Capitolo tre
Erica
La luna di miele era stata una fuga. Una bellissima, splendida fuga. Poi la vita vera ci aveva richiamati a casa.
Una settimana dopo, abbronzata dal sole e ristorata dagli ultimi scampoli del viaggio su un’isola che stavamo iniziando a sentire nostra, atterrammo a Boston.
Al rientro sottili nubi grigie oscuravano il sole e ci accolse la minaccia dell’inverno imminente. Rabbrividii quando una folata di vento gelido spazzò l’asfalto, ricordandomi l’inesorabile trascorrere del tempo.
Mentre Blake e io sbarcavamo, notai una Escalade nera parcheggiata a poca distanza. Ci avvicinammo e un uomo alto e ben piazzato girò intorno al veicolo. Vestito tutto di nero era una figura davvero minacciosa, ma lo conoscevo fin troppo bene.
«Clay!». Mi alzai sulle punte per abbracciare quel bestione che si era preso l’incarico di proteggerci nel corso degli ultimi mesi. «Ci sei mancato».
Fece un sorriso timido. «Com’è andato il viaggio?»
«Incredibile, ma siamo felici di essere a casa». Il paradiso non può durare per sempre, dopotutto.
«È bello riavervi qui». Poi guardò Blake. «Casa?».
Lui annuì. «Casa».
Clay guidò verso nord, lasciandosi alle spalle lo skyline della città. L’autostrada cedette il posto a una carreggiata a una sola corsia che correva lungo la costa attraverso i paesini. Osservai con cura ogni cosa. Il traffico sostenuto, i cartelli familiari, le file di case sulla spiaggia che affacciavano sulla distesa azzurra dell’oceano. Tutto era noto, eppure in un certo senso mi era estraneo. Perfino la destinazione, un’abitazione che ancora non avevamo reso la nostra casa, ci sarebbe apparsa singolare dopo tutto quel tempo.
Qua e là i manifesti della campagna elettorale ancora punteggiavano ogni chilometro che percorrevamo, alcuni riportavano il nome Fitzgerald e lo slogan. Daniel era l’ultima persona che avrei voluto ad accogliermi al rientro, ma era ovunque. Mentre la nostra nuova condizione decantava, i ricordi mi travolsero come un’onda sgradita.
Dopo anni in cui non avevo avuto idea di chi fosse il mio vero padre, avevo ritrovato una vecchia foto di mia madre insieme a lui. Ricordavo benissimo la frenesia che mi aveva presa di raggiungerlo. Ero stata un miscuglio di paura e speranza mentre sedevo dall’altra parte della sua scrivania e gli spiegavo chi fosse mia madre. Per quanto intimidatoria fosse stata quell’esperienza, conoscere l’uomo che c’era dietro gli abiti costosi, gli uffici di livello e la macchina politica che guidava la sua campagna elettorale si era rivelato perfino più terrificante. Eppure non era solo paura quella che provavo quando leggevo il suo nome o vedevo il suo viso.
C’era anche delusione e, ancora più in fondo, la rabbia. Dopo tutti quegli anni mi sarei aspettata qualcosa di più. Avevo sperato in qualcosa di più. Mi si formò un nodo in gola e improvvisamente avrei voluto strappare tutti i cartelloni a ogni chilometro che passavamo.
Blake allungò la mano per prendere la mia. «A cosa pensi?».
Fissai il vuoto davanti a me. «A niente». Niente di cui volessi parlare. Non odiavo Daniel tanto quanto avrei dovuto. Ma sapevo che Blake lo detestava. Comprendeva la mia rabbia, ma lamentarmi con lui non mi avrebbe di certo portato la pace.
«Ha vinto, lo sai», disse.
Daniel aveva vinto. Avevo rimuginato su quella notizia nella mia mente qualche volta, immaginando tutta la relativa pompa e la gloria, gli striscioni e i simboli di patriottismo e falso orgoglio. E poi pensavo all’oscurità celata dietro i festeggiamenti, dove si nascondeva tutto quello che aveva fatto per assicurarsi la vittoria.
Non riuscivo a capire cosa provassi esattamente di fronte a tutto ciò. Cosa avrei potuto dire davvero? Va bene? Va malissimo?
Blake e io percorremmo l’ultimo tratto in silenzio mentre riflettevo se dovevo essere contenta o no delle notizie che riguardavano Daniel.
