere goccia a goccia. Fa un bel sorriso, al mio passaggio. Porta un gran cappello da golf con la bandiera americana che deve aver trovato da qualche parte.
«Tutto a posto, El?» dice attraverso il finestrino, dopo che mi sono sistemata sul sedile.
«A postissimo» rispondo, sorpresa che mi chiami di nuovo così. Erano anni che non sentivo 'El'. Queste sono le cose che la malattia ti ruba, a una a una, il piccolo gergo familiare, i dettagli che ti fanno sentire a casa. E sono le cose che questo viaggio sta riportando in superficie. Evviva.
La levetta dell'erogatore scatta all'indietro. John lo riaggancia alla pompa, poi apre la portiera. La ricevuta della carta di credito sguscia fuori dalla fessura, sventola e vola via. Chi siamo noi, per badare a simili quisquilie.
John si siede al posto di guida, mi guarda ammiccante, mi dà una strizzatina al ginocchio.
«Ehi, amore» dice, con aria maliziosa, sebbene non possa percepire altro che grasso e titanio. Non mi vergogno di ammettere che in quel momento il mio cuore decolla.
Gli sorrido anch'io, tornata di buon umore, felice di vedere il mio vecchio. «Siamo in gran forma, oggi» commento.
Mi accarezza il ginocchio e mette in moto. Ci voleva, dopo quel che è successo ieri.
Decidiamo di glissare sul Museo del fil di ferro Devil's Rope a McLean perché rischia di essere il museo più stupido del mondo. Poco più avanti, oltrepassiamo una piccola stazione di servizio Phillips 66 vecchio stile, con le pompe arancioni e il camino a forma di bottiglia del latte. Come molte delle cose che sono state restaurate lungo questa strada, non ha nessuna utilità pratica, ma è carina.
I chilometri scorrono che è un piacere. L'ambiente è caldo, arido e abbagliante, ma non si sta male con i finestrini aperti. Vantaggi di viaggiare in autunno.
La Route 66 è la strada di servizio che costeggia l'autostrada, attraversiamo cittadine che si chiamano Lela e Alanreed senza incontrare nessuno. Posti che si potrebbe definire sonnacchiosi, anche se comatosi è la parola più adatta. Un cartello accanto all'autostrada:
SERPENTI A SONAGLI PROSSIMA USCITA
Ma al Ranch dei rettili ci sono solo macerie.
Sto quasi per chiedere a John di andare a curiosare, e invece lo guido sulla 1-40 per evitare un tratto sterrato di 66, ultimo residuo dell'antica Jericho Gap. Oltretutto, si sta così bene in movimento che non voglio rovinare l'atmosfera con inutili soste. Non voglio correre il rischio di alterare lo stato d'animo di John, in questo momento. È splendidamente chiacchierino.
«Ella, ti ricordi quella volta che siamo andati in Colorado? Dov'era già che ci siamo svegliati in mezzo a tutte quelle pecore? Cavolo, che roba!»
Sono esterrefatta. Era tanto tempo che non ricordava nulla del genere, e ne sono felice. «Eravamo a Vail» rispondo «quando siamo andati a ovest nel '69».
«Ma certo!» dice, assentendo con tutto il corpo.
«È stato stranissimo» continuo. «Ci siamo svegliati presto e io ho sbirciato fuori. Il sole era appena sorto e sono spuntate tutte quelle pecore».
John solleva gli occhiali con il dito indice, annuendo di nuovo. «Il pastore le guidava attraverso il campeggio. Noi eravamo alle pendici di una collina e le pecore si sono fermate a brucare tutt'attorno al camper. Non so come facesse a tenerle a bada».
«Aveva un cane?» Incredibile, sto chiedendo a John un particolare di una cosa accaduta decenni fa.
«Non mi pare». Mentre parla, fissa la strada davanti a noi come se avesse la scena lì, sotto gli occhi. «Ricordo che ci fece una strana impressione. Come se il tempo avesse rallentato. Era tutto immobile, mentre brucavano. Non facevano quasi alcun rumore. Per un attimo ho pensato che fossimo intrappolati nel camper, ma era tutto a posto. Eravamo semplicemente immersi tra le pecore».
«È quello che mi piace delle vacanze».
«Le pecore?»
«Tutto rallenta. Vivi tante esperienze in poco tempo. Perdi il conto dei giorni. Il tempo rallenta come in sogno».
John sembra confuso da quel che ho detto. O forse non mi ha nemmeno sentito. Meglio così, perché probabilmente ho descritto la sua abituale condizione mentale.
«Ricordi com'era spaventato Kevin?» chiede. «Non aveva mai visto tante pecore, poveretto. Nemmeno alla fiera del bestiame. Ho dovuto tranquillizzarlo, spiegargli che le pecore sono buone e che non bisogna aver paura di loro».
