MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN

L’UOMO DELLA MIA VITA

 

Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome venga il tuo regno

sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra

dacci oggi il pane nostro sovrasostanziale

e perdona i nostri debiti come noi perdoniamo i nostri debitori

e non lasciarci cadere in tentazione,

ma liberaci dal male

perché tuo è il regno

il potere

e la gloria.

Padrenostro dei catari

 

Quando Charo scoppiò a piangere, Carvalho capì che erano passati sette anni e che probabilmente lei non era più la stessa persona. La Charo di prima avrebbe pianto a dirotto, quella d'ora recitava, sentiva le lacrime, ma recitava nella cornice di una drammaturgia previamente immaginata. Lo scenario era quello di sempre, l’ufficio di Carvalho. Anche Biscuter era lo stesso. Carvalho non si era permesso la benché minima automodifica negli ultimi trent’anni. Charo. Charo sì che era cambiata. Anche se nel 1992, quando se n’era andata, non era più una ragazza, riusciva tuttavia a sembrarlo; ora poteva essere presa per una signora benestante rientrata dopo una lunga assenza in cui aveva mutato condizione sociale e silhouette. Un po’ più grossa. Non tanto. Forse l'ovale del viso si era arrotondato, aveva più guance che zigomi, meno occhiaie, come se avesse riposato sette anni per smaltire la stanchezza di una vita troia, definizione perfetta nel suo caso.

“È proprio bella.”

Esclamò Biscuter che, lui sì, piangeva, e lo faceva come sempre, con gli occhi e la punta del naso. Adesso entrambi guardavano Carvalho regalandogli o richiedendogli emozioni che lui non provava.

Aveva bisogno di restare solo con Charo per capire se desiderava davvero quel nuovo incontro. Recuperare uno spazio per loro due e verificare se si presentavano gli atti riflessi del passato e Charo ridiventava necessaria. Ma lo infastidiva Biscuter in veste di testimone e insieme regista che gli suggeriva le battute. Charo indicò il detective cercando la complicità di Biscuter.

“Come se fosse arrivata una cugina dal paese.”

“Il capo è emozionato, ma a modo suo.”

Per un momento Carvalho pensò di dire qualcosa che aiutasse a creare un’atmosfera festosa, bentornata a casa, per esempio, ma scartò frasi liriche ed epiche una dopo l’altra e quasi gli venne da ridere quando gli passò per la mente di pronunciare: da queste pareti ti contemplano sette anni di solitudine. Per fortuna si trattenne e infine coordinò abbastanza suoni e silenzi per dire: “Quando torni ad Andorra?”.

Fu stupore quel che si scambiarono gli sguardi di Charo e Biscuter.

“Mi sta cacciando via!”

Biscuter diede una manata in aria come se cercasse di raccogliere le parole perché quelle di Carvalho non arrivassero alle orecchie di Charo e viceversa. Ma ormai era inutile. È stato un malinteso, pensò Carvalho, e devo chiarirlo, ma gli seccava esserne costretto e preferì ringraziare Charo di qualcosa.

“Grazie del radioregistratore che mi hai spedito anni fa.”

“Ad Andorra sono molto convenienti.”

Doveva sacrificare Biscuter per poter parlare con Charo.

“Devi andare all’ufficio di Fuster per farti dare certe carte che io non posso ritirare.”

La gioia tornò sul viso di Biscuter, convinto che una volta da soli Carvalho e Charo avrebbero trovato modo di riavvicinarsi, e in due minuti si congedò e alzò i tacchi, lasciando sulla guancia sinistra di Charo un bacio col risucchio, più da muso animale che da bocca umana, e la donna si mise in piedi e si lisciò la gonna sulle cosce mentre i due uomini si prepararono all’uscita di scena. Charo prese la borsetta e affrontò Carvalho, gli andò incontro, gli prese un braccio, attirò l’uomo a sé e gli baciò le labbra in superficie, ma in modo umido, denso, rumoroso. Il bacio aveva risuonato. L’uomo e la donna si guardavano. Lo sbattere della porta che si chiudeva dietro Biscuter li separò, come se i due corpi temessero di restare tanto vicini da soli.

“Mi vuoi ancora bene?”

Carvalho non rispose. Tentava di ricordare se avesse mai detto a Charo: ti voglio bene. No. Non gliel'aveva mai detto. Lei non rispettò il silenzio.

“Io continuo a volerti bene. Sei l’uomo della mia vita.”

Carvalho andò verso la sua poltrona girevole e vi si nascose mentre la donna esaminava uno dopo l’altro tutti i particolari della stanza. Gli occhi sorrisero divertiti quando vide il fax.

“Tutto come allora, tranne per il fax. Ti modernizzi.”

“Biscuter, lui sì che si modernizza. Io non ho ragione per farlo. Non credo alla modernizzazione. Tutto è sempre moderno. Il giorno d’oggi è più moderno di quello di ieri. Per non dire di domani. Ti vedo molto moderna, a proposito.”

“Più di prima?”

“Non si possono fare paragoni, insisto. Ma ti vedo molto moderna. Si può essere moderni, come tutti, moderni e modernissimi, e non chiedermi un esempio perché non mi viene in mente. Sto improvvisando.”

Charo si è seduta e racconta sette anni di vita. Me ne andai che ero distrutta, perché il tuo incapricciamento per quella francese mi aveva rivelato quanto poco ti interessavo. Ad Andorra non avevo contatti, se non con Quimet, un notaio di Barcellona con residenza andorrana. Già qui, a Barcellona, era stato mio cliente tutti gli anni il giorno di Santo Stefano, quando gli veniva il coccolone dopo il secondo banchetto natalizio. Con il pretesto di una chiamata del presidente Pujol, mollava la famiglia e veniva da me. Un gentiluomo. O, ancor meglio, una persona. Non ridere della storia di Pujol. Quimet è molto catalanista e fin da adolescente arrampicava in montagna con il presidente della Generalitat. Erano catalanisti, cattolici ed escursionisti. Ad Andorra mi diede una mano e mi procurò un posto da receptionist d’albergo, per me fu una pacchia, Pepe, perché dalla sera alla mattina mi ritrovai a lavorare come fa la gente normale e a non dover più allargare le gambe per pagarmi Poison di Dior o un’omelette al prezzemolo. Poi Quimet mi fece entrare come socia nella gestione dell'albergo, ormai quasi da padrona, e così sono passati i giorni, gli anni. Ti ho mandato un radioregistratore. Qualche lettera, cui non hai risposto, come se ti stessi godendo la tua libertà, felice di esserti liberato di me. Ma quando parlavamo per telefono Biscuter mi rincuorava: Non perderti d'animo, Charo, lui ti vuole bene. A quanto pare, Biscuter e Charo si davano del tu, un'ulteriore modernizzazione. Non c’era più molto da raccontare per arrivare al presente. Carvalho alzò le sopracciglia e rimase in attesa di ascoltarla, ma lei non parlò, contemplandolo con progressivo, imbarazzante affetto.

“Ebbene?”

“Ebbene, cosa?”

“Mi fai avere un biglietto, te la svigni e non ricompari che sette anni dopo. È logico che ti domandi: Ebbene?”

“Lo avevi letto?”

Carvalho ha aperto un cassetto. Sa esattamente dove ha messo il biglietto, e fa per riprenderlo, ma si trattiene.

“Sì.”

“L’hai conservato?”

“Non credo.”

“Io non ho più clienti. Quimet è un amico. Un amico importante, ma non è quel che si dice il mio uomo. Nella mia vita c’è un solo uomo, e quell’uomo sei tu. Non hai una bella cera.”

Aveva mosso la sua critica con la voce più dolce che potesse tirare fuori e Carvalho credette di udirla parlare del passare del tempo, del fatto che “ormai siamo avanti con gli anni, che i miei annetti me li sento sulle spalle”, una predica che lo infastidiva, che gli faceva venire i brividi e lo spingeva a balzare dalla poltrona, ma non voleva tornare alla freddezza dei primi minuti. Ascoltò quindi con pazienza la riflessione filosofica di Charo sul passare del tempo.

“E un giorno gli ho detto: Quimet, qui tutti mi rispettano e mi guadagno da vivere. Ma io non posso vivere senza Barcellona e senza il mio Pepe, perché lui sa tutto di noi due.”

“Ad Andorra, come poteva seguire il rito di Santo Stefano? Non si può piantare in asso la famiglia a metà del pranzo e filarsela ad Andorra.”

“Non festeggiamo più il giorno di Santo Stefano perché i suoceri sono morti, erano piuttosto vecchi, i figli hanno messo su famiglia e Quimet e sua moglie non riescono a stare insieme neanche in ascensore.”

“Si è separato.”

Charo adoperò l’intera testa e molto spazio per negare quella possibilità. No. Il presidente Pujol gli aveva chiesto, come favore personale, di non sollevare uno scandalo politico.

“In breve, Pepe. Sono tornata a Barcellona e Quimet mi ha aperto la sua attività.”

“Una tabaccheria?”

Charo non aveva voglia di arrabbiarsi e cominciò a screditare i soldi che si fanno col tabacco. Si fumerà sempre meno. Quimet ha lavorato per una campagna contro il fumo che supererà quella degli americani. Ha uno slogan bellissimo: Som sis milions però cap fumador [Siamo sei milioni ma nessuno di noi è un fumatore]. La donna non fece caso al fatto che Carvalho avesse scelto quel momento per accendersi un sigaro Hoyo de Monterrey che prese dal cassetto quasi acceso, e riprese il filo del discorso tirando fuori dalla borsa un biglietto da visita.

“Mi ha messo su una boutique di alimentazione naturale e cosmetica biotica. Questo è l’indirizzo. Non buttare via il biglietto. Ho pensato al tuo interesse. Stai invecchiando. Non hai un futuro davanti a te, né denaro a sufficienza per vivere il poco futuro che ti rimane. Quimet può aiutarti. Ne abbiamo parlato.”

Allora Charo, impetuosa e riversa sulla scrivania, gli mise la lingua in bocca, quasi a orientarsi o a riconoscere i ritrovati luoghi nascosti della cavità, e aveva gli occhi pieni di promesse quando si ritirò camminando all’indietro fino alla porta.

“Pepe, possiamo ancora essere felici e risolvere i nostri problemi, avere un posto dove finire in pace i nostri giorni.”

“A te interessa avere un posto dove finire i tuoi giorni?”

“Mi interessa il modo, ecco perché penso al futuro.”

“Pensare alla morte non è precisamente pensare al futuro.” “Come sarà la tua vecchiaia, Pepino? Questa domanda io me la sono fatta davanti allo specchio nella camera dell’albergo di Andorra: come sarà la tua vecchiaia, Charo? Una cosa è morire di freddo perché non hai un centesimo e un’altra avere freddo al cuore, perché non hai un solo affetto, nemmeno un po’ di autostima. Chi è che ti vuole bene, Pepe? Ti è rimasta un po’ di autostima?”

Autostima. Il linguaggio di Charo era migliorato. Autostima. Aveva sempre parlato bene, ma con un gergo popolaresco, non aveva mai osato pronunciare davanti a lui parole come autostima. Probabilmente una parola inculcatale da quel Quimet.

“Quimet ha molta autostima?”

“Se la merita. Lui deve quasi tutto a se stesso. Quimet in Catalogna è un uomo importante, di quelli che ‘fanno il paese’ anche se non appare quasi mai in primo piano. Grazie a lui sono riuscita a cavarmela e adesso sono tornata perché sempre lui mi ha aiutata ad aprire questa piccola attività, e ora mi sento sicura, sicura di me stessa. Puoi dire altrettanto di te?”

Charo apparteneva quindi a due sette, a quella della Teologia dell’alimentazione e a quella della Teologia della sicurezza.

“Che rapporti hai con la Nato?”

“Che cosa c’entra la Nato con i prodotti biologici?”

“Puoi sentirti sicura solo se sei in buoni rapporti con la Nato.” “Non ti capisco. Ho l’impressione che tu mi stia prendendo in giro, ma capisco che in pochi minuti non si possono recuperare sette anni. Voglio soltanto che tu ti metta in testa una cosa: Quimet mi ha aiutata e vuole aiutare te.”

Non gli diede il tempo di ideare un sarcasmo verbale, nemmeno gestuale. Charo, leggerissima, lasciò un biglietto da visita sulla scrivania, gli voltò le spalle e, dalla porta, fu la schiena della donna a parlargli.

“Avrai mie notizie.”

Quando Carvalho capì di essere nuovamente solo, di avere un biglietto da visita di Charo in mano e un’erezione tra le gambe, scattò il fax.

Capisco che lei non è responsabile di quanto si dice sul suo conto, ma non può ignorare di essere diventato un eroe sociale, o per l’esattezza un antieroe. Sono stata sorpresa dalla sua sorpresa, ma lei sarà abituato a essere fermato per strada con una richiesta di autografo. Io non ho osato chiederglielo, e ho mandato avanti mio figlio maggiore perché lo facesse lui. Io ero proprio accanto, e potei indicarla: Guarda, è quel signore, ma ho capito che la richiesta non le faceva piacere, dal gesto e dalla dedica, in cui non diceva quasi niente, anche se la firma era smisuratamente grande. “Per soddisfare un cliente…”aveva scritto. Definizione. CLIENTE: nei confronti di chi esercita una professione, la persona che ne utilizza le prestazioni. Nei confronti di un commerciante, compratore abituale. Mi risulta che a lei le definizioni non servono, bisogna supporre purtroppo che lei sappia ciò che dice. Ebbene sì, sono offesa, la frase mi sembra scorretta, un cliente riporta la merce quando non ne è soddisfatto e io, invece, conservo con affetto il suo autografo, perché in un’occasione potei verificare che Pepe Carvalho è un essere umano, che può sbagliare e che proprio per questa ragione, forse, è più ammirevole tutto quel che fa bene, benissimo, “divinamente”.

Ho potuto capirlo anche se l’esperienza, lontana, che spartimmo, non mi sembrò allora troppo umana da parte sua. Oppure la mancanza di umanità o maturità devo attribuirla soltanto a me?

Non sono sempre a seguire quel che fa. Tutti i miei cari, mio marito e i miei due figli sono fondamentalmente i miei cari, sono al corrente del fatto che sono una sua fan, proprio per questo mi tengono spesso aggiornata su quanto si dice sul suo conto, sul personaggio di cui molti parlano e che pochi conoscono. Per dimostrarle la mia generosità, le dirò che non solo sono offesa per me stessa, ma anche per lei. Non credo, in alcun modo, che lei sia un “commerciante” (il commerciante compra per vendere, come fanno per esempio i grandi magazzini del Corte Inglés), né che essere un detective privato sia una “professione”, o quanto meno una professione rispettabile. Bene, a quanto pare ho cominciato ad abbassare la guardia, di certo per via della “passione disordinata” che provo per lei. Comunque, ogni volta che guardo l’autografo e vedo le dimensioni della sua firma, mi intristisco. Commuovere no, commuoversi sì; lei mi suggerisce sempre cose esagerate.

Penso sia mio dovere chiarirle che ho cercato con insistenza di avere il suo indirizzo (elettronico, telefonico, postale…) un po’ ovunque, per cui ritengo possibile che qualcuno glielo riferisca. E tutto per scoprire che sta sempre dove stava quando la conobbi. Non so perché mi ha sorpreso che lei non abbia una e-mail (le mie ricerche non hanno escluso nemmeno Internet); in realtà, conoscendola, avrei dovuto pensare piuttosto di trovarla mediante il tam-tam, per quel che questo mezzo ha di magico, arcano. Per concludere, è ovvio che io l’adoro. Non può fare a meno di accettare questa responsabilità, le spetta.

MORGANA (la Strega)

Appena finito di leggere, non trattenne la tentazione di guardare la provenienza del fax, “Sp Associati”, e un numero che a Carvalho non andava di conoscere. Non voleva rispondere. Non voleva interessarsi della personalità della corrispondente di se stessa, né preoccuparsi della presunta “…esperienza lontana, che spartimmo”: la mitica Morgana della leggenda arturiana non era stata una strega, era una fata senza sentimentalismi ridicoli, o forse una fata e una strega non sono altro che il bianco e il nero della stessa trasgressione. Immaginò una strega vecchia e grassa, cubica, una malmaritata malata di letteratura in cerca di eroi di carta in mancanza di eroi in carne e ossa. In fin dei conti, i giornali avevano parlato di tanto in tanto delle sue inchieste, ma tra Carvalho e Julio Iglesias c’erano milioni di eroi di carta meritevoli di un fax da una balena ciccia e molle. Si stupì perché non aveva voglia di stracciare il messaggio. Finì col metterlo nel cassetto che poteva chiudere a chiave, quasi a proteggerlo dagli sguardi indiscreti, che potevano essere solo quelli di Biscuter. Non voleva ricordare tutte le esperienze spartite con le donne, ma solo quelle più dotate di affabulazione e sintassi potevano essere responsabili di una simile lettera.

Uscì in strada con il malumore riposto in una piega del cervello, forse non tanto ben riposto, tant’è che spesso si fermava a domandarsi: Perché sei incazzato?, e non tardava a rispondersi: La tizia del fax. Con il biglietto da visita di Charo tra le dita cercò sulla guida dove si trovava la boutique di dietetica e cosmetica naturale: nella Villa Olímpica. Carvalho vi si incamminò con voglia di rileggere la città, di riconciliarsi con la volontà di Barcellona di trasformarsi in una città pastorizzata, nonostante l’odore di gamberi fritti che risaliva dalle metastasi dei ristoranti della Villa Olímpica. Non ci saranno abbastanza gamberi nei mari di questo mondo per soddisfare la domanda di Barcellona e mutare gli odori di polvere da sparo, ascelle e inguini della città dei peccati facendoli puzzare di deodoranti al pino silvestre e gamberi alla piastra. Ogni metafora della città era diventata inservibile: non era più la città vedova, vedova del potere, perché questo potere ora lo aveva acquisito mediante le istituzioni dell’Autonomia; non era più nemmeno la Rosa di Fuoco degli anarchici, perché la borghesia aveva definitivamente vinto con il sistema di cambiare nome: adesso si faceva chiamare “settore emergente”. E come si può mettere una bomba o alzare una barricata contro il “settore emergente”? Barcellona era diventata una città bella ma senz’anima, come certe statue, o forse aveva un’anima nuova che Carvalho inseguiva nelle sue passeggiate fino ad ammettere che forse l’età non gli consentiva più di scoprire lo spirito dei nuovi tempi, lo spirito di quel che alcuni pedanti chiamavano “il postmoderno”, e che Carvalho pensava come un tempo sciocco tra due tempi tragici. Ma si stava innamorando di nuovo della sua città, e doveva soprattutto trattenere la tendenza a sentirsi soddisfatto mentre discendeva le Ramblas, usciva sul porto e seguendo il Moll de la Fusta iniziava un percorso accanto al mare in cerca della Barceloneta e della Villa Olímpica. Nonostante le nuove costruzioni di centri del commercio e dell’ozio, il mare gli apparteneva, finalmente si integrava come uno dei quattro elementi della città: Gaudi, i gamberi alla piastra, la Torre delle Comunicazioni di un certo Foster, un architetto con l’aereo privato sposato con una sessuologa spagnola, e il mare. Quimet aveva preso il negozio per Charo in una zona mal commercializzata del centro del Port Nou, all’ombra della Torre de les Arts. Stavano finendo di sistemare gli arredi e rimase a prudente distanza per osservare come si muoveva Charo tra carpentieri ed elettricisti, con i progetti in una mano e l’altra ben piantata sul fianco sinistro dei suoi jeans piuttosto ben riempiti. Per un attimo l’età di Charo gli passò per il centro cerebrale come un’insegna in movimento, ma si rifiutò di leggerla. Continuava ad avere il fisico di una ragazza anche se le si era arrotondato il viso ed era evidente la tinta che le mascherava i capelli bianchi, ora tramutati nel color mogano di moda su molte teste femminili. A sinistra, le spiagge che continuavano a crescere verso la scogliera, le spiagge della sua infanzia. E a destra, verso il Maresme, la Copacabana barcellonese ereditata dai Giochi olimpici, dove i corpi consumavano gratis sole e Mediterraneo, e tra quei corpi Carvalho rievocava la gracile figura della Charo conosciuta un tempo, per convenire che quella attuale avrebbe riempito di più i bikini, di più e meglio, e che sarebbe stato necessario avvicinarsela parecchio per scoprirle dai tratti del viso il tango o il bolero di una vita. Non voleva essere sorpreso mentre faceva il voyeur, ma voltandosi si imbatté in un uomo magrolino, di dimensioni ridotte, dai capelli bianchi, un’azzimatissima incarnazione del lindore, che odorava troppo bene e lo guardava con occhi eccessivamente perspicaci. “Carvalho, suppongo?”

Originale quest’uomo, pensò senza concedersi tuttavia alla curiosità dell’altro ma facendo addirittura un passo indietro per aumentare la distanza dalla mano che gli si porgeva.

“Joaquim Rigalt i Mataplana, anche se Charo le avrà parlato di me come Quimet.”

Se l’era immaginato più alto, più grasso, più insignificante, più ovvio, ma dovette stringergli la mano mentre lo esaminava.

“Ha un appuntamento con Charo?”

“Non precisamente.”