Clay lasciò i nostri bagagli all’ingresso e, dopo un breve scambio di battute con Blake, concordò che sarebbe venuto a prenderci la mattina seguente per portarci in ufficio. Ci avviammo al piano di sopra verso la camera da letto, dove crollammo in un attimo.
Mi risvegliai con il brillante cielo del mattino e un letto vuoto. Stando a un biglietto che mi aveva lasciato sul cuscino, Blake era uscito presto per andare al lavoro. Gemetti e presi in considerazione l’idea di rimettermi a dormire, ma il pensiero di incontrarmi con Alli e gli altri nel nuovo ufficio mi diede la spinta a muovermi. Mi presi tutto il tempo necessario per prepararmi, accendendo il televisore sul notiziario per tirarmi fuori dal letto, dove sarei stata capace di dormire per altre otto ore. Mi versai il caffè, ma mi bloccai sentendo nominare Daniel. Il giornalista stava facendo un resoconto delle elezioni che si erano tenute la settimana prima.
Anche se non ci parlavamo da mesi, Daniel era affiorato nei miei pensieri piuttosto spesso. Ci eravamo separati. Be’, aveva deciso di sparire dalla mia vita. Per fortuna? Forse. A volte mi chiedevo cosa avrebbe detto se avessi cercato di mettermi di nuovo in contatto con lui. Avrebbe insistito nel mantenere le distanze?
Ora che aveva vinto la corsa al governatorato forse non avrebbe detto nulla. Vincere le elezioni era tutto quello per cui aveva lavorato da quando era stato innamorato di mia madre. Ero sicura che qualsiasi importanza avessi ricoperto nella sua vita era sfumata sullo sfondo degli eventi attuali.
Spensi il televisore, determinata a non dedicargli altri pensieri. Nonostante i seri postumi dovuti al fuso orario e la tristezza per la fine della mia spensierata luna di miele, non vedevo l’ora di lanciarmi di nuovo nel lavoro, una cosa che non ero riuscita a fare da quando avevo venduto la società.
Ero a corto di caffeina e presi quell’esigenza come la battuta d’avvio. Clay mi accompagnò in città e mi lasciò al Mocha, il bar che frequentavo spesso quando lavoravo nel vecchio ufficio. Non c’ero più tornata da quando Sophia, la ex di Blake, aveva licenziato Alli e io ero uscita dalla società, ma non potevo star via per sempre. Passai in rassegna il marciapiede, aspettandomi quasi di incontrare Sophia, ma non individuai volti conosciuti.
All’interno, però, notai subito Simone che serviva a un tavolo poco distante. Vidi che il mio posto abituale era vuoto e mi sedetti. Mentre aspettavo, il telefono ronzò e lessi un messaggio di bentornato da parte di Marie. Le risposi, cercando di organizzare un incontro per la settimana successiva. Sapevo che voleva conoscere ogni dettaglio del viaggio di nozze e non potevo aspettare per dirle che mi era mancata molto più di quanto pensasse.
Simone comparve spalancando gli occhi. «Oh, cazzo, chi sei tu e cosa ci fai nel mio bar?».
Risi. «Sono qui per la mia dose di caffeina. E per vedere te, naturalmente».
«Giusto, cavolo». Si unì a me, sedendo sullo sgabello di fronte. «Allora, come va? Non ti vedo dal giorno del matrimonio».
«Niente di che, in realtà. Sto giusto rientrando al lavoro oggi. E tu?»
«Solita vecchia storia», rispose accennando con un gesto al locale affollato.
«E i nuovi vicini?», non potei fare a meno di chiederlo, dato che il Mocha era a pochi scalini dagli uffici di Clozpin, ma ero preparata a una risposta che avrebbe potuto farmi male. Buona o cattiva che fosse, sarebbe stata come sale su una ferita.
Simone scrollò le spalle. «Da quello che posso dire, il grande boss, Perry, è qui solo un paio di volte al mese. La ragazza non l’ho mai vista. Hanno assunto nuovi programmatori. Ma non posso lamentarmi. Come clienti si sono rivelati eccellenti caffeinomani».
«Quindi immagino che siano ancora in piedi e in attività». Volevo apparire impassibile, ma non riuscii a dare vivacità al mio tono di voce.
«Così pare. Sono felice che James non sia rimasto. È molto più felice di lavorare con la vecchia guardia».