«Santo cielo, John». Mi sta fornendo particolari che persino io ho dimenticato, e la mia memoria è direttamente proporzionale al mio giro vita. Gli metto una mano sul braccio, faccio scorrere le unghie tra i peli bianchi.
«Cosa?»
«Niente. Assolutamente niente».
Non esistono momenti perfetti. Non più. Me ne rendo conto perché oggi, proprio quando mi restituiscono il mio John, avverto un'oppressione improvvisa nel mio corpo, un malessere intenso e devastante che non ho mai provato prima. Tolgo la mano tremante dal braccio di John, contenta di non aver affondato le unghie nella carne quando mi ha investito la prima fitta. Rovisto nella borsa in cerca delle pilloline blu. Ho un bel trafficare, la borsa pullula di barattoli di pastiglie, ma non sono mai quelle giuste. Trovo tubetti di burro cacao, pacchetti di kleenex, mentine e la pistola di John (è pesantissima, ma non mi fido a lasciarla altrove), tutto tranne le pilloline blu. Finalmente localizzo il flacone. Annaspando come una tossicomane in crisi d'astinenza, ne butto giù due con l'acqua di riserva. Ci vorrà un po', lo so bene, prima che facciano effetto. Ho bisogno di distrarmi.
«Dimmi qualcosa, John» chiedo, contratta dal dolore, sforzandomi di parlare con voce normale.
«Ma cosa?»
«Niente, quello che vuoi. Raccontami quello che ti viene in mente».
«Su cosa?»
«Su di noi. Sul nostro matrimonio. Raccontami qualcosa».
John mi guarda, inizialmente perplesso, come se si fosse dimenticato la domanda. Poi esordisce «Com'eri carina, quando ci siamo sposati. Avevi le guance tutte rosse. Non ti eri truccata, ma avevi le guance rosse. Ho temuto che ti stesse venendo la febbre. Ricordo di averti baciata sui gradini di Santa Cecilia, toccandoti la faccia e sentendola tutta calda, pensando che volevo sentire quel calore contro il mio viso».
Mi piego in due dal male. «Sì, certo. Il tuo viso era così fresco. Io ero nervosissima, quel giorno. Non vedevo l'ora di sposarti».
John ride e mi guarda. Spero che la mia smorfia passi per un sorriso.
«Dimmi qualche altra cosa che ti ricordi, John. Forza».
«Kevin era appena nato. Tu ti eri già preparata per la notte, il bambino stava bene, così sono tornato a casa dall'ospedale. Cindy era da tua sorella, io ero solo e non riuscivo a smettere di piangere».
«Perché piangevi, John?»
«Non lo so. In realtà ero felice. Mi sono vergognato di aver pianto tanto».
«Non c'era nulla di cui vergognarsi, tesoro».
«No, infatti».
Stringo le dita sui braccioli del mio sedile e cerco di resistere. «Te la prendevi sempre con Kevin perché piangeva di continuo».
«Non volevo che a scuola passasse per un piagnone».
«Tanto lo era lo stesso». Non riesco a ridere o sorridere, ora, ma vorrei.
John non dice niente. Una macchina ci supera avvolgendoci di fumo nero. La puzza dei gas di scarico mi dà la nausea. Mi viene da vomitare, ma abbasso ancora un po' il finestrino e va meglio.
«Cosa ricordi delle vacanze, John?»
Si mette a pensare. Una scossa di dolore lancinante esplode dentro di me. «John».
«Il fuoco. I fuochi che accendevamo. L'odore di fumo sui vestiti il mattino dopo, quando mi svegliavo e infilavo la stessa felpa. Mi piaceva, quell'odore. Alla fine di una giornata di guida era sparito, e lo rivolevo indietro».
«Potremmo accendere un fuoco, stasera».
«Va bene».
Passiamo da Groom e vedo 'La torre pendente del Texas', come la chiama la nostra guida. È una torre dell'acqua nettamente sbilanciata su un lato.
«Ti senti bene?» chiede John.
«Sì, bene» mento. Un'altra automobile ci sfreccia accanto.
«Oh, ma dove devono andare!» esclama John, piccato. Succede di continuo, in questo viaggio, la gente se la prende con i vegliardi che vanno come lumache, ma è la prima volta che John se ne accorge. Temo che facessimo anche noi lo stesso, da giovani, nei nostri viaggi frenetici, guidare a tutta velocità per arrivare da qualche parte, e poi correre correre per ritornare a casa. Penso alla cartina appesa in taverna con una ragnatela di nastro adesivo che ricopre il paese, tante vacanze, com'è passato tutto in fretta. Penso ai Joad che arrancano sulla Jericho Gap, il loro camper che si infossa nella terra. Poi un calore argentino comincia a diffondersi nelle mie ossa. La testa si rilassa sulle spalle, e riprendo a respirare. Dal finestrino, osservo un montacarichi per il grano in un campo, i silo sembrano dita protese verso il cielo. Ho ritrovato il benessere.