“Ma è una magnifica occasione per vederci tutti e tre insieme.” Stava per trovare qualche scusa ma ormai Charo li aveva visti e gli correva incontro con un sorriso sincero e aperto, anche se con gli occhi stava già studiando l’atteggiamento di Carvalho chiedendogli di aiutarla. Baciò Carvalho sulla guancia, strinse la mano di Quimet guardandosi a destra e a sinistra per verificare se qualcuno la stesse osservando. Carvalho notò la prudenza dei gesti della donna e si lasciò condurre fino al Port Nou per un drink in un bar che puzzava di gamberi come tutto il resto mentre cercavano di creare quel triangolo. Quimet lasciò che fosse lei a parlare, in modo da creare uno spazio propizio a ciascuno, e Carvalho finse di ascoltare mentre cercava di capire che cosa stessero per chiedergli e che cosa ordinare a quell’ora del mattino: un martini dry con un gambero. Quimet riprese a parlare nella sua condizione di Joaquim Rigalt i Mataplana, socio di doña Rosario, Charo per gli amici, nella gestione di Bio-Charo, un negozio tra i tanti di sua proprietà per il quale aveva voluto contare su un’esperta.

“Bisogna dividersi i rischi.”

Strizzò l’occhio a Carvalho ma non ebbe risposta. Poi si chinò su di lui e gli domando con voce da tenore:

“Lei che ne pensa della Catalogna?”.

“Temo di non capire bene la domanda. Chi è la Catalogna? Un’entità geografica, amministrativa, emblematica, simbolica…” “Nazionale. La Catalogna è una nazione.”

“Non lo metto in dubbio. Un soggetto collettivo, insomma, collettivo e virtuale. Anche lei è una nazione. Siamo tutti una nazione. Fatico già abbastanza a essere un individuo e diffido dei popoli. Gli individui possono provare compassione, i popoli no. Essere una nazione mi complicherebbe troppo la vita. Ma adoro le nazioni altrui.”

Charo applaudì con gli occhi.

“Cominciamo bene, Carvalho. Ma anem per feina [Andiamo al sodo], non sprechiamo tempo. Come va il suo lavoro di detective privato?”

“Sono brutti tempi. Siamo stati molto colpiti dalla globalizzazione. Le multinazionali controllano l’affare delle polizie private e noi detective artigianali cominciamo a essere visti come una curiosità antropologica. Non c’era mai stata tanta Teologia della sicurezza né tanti delinquenti e assassini sul mercato, ma la concorrenza delle multinazionali della repressione è sleale. Il modo di agire della Nato è ormai indescrivibile. Adesso bombardano con missili intelligenti, ma nel futuro riusciranno ad arrestare e mandare in galera la gente grazie a calamite sensibili alla carne umana sconfitta, e potranno farlo a distanza.”

“Vale a dire che non le va bene.”

Carvalho fece spallucce e Quimet si sentì il mattatore della scena.

“Che cosa ne pensa dei servizi di informazione?”

“Si riferisce alla Cia, al Kgb, al Cesid e simili?”

“Mi sta parlando di servizi concreti segnati da circostanze storiche concrete; la guerra fredda o la transizione spagnola alla democrazia. Mi riferisco ai servizi di informazione del futuro, a una nuova concezione dei servizi di informazione adatti a nuove strategie, a nuove espansioni, alla nuova conflittività regionale della globalizzazione. Il problema della spia moderna al servizio delle grandi potenze consiste nel sapere che bisogna spiare. La spia postmoderna al servizio dei nuovi centri frammentari del potere, invece, deve spiare un po’ tutto. Lei aveva fatto parte della Cia, o almeno così si dice. Aveva fatto parte della Cia?”

“È passato tanto di quel tempo da essere una storia tanto probabile quanto improbabile.”

“In ogni caso lei ha fatto tesoro di un’esperienza che ci può essere molto utile.”

“A chi?”

‘Alla Catalogna.”

Gli occhi di Carvalho vagarono verso un negozio di articoli di spionaggio inaugurato ai piedi della Torre de les Arts e Charo seguì quello sguardo per poi catturarglielo e insistere nella sua richiesta di moderazione, di attenzione, fallo per me, diceva, non precipitare le cose. Carvalho si adagiò sulla spalliera della sedia per ascoltare il ragionamento di Quimet sulla necessità di avere un servizio d’informazione catalano.

“Ci risulta che sul nostro territorio stanno operando non solo i servizi di informazione dello stato spagnolo e quelli francesi, ma anche alcuni inviati dalla Padania di Bossi, e perfino quelli organizzati da altre comunità autonome, in modo particolare dal Paese Basco, dove il Pnv [Partito nazionalista basco] dispone di servizi d’informazione da oltre cinquantanni, da quando Irala e Galíndez collaboravano con gli americani.”

“Che cosa spiano i baschi dei catalani?”

“A loro interessa sapere che cosa stiamo spiando noi.”

“Secondo questa logica, tutti dovranno spiare tutti per sapere chi sta spiando.”

“Non è così assurdo. È probabile che questa situazione finisca col prendere piede. Ma, per tornare ai fatti, noi abbiamo individuato le azioni di spie al servizio di potenti gruppi, economici di pressione che potrebbero svilire la stessa idea della Catalogna. Ha mai sentito parlare di ‘Región Plus’?”

“Non abbastanza.”

“Non è questo il momento, ma le accenno fin da ora che ci troviamo di fronte a una cospirazione diabolica dell'internazionale popolare, dell’internazionale socialista, in appoggio al nazionalismo spagnolo, alleate a potenti settori finanziari per creare una nuova entità regionale multinazionale in grado di competere e addirittura mandare in rovina l’identità della Catalogna: la creazione di un possente triangolo economico Tolosa-Barcellona-Milano che scavalcherà i limiti emotivi e nazionali della Catalogna. È questo che viene chiamato Región Plus. Il governo francese e quello italiano collaborerebbero con il governo spagnolo nel progetto allo scopo di logorare il potenziale scissionistico della Padania di Bossi e della Catalogna Nord, per non parlare poi di quel che sarebbe una rivendicazione occitanica. Non esiste la Padania di Bossi, né l’Occitania ha possibilità di emergere, ma la Catalogna c’è già, e rimane; c’è già e rimane, ma in pericolo. Dove non riuscì il franchismo può riuscire l’economicismo senza patria. Se si affermasse, quella nuova base e quel territorio di interessi economici potrebbero annullare l’idea stessa della Catalogna. Distruggere la nostra identità. Come potremmo sentirci membri di un triangolo? Si intende lanciare il patriottismo geometrico? Carvalho, abbiamo bisogno di uomini come lei.”

Adesso era il detective a scrutare Charo in attesa che lei gli confermasse le buone intenzioni di Quimet. Mi sta prendendo in giro? È affidabile? E gli occhi di Charo gli rispondevano: No. Fa sul serio, per favore, abbi pazienza. Quimet intanto gli allungava un biglietto da visita.

“Vada a questo indirizzo e si ricordi che le apparenze ingannano. Una volta lì, mostri il biglietto e dica semplicemente: De bon matí quan els estels es ponen… ” [Di buon mattino, quando le stelle tramontano…]

“Non potremmo fare: Patufet, on ets?" [Pollicino, dove sei?]

Gli occhi di Charo lo rimproveravano. Quimet rideva. Sul biglietto c’era l’indirizzo di un altro negozio, questo di biodietetica e salutismo chiamato “Lluquet i Rovelló”. Carvalho addusse come pretesto qualcosa di urgente da fare e lasciò i due soci intenti a trarre le loro conclusioni. Era l’ora di pranzo e volle localizzare la Estrella de Plata, dove si servivano tapas avanguardistiche ideate da un tale Dídac López, tapas millenariste. Lasciò la Villa Olímpica invasa dai ciclisti, dai bagnanti non meno appassionati di mare che di quanto viene offerto gratis e dai ristoranti specializzati in gamberi, con eccezione del Talaia, dove si poteva mangiare una sintesi della nuova cucina metafisica di Ferran Adrià e della nuova cucina etnico-mediterranea, e si incamminò verso il Pla del Palau. Dovette lottare come ai suoi migliori tempi di karateka per ottenere uno sgabello al banco della Estrella de Plata e ordinare un repertorio composto da cuore di carciofo con uovo di coturnice e caviale o un fiore di zucca impanato e fritto con ripieno di foie-gras omologato. Sebbene quattro canapé squisiti avessero spianato la strada al suo appetito, allo stesso tempo gli impedivano di continuare a incidere sul suo meschino bilancio osando proporgli un pasto, nemmeno uno modesto. Non si trattava di risparmiare per la vecchiaia, ma di risparmiare insufficientemente per il nulla. Un recente riesame delle sue finanze gli aveva sputato in faccia un bilancio di dieci milioni di pesetas che a reddito fisso gli rendevano quindicimila pesetas al mese. Era tutto quel che aveva, a meno che non si vendesse la casa di Vallvidrera e andasse a vivere sotto un ponte con le quindicimila pesetas di reddito mensile. Cercò quindi di tenere conto delle sue effettive possibilità e si indirizzò verso il ristorante Sr. Parellada, dove Ramón, in altri tempi eroe del rock catalano e ora responsabile anche del ristorante Fonda Europa a Granollers, gli faceva dei prezzi speciali o quantomeno lo invitava per una bicchierata. Voleva mangiare cucina catalana per cominciare a identificarsi totalmente con la causa, e chiese una escudella barrejada [Piatto della tradizione preparato con gli avanzi della escudella, fatta a sua volta di bollito, di carni diverse servite in piatto a parte con verdura e legumi, e brodo delle stesse carni e verdure servito in enormi conchiglioni di pasta rigata] e peus de porc amb cargols [Piedini di maiale con le lumache],consapevole del fatto che l’escudella barrejada è fatta con gli avanzi delle migliori escudellas, i resti dei loro splendori, e che i piedini di maiale con le lumache sono poco calorici e del tutto esenti di colesterolo.

“Sta lavorando a qualche caso?”

Domandò Ramón prima del dessert composto da rondelle di arancia al succo d’arancia e frammenti di scorza candita.

“Devo riuscire a trovare finalmente l’assassino del testimone di Lucifero. Non sa in quale pasticcio mi sono cacciato. Non credo nella vera religione e finisco dentro a una religione fasulla. D'altro canto sono stato incaricato di un altro caso maiestatico: salvare una nazione.”

“Quale nazione?”

“Il nome non è ancora stato aggiornato. Una nazione che si trova a errare nel deserto per secoli finisce col perdere persino il proprio nome.”

Entrando in ufficio capì che il dado era tratto. Biscuter gli aveva lasciato sulla scrivania il parto di un messaggio inviato via fax.

Finiamola con i corteggiamenti, non abbiamo tempo da perdere (temo che sia in partenza per le ferie e non vorrei che restassimo in sospeso, “bocciati”, il dover rimandare a settembre quel che poteva essere e non fu, non mi si addice). Il suo autografo non mi era piaciuto.

Chi ha potuto dipingere un quadro come Las Meninas - quelle di Velázquez - non può accontentarsi di disegnare una barzelletta alla Antonio Mingote, per quanto validi siano barzelletta e autore. Tuttavia, per quanto ne so e per quanto mi hanno detto, la sua vita ha assunto le forme del simulacro, e so quanto male abbia vissuto a Madrid i giorni dell’inchiesta sulla morte del finanziere mecenate, per non dire poi del suo lungo soggiorno a Buenos Aires, una fuga in avanti. I fatti di Madrid li giudico più criticabili. Lei visse quell’esperienza raccontandola a chi le serviva di raccontarla, giocando con la singolarità del trasgredire il principio di Pauli (due corpi non possono occupare, insieme, lo stesso spazio allo stesso tempo). Un delitto che, è lei a dirlo, commette “l’Autore” di un romanzo presentato a un concorso letterario; argomento: i retroscena economici, politici, letterari nell’assegnazione di un premio. Uno specchio perfetto dove puoi camminare verso l’interno o verso l’esterno senza quasi rendertene conto: geniale. Una parodia del modo in cui Velázquez concepì Las Meninas; un far sì che l’autore, e perfino lo spettatore, facciano parte della composizione stessa; un impianto insolito con un risultato splendido. È il quadro; nemmeno Vermeer si merita, con Delft, una simile lode. Quanto all’impianto: 10.

Sto pensando che… a meno che lei me. lo permetta espressamente, non posso continuare, la buona educazione me lo vieta; sarebbe troppo chiederle di rispondere sì o no; in modo semplice e diretto?

Quanto mi piacerebbe che il suo fax mi inviasse qualcosa invece di emettere solo quell’impertinente ritornello con musica da bolero; converrebbe molto al mio “affare”, tutto sarà più facile che lei ceda se dice

…adoro le cose che mi dici,

adoro i nostri momenti felici…

ALICE (al di là dello specchio).

Che cosa si credeva quella cretina? Eccoli lì, la Sp Associati e il numero di telefono. Restava a sua mercé per una risposta contundente. Che diritto aveva di criticare la sua vita? Carvalho era forse responsabile delle illazioni che si facevano sul suo conto? A che cosa poteva rispondere sì o no? Signora, mi spedisca una sua foto e giudicherò se vale la pena di proporle di finire insieme a letto. Ma, mentre era ancora indeciso su cosa farsene del fax, la macchina riprese a macinare il silenzio, e di nuovo la Sp Associati e il telefono di prima erano l’intestazione di una nuova lettera.

Torniamo ai suoi movimenti a Madrid di cui mi stavo occupando, mi stavo occupando io, perché lei, a quanto vedo, non se ne dà pensiero. Si era fatto, come sempre, un’idea della situazione a partire da un abbozzo dei personaggi che aveva già in mente, come a suo tempo fece con me: io dovevo coincidere con il disegno nato da tutti i suoi preconcetti. Immagino come le siano apparsi davanti i presunti indiziati. Lei utilizza sempre la tecnica di Goya, vale a dire: grosse pennellate, decise, sicure, che, con la precisione di un bisturi, fanno affiorare la personalità di ciascuno. Cromatico. Lei è un voyeur che si dipinge la realtà su misura. Con quali colori mi ha descritto e conservato nell'archivio della sua memoria? In quale momento mi escluse dal bolero in crescendo della sua storia sentimentale, un bolero come quello di Ravel, in crescendo ma spezzato in quanto a lei piace prendere il disco in mano e mandarlo in frantumi? Musicale. Nei migliori brani musicali la chiave sta nel contrappunto, è con esso che si armonizza la composizione; è precisamente a Carvalho, il personaggio fittizio, che viene affidato l’incarico di dare una parvenza di realtà, di rendere “digeribile”, leggero, un gruppo di personaggi denso, quasi intricato. Saporito.

Il caso dell’omicidio di Lázaro Conesal ha nel suo svolgimento una vocazione polifonica, cerca di eseguire allo stesso tempo diverse melodie, abbozza da un lato la trama economica, dall'altro quella politicosociale e infine quella letteraria; proprio come farebbe un compositore; coprendo un tema con un altro, facendo udire il primo in solitario, poi fondendolo con quello seguente, per abbandonarlo più tardi in modo da sottolinearsi, e sarà il momento di intrecciarlo con il terzo… e così avanti - ouroboros - s’incomincia di nuovo. Sinfonico.

Ma a un certo punto la sinfonia comincia a fare acqua; i suoni persistono e si rispettano i tempi, quest’è vero, ma… il risultato è un amalgama di temi che suonano ciascuno per conto proprio, striduli… come no - e a maggior onta - con frequenza. Cacofonico. Non volli preoccuparmi (mi dissi: Sicuramente lo fa di proposito), lei ha vissuto tutto con l’intenzione di far sì che la vita sia un pollaio con quella scala che è una metafora, la vita è come la scala di un pollaio, corta ma piena di merda. Ho saputo che aveva ritrovato a Madrid una donna di cui un tempo si era incapricciato, e non penso a nulla di più serio perché lei con le donne non va mai oltre il capriccio. Nel rapporto con quella donna sentii la prima stonatura. Lei guarda come un epifenomeno un ragazzotto diciottenne, il figlio di Carmela, che le parla in un argot pieno di disprezzo dei codici della madre e di lei stesso, un ragazzotto capace di sentenziare che la madre segue Julio Anguita come si trattasse di Michael Jackson, sta di fatto che Anguita ha qualcosa di Jackson, è rosso imbiancato o un bianco arrossato. E prende in giro la madre perché a suo parere è iscritta a tutte le associazioni segrete di rossi e comunisti: Sos Razzismo, Diritti Umani, Giù le mani dal Chiapas… Ho parlato con il ragazzo. Ho seguito i suoi passi, Carvalho, ho perfino intavolato una conversazione disinteressata con Carmela per capire veramente quale parte lei avesse nella vita della donna. Le posso subito dire che in due momenti, nei primi anni ottanta e alla fine dei novanta, Carmela aspettava che lei scendesse dall'aereo e le restasse accanto. Carmela non la conosce, non la conosce, signor Carvalho. Capisco che sia interessato a sapere che cosa ho investigato delle sue investigazioni, come a volte si dipinge un quadro su un altro quadro, si chiama pentimento, o si scrive sui margini bianchi di un libro, intuisco che questa rivelazione le sarà andata di traverso.

La musica che, ora, dovrebbe emettere il suo fax:

Addio, barchetta a vela

galeone del mio amore.

La tua bandiera e la mia bandiera

non torneranno a vedersi.

…Reply please.

MISIRIZZI (continuo, al di là dello specchio)

Postscriptum: La riconquista di Carmela fu sul punto di avverarsi, solo sul punto. Che cosa accadrebbe se tentasse di riavere me? È davvero tanto difficile riconoscermi, riscattarmi dalle pagine della memoria? Non ha collezionato i petali di tutti i fiori che ha reciso? Chiedo scusa per la frase un po’ kitsch. È un kitsch controllato.

Di quale petalo parlava la balena del fax? Non poteva essere che una balena in agguato con le tette piene di latte al sapore di confetto, latte in technicolor a buon mercato, technicolor per bambini su una cartolina-ricordo. Il contatto con i testimoni di Lucifero era previsto per le cinque di sera nel nuovo bar Zurich in plaza de Cataluña, una riproduzione clonata di quello di prima, così come il teatro del Liceo, ricostruito identico a se stesso. Tempi di ingegnerie del simulacro e della nostalgia, masticò Carvalho, pronto a una seduta di spiritismo davanti a un'orzata o a una granita di caffè. Mentre risaliva le Ramblas, i suoi occhi e l’estate spogliavano i corpi delle ragazze, perfino quelli di alcune donne, e Carvalho si fece il test dell’età. Quali erano soprattutto ad attrarlo? Le ragazze o le donne? Le donne. Respirò sollevato.

L’orzata gli sembrò brina sciolta e povera e cercò di ricordare da dove derivasse la metafora finché gli venne un vomito poetico, i versi di Miguel Hernández, scritti in carcere, mentre suo figlio! succhia latte materno a sua volta frutto di cipolle del dopoguerra: “La cipolla è brina chiusa e povera”. Il sociologo Anfrúns arrivò non troppo in ritardo, di diversi lustri più vecchio di quando si erano conosciuti in occasione del caso della gogo-girl, con le stesse chiome lunghe e lisce stile maggio ’68, già invecchiate negli ottanta e dall’aspetto poco pulito, ma ora, alla fine dei novanta, piene di capelli bianchi e raccolte in un codino. La sua alta statura era compensata dalle spalle ricurve in avanti, a furia di doversi chinare per parlare con umanità più bassa.

“Dalla sessuologia alla teologia, brillante carriera.”

“Sono tempi teologici, Carvalho, ogni affermazione sul futuro è teologica perché nessuno lo ha determinato e il neodeterminismo capitalista ha mandato la speranza a farsi benedire, vale a dire, il futuro come religione, come proposto da Bloch. E pertanto il grande mercato del prossimo secolo sarà quello religioso. Appariranno religioni da marketing. Le sette non sono che semplice preistoria.”

Anfrúns ordinò un whisky con molta acqua o molta acqua con whisky e Carvalho un po’ di whisky di malto e senza ghiaccio nel caso avesse più di dieci anni. Anfrúns divagava su quanto fosse sensato che imparasse a orientarsi nella giungla delle nuove religioni e Carvalho distraeva lo sguardo nell’osservazione dei corpi femminili, nonché nel tentativo di indovinare da dove provenissero quelli delle straniere, ora che Barcellona era diventata un mito europeo per la sua condizione di città mediterranea abitata da persone che, a detta delle inchieste, basavano la loro massima aspirazione antropologica sul continuare a essere catalani. Era logico che cittadini con simili aspettative si meritassero la curiosità universale. Ma Anfrúns aveva pronunciato la parola Lucifero, una parola con cui richiamava la sua attenzione.

“Che cosa diceva a proposito di Lucifero?”

“Che è una setta dissuasoria.”

“Non la capisco.”