James era stato l’ultimo ad abbandonare la nave dopo il cambio di proprietà. Le ultime informazioni che avevo avuto erano che Clozpin aveva subìto un attacco informatico e che c’era stata una dannosa fuga di notizie circa Isaac e Sophia che avrebbe potuto decretare la fine di tutto. A quanto pareva però si erano ripresi ed erano andati avanti. Forse era ora che lo facessi anch’io.
«E questo cos’è?», chiesi, indicando il cuore disegnato ad arte sul suo avambraccio.
«Un nuovo tatuaggio». Passò il dito sui particolari che ornavano una serratura nera al centro del cuore.
«È bellissimo. I dettagli sono incredibili».
Le sue guance avvamparono. «Lo ha disegnato James. È un artista sorprendente. Anche lui ne ha uno, una chiave».
Rimasi a bocca aperta, colpita dall’evidente significato celato dietro i due simboli. «Wow. È indelebile, sai».
Rise. «Be’, si suppone di sì. È proprio quello il punto».
«Sono così felice per voi due». Dopo tutto quello che era successo con James, ero davvero contenta che lui e Simone avessero trovato qualcosa di reale che mi augurai potesse renderli profondamente felici, come Blake rendeva felice me.
I suoi occhi si addolcirono quando toccò di nuovo il tatuaggio avanti e indietro. «A dire il vero, quando abbiamo iniziato a uscire insieme, non credevo che potessimo avere un futuro, ma quell’uomo si è fatto strada nel mio cuore in modo così profondo che, se qualcosa ci dovesse separare, ne vorrei serbare un ricordo in ogni caso».
«È fortunato ad avere te, Simone».
Sospirò, dimostrando che era innamorata persa esattamente come me.
«Ne ha passate tante. Così tante che forse non te ne ha mai parlato, Erica. Ma in vita mia non ho mai incontrato un uomo che aprisse il proprio cuore come lui. È come se, quando abbiamo smesso di girare intorno all’amicizia e deciso di dare alla nostra storia una possibilità, niente avesse potuto mettersi tra di noi. Niente giochi, niente stronzate. Eravamo solo noi».
Deglutii per l’emozione che mi si addensò in gola. «Cavolo, mi fai piangere. Piantala».
Sorrise, battendo le palpebre per scacciare quelle che sembravano lacrime di felicità. Scendendo dallo sgabello, venne ad abbracciarmi.
«Mi sei mancata», dissi. Quelle parole minacciarono di dare il via all’inondazione per davvero. Mi ero goduta alla grande la mia fuga con Blake, ma avevo sentito la mancanza dei miei amici, più di quanto non mi fossi resa conto fino a quel momento.
Mi strinse forte. «Anche tu mi sei mancata. Tu e la tua tragedia del cavolo».
Risi mentre mi staccavo da lei. «Mi dispiace per tutto».
«Non preoccuparti. Ha mantenuto alto l’interesse nella mia altrimenti tediosa vita fatta di caffè e croissant. Non farti più sparare e cose del genere, però, okay? Ho bisogno che tu sia viva. Gli affari languono quando non ci sei tu in giro a nutrire le tue abitudini».
Mi passai le dita sotto gli occhi, cancellando ogni umidità causata dal mio piccolo crollo. «Farò il possibile».
Mi strofinò le braccia. «Vedi che puoi fare. Bene. Ora devo tornare al lavoro».
«Anch’io. Ho una tonnellata di cose su cui aggiornarmi».
«Non ne dubito. Ehi, fammi un favore. Dai una sculacciata a James quando arrivi e digli che è da parte mia».
Alzai gli occhi al cielo. «Quello lo lascio fare a te, Simone».
Scoppiò a ridere e mi salutò con un gesto.
Camminai per i pochi isolati che mi separavano dal nuovo ufficio che ora condividevo con Blake. Salii le scale e mi fermai qualche secondo davanti al vetro smerigliato che riportava la scritta E. LANDON, INC. Sorrisi tra me e me.
Signora Erica Landon. Mi stavo godendo quel suono. Avevo acquisito il cognome di Blake senza fare obiezioni, ma comunque sul lavoro non aveva dovuto faticare per prendere i miei progetti sotto l’ala della sua azienda. E in un momento in cui stavo perdendo rapidamente la speranza, aveva predisposto lo spazio in ufficio che mi avrebbe permesso di dedicarmi a essi per colmare il vuoto.