«Ehilà, amici, come va?» trilla Jeanette, la nostra allegra e graziosa cameriera, tutta agghindata come una cowgirl, ancora abbastanza giovane per non essere completamente fiaccata da quel lavoro estenuante. «Benvenuti al Big Texan Steak Ranch!»
«Ehilà, bella signorina, tutto bene?» ribatte John, facendo il gesto di sollevare il cappello da golf in suo onore. È ancora in alti spiriti e riemerge il suo lato galante.
Jeanette ride decisamente troppo forte e troppo a lungo. «Se non siete strabelli, voi due».
Annuisco e sorrido. Jeanette non sa che la vecchietta strabella che si appresta a servire in realtà è strafatta, fuori come un terrazzo. Forse ho un po' esagerato. Mi pulsa la testa. Il mio corpo è liquido ed elettrico. Il malessere se n'è andato, e io con lui. Posso dirmi fortunata di essere riuscita ad arrivare fino al tavolo.
Il Big Texan Steak Ranch è un posto pacchiano, che da fuori prometteva meraviglie - un gigantesco cowboy con la sua mucca gigante, accanto a un ranch gigante. John si è così esaltato quando l'ha visto, che non potevo deluderlo. (Se non l'aveste notato, abbocco come un pollo a tutte le grandi attrazioni turistiche. Riesco ancora a emozionarmi ogni volta che passiamo accanto all'enorme pneumatico Uniroyal sulla 1-94, a Detroit... E andavo matta per il colossale Paul Bunyan che avevamo in Michigan. Da qualche parte ho una mia foto con Cindy, avrà avuto cinque anni, in piedi accanto a Babe, il bue blu. Guardiamo in su e salutiamo John che ci sta fotografando dall'alto della testa di Paul Bunyan.) Però, adesso che ci siamo dentro, il Big Texan assomiglia più a un bordello che a un ranch del vecchio West. Aggiungiamoci pure che un brandello di carne non mi alletta molto, al momento.
«Allora, signori miei. Cosa prendiamo di bello?» squittisce Jeanette.
«Per me un hamburger» dice John. E fin qui, nessuna novità.
«Va bene l'hamburger Ranch special da tre etti?»
Le faccio segno di sì. «Certo, perfetto. Ben cotto».
«Le spettano anche un'insalata e due contorni, signore».
John sembra un filo perplesso, quindi cerco di riscuotermi dal mio torpore. «Uhm, avete il condimento Mille isole?» chiedo, prendendo tempo, mentre scorro l'enorme, assurdo menù pieno di vignette. «Maccheroni al formaggio. Okra fritti».
«Okay. E lei, signora?» chiede Jeanette, inclinando il capino.
«Solo un bicchiere di tè freddo, per favore».
Jeanette assume un'espressione profondamente desolata. «Sicura? Guardi che abbiamo la bistecca Big Texan da due chili! È gratis se riesce a mangiarla tutta in un'ora!»
La fisso senza battere ciglio. «Uhm. No, per oggi no, grazie».
«Una volta abbiamo convinto una nonnetta di sessantanove anni a mangiarne una» proclama con orgoglio Jeanette.
«Ma davvero?» rispondo. «Be', la nonnetta qui presente vuole soltanto un tè freddo».
«Okay! Un attimo e sono da voi!» Jeanette se ne va, e io tiro il fiato. È faticoso far fronte a tanto entusiasmo.
John mi guarda, apprensivo. «Tutto bene, cara?»
«Sì. Ho solo un po' di nausea».
«Stai male?»
E qui vale la pena di precisare che John non è del tutto consapevole della mia malattia. Insomma, sa che i ragazzi mi accompagnano dal medico. (Attacchiamo biglietti in tutta la casa - MAMMA DAL MEDICO, TORNA TRA DUE ORE - per evitare che vada nel panico quando si rende conto che non ci sono.) Però non sa perché, e comunque non sarebbe in grado di trattenere l'informazione. Dopo che Cindy ebbe annunciato a John che avrebbe divorziato, lui continuava a dimenticarsene. Ogni volta che la vedeva, chiedeva "Dov'è Hank?"
Lei rispondeva cose tipo "Non ne ho idea, papà. Siamo divorziati. Passa soltanto a prendere i ragazzi".
"Divorziati, ma dai!" diceva John. "Non siete divorziati".
"Invece sì, papà".