“È stata creata da un gruppo di pressione contrapposto a un altro. A quanto pare ci sono affari futuribili di mezzo e sono in gioco cifre che si avvicinano al concetto di infinito. Puntate di alta ingegneria geoeconomica. Tutto cominciò quando il figlio di un potentissimo industriale fondò una setta per potersi scopare un po’ di ragazze e suo padre gli bloccò i finanziamenti perché non gli piaceva che il figlio facesse l’antipapa e per di più scopando. Il padre era dell’Opus Dei, frazione senza il cilicio. Nientemeno che Pérez i Ruidoms. Dalla sera alla mattina cominciarono a piovere sul ragazzo donazioni in denaro, a quanto pare di adepti e simpatizzanti, ma era denaro del gruppo Mata i Delapeu, tu li conosci, tutto e niente di buono dal punto di vista del decalogo del capitalismo costruttivo. Smantellatori di fabbriche e aziende che sono diventati multimiliardari. Comprano società in caduta libera con il personale già licenziato, le razionalizzano minimamente o vendono ciò che rimane, terreno, edifici. Un affare tondo. Mi segua, l’intera prassi è coerente. Ma accade che Albert Pérez i Ruidoms, Satana, leghi alla setta e al letto Alexandre Mata i Delapeu, per l’appunto il ragazzo morto. L’omicidio di un membro di Lucifero, a quanto pare durante un rituale, pone la setta sotto i riflettori e la personalità del guru ne implica il padre e quanto rappresenta. Verranno scoperte doppie contabilità, ricordi quel che dico, si avvicinano le elezioni autonomistiche, in autunno, ci sono serie possibilità che i nazionalisti perdano nei confronti della sinistra e lo scandalo arriverà a sporcare alcune alte cariche del governo dell’Autonomia.”

“Per esempio?”

“Ventolrà, Sitijar, Rigalt i Mataplana.”

Incamerò nelle orecchie il nome completo di Quimet Rigalt i Mataplana; chiuse gli occhi per aumentare l’impassibilità del volto. Soppesò la domanda successiva.

“Quest’operazione, ha qualcosa a che vedere con Región Plus?”

Anfrúns era troppo allarmato e sorpreso per fingere.

“Non ci faccia caso, nel mondo delle teologie sono l’ultimo arrivato. Delle persone da lei nominate, vorrei sapere chi è chi.”

“Ventolrà è uno dei principi eredi del governo nazionalista, un delfino di Pujol, anche se il peggio che possa accadere a un catalano ambizioso è di essere considerato un delfino di Pujol. Nessuno è sopravvissuto politicamente a una simile esperienza. Sitijar sa tutto sulle finanze del presidente e della sua famiglia. E Rigali i Mataplana sa tutto, ma proprio tutto, di tutti. È un uomo estremamente abile, fedelissimo al presidente da quando erano entrambi adolescenti. Un grande realizzatore. Si fece ricco in Andorra e ricchissimo nelle isole Cayman, ma questo nessuno glielo dice in faccia. Il suo nome non è mai apparso in nessun caso di corruzione. È sposato con una Fatjó, non so se il cognome dice qualcosa. I Fatjó dei cementifici Pols, venduti di recente a una multinazionale. Non le dico quanti soldi hanno preso perché è una cifra troppo grossa, a me non sta in bocca e a lei non starebbe nel cervello. Dalla sua faccia deduco che lei non sa nulla del chi è chi in questo paese. Sembra quasi un marziano.”

“Sono di passaggio.”

“Da quando e fino a quando?”

“Da sempre e per sempre. Andiamo al sodo, Anfrúns. Mi suona strano parlare con lei di religioni e potere. La supponevo un signore delle tenebre del sesso e ora mi si presenta come intermediario di una setta satanica.”

“Sono l’intellettuale organico del gruppo. La mia specialità, essere l’intellettuale organico. Lo ero nel Psuc [Partito socialista unificato della Catalogna]. Poi della sessuologia organica, come lei ricorda, e ora cerco di continuare a essere un grande orditore di trame, ma non sono più quel che ero. Andiamo al sodo, se vuole. Il ragazzo assassinato era un neofita della setta, ma scelto benissimo in quanto si dice che avesse una relazione sessuale con il profeta.”

“Ma al profeta non piace scopare con le ragazze?”

“È stufo di essere etero. Era logico che volesse provare dell’altro. A me è accaduto. A lei no?”

“Se detesto le donne mal depilate, pensi un po’ gli uomini!” “Non solo si dice che andasse a letto con il profeta, ma anche che era un Mata i Delapeu.”

“Cazzo, Anfrúns! Qui tutti hanno nomi che suonano molto importanti e tutti hanno due cognomi con in mezzo una congiunzione copulativa. E questo vale per il profeta, o suo padre, o l’assassinato.”

“Questo paese, come era già accaduto alla Spagna o all'Europa dopo la Seconda guerra mondiale, ha creato una nuova classe e ha digerito le oligarchie precedenti. Ricorderà gli inizi della mia carriera, facevo il sociologo e quindi so quel che dico. Non portiamo quest'incontro troppo per le lunghe. Sto finendo di raccontarle ciò che so. Il ragazzo Pérez i Ruidoms è sempre indiziato ma è fuori sotto cauzione. L’omicidio può essere stato commesso da un gruppo di sicari balcanici, si contrattano a buon prezzo e adesso saranno già (ornati nel loro paese a tagliarsi i coglioni tra diverse etnie. Adesso usano molto le squadriglie di sicari kossovari, di qualcosa devono pur vivere, e i migliori sicari provengono dalla fame e dalle guerre. Presto avremo sicari ceceni. I poveri del mondo sono poveri ma non scemi e sanno che i ricchi del mondo hanno bisogno di assassini.” “La richiesta di indagare su questo caso mi è giunta dall'arcivescovado di Barcellona.”

“Se l’arcivescovado di Barcellona ha chiesto a lei di svolgere l’indagine, è perché le sette si sono specializzate nel riempire di graffiti i muri della sede e perché così ha voluto la madre di Mata i Delapeu, Delmira, da ragazza Rius i Casademont, una beghina con il naso in tutte le Ong cattoliche per dimenticare che il marito la tradisce finanche con le bambole gonfiabili, gonfie o sgonfie che siano.”

“Avrei dovuto saperlo, prima di parlare con il vescovo. Di fatto, a telefonarmi è stata la Caritas.”

“Non parlerà con lui. La cosa resterà più in basso. Inoltre, non solo è vescovo o arcivescovo, è cardinale. Lei che cosa farebbe, se venisse ricevuto dal cardinale? Mi scompiscio dalle risate solo a immaginare la sua reazione.”

“Se portasse la tonaca gli chiederei di concedermi un ballo. L’ho letto da qualche parte. Una volta uno sfacciatello chiese l'onore di un ballo a un vescovo, sedotto dalla bellezza della sottana. Ma facciamo un riassunto dell’organigramma oligarchico-satanico della Catalogna e mi corregga se sbaglio: un ragazzo, un Pérez i Ruidoms, mette su una setta satanica per poter scopare e tempo dopo appare il cadavere di un altro ragazzo, un Mata i Delapeu, che a quanto pare giocava al dottore con il ragazzo Pérez i Ruidoms. La madre di Mata i Delapeu, che continua ad adoperare i cognomi del marito nonostante lui vada a letto con le bambole gonfiabili, mi chiede di svolgere un’indagine sul caso e lei, intellettuale organico dei Testimoni di Lucifero, mi fa sapere come, anche se le apparenze incriminano Albert Pérez i Ruidoms, si tratti soltanto di una messinscena di certi oligarchi per far fuori un altro oligarca, l’onnipotente Pérez i Ruidoms, Grande Oriente o Grande Rabbino dell’Opus Dei e padre del profeta satanico. Mi guidi un po’ nella giungla delle sette e dei sicari.”

Anfrúns gli fece un riassunto delle sette presenti, robetta da sottosviluppo se paragonate alle sette americane, per esempio. I neonazisti si introducono a mano a mano nelle sette perché non sanno più dove cacciarsi. Per il momento il capitalismo non ha bisogno di loro, e bisogna tifare per qualcosa, per il Barça, per l’Español, per il Real Madrid o per la Chiesa di Satana o dell’Ordo Templi Orientalis e dell’Ordo Illuminati. Destra. Destra tradizionale o destra anarchica.

“La più notevole è la Chiesa di Satana, fondata da un diplomatico del Partito popolare e legata al governo in parte alla setta Moon attraverso i suoi dirigenti. La setta Oto-Auténtica è diretta da un tassista e da una guardia giurata. C’è un po’ di messa nera e di vendita di coltelli per sacrifici rituali ma, a quanto si dice, uccidono soltanto galline, gatti e agnellini, forse qualche cagnetto. La nostra è una setta modesta, ma con grande capacità creativa, di cui senza falsa modestia mi attribuisco il merito, perché io sono un professionista dell’immaginazione teorica e mi piace portare la proposta un po’ a sinistra, non perché mi aspetti di fare la rivoluzione attraverso la religione, ma per rompere le palle alla borghesia. Anche se talvolta il miglior modo di rompere le palle alla borghesia consiste nel gonfiargliele. Lei ricorderà le mie teorie sulla sessualità organica. Fummo sul punto di abbattere il sistema predicando la libertà sessuale. Tutti la volevano, ma arrivarono l’Aids e il Papa polacco. Ora non ha più tempo. Prenda questo elenco e mi disturbi il meno possibile.”

Gli lasciò in mano un foglio di carta e se ne andò: Corrent 93, DV 69, Fundación del Gen Sagrat, Grupo Astaroth, Germanes d’Halo, de Beelsebul, Germans de Changó, Macho Cabrió, Tempie de Seth… Carvalho quasi non guardò il resto della lista e si lanciò all’inseguimento della scia di Anfrúns, che camminava come un sociologo con poco tempo a disposizione per concludere un sopralluogo. Il sociologo attraversò la plaza de Cataluña, si diresse verso via Laietana e scese lungo il marciapiede destro con passi veloci fino a raggiungere il palazzo della Questura centrale per attraversare quindi la strada, come se non gli piacesse passare davanti a quel portone, un tempo centro delle segrete fasciste, atteggiamento spesso condiviso da Carvalho e stavolta da lui gradito. Anfrúns raggiunse il mercato di Santa Catalina, di cui non restava che la facciata in attesa della ricostruzione dell'interno, e si inoltrò nei vicoli della Barcellona gotica fino a raggiungere un vecchio palazzo medievale in cui si infilò spingendo il portone. La porta si chiuse davanti al naso di Carvalho, che cercò ovunque un’indicazione sulla funzione dell'edificio, ma non ce n’erano, così decise di entrare nel bar El Xampanyet, all’altro lato del vicolo, da dove osservare chi entrava e chi usciva. Sul banco, correttamente allineati, stuzzichini postmoderni, “collage ed eclettismo”, aveva letto in una nota sul giornale “La Vanguardia” firmata da una certa Carme Cases. Era ormai al secondo stuzzichino quando inseguimento e attesa vennero ricompensati. Quimet entrava dalla stessa porta che un quarto d’ora prima aveva inghiottito il sociologo sessuale riciclatosi come intellettuale organico di Satana, Jordi Anfrúns.

A partire dalla percezione, quasi cabalistica, suggeritami dalle sue esperienze in occasione dell’omicidio di Lázaro Conesal, mi trovavo a vivere a mia volta a cavallo tra emozioni diverse eppure coincidenti… Le equazioni di secondo grado (ricorda?), quelle che risolvono le espressioni matematiche che ammettono due risultati, mi paiono banali e, a quanto pare, anche a lei.

La matematica mi era sempre sembrata un prodotto etereo, serafico, soggetto ai precetti più severi, senza macchia, senza fessure, virginale, tanto solido e consistente che… faceva schifo; finché apparvero all’orizzonte, per riscattarla dalla vetustà, dall’odore di virtù (tarme?), le citate equazioni (come il settimo cavalleria, in panavision e con sottofondo sonoro adatto al momento), trasformando tale disciplina in qualcosa di magico, imprevisto, sorprendente, indeterminato, ambiguo; in una parola: sconcertante.

Mi risulta che lei sappia sempre chi è il vero assassino, e che tolleri che la società individui l’assassino necessario, addirittura di totale accordo con lui. Una personalità complessa come la sua è capace di astuzie sibilline in grado di ideare, forgiare, obiettivi che le consentono di continuare a essere un voyeur, come sempre, della storia e della vita.

Una perizia, del resto, ampiamente dimostrata in tutte le indagini cui prende parte. Perfino in quella dove ero apparsa io. Non mi ha ancora identificata? Perché non vuole identificarmi? È tale la sua indifferenza o la sua superbia da non avere alcun interesse a riconoscermi? Può localizzarmi attraverso il numero di fax del mittente. Lei, non è forse un detective? Perché non lo fa? Le faccio paura? Voglio nascondere la mia identità per costringerla a scoprirla. Ma torniamo al mio smantellamento della sua avventura madrilena messa in scena in quell’albergo trasformato nel caso della stanza chiusa. Da quanto mi era stato raccontato prima che il tutto diventasse di dominio pubblico, in quell’albergo ebbe luogo una farsa barocca e sincopata, come se si trattasse di rantoli agonici, una farsa prolungata e faticosa. Lei, come sempre, o come negli ultimi tempi, visse tutto passivamente, guardone, guardone, suppongo che lei mantenga questo atteggiamento anche davanti ai miei fax, lo stesso già dimostrato nei miei confronti. Sono capace di “perdonarla" e di difendere la sua causa quasi in ogni circostanza, anche ora sono disposta a farlo, ma non mi si presentano le condizioni necessarie, lei non dice e non fa niente. Spero capisca il mio dispiacere, anche se questo non dipende dal suo grado di comprensione, che è immutabile. No, non c’è musica. TORQUEMADA (era un uomo?, sicuro?)

I fax continuavano ad arrivare uno dopo l’altro e, esaurito l'argomento del caso Conesal, l’autrice si dedicò ad analizzare altre peripezie, come se avesse spiato la traiettoria professionale di Carvalho e fosse diventata il detective di un altro detective. Forse conveniva chiamarla e proporle un incontro, ma l’estate si vive come un bilancio della verità dell’inverno, con la sua falsa promessa di cambiare tutto e, quando sarà finita, la balena del fax avrà dimenticato la sua ossessione. Il cadavere del figlio della signora Mata i Delapeu ha avuto cristiana sepoltura nonostante il satanismo del ragazzo e la madre chiede dall’esperienza privata di Carvalho quanto non spera di ottenere dalla polizia pubblica.

“Giustizia e pace dello spirito. Fino a quando non potrò guardare negli occhi l’assassino di mio figlio, non troverò pace.”

Doveva andare a trovare quella vedova del proprio figlio. Un’altra madre colta e ricca che aveva generato uno spostato ricco, colto e scemo. Una storia di satanismo aiuta a passare l'estate, inoltre doveva incontrare quanto prima Charo per chiarire ciò che poteva esserci stato tra di loro e non c’era stato, o quel che non poteva esserci più. Ma per la prima volta confessava a se stesso di essere seccato all’idea che Charo dipendesse da un altro uomo, perché non si trattava più di mestiere e invece si era consacrata come amante o concubina a un rispettabile signore che le aveva messo su bottega. La balena del fax. Satana, Charo. Quimet e lo spionaggio catalano. Troppo per una rentrée. Aprì un cassetto della scrivania e accanto al radioregistratore inviatogli da Charo trovò il costume da bagno. Mentre Biscuter in cucina spentolava manicaretti odorosi di zafferano, Carvalho in bagno indossò il costume a guisa di un paio di boxer, si rivestì e scese al parcheggio in cerca dell’auto, cui regalava la condizione di cabina da spiaggia. Guidò lungo le Ramblas verso il porto e poi svoltò verso la Villa Olímpica per raggiungere il parcheggio sotto l’ombra della Torre Mapfre. Si tolse i vestiti nell’abitacolo della macchina rimanendo in costume e camicia, ripose gli indumenti nel bagagliaio e salì fino al Port Olímpic per scrutare un orizzonte di spiagge continue e gratuite dove i corpi predatori si prendevano il regalo del mare riscattato da diversi secoli di mura e inquinamenti. Alla sua sinistra la Villa Olímpica cominciava a rivestirsi d’alberi e si faceva perdonare le poche ambizioni architettoniche; alla sua destra, il mare luccicante e la gente con il fisico migliore o peggiore, ma disposta a godersi quel paradiso. Era di nuovo il mondo della sua infanzia, quando le spiagge dette “libere” perché gratuite della Barceloneta gli concedevano la condizione di bagnante e la sorpresa del corpo liberato dalle acque. Adesso le spiagge si succedevano e se le avesse percorse a piedi sarebbe arrivato alla frontiera francese senza mai allontanarsi dal mare. Ma a lui interessava capire la nuova città, il senso di quell’aggiunta urbana accanto alla volontà di sopravvivenza del cimitero chiuso e romantico del Boblenou, dei casermoni cubici riciclati dalla chirurgia estetica della cultura del simulacro, le ciminiere disperate, braccate come testimoni obsoleti di quel che un tempo era stato insieme Manchester e Icaria, non meno braccate delle case fino a poco tempo prima popolari, protette, mal costruite, che a un tratto diventavano una Harlem lacerante eretta accanto a Malibu, abitazioni per poveri miracolosamente vive sul terreno più costoso della città. Quale cerniera legava il suo immaginario di Barcellona a quest’Atlantide improvvisamente emersa dai mari? Una fuga in avanti o un nuovo senso della città definitivamente aperta e profilattica, pastorizzata, mentre il piccone spaccava il basso ventre del Barrio Chino e le fantasmagoriche barricate della memoria della città della rabbia e dell’idea della sovversione, della città franchista, la città in ginocchio, Signore, davanti all’Altare, ma una città che conserva i suoi avanzi di amore e verità. Forse la cerniera era l’odore di gambero, la vendetta degli odori di oli snaturati, rifritti, oli scorretti contro la città più corretta del Mediterraneo, un olio solido denso di memoria, a evocare periodi di dopoguerra e sconfitte.

Decise di immergersi nella spiaggia che precede quella dei nudisti, perché si soleva dire che in quel punto ci fossero le acque più pulite in grado di salvarsi dalla merda delle discariche rimandata dal vento di levante. C’erano le coppie di sempre, le donne sole di sempre, gli omosessuali di sempre, tutti in odore di un'anarchia particolare, quasi fossero discendenti diretti di teosofi vegetariani e libertari adoratori del sole convinti che la cipolla, l’aglio e soprattutto l’acqua di mare curino tutto. E fu con gioia che entrò nelle acque fresche e si mise a nuotare come la prima volta che capì di dominare il mare dopo un breve corso di nuoto per bambini al Club Natación Montjuïc, come se le acque gli restituissero una consapevolezza di apprendistato e di città, una nostalgia per quelle scappatelle verso l’altro elemento, quasi una fuga dalla solidità dei giorni e dei quartieri lavorativi, scappatelle su tram-giardinetta, tram svestiti, tram con scollature ampie e gonne corte, adatti solo ai percorsi estivi e alle ragazze richiamate da precarie nudità del dopoguerra, con le ascelle sudate e nel solco tra i seni il bagliore di umidità profonde con un rivolo che arriva fino al sesso. Tornò a toccare il fondo e con l’acqua alle spalle contemplò i vicinissimi giovani alberi, la Villa Olímpica adolescente, i ciclisti, i ragazzini surfisti, le coppie apparentemente libere, gli omosessuali in tanga che approfittavano dell’orario continuato, e si sentì fresco, felice, riconciliato con la città anche se aveva voglia di piangere perché sapeva di non poter tornare a casa, che non sarebbe mai tornato a casa e che per giunta la casa cui non poteva mai tornare aveva i contorni imprecisi, come non fosse più che un muro bianco sul quale il ricordo ricostruiva a malapena i volti abbozzati dei morti che ricordava soltanto lui.

“I debiti sono stati saldati e ho già seppellito i miei morti. Per fetta fine di millennio e di una vita.”

Mormorò e, mentre mormorava, pensò di dover telefonare alla balena del fax, il solo fatto nuovo capitatogli da quando era tornato da Buenos Aires, o probabilmente dal passaggio di Claire nella sua vita, o molto prima, tanto tempo prima, dal momento in cui aveva deciso di non lasciarsi sorprendere da nulla che lo potesse rendere consapevole della sua fragilità. Lo infastidiva prendere il sole come un leone marino arenato, e riuscì a restarci appena dieci minuti prima di rituffarsi e prendere ancora il sole per altri dieci minuti e finire in seguito sotto la doccia pubblica, vale a dire, gratuita. Gratuita, pensò, e si disse: Pepe, cominci ad avere lo spirito del pensionato. Camminò di ritorno al parcheggio asciugandosi al sole e selezionando i corpi di donne stese e le piroette sportive dei bambini e i ragazzi che giocavano a calcio o a pallavolo, immagini che gli ricordavano fughe infantili motivate dalla spinta del corpo a cercare spazi liberi nella natura libera. Gli tornò in mente una montagna di Montjuïc meno ordinata di quella attuale, piena di spazi aperti dalle bombe o conquistati dal crollo dei padiglioni dell'Esposizione del ’29. E se non a Montjuïc, in infinite zone dell’hinterland allora tanto vicine e adesso seppellite dalle costruzioni. Perché ultimamente ripensava tanto all’infanzia? Ormai nel parcheggio, si mise i vestiti sul costume già asciutto e ricompose l’aspetto da detective abbigliato grazie ai saldi del Corte Inglés per meritarsi uno sguardo di approvazione dalla madre vedova del proprio figlio.