Determinata a lasciare il passato nel passato e abbracciare quel nuovo capitolo della mia vita, aprii la porta. All’interno, la squadra – tra vecchie e nuove leve – era al lavoro alle rispettive scrivanie.
Quando mi vide, Alli emise un urletto stridulo. «Sei tornata!», e corse ad abbracciarmi forte. «E quanto sei abbronzata!».
Risi mentre ci staccavamo. «Una settimana su un’isola porta questi risultati».
«Sono vergognosamente invidiosa. Ma che ci fai qui? Pensavo che ti saresti presa un paio di giorni per riprenderti».
Alzai le spalle. «Non potevo aspettare».
Geoff e Sid attirarono la mia attenzione dalle loro postazioni lì accanto.
«Come vanno le cose? Che mi sono persa?», chiesi.
Gli occhi di Geoff si illuminarono. «Una marea di cose. Da dove comincio?»
«Da dove vuoi. Aggiornami in fretta». L’emozione iniziò a ribollire dentro di me, una familiare frenesia di riprendere a parlare il linguaggio degli affari e della tecnologia e di essere lanciata in un turbinio di particolari che giravano intorno a un progetto all’avanguardia.
Sid si alzò in piedi poggiandosi alla scrivania. «Abbiamo due nuove app che devi testare».
«Fantastico».
«Ehi, straniera», una voce profonda risuonò alle mie spalle. James fece la sua comparsa sulla porta. I suoi capelli ondulati tendenti al nero erano arruffati e si intonavano con la lunga T-shirt scura e i jeans. Si chinò a darmi un bacio sulla guancia. «Sono felice che tu abbia deciso di tornare».
«Be’, non potevo star via per sempre. Comunque, non so cosa farei senza voi ragazzi che mi tenete impegnata».
«La felicità ti si addice», disse toccandomi scherzosamente la punta del naso.
I suoi profondi occhi blu sembravano guardarmi dritto in fondo all’anima, come sempre. La mia amicizia con James si era trasformata in qualcosa di molto più significativo di quanto mi sarei mai aspettata quando inizialmente lo avevo assunto nel team di Clozpin. La nostra pennellata di romanticismo era stata breve e non ben fondata, ma ero contenta che non avessimo perso quella confidenza che ci aveva portati a un passo dall’iniziare una storia.
«Grazie», dissi dandogli una spinta leggera. «Anche a te». Si passò le mani tra i capelli mostrando il nuovo tatuaggio che si abbinava alla perfezione a quello di Simone, una elaborata chiave in stile antico in bianco e nero.
«Bel disegno». Gli strizzai l’occhio.
«Grazie». Il suo mezzo sorriso divenne completo. Fece un gesto con il capo verso l’interno dell’ufficio. «Avanti, facciamo una riunione nella nostra sala sciccosa. Stiamo morendo dalla voglia di inaugurarla».
«Certo».
Trascorremmo tutti e cinque il resto della mattinata a parlare dei progressi fatti. Geoff, l’ingegno dietro la tecnologia indossabile che avevo deciso di finanziare alcuni mesi prima, mi spiegò gli ultimi sviluppi. A dire il vero, la squadra aveva guadagnato parecchio terreno in mia assenza, ma c’erano vuoti da colmare e migliorie da apportare prima di poter lanciare le app sul mercato. Passarono le ore e mi lasciai prendere dai dettagli.
Quando ci interrompemmo per il pranzo, armeggiai nel mio ufficio, in quello spazio in cui non avevo ancora avuto modo di sistemarmi. Ma, per la prima volta da quando ero tornata, sentii come se fosse davvero ciò che dovevo fare. Nonostante quello che era successo per buttarmi fuori da tutto, ero più pronta che mai a rituffarmi nel lavoro e riprovarci.
«Contenta di essere tornata?».
Girai con la sedia e trovai Alli appoggiata allo stipite della porta.
«Sì», ammisi.
«Siamo contenti di riaverti qui. Anche la famiglia, naturalmente. Catherine e Greg daranno una cena di bentornato per voi stasera».
«È molto carino da parte loro».
Le labbra di Alli ebbero un piccolo spasmo mentre si attorcigliava un ciuffo di capelli intorno al dito.
«Che c’è? Hai l’aria di chi vuole dirmi qualcosa».