"Divorziati, questa è bella! Perché nessuno mi dice mai niente, in questa casa?"
"Te l'ho detto, papà, e tu te ne dimentichi".
"Ma non farmi ridere".
E via di questo passo. Ogni volta che glielo ripeteva, lui cascava dalle nuvole e si rattristava come se fosse stata una novità assoluta. Dopo la quinta o sesta volta, stabilimmo che non ne avrebbe mai preso atto, e che era meglio far finta di niente. Non ci andava di continuare a sconvolgerlo.
Così oggi, quando arriva il suo cibo, non è più preoccupato del mio benessere o di nient'altro. Mangia come se fosse la sua ultima occasione.
John non dà segni di cedimento, quindi perché non attraversare Amarillo, soprattutto considerando che, stando alla guida, è un tratto pieno di atmosfera. Prendiamo la Business Loop 40, lungo la vecchia 66, e la seguiamo fino ad Amarillo Boulevard. Il traffico intenso, contrariamente al solito, non mi innervosisce: godo ancora del rilassamento anomalo indotto dalle pilloline blu. Vedo qualche vecchio motel - il Motel Apache e altri - ma la città sembra polverosa e trasandata. All'incrocio con Sixth Street, c'è una zona di ristoranti e negozietti. John rallenta.
«Guarda, un chioschetto di souvenir. Vuoi scendere a dare un'occhiata?»
Sorrido a mio marito. Oggi è un vero tesoro.
«No, sto bene così, John. Grazie lo stesso».
Ha ragione, però. Ci sono proprio dei bei negozi, qui. Fino a dieci o quindici anni fa, avrei preteso di fermarmi a fare un giro. Seppure completamente istupidita dalle pastiglie, persino oggi sarei tentata. Ma non è davvero il caso.
Ai tempi, era uno dei miei pallini, tornare dalle vacanze con qualche oggetto. Avevo un debole per il vasellame. Dovunque andassimo, tornavo con qualcosa - vasetti indiani da Wyoming e Montana, ciotole smaltate da Pigeon Forge, piatti messicani dal Sudest. Tutti bellissimi, e in gran parte ancora imballati nelle loro scatole in taverna. In una casa, in fondo, lo spazio non è infinito. Ma io dovevo fermarmi a fare acquisti. In anni più recenti, prendevamo qualche ninnolo per i nipoti, ma adesso basta. Penso a tutte quelle scatole in taverna. I ragazzi avranno il loro bel daffare.
Usciti da Amarillo, riprendiamo la 1-40 e io mi sento leggermente più lucida. Dopo un po' imbocchiamo lo svincolo 62 e ci lasciamo alle spalle l'autostrada. Frugo in uno scomparto dietro di noi finché non trovo il nostro vecchio binocolo.
«Cosa stai cercando?» chiede John, quando vede cos'ho in mano.
«Voglio vedere il famoso Cadillac Ranch» rispondo, districando con cautela la cinghia di cuoio che si è impigliata attorno alle lenti, ma è talmente cotta che mi si sgretola in grembo. La butto nel cesto della spazzatura, irritata.
«Sarebbe?»
Prendo la guida e leggo. «Dice che c'è una specie di installazione artistica, opera di un eccentrico magnate dell'elio. Una serie di vecchie macchine interrate».
John corruga la fronte. «E perché l'ha fatto?»
Scruto ai lati della strada con il mio binocolo. «Te l'ho detto, è un'installazione».
«A me sembra soltanto uno spreco bello e buono». Si toglie il cappello, aggiusta la fascia e lo rimette.
«Sono vecchie auto degli anni Quaranta e Cinquanta».
«Oh» grugnisce. È evidente che non apprezza.
Intravedo qualcosa, abbastanza lontano dalla strada, in mezzo a un grande campo, come dice la mia guida. Decisamente troppo lontano per andarci a piedi.
«Vuoi rallentare, John, per favore? Lasciami guardare».
«Non capisco perché...»
«Per la miseria, John! Ti fermi o no? Voglio solo dare un'occhiata».
«Va bene, va bene, non ti scaldare».
Vi assicuro, a volte lo preferisco quand'è annebbiato. Parcheggiamo di fianco a un cassonetto coperto di graffiti.
«È quello?»
Attraverso il binocolo, localizzo una fila di auto sepolte nella terra a testa in giù. Non c'è nessuno in giro, solo un paio di mucche che brucano nelle vicinanze. «Credo di sì».
«Non sembrano proprio in buono stato» commenta John.
Gli passo il binocolo perché le veda anche lui.
«No, in effetti. Sono dipinte con lo spray e tutte ammaccate. Non hanno nemmeno le gomme».
«Che peccato. Perché le hanno sepolte, dicevi?»