Delmira Mata i Delapeu lo aspettava in un importante attico di una strada con alberi atipici, acacie, un attico con ingressi di servizio, un appartamento su misura per una donna separata dal marito che non ha bisogno del marito nemmeno per farsi comprare un attico da oltre cento milioni di pesetas. Il tavolo in soggiorno era pieno di novità editoriali: La struttura della realtà di David Deutsch, Sara e Simone di Erick Hackl, L'ordine politico nelle società in cambiamento di Samuel P. Huntington, L'era dell'informazione di Manuel Castells, la rivista “Realitat” del Partito dei Comunisti della Catalogna, pubblicazioni e dépliant di Sal Terrae e Sulla stessa barca di un certo Sloterdijk, un piccolo libro dalle proporzioni umane che Carvalho prese in mano per via delle ridotte dimensioni e aprì per leggere: “Il postmoderno è un’epoca ‘dopo Dio’ e dopo gli imperi classici e tutte le loro succursali locali. Tuttavia, il genere umano orfano ha tentato di ideare un nuovo principio affinché tutti, insieme, appartengano a un nuovo orizzonte unitario: i diritti umani”. Carvalho non poté leggere oltre per capire se Sloterdijk credeva o no nei diritti umani perché la madre tragica e ogni giorno più anziana era apparsa vestita con la sobrietà grigia richiesta dal suo lutto interiore e le rughe più che mai impresse sul volto. Carvalho si passò una mano sugli occhi per togliersi il filtro ironico che giudicò esagerato, mentre con l’altra teneva sempre Sulla stessa barca. La madre parlò.

“È un piccolo grande libro.”

“Come dice?”

“Il libro che tiene in mano è un piccolo grande libro sul disordine, sul nuovo caos.”

Carvalho mollò l’oggetto come se gli bruciasse tra le mani e si mise seduto, dietro invito di Delmira Mata i Delapeu, in una poltrona di velluto color crema. Era per davvero invecchiata nei tre giorni passati dal primo incontro, e aveva una voce stonata, quasi demotivata.

“Ha saputo qualcosa di nuovo?”

“Quel che so mi sconcerta e aggrava la situazione. A quanto pare l’omicidio di suo figlio può far parte di una montatura per screditare il padre di Pérez i Ruidoms. Sembra che di questi tempi sia piuttosto facile contattare un sicario.”

Delmira chiuse gli occhi lentamente, come se le facesse male il semplice sfioramento delle palpebre sugli occhi in carne viva dal troppo piangere.

“Non è stato nemmeno un omicidio umano.”

“In questo caso, che cosa significa umano?”

“Per amore, per gelosia, per passione. È stato un omicidio in provetta, da laboratorio finanziario.”

“Non so ancora nulla. Forse la mia visita le ha dato qualche illusione. Mi è sembrato doveroso tenerla informata.”

“Non si giustifichi. Mi piace che sia venuto. Mi piace la voce umana. Lei ha una bella voce. Grave.”

Aveva sempre gli occhi chiusi e quando li aprì a Carvalho sembrarono tristi, vecchi, belli. Il detective non ebbe più fretta di andarsene, smise di stare seduto in pizzo di poltrona e si lasciò cadere sulla spalliera mentre raccontava alla donna quanto aveva captato in relazione alla morte del figlio, cercando parole che non palesassero bruscamente la relazione tra i due giovani satanici. A quel punto Delmira sorrise, allungò una mano piena di vene e macchie per sfiorare un braccio di Carvalho e poi ritirarla.

“Grazie per la delicatezza del suo linguaggio, ma sapevo già dell’omosessualità di mio figlio. Ne abbiamo parlato in varie occasioni, e lui riteneva che senz’altro fosse il risultato di una libera scelta sessuale, ma anche una reazione contro il padre.”

“Complesso di Edipo?”

“No. Lui era il mio beniamino. Io ero una madre vecchia, di quelle che non suscitano complessi di Edipo. Era semplicemente un ragazzo sensibile che non sopportava il padre. Ha visto II silenzio degli innocenti? Quel film su un delinquente cannibale costretto a portare un bavaglio in modo che non possa uccidere e mangiare carne umana?”

“Sì.”

“Ebbene, a me e a mio figlio era sembrato una metafora di mio marito.”

Tornò a Vallvidrera con la spesa appena fatta alla Borquería. Anche quel mercato era diventato un cantiere e Carvalho temeva gli piovessero addosso le disinfestazioni che avevano eliminato tutti i batteri e tutti i virus della città. Si era fatto disossare delle cosce di pollo, aveva comprato delle salsicce per farcirle e cucinarle con una tecnologia d’avanguardia, una salsa con noci tritate insieme a un paesaggio di carciofi. “Le noci favoriscono il colesterolo buono e diminuiscono quello cattivo,” aveva detto davanti alle telecamere un esperto dall’aspetto gravemente malato, forse per non aver mangiato a suo tempo noci e carciofi. Carvalho sapeva tutto dei carciofi, se li fai stufati ne salvi le proprietà e i sapori e, come annunciavano i loro apologeti ai quattro venti, sono un alimento completo e poco dannoso per la gente della sua età. Che cosa può essere più dannoso per la sua età? La mancanza di denaro. I carciofi sono diuretici, antireumatici, antiartritici, depurano il sangue e, tuttavia, si possono mangiare e perfino cucinare. Gli ricordavano quei piatti di riso individuali della nonna, un unico carciofo, uno soltanto, un calamaro, uno soltanto, un pomodoro, un peperone, come se l’uno fosse l’espressione stessa della sua solitudine e dell’impotenza a comunicare o semplicemente della sua miserabile pensione di vedova di guardia municipale dei tempi della Repubblica.

Non voleva complicarsi la vita a cucire le cosce per proteggere il ripieno e fece una farcitura di carne di maiale, pollo e prosciutto con un po’ di mollica di pane, un uovo e un tartufo nero. Riempì le coscette, aggiunse sale e pepe, le unse d’olio con un dito e le avvolse in carta stagnola per farle in papillotte. Nel frattempo preparò il soffritto, lo bagnò di vino bianco, aggiunse un uovo sodo tritato, aglio, prezzemolo e noci e aggiustò la salsa con un po’ del cognac in cui aveva conservato il tartufo. Una volta cotte le coscette, le liberò dal sudario, erano perfettamente concentrate e le fece cuocere per altri cinque minuti con la salsa che avrebbe ben potuto chiamare con il suo nome: “Salsa Pepe Carvalho”. Ogni essere umano dovrebbe poter avere un figlio, scrivere un libro, piantare un albero e brevettare una propria ricetta di pollo con salsa.

Stava cucinando il riso in un po’ di brodo per accompagnare il piatto quando bussarono alla porta e andò ad aprirla dopo essersi scolato un mezzo bicchiere di rosso Aillón. Era Charo, e Carvalho la fece entrare con la naturalità di un incontro immediato, come se la loro relazione non fosse stata rimandata per quasi sette anni. Lei aveva conservato i riflessi con cui entrava in casa e reagiva davanti alle evidenze che la costringevano a sorprendersi nonostante le avesse viste per tanti anni: che Carvalho stesse cucinando, che avesse la bottiglia di vino stappato, e guardò subito la biblioteca tentando di indovinare quale libro stesse per bruciare nel caminetto, un libro da accendere come ultimo bagliore dell’estate. Nel cogliere quello sguardo, Carvalho provò a immaginare da dove sarebbe entrato in contatto con il corpo di Charo e quale libro bruciare nel caminetto. Probabilmente lei si aspettava subito un abbraccio, mentre gli passava davanti, ed era prevedibile che lui l’abbracciasse dalle spalle per stringerla tutta quanta, ma proprio perché si trattava di un abbraccio totale di riconciliazione, Carvalho lo considerò eccessivo. Forse quando lei gli avesse avvicinato il viso avrebbe potuto baciarla su entrambe le guance, o forse Charo avrebbe considerato la cosa come banale protocollo aspettandosi che lui la baciasse di fronte, la baciasse, la baciasse profondamente. Più difficile del primo, il secondo incontro peggiorava il calcolo strategico in quanto non era chiaro quale grado di rincontro volessero Carvalho o Charo ed era prevedibile la delusione in cui sarebbero finiti a causa di una drammaticità mal calcolata. Nel primo incontro il desiderio aiuta l'immaginazione, ma nel secondo sono inevitabili le rovine del sentimento e delle sensazioni presenti all’evento come un paesaggio correlato di distruzioni. Appena Charo si fosse messa a parlare, il suo tono di voce avrebbe segnato quello del recupero, e la donna si voltò a un tratto, con le lacrime agli occhi e si lanciò a fermare i passi calcolati di Carvalho per baciarlo una, dieci, cento volte in ogni punto del volto raggiungibile dalle labbra, e lui accettò l’aggressione a occhi chiusi, sentendo i baci come morbidi colpi di becco che cercavano di spezzare una corazza fatta di tempo e distanza. Macchinalmente prese l’iniziativa, bloccò la donna con l’abbraccio e si baciarono con le lingue come staffette del cervello. Il figlio prediletto di Carvalho si inquietò tra le gambe dell’uomo e fu il segnale di una notte possibilmente fortunata, perché era indesiderabile rimanere sulla superficie del non vissuto e non accedere alla verità della penetrazione. Ormai il ghiaccio era rotto e urgeva che la banalità li liberasse dalla teatralità eccessiva, passare dal dramma sentimentale alla leggerezza di una buona commedia, per riuscirci, Carvalho riempì due bicchieri di vino; stava per proporre un brindisi, quando si trattenne, consapevole della responsabilità eccessiva del brindisi, o troppo impegnativo o troppo distanziante. Per noi? Per il rincontro?

“Perché ci si possa sempre baciare con gioia.”

Aveva annunciato Charo, e Carvalho accettò il brindisi temendo che fosse eccessivo. Ma già lo richiamava la volontà dell'anfitrione e calcolò se gli ingredienti della cena per uno bastassero a una cena per due.

“È un piatto unico.”

“Come suona male, ma quanto deve essere buono.”

“Ti preparerò un dessert.”

Carvalho sbucciò due mele, le tagliò a spicchi e le dorò in una padella appena unta di burro. Quando ormai stava per cedere la resistenza della polpa, aggiunse mezzo bicchiere di Grand Marnier e fruttosio e aspettò che le mele abbandonassero la loro resistenza senza disfarsi del tutto. Sbatté un uovo, un po’ di farina, tre chiare a neve, una spolverata di fruttosio e collocò il liquido nello stampo caramellato per distribuirvi poi gli spicchi di mela in modo simmetrico. Quando la composizione era già in forno, Charo domandò notizie sull'uso del fruttosio.

“Hai il diabete? Biscuter non me ne ha parlato.”

“Biscuter non sa tutto sul mio conto. No, non ho il diabete, ma lo avrò. Bromuro aveva ragione. Il nemico è dentro di noi e quel gran figlio di puttana studia giorno dopo giorno come fotterci; quando capisce che stiamo invecchiando, che le nostre difese si sono indebolite, allora ci attacca su tutti i fronti e se gli riesce ci consente al massimo di agonizzare, bevendo l’acqua con la cannuccia o nutrendoci dal naso.”

“Sei proprio un bel tipo!”

E approfittò della vecchia giaculatoria per abbracciarlo di nuovo, cercargli le labbra, ottenerle, spingerlo verso un altro spazio, senza dubbio il letto. Carvalho considerò quali possibilità aveva di essere all’altezza e di non bruciare il dessert, senza lasciarsi andare alla villania di piantare in asso una donna innamorata e correre a spegnere il forno. D'altro canto, spegnerlo subito mandava a monte la cottura. Com’era peggio, che si bruciasse o che non cuocesse? Cominciò a spogliarsi sempre abbracciato a Charo, mentre lei avanzava di spalle verso la camera, e poi lei abbassò le luci e si tolse gli abiti con pudore, come aveva fatto sempre per evitare che Carvalho pensasse che si comportava con lui come con i clienti. Adesso si spogliava temendo gli anni accumulati, e Carvalho non li voleva vedere, si rifiutava di accettare le erosioni che potevano condurlo a far cilecca. Così, quando Charo nuda gli si sfregò addosso, era convinto che fosse la Charo della prima volta e, quando cambiò posizione per penetrarla, i giochi preliminari lo avevano eccitato e si sentì potente, senza aprire gli occhi o socchiudendoli appena per vedere nella penombra i lineamenti di una Charo felice. Così poté esser soddisfatto di sé quando si staccarono e Charo gli si strinse contro per prolungare l'incontro e mormorare una, cento volte, come sempre, come sempre, come sempre, come sempre.

“Ho sognato tante volte questo momento.”

“Sei stata tu ad andare via.”

“Ma nessuno ha preso il tuo posto. Nemmeno Quimet. Lui mi ha dato una sicurezza diversa, non è il mio uomo. L’uomo della mia vita sei tu.”

“Non hai più bisogno di me.”

“Perché dici questo?”

“Hai cambiato mestiere. Prima ti serviva un protettore emozionale che per di più avevi gratis. Ora sei una donna in affari.”

“Tu mi ritenevi una puttana?”

“No.”

“Nemmeno io ti ritenevo un protettore, e nemmeno di averti gratis. Eri il mio uomo. Lo sei ancora.”

Ormai rivestito, Carvalho fece in tempo a tirar fuori dal forno il dolce di mele prima che subisse ustioni di terzo grado. Charo continuava la sua perorazione. Voleva mettere le carte in tavola, sette anni di assenza e il futuro che si aspettava. Carvalho non rispondeva. Toccava i libri. Li sceglieva e li scartava. Finalmente ne tenne uno tra le mani, La vie quotidienne dans le monde moderne, di Henri Lefebvre. Lesse come sempre una frase come spunto per bruciarlo o per un difficile indulto: “La théorie du métalangage se fonde sur les recherches des logiciens, des philosophes, des linguistes (et sur la critique de ces recherches). Rappelons la définition: le métalangage consiste en un message (assemblage de signes) axé sur le code d’un message, un autre ou le même”. Troppa gente per decidere che bruciare un libro in un caminetto era un atto metalinguistico, per cui fece a pezzi il libro e lo sistemò come base di un fuoco futuro.

“Perché lo bruci?”

“Perché tutti ci serviamo del metalinguaggio senza bisogno di qualcuno che ce lo spieghi. Anche perché Lefebvre scoprì tardi il ruolo del quotidiano davanti allo storico, scoprì tardi che i giorni lavorativi hanno sempre ragione.”

Charo lodò la cena e parlò ripetutamente di Quimet, di quanto era una brava persona, di quanto aveva fatto per lei e quanto poteva fare per Carvalho.

“Ricordi quel tizio, Anfrúns, quel sociologo scopone che si fece avanti mentre indagavo nel caso della gogo-girl?”

“Ma certo, non potrebbe essere diversamente. È un consulente di Quimet in materia di religioni.”

Charo si svegliò al suo fianco e lui l’accompagnò fino al negozio nella Villa Olímpica per trasferirsi poi all’ufficio sulle Ramblas.

Per tutto il tragitto di discesa lungo la Ronda de Dalt in cerca della Ronda del Litora, Charo non smise mai di cantare e di fare domande, meravigliata di tutti i cambiamenti subiti dalla città. Sembra un’altra, vero, Pepe? Come noi. Anche noi sembriamo altri, vero Pepe? Charo aveva allungato il bacio di saluto e poi aveva trattenuto la mano del congedo, lo sguardo del congedo, aveva trasformato il congedo in una fine capitolo di telenovela piena di inquietanti premonizioni. Ma lui sapeva orientarsi fin dall’inizio del giorno e non voleva esasperare l’ambiguità con cui accoglieva il tentativo di Charo di ristabilire rapporti di dipendenza. Così, una volta in ufficio, cercò i fax della balena e fece il numero di telefono indicato sui fax.

“Mi scusi. Ho ricevuto alcuni vostri fax, della Sp Associati, ma non figura il nome di chi li ha scritti. No. Non posso fornire altri particolari.”

L’interlocutore stava facendo il giro dell’intero ufficio chiedendo chi avesse spedito un fax a Pepe Carvalho. Notò il rumore del telefono che si spostava con l’uomo, anche il sonoro silenzio volontario all’altro capo della linea, quando a un tratto spuntò una voce di donna, studiata, come se avesse preparato da tempo quel che aveva da dire.

“Carvalho? È lei? Sicuro?”

“Non lo metta in dubbio. Non aumenti il mio senso di insicurezza.”

I Re Magi [i Re Magi svolgono in Spagna il ruolo rivestito in altri paesi a seconda delle tradizioni, da Babbo Natale, dal Bambin Gesù o dalla Befana] esistono, lo so.

La sua telefonata è stata “un’esperienza religiosa”, sono ancora stordita, sorpresa e balbettante (come avrà percepito). La ricordavo timido, timidissimo, ma apparentemente pieno di prepotenza (una prepotenza che esercitò su di me), oltre che impegnatissimo. Avevo supposto quindi, al massimo e se ero fortunata, di ricevere da lei, mediante il fax, un laconico Sì o No.

Mi ha assolutamente sorpreso, non solo per il mezzo, ma anche per le sue spiegazioni e mi ha sorpreso ancor di più il fatto che non sapeva a che cosa dover rispondere. Per il momento, io le avevo proposto solo qualcosa, che in caso di sua risposta affermativa, si sarebbe tradotto in un apporto al suo amore per la cucina (qualche ricetta di cucina, un vino… ricorda?); tutto questo con l’intenzione di ripagarla della sua generosa attenzione nei miei confronti. Dovrei già onorare la promessa, ma ora non posso dedicarmi a spiegarle, in tutti i particolari, i segreti del mio “tonno in millefoglie” e della mia “insalata di arance all'aglio”. Lei come cuoca non mi ricorda, al contrario, ma grazie a lei oggi lo sono. Per tanti versi lei è stato l’uomo della mia vita! Vorrei inviarle qualche bottiglia di vino bianco dell’Empordà prodotto dalla mia famiglia, mettersi a produrre vino a scopi commerciali oggi è di moda. Bisogna che mi dica se posso fargliele arrivare in ufficio. Biscuter è sempre con lei? Lo sa che la sua voce è diventata più calda? anche più retorica, e con un punto di “sufficienza"… All’Olimpo, tutti gli dei parlano così? Ancora sotto gli effetti della sua telefonata di ieri, vale a dire abbagliata, tra le nuvole, nuvole, nuvole… (magari queste mie parole potessero suonare come quelle di Alberti: onde, onde, onde…). Insomma, sono ancora in stato di grazia.

Mi sono comprata uno splendido vestito, sono (mi sento) bellissima quando lo indosso; ieri tutto è stato assolutamente perfetto.

Rida fin che vuole, a casa c’era una cena in famiglia e mi trovavo in un tale stato di esaltazione che si è deciso di aggiungere un coperto per lei, così risultava più “naturale” che io continuassi la mia/nostra inebetita e intima conversazione; ossia, che quando guardavo verso il suo piatto nessuno doveva interrompermi/ci; ho subito scherzi di ogni genere e ho dovuto spiegare il suo parere sulla “zuppa fredda di melone” e sul “baccalà e la llauna”… che cosa non fa l’invidia!, ho detto loro. Era il menu della cena e lei come sempre, pur senza saperlo, assiste alle mie cene, ai miei pranzi, quando ci sono, quando compro quel che mi serve per prepararli o ordinarli alla domestica. Lei è presente in quel che vivo e in quel che sogno e la mia famiglia lo sa, perché Mauricio, mio marito, sa che grazie a lei ci siamo sposati e abbiamo avuto due figli splendidi.

La cosa è stata divertente, quando mi sono ritirata a riposare (loro sono già in ferie e sono rimasti seduti a lungo a tavola a conversare), con tutte le storie che corrono sul suo conto, compresa quella che mi riguarda, lo scoppio di risate generali non è stato un ha, ha, ha, ma è sembrato piuttosto un hua, hua, hua.

Le spiego tutto questo perché è giusto che lei conosca gli effetti della sua buona azione di ieri. A questo punto non sarà necessario dirle che non sono né timida né prudente, e poiché non bisogna aver paura di chiedere, al ritorno dalle vacanze, così come lei aveva precisato, le chiederò un appuntamento: Boadas, El Viejo Paraguas… ma scelga lei il posto, mi piacerà di certo (no, non ha alternativa).

ROSSELLA (seduta sulle scale a riempire un carnet de bal)

Dimenticavo di dirle che parto per le vacanze, anche se un po’ in ritardo. Le voglio dividere, perché adoro prendermi un paio di settimane a Natale e un altro paio in primavera. Potrei prendermi tutti i giorni che voglio in quanto moglie del padrone e coproprietaria, ma devo dare il buon esempio. Al mio ritorno le darò, brevi manu, i miei ultimi apprezzamenti critici sul suo attonito comportamento a Madrid in seguito all’omicidio di Conesal, spero possibile un incontro. Lei e io siamo complici, condividiamo un segreto, o almeno così credo. Non sa quanto mi pare bella la vita, mi piacerebbe tanto farla sorridere (ha sempre un’espressione così severa e schiva…). Dove passa le sue vacanze? Sicuro che le frammenta o forse se ne va a recuperare un qualche paesaggio della memoria. Anch’io provo questo bisogno. Dimentichiamo per un attimo i boleri (anche se io li trovo bellissimi) e ascolti quel che sta suonando ora la mia radio: canta Azúcar Moreno:

…dà una mossa al tuo corpo

ah! accidenti!

si vive una volta sola

si vive una volta sola…

Adesso può rimettere Vivaldi (se è questo che vuole), ma per stare in cielo e ascoltare il mormorio delle acque e il cinguettio degli uccelli… ci sarà tanto tempo, qualcosa di simile a un'eternità.