«Be’, ci sarà un posto a tavola in più stasera».
«Ah sì? Chi?».
Si accomodò sulla sedia davanti alla mia scrivania e abbassò la voce. «Ti ricordi quel bellissimo barista della discoteca, quello che hai rimandato da Sophia con quegli shot terribili?»
«Vagamente». Il passare del tempo e il mio stato di leggera ebbrezza avevano reso fumosi i dettagli di quella serata. Tuttavia ricordavo nettamente la breve comparsa di Sophia al mio addio al nubilato.
«È il nuovo ragazzo di Fiona».
Sollevai un sopracciglio. «Wow. Lui?»
«Immagino che escano insieme da un po’, ma ora vuole presentarlo alla famiglia».
«È un passo importante». Considerando che non avevo mai conosciuto né visto nessuno dei precedenti ragazzi di Fiona, non riuscivo a immaginare come potesse essere accolto un suo nuovo spasimante. Comunque, con me la sua famiglia era stata sempre calorosa e gentile.
«Lo so. Non vedo l’ora di vedere come va».
Mi appoggiai allo schienale. «Ho la sensazione di essermi persa un sacco di cose».
«Questo succede a star via settimane intere e a non leggere nessuna mail».
«Non scherzare. Ci è voluto un mese per estirpare tutto. E comunque, ne sarà valsa la pena».
I miei pensieri saltarono subito agli innumerevoli ricordi che Blake e io avevamo condiviso nel nostro viaggio. Una parte di me voleva raccontare a Alli del nostro discorso sui figli, ma non ero ancora del tutto pronta a condividere appieno le mie speranze e le mie paure su quell’argomento. Lo avrebbe detto il tempo e, a prescindere da ciò che sarebbe successo, sapevo che ci sarebbe stata quando avessi avuto bisogno di lei.
«Magari possiamo parlare delle cose principali a pranzo».
«Certo». Alli giocherellava continuamente con l’orlo della gonna.
«Che c’è?»
«Ehm, be’…».
«Alli…».
«Sei appena tornata, non voglio bombardarti».
«Sono rientrata al lavoro preparata ai bombardamenti. Dài, spara».
I suoi begli occhi castani si offuscarono leggermente. «Si tratta di Max».
Aspettai che continuasse.
«C’è stata la sentenza… per l’aggressione».
«Ah». Avevo testimoniato mesi prima e, dopo tutto quello che era successo da quando mi aveva aggredita fino a quel momento, avevo rimosso dalla mente il processo. Avevo depositato la mia dichiarazione e potevo solo confidare nella giustizia. «E cos’hanno deciso?»
«Lo hanno riconosciuto colpevole».
«Wow. Non mi ero mai resa conto di quanto sarebbe stato bello sentire queste parole».
Un’ondata di sollievo mi travolse, ma il sentimento di pace si mescolò rapidamente al centinaio di altre emozioni che Max e quello che mi aveva fatto portavano con sé. Rabbia e imbarazzo che così tanta gente nei nostri rispettivi mondi sapesse in quale condizione umiliante mi aveva messa. E anche un piccolissimo senso di colpa, per il fatto che Max stesse affrontando la giustizia grazie alla mia collaborazione. La sua vita sarebbe cambiata completamente dopo quell’esperienza. E ancora, ricordai a me stessa che non avevo fatto niente per provocare la sua violenza. Mi aveva drogata e messa all’angolo. Se Blake non fosse intervenuto, Max avrebbe potuto violentarmi. Anche se non era successo, ero certa che l’avrebbe fatto.
«Gli hanno dato due anni e mezzo».
Mi si chiuse la gola e serrai gli occhi. Sentivo che il corpo reagiva a quella notizia prima ancora che il cervello potesse elaborarla. Passò un minuto e ritrovai la voce. «È la metà del massimo della pena».
«Lo so», disse a bassa voce.
Annuendo lentamente, raddrizzai i fogli sulla mia scrivania che erano già in ordine. «Be’, ecco la giustizia».
«Perlomeno se lo terranno per un po’. Anche se non tanto quanto meriterebbe».
Max aveva perso la libertà, almeno per un breve periodo. Volevo festeggiare quella piccola vittoria, ma una parte di me non credeva che sarebbe stato abbastanza per fare ammenda per ciò che aveva fatto.
Blake
«Oh, mi siete mancati voi due!».