NOTA: spero di non lasciare il suo fax senza carta; ma la cosa che più mi preoccupa è di annoiarla, di seccarla. Non posso che esonerarla dal suo senso di cavalleria chiedendole di non evitare di essere chiaro, e immediatamente vi porrò rimedio (a ripensarci, si limiti a insinuarmelo, altrimenti morirò di vergogna).

Lluquet i Rovelló assomigliava più a un’erboristeria vecchio stile che a un negozio specializzato nella nuova salute, pieno di pastiglie alla fibra contro la stitichezza e di erbe medicinali contro il colesterolo, l’ipertensione e il glucosio. Le pareti erano semplici scaffali di legno in toni di un marrone tipo coro cattedralizio, con vasi di ceramica antichi o presunti tali che in ogni caso cercavano di mettere in scena un’immaginata età dell’oro in cui gli esseri umani erano quasi immortali grazie alle erbe medicinali. Il negozio ricordava quello in calle Botella negli anni quaranta, scomparso poi nei cinquanta per diventare un posto tanto insignificante che Carvalho non riusciva manco a ricordare. O era una merceria i cui proprietari gli diedero prova della loro solidarietà quando la polizia lo arrestò per la prima volta? Il nome del negozio per Carvalho era trasparente, ma forse non diceva niente alle nuove generazioni, e nemmeno a quelle un po’ meno nuove lontane dalle ambientazioni culturali del catalanismo del dopoguerra. Lluquet e Rovello erano i nomi di due personaggi centrali de I pastorelli di Folch i Torres, commedia con canto natalizio incluso sull’ipotesi, per certi versi non scartabile, che il Bambin Gesù fosse nato in Catalogna e che i due pastori accorsi per primi ad adorarlo fossero i pusillanimi Lluquet e Rovelló, due cacasotto che non sanno avere la meglio sulle astuzie del diavolo. Nei momenti iniziali di un timido recupero della lingua catalana, il franchismo aveva tollerato la rappresentazione del lavoro in teatri dipendenti da centri parrocchiali e gli attori solevano permettersi qualche “verso infiltrato” sovversivo. Carvalho ricordava lo sdegno del diavolo, ancora una volta sconfitto da san Michele Arcangelo, talmente sconfitto da starsene steso per terra con l’arcangelo che gli premeva il piede sulla nuca. Il povero Belzebù alzava appena la testa per gridare:

Miquel! Miquel! Sembles el Real Madrid, que sempre voi guanyar!”. [Michele! Michele! Sembri il Real Madrid, che vuole vincere sempre!]

Chiamare Lluquet i Rovelló una copertura dello spionaggio patriottico denunciava la memoria culturale del proprietario, fosse un privato o un’istituzione. Carvalho non volle bruciare la parola d’ordine o il contratto ed entrò nel negozio a curiosare, preso da seri dubbi sulle erbe medicinali che poteva appoggiare a una vecchia lettura del Dioscoride, il libro sacro sulle piante che non si levava da sotto gli occhi un prozio anarchico venditore di noccioline americane all’arena Monumental. La capocommessa aveva l’aspetto da vedova nazionalista e mediterranea del Nord, ben nutrita e linda, intraprendente ma non con la prepotenza delle vedove agnostiche liberatesi dal peso del marito, bensì con la modestia di una vedova che suppone sempre il marito asceso nel cielo dei catalani intento a ballare la sardana tutte le domeniche e all'ascolto delle partite del Barça trasmesse dalla voce di Joaquim Maria Punyal. Carvalho, fin dall’infanzia, aveva avuto la segreta convinzione che non vi fossero vedove come quelle catalane. Paragonate alle vedove dell’immigrazione, le catalane erano mediterranee ma in versione nordica, ormai libere dalla costrizione del lutto e del pianto greco. Carvalho le confidò una sua vecchia curiosità, di vedere da vicino e conoscere la virtù della zizzania, pianta maledetta della cultura giudeo-cristiana, utile nell'immaginario come il male contrapposto al bene, come la mala erba che cresce più del frumento e di cui bisogna aspettare la crescita per poterla identificare e divellere.

“Non possiamo tenerla, la zizzania: è un’erba velenosa.”

“Nemmeno per uccidere i topi?”

“La zizzania è ricca di temulina e basta un solo grammo di questa sostanza per far fuori un gatto di due chili.”

“Io il gatto nemmeno ce l’ho.”

La donna stava per perdere la pazienza e Carvalho nel frattempo ispezionava il negozio, visitabile tutto quanto escluso un corridoio che si perdeva in un fondo di oscurità. Entrò una coppia di ragazzi che quasi senza degnare di uno sguardo le commesse si addentrò nel corridoio fino a esserne inghiottita dalle ombre. Immaginò che sotto i banconi ci fossero dei registratori perennemente accesi o boccette di curaro utilizzato dalle migliori spie per uccidere a distanza.

“Il nome del negozio mi ricorda un’opera teatrale in cui recitavo al centro parrocchiale da bambino.”

La donna cominciava a guardarlo con interesse.

“Meno male che qualcuno se n’è accorto. Sono in pochissimi a notare il rapporto tra il nome e I pastorelli. Che parte faceva?”

“Il diavolo. Il diavoletto, per la precisione. Il diable golut, cioè goloso, perché da bambino ero cicciottello e mi presentavo vestito da diavoletto dicendo più o meno: Jo sóc el diable golut / i amb les meves temptacions / no es poden comptar / oh, no! / els homes che jo he perdut [Io sono il diavolo goloso / e con le mie tentazioni / non si possono contare / oh, no! / gli uomini che ho mandato in perdizione]. Ciascun diavoletto impersonava un peccato capitale e il lussurioso, per esempio doveva fare la faccia lasciva, ma senza esagerare, perché il regista, il signor Solé, era un gran baciapile. Erano tempi bui. A me bastava essere un po’ ciccio.”

“Io avevo fatto la parte della Madonna e mio marito, riposi in pace, che era già gioielliere, quella di san Michele Arcangelo, perché anche da giovane era un omone e gli stava benissimo il costume da romano. Io invece ero una piuma e avevo il vitino da vespa. Gli arcangeli recitavano vestiti da romani, e la cosa mi sorprendeva sempre. Perché mai gli arcangeli apparivano vestiti da romani, quando i romani erano i tiranni dei giudei, dello stesso Cristo? Era come recitare vestiti da Guardia Civil, non le pare?”

“Erano tempi molto militarizzati. Tutti avevano la loro divisa, di un tipo o di un altro, persino gli arcangeli catalani dovevano per certi versi avere un aspetto franchista.”

Ma i ragazzi stavano uscendo e Carvalho salutò la vedova come preso da una fretta improvvisa.

“Mi spiace non poterla aiutare con la zizzania, che in catalano si chiama zitzània o jull o càgola. Lo tenga a mente.”

I ragazzi lo precedevano soltanto di mezzo caseggiato, ma si incamminarono verso due moto parcheggiate sul marciapiede. Carvalho prese un taxi al volo dicendo al tassista di aspettare la partenza delle moto per seguirne almeno una.

“Come nei film?”

“Sono una spia.”

II tassista lo esaminava dallo specchietto retrovisore.

“Oggi lo spionaggio è molto cambiato. Mi dedico a seguire la gente che fa tardi al lavoro, per esempio, perché li possano licenziare in tronco.”

“Che puttanata.”

“Così è la vita. Così è la modernità. Così è il capitalismo selvaggio.”

A un tratto gli era tornata in mente la musica natalizia che cantavano durante l’apoteosi dei Pastorelli o dell’Avvento del Bambin Gesù: El mes de maig ja ha vingut, senza ser-hi encara, che i discoli ragazzini del quartiere iscritti all’Azione Cattolica per giocare a ping-pong trasformavano in un blasfemo: El desembre congelat / n’ha congelat la fava / al matí quan m’he llevat / no me la tobava. [Il mese di maggio è arrivato, e non è ancora maggio. Versione blasfema: Il dicembre congelato / mi ha ghiacciato la fava / il mattino appena alzato / non l’ho più trovata]

“Mi pare che uno si stia fermando.”

“Allora si fermi pure lei.”

Un motociclista piantò la moto in plaza de Sant Jaume e Carvalho scese dal taxi, lo seguì lungo calle Ciutat, poi svoltò verso plaza de Sant Just e andò dritto per un vicolo per entrare poi in una palazzina medievale con il grosso portone spalancato. L'antico atrio per le carrozze ospitava due scale, una a destra e l’altra a sinistra. Anche se le silenziose scarpe sportive dell’inseguito non indicavano quale scala stessero salendo, Carvalho percepì la presenza umana, qualcosa come il vuoto lasciato nell’aria da un corpo in movimento, e salì per la scala a destra. Il ragazzo lo pre­cedeva di due piani e stava già per entrare in un appartamento, per cui Carvalho accelerò e raggiunse una porta che sembrava aperta. Tastò con la mano per verificare fino a che punto fosse aperta e infilò la testa in un interno buio. Una forza contundente lo spinse da dietro e lo introdusse nell’oscurità senza che il detective avesse più il controllo del proprio corpo, gettandolo a terra e dandogli solo il tempo per proteggersi la testa da un possibile colpo. Mollò calci nell’oscurità, caso mai i calci centrassero qualcuno, ma era solo il buio a riceverli, un buio che non durò a lungo. Una potente luce dal soffitto lo rivelò in ginocchio che cercava di rialzarsi circondato da quattro giovani uomini travestiti da motociclisti estivi: magliette Calvin Klein, jeans e scarpe sportive. Uno di loro aveva una mazza da baseball in mano, ma qualcuno levò la sicura da una pistola e Carvalho aspettò che la canna gli venisse poggiata alla tempia o alla nuca. Era prevedibile, e accadde. Quando notò il contatto del cerchio metallico sulla tempia, domandò:

“Posso alzarmi?”.

Nessuno glielo impedì e la punta della pistola seguì i suoi movimenti. Aspettò che qualcuno dicesse qualcosa, ma questo non accadde, per cui si considerò costretto a presentarsi.

“Mi chiamo Pepe Carvalho e sono un detective privato.” Restarono muti e continuarono così finché si aprì una porta sulla sinistra e apparve un uomo con la faccia arrabbiata che indossava una tuta da ginnastica. Gli si avvicinò esaminandolo con un’espressione a metà strada tra il neutrale e il disgustato.

“Perché ha seguito questi ragazzi? È forse dell’altra sponda?” “Non so da cosa deduce che li ho seguiti.”

“Li ha seguiti da Lluquet i Rovelló, dove è entrato a chiedere informazioni su un’erba, la zizzania. Un interesse non molto comune.”

“Avevo un prozio anarchico che vendeva noccioline americane all’arena Monumental, appassionatissimo di piante. Mi pare che fosse vegetariano e teosofo.”

“Chi le ha indicato Lluquet i Rovelló?”

De bon matì quan els estels es ponen…"

Era riuscito a sconcertare l’uomo in tuta.

“Lei in negozio questa frase non l’ha pronunciata. Si è limitato a ficcarci il naso. Chi le ha dato la parola d’ordine?”

“Chi è in grado di darmela. In realtà ho voluto controllare la situazione, una prima visita per conoscere il posto, i suoi possibili punti deboli. Per esempio, il fatto che entrino due ragazzini senza aprir bocca e si caccino dentro, come fossero di casa…”

“Sono di casa.”

Ma l’uomo in tuta da ginnastica era incazzato e non con Carvalho, perché si mise a bestemmiare in catalano e ad accusare qualcuno di essere un rompipalle che non rispettava il territorio altrui, che non sapeva delegare il lavoro e…així no anem enlloc [Così non andiamo da nessuna parte]. Uno dei presunti motociclisti cercò di tranquillizzarlo.

Son coses d’en Quimet. Ja el coneixes.” [Sono cose del Quimet. Lo conosci.]

Quin collons de servei d’informació és aquest?” [Che cazzo di servizio di informazione è questo?]

Consapevole di avere informato fin troppo riprese il contegno e invitò con un gesto il coro a sparire, ormai solo con Carvalho gli propose di seguirlo fino a un salotto senza finestre né altro elemento estraneo alle due sedie che l’occupavano, se non una mappa dei Paesi Catalani che copriva metà parete.

“Quanto tempo fa è stato contattato?”

“Da poco.”

“Non parla il catalano?”

“Non abitualmente. Ma lei può parlarlo.”

“No. Mi fa bene usare il castigliano. Mio padre era di Jaén, in Andalusia, e se lei lo sentisse… Più catalanista di me. Siamo nella stessa barca. Una barca con sempre più gente, signor… Come ha detto che si chiama?”

“Carvalho.”

“Ma certo! Lei è Pepe Carvalho. Poi le chiederò un autografo, altrimenti mia moglie non crederà che l’ho incontrata. Bene, come le dicevo, siamo sempre di più su questa barca, ma dove ci porta?” “Viviamo tempi di incertezza.”

“Dice bene. Vivremo mutamenti che ci lasceranno stupiti. Io prevedo addirittura la caduta dell’impero americano, e sarà qualcosa di terribile perché rimarremo senza un fattore determinante di dissuasione e il pianeta cadrà nell’anarchia più totale. Ma quando arriverà quel momento, bisognerà che le nuove strutture nazionali siano ben solide. La crisi del grande capitalismo viene superata se le piccole imprese funzionano, non crede? Lo stesso si può dire della crisi delle grandi potenze, della caduta delle nazioni- stato egemoniche per oltre quattro secoli. Sarà allora che arriverà il momento delle piccole nazioni represse e rimandate.”

Si sentivano delle voci che gridavano nella sala d’ingresso e Quimet entrò nel salotto contrariando l’uomo in tuta, contrarietà presto superata, tant’è che l’ultimo arrivato fu accolto come un capo. Quimet propose a Carvalho di accompagnarlo. Uscirono in strada ed entrarono nel primo bar che trovarono, seguiti da uno dei ragazzi motociclisti. Quimet ordinò un bitter analcolico e Carvalho uno sherry secco, alcolico, sottolineò. Se nel fondo della voce di Quimet restava qualche relitto dal naufragio del rimprovero, il tono era pacifico, mentre lo accusava di non aver rispettato il rituale della parola d’ordine. È il mio modo di lavorare, obiettò Carvalho. Voglio fare il sopralluogo degli esterni prima del ciak, e per di più ero soprappensiero per via delle indagini sul caso dell’omicidio del ragazzo Mata i Delapeu. Mi trovavo lì per caso. Un altro giorno ci andrò apposta e dirò la parola d’ordine.

“Perché non me ne aveva parlato? Sulle sette abbiamo un servizio splendido: sette religiose, estrema destra, droghe e corruzione preventiva.”

“Al margine della polizia di Stato e della polizia dell'Autonomia, investighiamo, diciamo così, per conto nostro. Indaghiamo su casi che possono dimostrarci il comportamento delle alte cariche, ma senza renderlo pubblico, per non screditare la poca struttura della sovranità, del potere nazionale. Si tratta quasi sempre di rapporti extraconiugali, la carne è debole. I panni sporchi vanno lavati in famiglia. Si avvicinano le elezioni e possiamo perderle, tutto dipende da noi, non dobbiamo fare sciocchezze e dare punti al nemico. I corrotti non devono essere come pietre buttate sul nostro stesso tetto. Ma, soprattutto nel caso del giovane Mata i Delapeu possiamo metterla sulla buona strada.”

“Lei conosce Jordi Anfrúns, il sociologo?”

Quimet poteva fingere di essere radicalmente sorpreso, e così fece per qualche minuto mentre cercava di scoprire come Carvalho avesse potuto associarli.

“Bene. Vedo che a lei, Carvalho, piace muoversi per conto proprio. Anfrúns è un esperto in questioni religiose e mi servo delle sue conoscenze. Quest’è quanto. A proposito, ha qualcosa in contrario a viaggiare in moto come passeggero?”

Carvalho negò con la testa e Quimet lo lasciò qualche istante per parlare con il motociclista rimasto a prudente distanza a bere un succo di pomodoro. Tornarono insieme.

“Ecco il suo motociclista. La condurrà in un posto sicuro.”

Il motociclista apparteneva alla setta dei kamikaze schivatori, capaci di superare macchine di ogni tipo, in ogni situazione, anche a costo di strappare al suo passaggio tutti gli specchietti retrovisori e gli insulti degli automobilisti. Carvalho smise di prevedere e controllare le piccole distruzioni e si concentrò sul paesaggio fuggente che gli veniva incontro, mentre meditava sulla condizione carvalhiana della vita che può portare un prepensionato di rispetto alla posizione teorica di pacco su una Suzuki guidata da una spia catalana quasi adolescente, e probabilmente una spia adolescente sensibile e puritana, con il solo vizio del succo di pomodoro, del pane al pomodoro e dell’insalata di pomodoro. Curioso che i due segni dell’identità catalana, il pane al pomodoro e la sardana, non fossero diventati fenomeni sociali dopo la prima metà del XIX secolo. Sia la sardana sia il pane al pomodoro facevano parte della comunione emozionale di Carvalho con il paese, colpito fin da bambino dalla maestosità della danza e dalla riuscita intelligenza del pane unto d’olio e spalmato di pomodoro. La moto andò verso il quartiere d’Horta per fermarsi in una strada dove sopravvivevano alcune ville con giardino, a volte già presidiate dal cartello con l’insegna dell’azienda demolitrice. Ma fu una villa piuttosto ben messa quella scelta dal guidatore, una che aveva sulla porta un’insegna che diventava un invito all’enigma: Enigma S.p.A. Com’è possibile che un enigma costituisca una società anonima? Superarono una mezza dozzina di gradini di marmo eroso ed entrarono in un lungo corridoio sul quale si aprivano stanze con insegne: Esercito della Salvezza, Pentecostali, Testimoni di Geova, Darbisti, Scientology e Rosacroce, Christian Science, Spiritisti, Quaccheri, Bambini di Dio, Satanici, Nuovo Design, Catari, Islamici, Orientale ed EPC. Indubbiamente si trovava in una specie di piano dedicato alla religione da grandi magazzini, Corte Inglés, Macy’s o Galleries Lafayette. Il motociclista gli chiese di aspettarlo ed entrò nella stanza dell’EPC. Uscì poco dopo accompagnato da un prete con il clergyman, piccolino, rotondetto e imbronciato che farfugliava qualcosa di incomprensibile che Carvalho suppose indirizzato a lui. Il prete scelse la stanza satanica e aprì la porta a Carvalho. All’interno c’erano soltanto due sedie, una scrivania con l'indispensabile computer e una serie di archiviatori. Seduta su una sedia lavorava una ragazza notevolmente somigliante al prete, ma con i capelli rossi. Tanto somigliante da non poter essere che sua figlia o sua nipote, fatto che il prete doveva sapere benissimo perché disse:

“La signorina Neus, mia nipote”.

Neus lavorava con estrema efficienza, a giudicare dall’impegno con cui cercava di inserire o togliere qualcosa dal computer.

“Stampami il caso Ruidoms.”

Le dita di Neus non si staccarono dalla tastiera finché dalla stampante non cominciarono a uscire fogli di carta a impulsi di tosse asmatica. Una volta stampati, il prete prese in mano i fogli come se si trattasse di un rapporto trascendentale sul bombardamento dell’Irak o del Kossovo nelle prossime ore, lo scorse con occhi sagaci e vi tracciò dei cerchi con la matita rossa. Poi fece cenno al detective di avvicinarglisi e con una voce bassissima e continua, come se stesse pregando, gli diede qualche spiegazione.

“Può leggere tutto il rapporto, è questo che Manelic mi ha detto.”

Manelic. Chi era Manelic? Ma il prete non sembrò far caso dell’evidente sconcerto di Carvalho.

“Badi soprattutto ai cerchi rossi. Se ha qualche dubbio che Neus può chiarirle, glielo chieda. E se non glielo chiarisse, venga a cercarmi dove mi ha trovato.”

Carvalho si sedette mentre il prete se ne stava già andando e colse un piccolo gesto inteso a guardarlo per intero e valutarlo. La ragazza aveva occhi belli e miopi con le pupille sottolineate dalle lenti a contatto, e la pelle piena di efelidi. Carvalho lesse due volti il breve rapporto e prese qualche appunto che l’aiutò a farsi un riassunto personale: Testimoni di Lucifero. Setta satanica fondata da Albert Pérez i Ruidoms a partire dalla teoria che la luce del mondo si estinse con la caduta del cosiddetto Angelo del Male, Lucifero, e che tornerà soltanto quando una nuova negazione negherà una civiltà negativa dove quanto viene proposto come Bene non sa definirsi che come contrario al Male, la sola cosa esistente per davvero. Lucifero acquisisce una consistenza simbolica sovversiva, per cui la setta predica la creazione di una rete di disubbidienza civile e cerca di essere presente fra i movimenti di squatter e dei neoanarchici in generale. Dopo avere indicato Pérez i Ruidoms come un responsabile di rilievo della setta e la vittima Alexandre Mata i Delapeu come suo compagno sentimentale, il caso veniva risolto come un regolamento di conti tra gruppi imprenditoriali e lasciava a Manelic il chiarimento della faccenda. Quimet? L’uomo in tuta? Il prete? Se tutti questi argomenti venivano liquidati in circa cinque cartelle, le rimanenti dieci parlavano della posizione dei Testimoni di Lucifero nei confronti della rivendicazione nazionalista catalana e delle nazioni senza stato. In qualche punto il soggetto trattato era strettamente il nazionalismo catalano ma, andando avanti, chi l’aveva redatto citava sempre più il movimento internazionale delle nazioni senza stato e la disponibilità dei Testimoni di Lucifero. Manelic veniva menzionato come un’autorità. Vale a dire che l’uomo-chiave era Manelic.

“Lei conosce Manelic?”

“Come dice?”

La ragazza con le lentiggini e i capelli rossi aveva sussultato per il solo fatto di essere interpellata.

“Nel rapporto consegnatomi dal sacerdote appare un certo Manelic, e le volevo chiedere se è in grado di mettermi in contatto con lui.”

“Non so chi sia. Io mi limito a navigare su Internet.”

“Le conviene uscire dalla rete. Ha il viso pallidissimo. Per conto mio, appena avrò appurato chi è Manelic, me ne andrò a fare il bagno alla Barceloneta o alla Villa Olímpica. Non l’attira l’idea?”

Non c’è scampo, pensò Carvalho, o ti guarda con il distacco che si meritano i tuoi anni o si mette a ridere. Era arrossita o fece un risolino.

“È gratis e tonificante. Forse non oggi, immagino già che mi sarà difficile raggiungere Manelic, ma domani… A che ora finisce di lavorare?”

“Non ho un orario fisso.”

“Allora decida lei. Alle due?”

“Va bene.”

La ragazza sembrava sorpresissima di quanto le usciva dalle labbra.

“Passerò a prenderla.”

“No. No. Non siamo autorizzati a dare appuntamenti in questa sede a estranei. Andrò dove mi dirà lei.”

“Ai piedi della Torre Mapfre alle due. Venga con il costume da bagno, sotto i vestiti, si capisce, altrimenti si dovrebbe cambiare nel parcheggio. Io le cederei la mia auto con molto piacere. Come si chiama?”

“Margalida.”

“Suo zio mi ha detto che lei si chiama Neus”

La ragazza si era portata la mano alla bocca e soffocava le risate. “Neus è il mio nome di battaglia.”

Continuava a trattenere il riso.

“Intuisco che lei non si chiama Neus e che suo zio non è suo zio, anche se vi somigliate. Come ci siete riusciti? Avete in cantina un laboratorio d’ingegneria genetica? Ma mi piace il suo nome Margalida. Bellissimo. Quando ero una persona colta conoscevo una canzone in catalano in cui si parla di una Margalida sventuratissima. Poi ho smesso di essere colto e ora mi piace soltanto andare in spiaggia d’estate e in inverno cucinare fino a notte fonda. Le piace mangiare bene?”

“E cucinare. Ho seguito i corsi della scuola Hoffman e ho assistito a diversi congressi di cucina catalana.”

La ragazza dai capelli rossi meritava ogni deferenza, ma probabilmente suo zio era la persona più indicata per informarlo su Manelic. Bussò alla porta dell’EPC e la voce del prete lo invitò a entrare. Non faceva più il prete o almeno non vestiva più da prete. Portava qualcosa di simile a una di quelle camicie cubane dette guayabera, jeans estivi e sandali come se non avesse indossato altro per tutta la vita. Quell’uomo aveva un certo dono per la trasformazione e Carvalho ricordò un ispettore dei fumetti chiamato Mortadelo, capace di diventare un lampione o un lombrico, se la cosa diventava necessaria per il progredire delle indagini.

“Ho le idee più chiare, ma a quanto si deduce dal rapporto devo incontrare Manelic.”

“A quale scopo?”

“È risaputo che l’omicidio del giovane Mata i Delapeu si deve a una congiura tra gruppi di pressione, ma la madre della vittima vuole scoprire chi le ha ucciso il figlio, guardarlo in faccia e domandargli: perché hai ucciso mio figlio? La donna crede al sentimento tragico della vita, una tendenza spagnola che ritenevo superata, soprattutto in Catalogna. A quanto pare l’assassino è un sicario, ma io non posso tornare dalla cliente e dirle: Signora, suo figlio è stato ucciso da un professionista. Devo dirle qualcos'altro. Le cause. I colpevoli che hanno agito dietro istigazione. Suppongo che Manelic mi possa illuminare.”

“Manelic non è visibile. Come lei può certamente capire, questo non è un centro escursionistico e ci hanno già sfottuti a sufficienza nel passato. Vogliamo essere un servizio di individuazione di correnti spirituali serio. Ma cercherò di aiutarla. Le farò arrivare qualche indicazione in grado di metterla sulle tracce di Manelic.” L’udienza era finita e ormai con metà corpo in corridoio, Carvalho puntò il dito sulla scritta incisa nel vetro molato.

“EPC. Ha qualcosa a che vedere con la tributaria?”

Il trasformista grugnì e rispose laconico.

“Església Països Catalans. E nel caso non lo capisca, glielo traduco: Chiesa Paesi Catalani.”

Non aveva ricevuto indicazioni dal responsabile dell’EPC, e nemmeno dalla strana corrispondente del fax. Era veramente partita per le vacanze e non era il caso di farle sapere che lui non se le sarebbe godute. Almeno quindici giorni di silenzio e oblio. Forse le vacanze servivano a quello, a smettere di tormentarlo. Indossò il costume da bagno ed evitò di rispondere a Biscuter che voleva sapere se avesse visto Charo.

“Ha telefonato tre o quattro volte.”

Era un rimprovero. Biscuter temeva che Carvalho mandasse a monte il suo lavoro di ruffiano.

“Non conviene forzare le cose.”

“La capisco, capo. Devo informarla che, una volta finito il corso che sto seguendo su ‘globalizzazione e sviluppo’, intendo iscrivermi a un altro corso sui catari”.

“Su che cosa?”

“Una religione che è uno schianto, antichissima. Difende i poveri dai ricchi ed è contro le gerarchie. Inoltre, i catari si lavavano più degli altri cristiani, erano più puliti e lei sa già, capo, che io ho un debole per la pulizia. Odiavano uccidere gli animali, se ne trovavano qualcuno caduto in trappola lo facevano scappare e pagavano un indennizzo al cacciatore. Che gliene pare di questa religione?”

“Una religione è una religione. Tu quoque, Biscuter?”

“Ma questa religione detesta il male più di qualsiasi altra, è quanto mi hanno detto. Una specie di anarchia religiosa avant la lettre. Ero nella metro quando una ragazza catara, bionda e con le trecce, mi ha allungato un dépliant. Ma si sa… ne touchez pas la femme.”

Biscuter adorarava inserire espressioni francesi da quando era stato a Parigi, nel 1992, per frequentare un corso di zuppe e salse.

“Adesso che il comunismo non c’è più, capo, e non possiamo più aspettare che Chruščev o la Pasionaria vengano a salvarci in moto, forse bisogna cavarsela in altra maniera. Ha presente il Lausín? Quel rapinatore che avevamo conosciuto in carcere? Ma sì, quello che era una specie di uomo ragno in grado di arrampicarsi sui muri e diceva sempre: un giorno verranno Chruščev e la Pasionaria in moto e ci porteranno tutti via da qui.”

Ricordava. Lausín aveva una strana fiducia in Chruščev e nella Pasionaria che lo avrebbero liberato dal carcere o dalla condizione di delinquente. Quel che fu e continuava a essere un mistero era perché dovessero arrivare proprio in moto fino alle porte della galera. Piuttosto complicato per la Pasionaria, lei che portava sempre le gonne lunghe fin quasi ai piedi.

“Ecco, Lausin è molto invecchiato, ma si è fatto cataro.”

“Per me, puoi anche farti ‘Cittadino per il cambiamento’.” “Anche a questo mi sono iscritto, vediamo un po’ se riusciamo a battere Pujol e i catalanisti alle elezioni. Io sono catalano come nessuno, ma ormai sono stufo di tanto nazionalismo. Perché i nazionalisti sono tanto nazionalisti? Perché sono tanto rompipalle e tanto unidimensionali?”

Carvalho fece spallucce desideroso che una simile risposta fosse buona per tutte le domande di Biscuter. La faccenda gli puzzava insieme di incenso e di zolfo. Erano tutti ammattiti, come se si fosse ritrovato un manicheismo essenziale tra Dio e il Diavolo, come fosse fallita ogni spiegazione dell’orrore o della stupidità del sopravvivere per morire che non fosse sottomesso all'integralismo religioso o tribale. L’attrazione del mare estivo gli comunicava una gioia laica per la quale non aveva bisogno di entusiasmo ideologico. Cercava una pura soddisfazione tattile, una profonda soddisfazione attraverso il sole e l’acqua, sempre più convinto del fatto che nell’uomo e in alcune donne la cosa più profonda è la pelle. Eccola lì, la nipote del finto prete. Capelli rossi ed efelidi come ventiquattro ore prima, ma libera dal travestimento da spia stile casereccio, per cui sfoggiava spalle nude, scollatura, minigonna. Cercarono le rampe che conducono al viale asfaltato che costeggia le sabbie delle diverse spiagge. Lei era eccitata all’idea avventurosa di fare il bagno in un mare così socializzato, circondata da gente tanto comune, la gente più bilingue che avesse incontrato da tempo. Quando Carvalho l'invitò a scendere sulla spiaggia della Mar Bella, lei lo seguì e appena ebbero steso il telo sulla sabbia, si tolse la minigonna e poi la camicetta per restare in slip e tette, e le sue tette imposero una presenza bianca e senza efelidi. Una presenza tonda ma altezzosa che si fece notare perfino dagli omosessuali usciti prima dagli uffici. Troppo giovane, si disse Carvalho. Devo sembrare suo nonno. Non poté fare a meno di verificare con la coda dell’occhio se per davvero chi guardava Margalida fosse arrivato a supporla sua nipote o un'infermiera specializzata in geriatria.

“Non posso prendere troppo sole perché ho la pelle bianchissima.”

Disse mentre si spalmava una crema protettiva che le lustrò la pelle e in particolare quelle tette per le quali la ragazza non sembrava avere abbastanza mani. Ben protetta, si sdraiò soddisfatta e accennò un sorriso a occhi chiusi, come se si stesse raccontando qualcosa di molto gradito. Carvalho le si era sdraiato accanto, appoggiato su un gomito, e cercava di guardare altrove finché la voce di lei lo costrinse a voltarsi. Ora aveva gli occhi miopi aperti. “Che cosa volevi che ti dicessi?”

Gli stava dando del tu.

“A cosa ti riferisci?”

“Non c’era altra ragione per chiedermi di venire in spiaggia con te. Vuoi sapere qualcosa. Senti, se vuoi che io sia sincera con te, anche tu devi essere sincero. Non sono una cretina.”

“Tutti quelli che passano dal tuo santuario ti chiedono di andare in spiaggia per cavarti qualcosa?”

“Pochi entrano in quel santuario. Se ti hanno lasciato entrare è per qualche ragione.”

“Tu lì che cosa fai? La patriota?”

“Mi guadagno da vivere.”

“Non sei una patriota.”

“Sono una lavoratrice ingaggiata per tre mesi. Se faccio bene il lavoro, mi tengono più a lungo. Se non mi comporto come si deve, mi sbattono la porta in faccia.”

Non è questo il modo di trattare un membro del servizio di informazione, pensò Carvalho, poi succede quel che succede, agenti doppi e tripli, rancorosi che vendono le notizie allo spionaggio napoletano o andaluso o gagliego o serbo o etiope. Troppo caricaturale. Era impossibile che la realtà fosse questa.

“Hai un’intuizione che definirei femminile. Sono molto interessato a sapere di Manelic. Chi è Manelic?”

“Questo non te lo posso dire, ho solo un vago sospetto. Lì nessuno si chiama come dice di chiamarsi. Teoricamente siamo un servizio di informazione sulle sette in rapporto non esplicito con la polizia autonomistica, ma non sono certa che la cosa finisca lì.” Perché tutto gli era stato tanto facile? La cosa si spiegava soltanto grazie al legame Charo-Quimet? Perché siamo un paese di sei milioni di abitanti in cui tutti ci conosciamo ed è impossibile nascondere alcunché, perfino alle spie? La ragazza non aveva un’opinione personale in merito e ascoltò Carvalho nella più assoluta neutralità. Margalida passò più tempo in acqua che a prendere il sole, e Carvalho la seguì alle docce pubbliche. La ragazza accettò poi l’invito per un piatto di riso all’astice nella Barceloneta, a Can Solé, un ristorante che aveva rispettato l'estetica di un quartiere di pescatori e il potere d’acquisto di dieci anni prima. A volte il padrone telefonava al detective, per esempio quando aveva delle espardenyes [Oloturie, cetrioli di mare] perché impreziosivano l’aroma finale di un riso fatto con il solito soffritto di seppie e cipolla abbrustolita. Margalida era una buona forchetta e una buona bevitrice. Guardava divertita gli sforzi di Carvalho per bere poco e riempirle invece il bicchiere quando era ancora a metà.

“Hai un non so che del conquistatore d’altri tempi.”

“Da cosa lo deduci?”

“Vuoi farmi ubriacare. Per farmi parlare. O forse per portarmi a letto?”

Una bella lenza. Fin troppo furba.

“Direi che io e te non finiremo a letto.”

“Perché?”

“Perché mi sembri una ragazza troppo sana, di quelle che prima che ti sei abbassato la Cerniera della patta ti hanno già infilato il preservativo. Io pretendo di farlo senza.”

“Tu lo fai senza il guanto? E l’Aids?”

“Se l’amore è una roulette russa, perché non il sesso? Quando mi infilano il preservativo sento che si crea una distanza che non me lo fa rizzare. Come se mi avessero marchiato il cazzo. Capisco che per gli atleti sessuali della tua età sia importante non beccarsi infezioni per andare avanti a votare in elezioni ed elezioni e costruire la patria e fare bambini e inalberare bandiere finché morte non vi separi. Ma io non ho più patrie trascendentali, non vado a votare e non ho più bandiere. Preferisco mangiare e scopare pericolosamente. Quando mi riesce.”

Gli parve che fosse affetto quel che si era profilato negli occhi di Margalida.

“Tu non sei arcaico, sei un protozoo.”

Carvalho si strinse nelle spalle.

“Devi sapere molte cose.”

“La mia specialità sono i satanici.”

“Allora devi sapere tutto sul caso Pérez i Ruidoms o Mata i Delapeu.”

“Hai sentito parlare del Monte Pellegrino?”

“No.”

“Il figlio, pur essendo un satanico, è un’anima benedetta. Il padre è tutt’altro discorso. Perez i Ruidoms padre fa parte di un gruppo chiamato Monte Pellegrino. Sono imprenditori, docenti universitari, banchieri, politici e li si suppone in contatto con una setta o qualcosa del genere chiamata la Trilaterale. Monte Pellegrino è in apparenza un distinto club privato, non solo per uomini d’affari, ma perfino per famiglie. Vi si tengono feste d’alto bordo. Da cinquantamila pesetas a testa in su. Presto ce ne sarà una di fine estate. È una copertura. Come è una copertura il Club Milton Friedman, con soci equivalenti ma radicalmente opposti ai Pérez i Ruidoms, ossia, da Mata i Delapeu. Si battono per il potere ovunque questo si presenti: nei partiti politici, nelle banche e perfino nel Barcelona Fútbol Club. L’assassino di Alexandre Mata i Dela peu sta per essere preso, ma non sarà l'assassino. Hai sentito parlare di Dalmatius? Non hai sentito parlare di nessuno. Ma tu, da dove sbuchi?”

“Dalla Transizione.”

“Dal Diluvio, insomma. Dalmatius è il gran trafficante di violenza salariata. Non è una persona sola. È un’altra organizzazione che controlla sicari ingaggiati solitamente nell'Europa dell'Est. Li fa venire. Malmenano qualcuno. Uccidono. Violentano. Incendiano un negozio e se ne vanno. Ma se la polizia ha bisogno di un arresto per salvare la faccia, Dalmatius ha un servizio di poveracci pronti a farsi incastrare per non essere espulsi dal paese. Mentre si prepara il processo, lo si svolge, restano qui, anche se in carcere, e così guadagno tempo. Ho parlato troppo. Mi hai presa per un agente doppio?”

L’aveva presa per un agente facile. Troppo facile. L'accompagnò a piedi fino al parcheggio di Torre Mapfre dove lei aveva lasciato la moto; nel salutarlo, Margalida gli si avvicinò al viso per baciargli le labbra e cacciargli la lingua in bocca, abbondante come le tette, ma a Carvalho non piacevano troppo le lingue abbondanti. Gli erano sempre sembrate lingue molli, commestibili, più adatte a uno stufato cannibale, addirittura a un carpaccio di lingua, che a un bacio. Aspettò che la ragazza entrasse nel parcheggio per correre verso la rampa di uscita. Con una mano chiamava un taxi, ma il corpo era girato verso il posto di controllo in attesa che Margalida apparisse in moto. Non apparve. Allora Carvalho licenziò l’adirato tassista dopo avergli pagato l’inizio corsa, andò veloce alle scale mobili che salivano fino al livello del ristorante Talia, e fece in tempo a vedere Margalida uscire dall’ascensore e camminare prima verso la spiaggia e poi verso la Villa Olímpica. Carvalho la seguì fino alle biglietterie dei cinema multisala Icaria dove l'aspettava l’inevitabile Anfrúns.

Avrebbe giurato che Anfrúns l’aveva visto e che gli rivolgeva un sorriso apparentemente involontario. Dopodiché la coppia entrò in una delle cinquemila sale cinematografiche del complesso.

Cercò di agguantare il bambino volante che avanzava nello spazio verso i razzi, in una mano teneva dei piccoli bengala e nell’altra una pietra coperta di polvere da sparo. Era lui stesso mezzo secolo prima. Veglione di san Giovanni. Odore di fuochi d'artificio a buon mercato del dopoguerra. Razzi in lontananza e, vicini, alcuni petardi inseguivano le magre gambe delle ragazze, i bengala si limitavano a lanciare scintille sui muri. Qualche vulcano di legno o cartone sui balconi e negli incroci delle strade senza traffico, i falò. La musica della radio.

Il gitano Andrés

andò su tutte le furie

prese la moglie

e la buttò nel pozzo.

Il giudice gli chiese

perché le hai fatto male

e lui rispose

per farle fare un bagno.

Ah, signor Colombo!

Ah, signor Colombo!

vede come va il mondo.

Ah, signor Colombo!

I gitani del bar Moderno non trovavano nulla di sbagliato nella canzone. Sapevano di aver perso la battaglia contro i bianchi, i payos nella loro lingua, in anni paralleli alla sconfitta dei neri, dei lupi e delle formiche. Sudori ascellari, gassosa con birra, odore di fuochi d’artificio che poteva essere un avanzo di quello della Guerra civile. Adesso, nel 1999, arrivava fino a Vallvidrera uno strepito di veglione dalla parte del Vallés, i razzi partivano dal bel mezzo dei boschi rimasti a Sant Cugat e non potevano essere che quelli del veglione di addio all’estate del signor Pérez i Ruidoms. Ma il veglione dell’infanzia continuava a sovrapporsi e il forno della signora Maria odorava di focaccia dolce da quattro soldi, o forse era l’odore di una focaccia cotta da sua madre con la ricetta di una venditrice del mercato di Sant Antoni o della pasticceria Petitbó. Abbandonò il terrazzo, belvedere sulla città, ed entrò in camera. Charo dormiva. Sul comodino accanto a lei era rimasto un bicchiere di champagne mezzo vuoto e Carvalho andò in sala da pranzo per riprendere la bottiglia di Bollinger lasciata nel secchiello con acqua e ghiaccio. Prese qualche sorsata direttamente dalla bottiglia e la restituì al suo sortilegio ghiacciato, uscì in giardino e poi in strada per prendere l’auto e scendere fino alla plaza de Vallvidrera. Passando davanti alla casa di Fuster vide la luce accesa e suonò il clacson. Fuster si affacciò con un’espressione più da sonno che da voglia di festeggiare.

“Si fa baldoria?”

“Fingo di fare baldoria. Dove vai?”

“Al lavoro.”

“Al lavoro a quest’ora?”

“Il male non dorme mai. Uno di questi giorni passerò da te per parlare di religione.”

Lasciò Fuster perplesso e proseguì fino a infilare la strada che scende verso Les Planes e il Vallés. I razzi scoppiavano di tanto in tanto sempre nello stesso cielo, come stelle comete che indicano la strada per Betlemme, i cani ululavano inquieti e con l’udito frastornato dalle esplosioni, Carvalho aveva nel sangue quasi un’intera bottiglia di Bollinger. Scese verso la stazione di Vallvidrera e poi prese per l’autostrada di Sant Cugat, ma non entrò in città. Non rispettò l’insegna “Strada privata” e si introdusse aprendo con i fari un tunnel di notte e vegetazione bianca in cui ogni tanto apparivano abbagliati dei cartelli con l’indicazione “Casa Borau”. La strada asfaltata era in discesa e vide immediatamente una spianata adibita a parcheggio per un centinaio di macchine e più in là un’illuminata casa di campagna residenziale con i merli da cui partivano i razzi con ambizioni da Via Lattea. Due uomini del servizio di sicurezza si avvicinarono al finestrino.