Mia madre batté le mani e ci venne ad abbracciare. Mi chinai per compensare la sua bassa statura. Sembrava che fossi tornato dalla guerra, ma non avrei mai potuto biasimarla per amarci tanto. Era fatta così e, quanto rivolse a Erica le stesse attenzioni, non avrei potuto esserle più grato. Le due donne dondolarono fianco a fianco per un po’ e tutti i dubbi dell’ultimo momento per aver comprato la nostra casa definitiva a pochi passi dalla loro scomparvero.
Erica meritava una famiglia e non avrei potuto trovarne una migliore della mia. Non sempre l’avevo apprezzata, ma le cose erano rapidamente cambiate da quando Erica era entrata nella mia vita. Mia madre passò lo sguardo su di noi, dall’alto in basso, dando la propria approvazione. «Erica, stai meglio di quanto sia mai stata. Davvero. Tutto quel viaggiare deve averti fatto bene all’anima».
Erica mi guardò. «Penso di sì».
Mia madre sorrise, e gli occhi si incresparono agli angoli. Era una donna così attraente, piena di energia contagiosa, ancora di più con mio padre al suo fianco. Lui ci raggiunse, con indosso il suo grembiule preferito. Da quando era andato in pensione ricopriva con orgoglio il ruolo di chef di casa. Ero abituato a vedere i miei genitori e davo per scontata la loro disinvoltura. Adesso ci vedevo una versione familiare di Erica e me. Vidi l’eternità con una donna accanto alla quale avrei voluto invecchiare.
Mio padre mi diede un colpo sul braccio, poi strinse Erica a sé. «Come stanno i piccioncini?»
«Alla grande, papà».
Accennò con il capo alla sala da pranzo dove mia sorella Fiona sedeva accanto a un tizio mai visto. «Siete tornati giusto in tempo per conoscere il nuovo ragazzo».
«Oh, sì, dovete conoscere Parker».
Un secondo dopo Catherine ci stava tirando verso la sala e ci presentava all’ospite d’onore.
Questo si alzò in piedi. «Blake, piacere di conoscerti».
«Piacere mio».
Ci stringemmo la mano ed Erica e io sedemmo di fronte alla coppia. Fissai il braccio di quell’uomo poggiato intorno allo schienale di mia sorella. Apparentemente aveva la mia età, forse qualcosa di meno. Capelli biondo scuro con un taglio alla moda. Vestito informale, jeans e button-down. Non sembravano capi particolarmente costosi, ma dava l’idea di aver dedicato del tempo sufficiente al proprio aspetto.
Intrecciò delicatamente le dita a quelle di Fiona mentre mia madre serviva il famoso polpettone preparato da mio padre. Avrei dovuto essere un po’ più emozionato all’idea di un pasto casalingo e della possibilità di aggiornarmi su tutti, ma ero distratto da Parker. Si voltò e sussurrò qualcosa all’orecchio di Fiona, che gli sorrise appoggiandosi a lui.
Mi schiarii la voce rumorosamente, interrompendo quel momento. «Allora, come vi siete conosciuti?».
Fiona spalancò gli occhi. La domanda mi era uscita con molta meno delicatezza di quanto avrei voluto, ma ero ansioso di sapere di più su quello sconosciuto che significava così tanto per lei da presentarlo alla famiglia. Speravo anche che smettesse di cercare il contatto a tavola.
«Ehm», fece per parlare lei.
«Ci siamo incontrati all’addio al nubilato di tua moglie», disse Parker senza distogliere gli occhi da Fiona.
«Davvero?». Non mi ero arrabbiato con Erica quando era uscita per la città tutta in tiro, con un vestito cortissimo, quella sera, ma ingenuamente non avevo proprio preso in considerazione che Fiona potesse essere avvicinata da qualcuno. Serrai la mascella, riflesso condizionato di quella spiacevole sensazione all’idea di Parker o chiunque altro che passasse alla fisicità con lei quando aveva bevuto.
«Serviva da bere e gli ho dato il mio numero poco prima di andar via», disse Fiona con voce dolce e sottile.