“Può mostrarci l’invito?”

“L’ho dimenticato, ma sono ospite del signor Pérez i Ruidoms.”

“Il suo nome, per favore.”

“Pepe Carvalho i Tourón.”

Non sembravano impressionati dalla catalanizzazione del nome e parlarono con qualcuno mediante walkie-talkie. Poi gli chiesero di parcheggiare fuori dalle file delle altre auto, lo invitarono a scendere e ad aprire bagagliaio e cofano. A quel punto erano già stati raggiunti da un gorilla più alto e più grasso vestito da maggiordomo da film sui ricchi in vacanza ai Caraibi. Il signor Pérez i Ruidoms lo stava aspettando. Ma non era vero. Il maggiordomo lo introdusse in un salone dove una ventina di coppie di mezz’età ballava musica suonata da un’orchestrina sotto un cielo di ghirlande di carta colorata, e lo lasciò lì promettendogli di tornare con Pérez i Ruidoms. Sulle facce, né estasi e nemmeno entusiasmo festaiolo, come se fossero stati ingaggiati per ballare a ritmo corretto delle canzoni corrette, nonostante ogni tanto qualcuno lanciasse una manciata di coriandoli con la porporina o tacesse peppé con una trombetta di cartone.

Ma da un qualche luogo arrivavano i bicchieri e le svariate focacce, per cui seguì la traccia di un cameriere di ritorno e passò in un ingresso dove c’era l’intendenza: un tavolo lungo coperto di vassoi con pezzi di focaccia e bottiglie di liquori e altri alcolici fiancheggiati da due secchielli dove venivano sostituite di continuo bottiglie di spumante locale, uno spumante dai cognomi ignoti, uno di quegli spumanti che spuntano fuori ogni quindici giorni, frutto dell’entusiasmo produttivo di qualche ottimista con voglia di fondare una dinastia avallata dall’antichità, la terra e il vino. Pérez i Ruidoms non si presentava, e Carvalho si infilò in un corridoio che portava alla zona della quiete dove quartetti e coppie parlavano sul baco del Millennio e su dove passasse il passaggio dei secolo.

“Voglio andare dove spunta prima il sole, per vedere la prima luce del Millennio.”

“Meraviglioso.”

Gridò una signora trascinando le sillabe con lo stesso entusiasmo con cui solitamente trascinano gli aggettivi le persone diffìcilmente emozionabili. Troppa normalità per una tal casa e tali convenuti. Alla sua destra vide una scala con balaustra di granito rosa e vi salì fino ad accedere a un pianerottolo anch’esso con balaustra ma sulla pista da ballo, collegata a quattro stanze chiuse. Aprì una porta e interruppe una riunione di sei personaggi, di quelli che solitamente vengono lodati dai giornali conservatori. Ma nessuno di loro si presentò come Ruidoms mentre gli occhi di tutti lo cacciavano via, forse perché sorpresi con i piedi nudi immersi in bacinelle d’acqua. Adoperò la balaustra come osservatorio e vide il maggiordomo caraibico spuntare da dietro una colonna con l’aria di cercare qualcuno. Probabilmente, lui. Scese le scale e aspettò che il maggiordomo si allontanasse per muoversi in cerca della strada seguita fin lì. Da dietro la colonna partiva un corridoio e, in fondo, una scala illuminata che Carvalho scese con cautela proporzionalmente crescente alle voci che salivano dalle profondità. Si fermò sull’ultimo ripiano per osservare la scena. Uomini in penombra e in smoking seduti in cerchio intorno a una poltrona dove stava seduto il Pérez i Ruidoms che appariva in televisione come un potente tra i potenti, ora con lo sguardo alzato verso l’alto dell’abitacolo circolare che culminava con un lucernario, come se vi stesse per arrivare la voce eccelsa. Ma lì non c'era altro che una piccola telecamera a circuito chiuso che Carvalho non aveva ancora scoperto. L’uomo aveva la faccia da maschera, come se il suo teschio sottile, quasi affilato, e la sua bocca simile a un becco fossero finti, ed era talmente assorto in ciò che stava per dire da calamitare l’attenzione dei convenuti, finché voltò bruscamente il capo verso il punto in cui si era quasi affacciato Carvalho ed esclamò:

“Avanti, Carvalho, la stavamo aspettando”.

E come dietro ordine, tutti gli smoking si voltarono verso Carvalho e tutti sembravano avallati dalla stessa faccia, perché loro sì che portavano la maschera, tutti la stessa. Carvalho avanzò fino al centro del semicerchio e rimase in piedi davanti alla scrivania di Pérez i Ruidoms, che aspettava sorridente l’opinione di Carvalho sulla scenografia.

“Che ne pensa della messinscena?”

“Mi ricorda qualcosa che vidi in un teatrino sperimentale, negli anni della mia infanzia ideologica. O forse mi ricorda una rappresentazione del Ramayana vista a Bali, più di trent’anni fa. Un’assemblea di scimmie, mi pare, che per l’intera rappresentazione non fanno che gridare taca, taca, taca.”

Le maschere si misero in piedi e intonarono il taca, taca, taca del Ramayana finché Pérez i Ruidoms li invitò a sedersi e a fare silenzio.

“Mi ha chiesto di parlarle di Monte Pellegrino, ed eccolo qui. Questi signori e io siamo Monte Pellegrino.”

Il maggiordomo era apparso con una sedia che collocò accanto alla poltrona girevole del padrone di casa perché Carvalho vi si potesse accomodare, e il detective si mise seduto. Il silenzio generale lo sollecitava a prendere l’iniziativa umana in quell'assemblea da lui definita di scimmie, mentre il disgusto pulsava dietro le maschere, un disgusto da persone importanti, temette Carvalho, per cui non volle infuriarli oltre.

“Come ho fatto già sapere al signor Pérez i Ruidoms, la signora Mata i Delapeu mi ha chiesto di indagare sull’omicidio di suo figlio Alexandre, di cui è incriminato in prima istanza lo stesso figlio del signor Pérez i Ruidoms, in libertà sotto una cauzione di tutto rispetto. A quanto ne so, il delitto è stato commesso da una banda di sicari per screditare proprio voi, e dico voi visto che sono in presenza di un soggetto collettivo in lotta per ottenere il dominio del mondo, o la presidenza del Barcelona Fútbol Club, quasi la stessa cosa, se questo è un paese dove nessuno si pone limiti precisi né ha ambizioni politiche che non siano incommensurabili.”

“Non siamo venuti a farci prendere in giro da lei.”

Si era alzato uno smoking mascherato e il padrone di casa lo calmò con un gesto, invitando Carvalho a proseguire. Ma la maschera si era messa a declamare:

Jo sóc català i porto barretin / i a qui em digui res / li tallo la sardina”. [Sono catalano e porto il berretto rosso / e a chi abbia qualcosa da ridire / gli taglio il coso]

Il rapsoda si rimise disciplinatamente a sedere e Carvalho poté continuare.

“Avevo chiesto un incontro a quattr’occhi con lei. Nessuno mi aveva parlato di un veglione di fine estate.”

“Non è un veglione in senso stretto. Mentre le nostre famiglie e i nostri subalterni se ne stanno di sopra a godersi la festa, noi discutiamo i problemi della situazione. Non è una battaglia innocente, signor Carvalho, e i nostri servizi di informazione ci avvertono che corriamo il rischio di un’altra provocazione in breve tempo.”

“Provocazione cui risponderete uno di questi giorni, suppongo. Non so se mi diverta o mi annoi il carattere corale che sta prendendo questa commedia, forse soprattutto mi diverte. Ho bisogno di un colpevole con una faccia. Devo tornare dalla mia cliente per dirle che suo figlio è stato ucciso da una persona ben precisa, e che questa persona è stata uccisa a sua volta da questa o quest'altra.” “Tutto qui? Non si potrà mai dimostrare da chi è partito l'ordine. Invece, la prima cosa che ha chiesto è fattibile, basta che lei la smetta di ficcare il naso nelle nostre faccende. Sappiamo come si muove, Carvalho, e ci pare che stia entrando in territori che non conosce.”

“Ho notato che tutti fanno parte di qualche setta. Le sette sono di due tipi, quelle distruttive, come le sataniche, e quelle costruttive, come la vostra o la Chiesa cattolica o l’Opus Dei.”

Le maschere si guardavano reciprocamente, solo Pérez i Ruidoms non guardava nessuno. Le maschere cominciarono a bisbigliare in una lingua che a Carvalho parve ancor più esotica dello stesso coreano, sempre supponendo che avesse mai sentito parlare in coreano. Pérez aveva gli occhi fissi su un frammento di penombra: era assorto e preoccupato. Poi li volse su Carvalho e dalla bocca gli uscì un’oratoria fredda e incalzante.

“Riassumiamo. La nostra non è propriamente una setta, ma un club di amici e simpatizzanti della memoria di Frederic Hayeck, un nome che a lei non dirà niente ma che è stato uno degli uomini di maggior rilievo di questo secolo, uno dei suoi ideologi e strateghi più eminenti. Nel 1947 riunì una serie di esperti e politici sul Monte Pellegrino, in Svizzera, e insieme vi tracciarono le strade maestre per la ricostruzione dell’orgoglio capitalista di fronte alla valanga marxista e keynesiana che stava per schiacciare la libertà di iniziativa, la libertà più preziosa dell’uomo. Oggi si possono trovare club in onore di Hayeck in tutto il mondo, club che segnano la geografia della resistenza e della riconquista in prima istanza, e ora anche la vittoria contro le tenebre marxiste e keynesiane. Monte Pellegrino non è che questo.”

Un’altra maschera si alzò per declamare, come se si trattasse della poesia di Natale:

“Due spettri si aggirano per l’Europa, il comunismo e il keynesismo, ed entrambi cercano di irretire lo spirito di iniziativa del genere umano, lo spirito che ha fatto dell’uomo l'essere egemonico della creazione! Il comunismo può solo portarci all’egemonia del porco e il keynesismo a quella dei batteri!”.

Carvalho approvò con il capo lo stile del vate e si chinò verso Pérez i Ruidoms perché soltanto lui lo udisse.

“Che cosa c’entra Monte Pellegrino con Región Plus?”

Per la prima volta la maschera vivente perse la compostezza e si chinò a sua volta per rispondere a Carvalho senza che gli altri sentissero.

“Ha ragione. Dobbiamo parlare a quattr’occhi.”

Poi Pérez i Ruidoms batté le mani una volta sola, ottenendo di far tacere ogni possibile mormorio e dei presenti.

“Signori, toglietevi le maschere.”

Così fecero, e nessuno di quei volti tradì l’appartenenza a qualcosa in grado di appartenere esclusivamente a un individuo. Uno di loro domandò con accento cubano:

“Senta, a che ora servono il caffè?”.

Un altro andò più lontano e chiese con tutta l’impertinenza di cui fu capace:

“Mamma! Dimmi cosa vuole il negro!”.

“Facciamola finita! La Russia è colpevole! L’Eta è colpevole.” Uno dei presenti, rivestito a un tratto di radicale indignazione, prese a insultare il detective, mentre un’altra scimmia fingeva di parlare a tu per tu con Carvalho informandolo:

“Lo sa che nel Cretacico molti animali smisero di deporre le uova diventando quindi mammiferi? Innovazione vitale dei mammiferi fu la varietà e l’efficacia dei loro denti particolarmente adatti a scuoiare, tritare, rodere e tritare, nonché a premere e processare il cibo mediante sistemi del tutto nuovi. Le basi del liberismo erano già state fondate”.

Sulle labbra di Pérez i Ruidoms danzava un sorriso.

“Non li riconosce, signor Carvalho? Non riconosce nemmeno le comparse che ha visto di sopra?”

Carvalho era in attesa degli eventi, ma non si aspettava la risata che avrebbe scosso l’intero corpo di Pérez i Ruidoms, risata finta, perché appena si spense, l’uomo riprese la compostezza per dire: “Quasi tutti fanno parte della Cubana, una compagnia teatrale specializzata in figuranti e comparse”.

Carvalho si mise ad applaudire e continuò a farlo anche quando si rese conto di essere l’unico a battere le mani. Le comparse si erano rimesse la maschera e russavano con la curiosa sincronizzazione che riesce solo alle scimmie più brave quando russano insieme.

Pérez i Ruidoms evitò le coppie danzanti e Carvalho lo seguì in un ufficio con televisione accesa per nessuno sul programma della CNN. Pérez i Ruidoms tolse l’audio ma lasciò il flusso delle immagini come un paesaggio di ombre rotte proiettato sul muro. Prese una bottiglia di champagne da un frigo travestito da mobile importante e non solo mostrò l’etichetta a Carvalho, ma addirittura declamò:

“Roederer Cristal Rosé”.

Aprì personalmente la bottiglia, riempì due bicchieri controllando sagacemente la schiuma e ne porse uno a Carvalho. Assaporò deliziato, facendo schioccare la lingua contro il palato.

“Cominciavo ad averne proprio bisogno. Di cosa stavamo parlando? Di Región Plus o dell’omicidio del giovane Mata i Delapeu? Di entrambi gli argomenti, suppongo. Che cosa sa di Región Plus?” “Quel che qualcuno vuole che io sappia. Mi sono cacciato in una storia di informazioni in apparenza coincidenti, ma che partecipano alla stessa cerimonia della confusione. Può darsi che siano tutti attori della Cubana o si comportino come tali. Scopro che mi raccontano solo ciò che vogliono farmi sapere e che mi stanno conducendo a qualcosa.”

“Non è lei a muoversi, lei viene mosso. Interessante che se ne sia accorto. E la muovono verso Región Plus, una semplice operazione economica che cerca di creare una connessione Tolosa, Milano, Barcellona, e l’affare sta tutto nello stabilire un'infrastruttura di comunicazioni e nell’operazione di rivalutamento del terreno urbano e industriale. Quel triangolo è come una Nuova Frontiera, Carvalho, ed è già stato sparato il colpo di pistola perché i carri dei pionieri si mettano in moto. Non le nego di essere interessato a tale operazione che, pur avendo goduto agli inizi dell’appoggio del governo autonomistico, adesso si vede opporre una certa resistenza. Qualcuno ha messo in testa al presidente che un simile progetto danneggia l’identità catalana in quanto disegna a tavolino una regione in grado di svalutare il progetto nazionalista. A me del progetto catalanista non importa un fico secco, signor Carvalho, ma non vorrei cacciarmi in qualcosa in grado di disturbare i miei buoni rapporti con il governo autonomistico.”

“Ma le elezioni sono alle porte.”

“Immagini che il presidente Pujol le perda. Questo significherebbe che il pancatalanismo passerebbe all’opposizione radicalizzandosi in seguito, per cui un progetto come Región Plus finirebbe con l’essere demonizzato sollevando una crociata da parte del radicalismo catalanista. Preferisco l’ingiustizia al disordine. No. Il progetto deve andare avanti e imporsi come un fatto compiuto. Ma non sono io l’unico interessato e ho tutti i telefoni intercettati e tutti i telescopi dello spionaggio puntati su casa mia e le mie imprese. Lo so perché anch’io lo faccio ai miei concorrenti, e non se ne lamentano. Ma lei, Carvalho, si è perso in un bicchiere d’acqua. Voglio che si concentri sulla scoperta delle cause dell’omicidio dell’amico di mio figlio. Posso pagarla di tasca mia, oltre a quel che avrà da Delmira.”

“Non mi faccio mai pagare da due clienti per un stesso caso.” “Ma da me accetterà questa.”

Dal cassetto più vicino prese una busta e l’offri a Carvalho, che la prese, l’aprì e trattenne in una mano le foto che conteneva, insieme a un paio di fogli.

La prima foto mostrava una faccia tonda, una vera palla di lardo senza ossa con gli occhi piccoli che sembravano incastonati. Le altre due, un uomo con l’aspetto da gitano, e una donna bianchissima con la testa ovale coronata da capelli biondi ricci come un scarola. Sui fogli figuravano i loro dati: Dalmatius, capo della “rete di lotta” Sarajevo, Mohammed Stepanovich, Silvia Rossler, entrambi della stessa rete. Dalmatius era stato contattato per compiere un attentato, e aveva passato l’ingaggio a Stepanovich e Rossler senza sapere chi assassinare. Il rapporto aggiungeva che Dalmatius era disposto a collaborare per risolvere la situazione e consegnare i due sicari. Indicava anche l’indirizzo della “casa sicura” dove se ne stavano nascosti. Carvalho studiò i tre volti, la donna era bella, ma aveva una calma stupida in fondo agli occhi, una faccia da animale ubbidiente. Mohammed aveva una lama in ciascun occhio e chiudeva la bocca crudele sotto un paio di baffetti da violinista slavo di altri tempi. Dalmatius attirava lo sguardo. Aveva una faccia schifosa, ma inquietante, una specie di calamita.

“Le interessa l’informazione? La porta a chiudere la partita.”

“Può trattarsi di attori della Cubana.”

“È possibile. Adoro i trompe-l'oeil. Se lei vedesse le mie case, sono piene di muri finti, finestre finte, soffitti finti, firmamenti finti, discese a scantinati finti che esistono o non esistono, l’ho dimenticato perfino io. Vorrebbe parlare con Dalmatius?”

Carvalho assentì.

“Mi segua.”

Sembrò che tornassero sui loro passi per finire di nuovo nella cripta di Monte Pellegrino, ma andarono oltre e Pérez i Ruidoms si fermò davanti a un affresco che rappresentava una stanza d'albergo, un letto, un catino, un uomo seduto sulla sponda del letto, senza volto o almeno con un volto privo di interesse.

“Splendida imitazione di un Hopper.”

Pérez i Ruidoms toccò con il dito la testa dell’uomo dipinto e la parete diventò molle, si piegò su se stessa e apparve davanti a loro una stanza illuminata soltanto da un faretto al soffitto puntato su un uomo seduto. Quando gli si avvicinarono, Carvalho vide che era in manette, che era Dalmatius e che gli avevano spaccato le sopracciglia, il naso; una palpebra gli pendeva su un'occhiaia violacea e il viso doppiamente gonfio era coperto di ematomi, di pelle strappata fino a mostrare la carne.

Pérez i Ruidoms passeggiò ritmicamente intorno a Dalmatius, osservandolo.

“Ormai manca poco, Dalmatius. Poi tornerà a casa o se ne andrà all’inferno. Confermi al mio amico che sono questi gli assassini di Mata i Delapeu.”

Indicò a Carvalho di allungare le foto a Dalmatius. Carvalho lo fece e la testa torturata salì e scese per tre volte a mo’ di conferma. Pérez i Ruidoms era soddisfatto. Avvicinò il volto a quello di Dalmatius.

“Voglio che mi guardi di nuovo in faccia e te la stampi nel cervello. Lavora pure come ti pare, ma non immischiarti nelle mie faccende. Vivi nelle tue fogne, ma che non ti salti in mente di ficcarti nelle mie. Le mie regole del gioco possono essere tali e quali alle tue, e per ogni macellaio che ingaggi io posso ingaggiarne dieci.”

Ma Dalmatius era saldo nonostante i danni fisici. Carvalho capiva che lo stava studiando, che cercava di identificarlo, che forse sapeva già perfino chi fosse. Era uno di quegli uomini che colgono tutto anche nelle situazioni più avverse ed era al corrente di quel che si poteva aspettare da Pérez i Ruidoms, ma non da Carvalho, per cui mantenne gli occhi fissi su di lui mentre si ritiravano.

“Può fare l’uso che vuole dell’informazione che le ho dato. In questo momento la polizia ha già avuto una soffiata sul posto dove si nascondono i sicari.”

“Sono stati loro?”

“Dalmatius li ha riconosciuti.”

Senza aggiungere una parola, il padrone di casa si staccò da Carvalho, uscì dalla casa nella spianata dove lo aspettava una macchina con il motore acceso, un autista e due gorilla. Carvalho tornò alla sua auto, sempre distante dalle altre, come se ne avessero voluto sottolineare la condizione di vecchio catorcio per un detective prevedibile. Tanto prevedibile che gli avevano preparato la festa senza dimenticare un solo particolare, come una gran cerimonia del simulacro. E se Dalmatius non fosse Dalmatius? E i due capri espiatori? A detta del rapporto se ne stavano nascosti in un appartamento del Poble Sec, in calle Salvà angolo Paral.lel, e la polizia stava per arrestarli. Carvalho lanciò l’auto a una velocità che gli parve quasi cinematografica, verso Barcellona e il Poble Sec. Ormai non circolavano quasi più macchine con gente in fuga dal centro della città o da quelle che cercavano di raggiungerlo. Arrivò in plaza de España e, attraversato il Paral.lel, prese verso Poble Sec, fermò l’auto in un parcheggio accanto al teatro Condal, un caseggiato appena dall'abitazione di Mohammed e dalla donna pallida. Lo scenario era già stato occupato dalla polizia e un riflettore puntava su una finestra al terzo piano del palazzo. Carvalho rimase dietro il capannello di curiosi che la polizia allontanava con urla e perfino spintoni dal cerchio stabilito intorno alle prede.