Mi rilassai un po’, con quelle parole aveva scongiurato la versione dei fatti che mi ero figurato nella mente. Fiona era prima di tutto mia sorella, ma era anche una buona socia in affari, sempre concentrata e sul pezzo quando si trattava di seguire le mie proprietà immobiliari. Non ero abituato a vederla distratta e, anche se in qualità di fratello maggiore l’avrei sempre protetta, non mi aveva mai dato più di tanto modo di doverlo fare. Forse perché nostro fratello Heath aveva richiesto molta più attenzione per tanto tempo. Ora il suo nuovo interesse amoroso era seduto di fronte a me, dimostrando di non provare tutto il disagio che avrei voluto che provasse, considerando che con tutta probabilità si scopava mia sorella.
«Quindi, di cosa ti occupi? Fai il barista?». Non ero mai stato classista, ma per qualche motivo non resistetti alla tentazione di lanciare quella frecciata.
«Blake». Fiona abbassò il tono di voce.
«Frequento un master», proseguì lui sostenendo il mio sguardo. «Il lavoro nel locale mi serve per far quadrare i conti. I miei genitori non mi pagano gli studi, per cui devo fare da solo».
A quel punto si intromise mio padre. «È davvero encomiabile, Parker. Non c’è niente di meglio che guadagnarsi il successo da soli. Neanche noi siamo estranei al lavoro duro, vero Blake?»
«Io no di certo», risposi, «ma non posso dire lo stesso di Heath, naturalmente».
Mio fratello sorrise e mi fece un gestaccio, che per fortuna nostra madre non notò. Ridacchiammo e la tensione da quel momento in poi si sciolse. Papà aveva ottenuto il suo scopo. La mia ricchezza aveva cambiato la nostra condizione, ma venivamo da una famiglia di operai. Forse avrei potuto concedere a Parker il beneficio del dubbio, ma solo fino a che non avessi ottenuto maggiori informazioni su di lui.
«Erica, perché non ci parli del nuovo progetto a cui stai lavorando?», chiese mia madre. «Greg e io vorremmo sapere qualcosa».
A quanto pareva, ero l’unico a voler tenere sulle spine il nuovo arrivato, per cui lasciai che fossero Erica e Alli a condurre la conversazione parlando di lavoro.
Man mano che la cena andava avanti, Parker scambiò qualche parola con i miei genitori e gli altri. Se anche il mio interrogatorio lo aveva scoraggiato, non lo diede a vedere. Accanto a me, Erica aveva a malapena toccato cibo. Passava la forchetta tra le patate.
«Tutto a posto, piccola?».
Sollevò lo sguardo con un accenno di sorriso. «Sto bene, è solo che sono esausta. È stata una lunga giornata di rientro».
Le sue parole mi ricordarono la mia stessa stanchezza. Avevamo ricominciato a correre non appena arrivati e ora lo rimpiangevo. «Vuoi andare a riposare?».
A occhi chiusi, respirò profondamente. «Credo di sì. Mi dispiace, Greg. La cena era ottima. Posso portarne un po’ a casa?».
Mia madre balzò in piedi. «Ma certo! Ti preparo il piatto».
Erica si mosse per andar via e io mi alzai con lei.
«Ti accompagno a casa», dissi.
«Non ce n’è bisogno».
Le misi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio e le carezzai la guancia con il dorso delle dita. «Mi sentirei meglio se lo facessi».
Mi posò una mano sul petto e sorrise. «Sto bene. Goditi la serata con la tua famiglia. Ci vediamo quando torni, non avere fretta».
Misi le mani sulle sue, passando i polpastrelli sui diamanti della fede nuziale. Maledizione, non ci eravamo visti per tutto il giorno e condividerla con la mia famiglia stasera non era stata la stessa cosa. Ero diventato dipendente dall’averla tutta per me come da una droga. Per quanto nel corso dell’ultimo mese avessi trascurato le questioni di lavoro, quel giorno per più di una volta avevo accarezzato l’idea di partire di nuovo con lei appena possibile.
Mi rilassai. «Va bene, ma chiamami se ti serve qualcosa».
«Non ce ne sarà bisogno». Mi posò un bacio veloce sulle labbra e se ne andò.
Finimmo di mangiare e, mentre i miei genitori erano occupati a preparare le cose da farci portare via, Heath, Parker e io restammo ancora a tavola.
«Allora, come ti va la vita matrimoniale?», chiese Heath, appoggiandosi allo schienale.
«Benissimo», risposi prendendo la mia birra e portandomi la bottiglia alle labbra. L’ultimo mese mi aveva portato alcuni dei giorni più belli della mia vita e non vedevo l’ora di viverne altri.
«Cazzo, ancora non riesco a crederci che ti sei sposato».
Sollevai la mano, studiando la sottile fascia di platino che avevo scelto. «Credici».
Parker si schiarì la voce. «E tu, Heath? Anche tu e Alli vi metterete il cappio al collo?».
Heath sollevò un sopracciglio e fece una breve risata. «Non credo che siano ancora affari tuoi».
Parker scrollò le spalle. «Era solo curiosità. Io sono nuovo. Voglio dire, se trovi la persona giusta…». Guardò oltre le nostre spalle verso il salotto, dove Alli e Fiona stavano chiacchierando.
Mi raddrizzai a sedere, i muscoli guizzavano sotto le maniche, pronti a prendere a pugni Parker già dalla settimana successiva. «Esci con mia sorella solo da un mese».
Mandò giù un sorso di birra. «Quasi tre, in realtà, ma chi è che tiene il conto?».
Heath scosse il capo ridendo. «Non puoi metterti a discutere su questo, Blake. Hai incastrato Erica con un anello dopo soli pochi mesi».
«Lei è diversa», dissi.
Parker fece un’espressione sorpresa. «Cioè?»
«Non ha un fratello maggiore, tanto per cominciare», dissi con un inconfutabile tono minaccioso.
Parker arricciò le labbra annuendo. «Giusto. Vuoi che salti dentro un cerchio di fuoco? Che presenti un estratto conto o qualcosa del genere?».
Sorrisi. Non poteva immaginarlo, ma nel giro di qualche ora sarei venuto a sapere molte più cose di lui di quanto avrebbe potuto scoprire un normale impiegato. Gli estratti conto sarebbero stati l’ultima cosa. Scossi il capo. «Non serve. Se avrò qualche problema, lo saprai. Nel frattempo, trattala bene. Molto bene. Se le spezzerai il cuore, probabilmente non lo dirà mai a nessuno di noi, ma la mia missione sarà quella di scoprirlo da solo».
«E cosa ti fa pensare che le spezzerò il cuore?»
«Raccogliere numeri di telefono delle ragazze nelle discoteche non è un bel biglietto da visita».
Si appoggiò allo schienale. «Perché con te ho la sensazione di essere colpevole fino a prova contraria?».
L’atteggiamento di Parker mi ricordava troppo il mio. Non ero sicuro che questo dettaglio mi piacesse o se ritenessi che Fiona dovesse darsela a gambe levate. Comunque non sarei certo stato a perdere tempo e avrei rovistato fino a raccogliere il più piccolo straccio di informazione su di lui.
«Ragazzi, il dolce!», esclamò mia madre dalla cucina.
«Grazie al cielo», mormorò Heath.
Sorrisi tra me e me, fin troppo cosciente del totale disinteresse di Heath nel creare conflitti. Lui era quello che amava divertirsi. Sarebbe riuscito a raccogliere più informazioni su Parker tra un drink e una partita a biliardo, ma sfortunatamente sarebbe stato Parker a conoscere di più su Heath, in cui avrebbe trovato un alleato e a quel punto avrei avuto due teste da spaccare. Quella era la vita del fratello maggiore e avevo finito con l’accettarla.
Trascorsi il tempo del dessert rispondendo a un fuoco di fila di domande di Alli sul viaggio e alla prima occasione mi congedai. Il cielo si era fatto scuro. Erica probabilmente stava dormendo, ma non volevo stare lontano da lei più di quanto avessi già fatto. Nell’ultimo mese avevamo trascorso insieme quasi ogni minuto e anche se già da prima del viaggio di nozze anelavo alla sua presenza, ora ne ero totalmente dipendente.
Mi intrufolai in camera da letto. La lampada sul suo comodino mandava una morbida luce sui suoi lineamenti, dormiva pacificamente. Mia madre aveva ragione. Era molto più bella, mille volte di più di quando eravamo partiti. Non sembrava aver mai dato troppa importanza alla sua bellezza, ma quello non la diminuiva. Mi tolse il fiato. In momenti semplici come quello, con indosso solo una mia maglietta, era una dea, fatta apposta per me. Il suo petto si muoveva al ritmo dei suoi profondi respiri. Volevo toccarla, baciarla fino a lasciarla senza fiato e farla mia.
Invece spensi la luce e lasciai la stanza senza fare rumore.