“C’è un morto.”

Disse un omino tanto rabbuiato da avere la pelle color di luna e le vene color della notte. Si udì una raffica di spari proveniente dall’appartamento e la pressione della polizia contro i curiosi diventò più forte. Carvalho cercò di avvicinarsi alla prima fila, quando gli si affiancarono due uomini.

“Lifante vuole vederla.”

In mezzo ai due agenti, Carvalho venne condotto dall'ispettore Lifante che seguiva con occhi da studioso la luce del riflettore e quanto stavano dicendo con un auricolare all’orecchio. Osservò Carvalho con curiosità deferente e s’incamminò verso la casa seguito dal detective, cui nessuno impedì l’accesso. Salirono due piani incrociando poliziotti travestiti da Rambo fino a raggiungere un appartamento con la porta d’ingresso pendente, come se le avessero rotto una spalla. Gli agenti erano stanchi e Lifante passò in mezzo a loro senza essere seccato da Carvalho che continuava a seguirlo. I due corpi giacevano nel soggiorno, la donna in mezzo, con le gambe aperte come in fuga da una minigonna ridottissima, uno sparo in bocca e i capelli ricci che sembravano pietrificati. L’uomo pareva un pupazzo rotto crollato su se stesso e il sangue gli usciva da dietro il corpo, quasi gli fluisse dall’ano.

“Resistenza?”

“Ovvio.”

Lifante fece spallucce, il gesto era rivolto a Carvalho. Ordinò di attendere come sempre il giudice, e senza guardare l'accompagnatore non richiesto, disse:

“Lei ha un modo assai curioso di vaticinare un lieto fine”.

“Ho sentito i colpi.”

“Li ha sentiti da Vallvidrera?”

“Passavo da queste parti.”

Lifante sembrava stanco e frustrato. Probabilmente non ha manco cenato, pensò Carvalho, dovrà pur farla pagare a qualcuno.

“Dobbiamo parlarci, Carvalho. Ora.”

Era ancora aperto il locale specializzato in orzate della Ronda di Sant Pau, l’unico dove d’estate era possibile ordinare l’orzata alla nocciola, anche se fra questo genere di locali, il preferito di Carvalho era quello in calle Parlament, avuto quasi in eredità dalla madre. Due giorni prima di morire, Carvalho le aveva retoricamente domandato:

“Vuoi che ti porti qualcosa?”.

Rimandò la voglia di morire quanto prima per mettersi a pensare e tornò dal remoto territorio dove aveva serbato gli ultimi desideri per chiedere:

“Orzata e pesche”.

Non era stagione né dell’una né delle altre. Eppure, per anni e anni, nel ricordare quella scena, Carvalho si era sempre rimproverato di non essersi lanciato in strada in cerca di orzata e di pesche, o di violette in dicembre, se lei le avesse volute. E del resto avrebbe potuto trovare orzata e pesche, ma gli era parso troppo triste soddisfare qualcosa che forse non era nemmeno più un ultimo desiderio, ma un’ultima risposta. Lifante fu sorpreso nell’apprendere l'esistenza dell’orzata alla nocciola, e tale sorpresa riempì dieci minuti di conversazione finché in lui il poliziotto prese il sopravvento e avvertì Carvalho del fatto che la fedeltà alla cliente, la signora Mata i Delapeu, ne sono al corrente Carvalho, abbiamo tutto sotto controllo, non gli impediva di informarlo di come avesse fatto a finire lì, proprio quella sera, nel momento dell’azione della polizia.

“E adesso lei mi dirà: Un’intuizione. Perché lei, Carvalho, è schiavo del proprio personaggio, e questo personaggio la costringe a rispondermi: Un’intuizione.”

“Lei, Lifante, mi piace perché è un poliziotto intellettuale e, per esempio, non dice mai cazzo. Il vecchio Contreras mi avrebbe già buttato il suo alito puzzolente in faccia e mi avrebbe detto che stava per tagliarmi le palle o di non fargli girare i coglioni. Lei doveva fare il semiotico.”

“Il semiologo.”

“Roba seria.”

“Insisto con la domanda, Carvalho. Che cosa faceva nel posto giusto al momento giusto? Che cosa faceva nel negozio di Lluquet i Rovello? E perché si aggirava intorno al Vaticano di Horta?” “Vaticano di Horta?”

“Così chiamo io quella centrale di indagini religiose messa su da servizi più o meno controllati dal governo dell’Autonomia.” “Cioè, vi controllate da vicino.”

“Vigilare è il nostro mestiere.”

“Contro chi?”

“In favore del cittadino.”

“Di un cittadino concreto? Ne avete un prototipo in qualche museo dell’Uomo?”

“Tutti gli stati hanno come referente un cittadino, a volte si chiama Bene Comune o Interesse Generale, ma noi ci riferiamo al cittadino comune, al comune denominatore dei cittadini, al cittadino spagnolo, beninteso.”

“Cioè, quanto di più simile a lei.”

Il vantaggio di Lifante stava tutto nel non perdere la pazienza. Adesso sorseggiava la sua orzata e a un tratto smise per scoppiare a piangere. Ma gli piangeva un occhio soltanto e si premette una narice con il dito.

“Fa un male dell’accidente. Il freddo quando entra nelle narici.” Carvalho si mostrò comprensivo e ricordò patimenti simili. L'ispettore faticò a riprendersi e stava per ritrovare il filo del discorso quando Carvalho decise che la miglior risposta è una domanda.

“Hanno opposto molta resistenza quei due, che sono stati costretti a ucciderli?”

A Lifante la domanda non era piaciuta, prova evidente, pensò Carvalho, della falsità dell'assioma secondo cui non ci sono risposte cattive ma domande sciocche.

“Sospetta che li abbiamo assassinati?”

“Lei non era lì.”

“Allora sospetta che i miei uomini uccidono per conto loro, in ubbidienza a un potere che io non controllo.”

“Succede nelle migliori polizie. L’ho visto al cinema. Adesso vado sempre alle multisale Icaria della Villa Olímpica. Ci arrivo facilmente perché scendo da Vallvidrera lungo la Ronda de Dalt, infilo quella del Litoral e in dieci minuti sono già in spiaggia o al cinema. Lei fa il bagno nelle nuove spiagge di Barcellona?”

Lifante si guardò le braccia quasi cercasse di verificare il colore lattiginoso della sua pelle d’animale di ufficio poco ventilato. Ma si rivolse a Carvalho avanzando un dito a mo’ di avvertimento. Non si cacci in giochi troppo grossi per lei, Carvalho. È all'oscuro di quasi tutto. Lasci queste cose ai professionisti. Stiamo assistendo allo scontro di tre o quattro bande, e con i fatti di stasera non si è ancora risolto del tutto il caso Mata i Delapeu. Carvalho ascoltava molto interessato, come uno studente che prende appunti mentali di una lezione non solo conveniente ma addirittura magistrale. Lifante riusciva ad aumentare la sensazione di crollo che lo circondava. Chi era chi? Che cosa era che cosa?

“Carvalho, lo stato delle autonomie è una grande invenzione, ma come in ogni grande invenzione tutto dipende dall’uso che se ne fa. L’energia atomica, per esempio. Una grande scoperta, ma quale uso se n’è fatto? Lo stato delle autonomie può essere il principio della fine per la Spagna o la possibilità di una nuova Spagna armonizzata, capisce? D’altra parte c’è una seria preoccupazione internazionale per movimenti come Popoli senza Stato o Nazioni senza Stato, potrebbe essere il tarlo dell’Europa in un momento delicato della costruzione europea, in particolare della costruzione dell'unità europea che guiderà un nostro compaesano, Javier Solana. Come potrà mai contare l’Europa su una forza dissuasoria se dovrà utilizzare i propri militari come polizia interna contro nuove sovversioni? Capisce cosa intendo dire? Capisce la complessità della faccenda?”

“E perché mai tutta questa religione di mezzo?”

Era la domanda attesa da Lifante che non poteva nascondere la propria soddisfazione a partire dagli occhi sorridenti che sembravano appartenere a quel corpo tronfio tiratosi indietro per trovare la patria della spalliera.

“Perché la religione è l’oppio dei popoli.”

Captò immediatamente la sorpresa affacciatasi negli occhi di Carvalho e divenne serio.

“Attenti, la religione che non è religione, si capisce. Mi riferisco alle superstizioni, alle sette, a roba simile. Le religioni come Dio comanda sono tutt’altra cosa.”

Non aveva più voglia di ascoltare Lifante, guardò l’orologio, e anche al poliziotto cominciavano a mancare gli stimoli per continuare a erudire Carvalho. Si congedarono, Lifante con il semplice inarcare di sopracciglio, e Carvalho inarcando l’altro per non venir accusato di plagio. Comprò una bottiglia d’orzata da un litro e andò a riprendere la macchina. Quando arrivò a Vallvidrera, Charo era sveglia. Era notte fonda, lei indossava un vecchio accappatoio di Carvalho da cui le sfuggiva una tetta un po’ pienotta ma leggermente abbassata, solcata de vene lilla in cerca di un capezzolo timido. Charo si coprì la tetta e contemplò Carvalho con occhi di sonno e tristezza.

“Dove sei stato?”

“Sono stato a vedere uno spettacolo della Cubana. Uno spettacolo complesso. È cominciato a Sant Cugat ed è finito in un locale della Ronda de Sant Pau dove servono le orzate.”

“Orzate! Vorrei tanto un’orzata!”

Carvalho le allungò la bottiglia e negli occhi della donna tornò la gioia. Avrebbe sempre portato con sé una bottiglia di orzata. Non avrebbe mai più deluso nessuno per colpa di un’orzata. Orzata e pesche. Charo beveva il suo bicchiere lentamente.

“Dimenticavo di dirti che Quimet ti prega tanto di andare domani da Lluquet i Rovello.”

Quando Carvalho entrò da Lluquet i Rovelló, ancora una volta gli parve di ritrovare l'erboristeria del paese della sua infanzia, e gli occhi gli scapparono verso gli scaffali colmi di vasi in ceramica con nomi di erbe medicinali. La commessa vedova e belloccia non era in negozio, c’era invece una ragazza punk discreta, bionda con qualche mèche lilla a dichiarare una volontà sovversiva. Carvalho mormorò: De bon matí quan els estels esponen. La commessa parlò in un walkie-talkie e pochi minuti dopo da dietro una tenda emerse Quimet sorridente e fresco di doccia, come sempre. Dalla porta sulla strada entrò l’uomo in tuta, sudato quasi avesse appena gareggiato in una corsa contro se stesso, e sembrò guardare alcuni vasi come se fosse interessato al loro contenuto. Quimet con un cenno chiese alla commessa di chiudere la porta sulla strada, abbassò una tenda verticale che impediva di vedere cosa accadeva dentro e chiese a Carvalho di lasciarsi incappucciare. Dall'oscurità cercò di cogliere qualche movimento indicativo, ma soltanto un braccio l’aiutò a fare dieci passi in avanti e a un tratto, quando gli tolsero il cappuccio, scoprì di aver attraversato il muro del negozio, quello stesso ricoperto di vasi in ceramica. Un tavolo rotondo, una dozzina di persone che salutarono con rispetto Quimet, il quale condusse Carvalho fino al posto a sedere predestinato perché fosse osservato dai volti paralizzati dei presenti. Non battevano ciglio, nemmeno questo. Da dietro le spalle di Carvalho parve scivolare nella stanza l’uomo in tuta, sedendosi a sua volta su una sedia che sembrava essergli personalmente amica, tant’è che più che sedercisi sopra sembrò calzarla. Quimet si piegò ancor di più su se stesso, sul suo lindore essenziale, e sollecitò l’uomo in tuta a parlare.

“Ascolti con attenzione, Carvalho, perché sta per imparare cose fondamentali per il compito che le potremmo assegnare. Le presento Xibert, si faccia bastare questo cognome e non cerchi di andare oltre. Lui la informerà sui precedenti del nostro progetto.”

Xibert aveva mascella e spalle ben sviluppate e occhi tristi. Guardava Carvalho senza troppo entusiasmo e mise le cose in chiaro fin dal principio.

“Il nazionalismo catalano non ha il senso dello stato.”

Osservò l’effetto delle sue parole sui convenuti, mentre Quimet chiuse gli occhi invitandolo a proseguire.

“Solo così si capisce come non si sia mai pensato seriamente a organizzare un servizio di informazione adatto all’impegno di creare uno stato catalano. Quando di un politico catalano si dice che ha ‘senso dello stato’, si intende che ha il senso dello stato spagnolo. Non possiamo avere un esercito, né una politica estera, ma chi può vietarci di avere un servizio di informazione? I baschi, in merito, hanno sessant’anni di vantaggio su di noi. Appena finita la Guerra civile, organizzarono subito un servizio di spionaggio che si muoveva su due fronti, verso la Germania nazista e verso gli Stati Uniti, in attesa di capire quale dei due paesi poteva favorire l’indipendenza di Euzkadi, del Paese Basco. Aguirre, il loro capo durante la Repubblica, la Guerra civile e l’esilio, passò qualche settimana a Berlino a negoziare con Hitler e con chiunque altro l’appoggio nazista all’indipendenza di Euzkadi. Irala e Aguirre, con Galíndez come intermediario, lavorarono al dipartimento di stato americano negli anni quaranta e cinquanta, e praticamente fino al ritorno della democrazia in Spagna. Posso dirle che, quando cominciò a funzionare lo stato delle autonomie, mi trasferii in Euzkadi per ordini superiori: il Partito nazionalista basco aveva già una ertzainza, una sua polizia, ancor prima che questa fosse autorizzata da Madrid, e aveva a sua disposizione reti informative infiltrate negli apparati dello stato spagnolo. I due modelli referenziali per noi patrioti catalani erano quello basco, poiché anche noi eravamo sotto lo stesso stato oppressore, quello spagnolo, e il modello israeliano, il miglior servizio di informazione tenuto conto del rapporto tra investimento e qualità e di quanto sia problematico il fronte che controllano, qualcosa di simile al rapporto tra qualità e prezzo. Inoltre, Israele è sempre stato per i catalani il referente del popolo eletto e insieme perseguitato, come per certi versi lo è stato il popolo catalano. Quando parlavo con i baschi capivo che non si trattava di quattro giovincelli nazionalisti come noi, ma di uomini con gradi militari, alcuni provenienti dal Paese Basco francese, ex paracadutisti basco-francesi, per esempio, dell’OAS, che avevano passato la loro esperienza alla causa nazionale basca. Loro sì che sapevano intercettare i telefoni, sia in Euzkadi sia in Spagna, e si sorprendevano nel constatare che noi non avevamo infiltrati negli apparati dello stato spagnolo. Qui non avevamo niente di simile, e quando informavo il nostro presidente autonomistico della faccenda, si metteva a tremare e mi diceva: Xibert, non si cacci nei guai. Glielo proibisco. Noi catalani siamo talmente malvisti, che non vorrei ci cogliessero a spiare dal buco della serratura. Ai baschi viene tutto perdonato, Xibert, perché tutti parlano il castigliano. Che gliene pare, Carvalho? Qui nessuno ha il senso dello stato, non lo dimentichi. Quando decisi di proporgli di creare un servizio di informazione, una scuola di polizia, quadri esperti nella sicurezza, un’élite ben scelta di superagenti preparati per ogni evenienza, la necessità di accordare fondi segreti, il presidente ha fatto una faccia che non le dico. Per non parlare del presidente dei tempi della Transizione, il famoso Tarradellas, che di fronte a questa problematica sosteneva che l’unico interesse del governo catalano era avere autorità sulla Guardia Civil e la polizia spagnola di occupazione, che la Guardia Civil gli si parasse davanti sull’attenti, prima di fucilarlo, suppongo io, perché i corpi di sicurezza operanti in Catalogna, perfino i comandi di polizia autonomistica, sono ‘spagnolisti’ e ubbidiscono agli ordini degli alti comandi della sicurezza spagnola. Le racconto un aneddoto. Al momento del tentato golpe del colonnello Tegero nel 1981, il capo della polizia (della Catalogna!) telefonò al capitano generale dal Palazzo della Generalitat e gli chiese: Che cosa faccio con questi pagliacci qui sopra? E si riferiva ai rappresentanti politici del popolo catalano, riuniti in quel momento intorno al presidente. È così che stavano le cose e tutto quel che abbiamo fatto per cambiare la situazione si è concretato in una polizia autonomistica controllata in parte da comandi ubbidienti in modo implicito o esplicito a Madrid e al Cesid, il servizio di informazione dello stato spagnolo, una scuola di polizia tecnicamente perfetta che ha prodotto professionisti formidabili, un sindacato di polizia catalano di fiducia e poco più, beh, oltre alla divisa dei nostri poliziotti, creazione dello stilista Toni Miró, l'Armani catalano. Ebbene, nulla di tutto questo ci serve, per ragioni facili da capire. Abbiamo bisogno di un servizio di informazione per i gruppi politici essenzialmente nazionalisti e un servizio di informazione legato a livello istituzionale alla presidenza del governo. Ma entrambi i movimenti potrebbero risultare sospetti e creare diffidenza nel governo di Madrid e per estensione nell’Unione europea, che vuole monopolizzare il controllo superiore della rete di sicurezza dell’intera Europa. Per tutte queste ragioni bisogna quindi mettere su questo servizio di informazione esterno al sistema, un servizio che tuttavia serva al sistema. È così che comincia a giustificarsi il ruolo svolto da alcuni dei qui presenti.”

Riprese fiato per protocollo, ma i suoi polmoni non ne avevano bisogno. Xibert non aveva staccato per un attimo gli occhi da Carvalho.

“La polizia autonomistica non può svolgere indagini su delitti specificamente politici o che superino l’area geopolitica catalana. Sul piano concreto ha una buona rete infiltrata nelle sette, le droghe, l’estrema destra e la corruzione istituzionale, ma in questo campo solo rispetto a delitti di poco conto, non ha potuto agire finora in quello dell’alta corruzione. Per un certo periodo aveva operato un gruppo chiamato ‛los mortadelos’ che finì col dedicarsi a investigare casi di rapporti extraconiugali e simili per screditare questo o quella, mettendo talvolta le informazioni in mano al servizio di una trama giudiziario-economica che contribuì soltanto a creare nuovi ricchi legati al potere. Dietro alcune dimissioni clamorose c’erano interi dossier, ma lo scopo vero era impadronirsi della fetta di torta più grossa. I tempi stanno per cambiare. Il signor presidente è politicamente ferito a morte e quando si ritirerà è possibile che vincano formazioni politiche che non definirei anticatalaniste, ma sì a-nazionaliste, che non si sogneranno mai di avere servizi di informazione pancatalani e in tensione dialettica non solo con lo stato spagnolo, ma con le rimanenti comunità autonome che possono avere intenzioni opposte ai nostri interessi. Per non dire di nuove strutture di potere all'interno della globalizzazione, che in Europa cominciano a brulicare, per esempio la Padania, un’Italia del Nord che prima o poi romperà con Roma e si staccherà dal meridione. E chi parla della Padania parla della nuova geografia nazionale dell’Europa nata dal crollo del blocco socialista e della ex Iugoslavia. Nessuno è al riparo da una nuova divisione, nemmeno la Svizzera, per non parlare dei fronti d'indagine di cui necessitiamo di fronte alle intenzioni della strategia economica globale, della strategia ecologica e del tentativo di discredito dello stato nazionale da parte delle multinazionali. Tutto questo, anche se inizialmente agisce a nostro favore in quanto debilita il nostro nemico principale, lo stato spagnolo, a lungo andare favorisce anche l’annientamento o la sopraffazione di ogni elemento differenziale. Può immaginare una Catalogna senza servizi di informazione in grado di investigare sulle intenzioni francesi o spagnole nei confronti dell’equilibrio delle riserve idriche? Qui si propone nientemeno che di realizzare un travaso del Rodano in Catalogna. Ma quali rapporti di dipendenza si creano con un simile passo? Che cosa accadrà il giorno in cui lo stato spagnolo non sarà in grado di distribuire le acque dell’Ebro tra tutte le regioni in cui scorre scavalcando la cocciutaggine degli aragonesi?”

Carvalho aveva una serie di risposte spiritose a tante domande, ma capiva che Xibert si dilungava in attesa di una domanda maieutica o di una domanda sostanziale in bocca a un accreditatissimo, così si diceva, agente della Cia.

“Ebbene. Se me lo consentite, posso completare il quadro delle necessità, tenuto conto del fatto che dal punto di vista del villaggio globale, cioè, della globalizzazione, almeno a quanto ho letto, si scateneranno nuove guerre civili per ragioni latenti fin da oggi.”

Xibert annuì e annuì di nuovo rivolto a Quimet, con lo stesso rigore con cui il pubblico educato annuisce tra sé e sé valutando i meriti di un bravo cantante. Carvalho aspettò che l’intensità del silenzio sottolineasse l’aspettativa e domandò.

“Sapete quanti conflitti ci sono nel mondo oggi?”

Non erano disposti a impegnarsi enunciando un numero e Carvalho si prese il rischio di supporre.

“Una cinquantina di conflitti armati, dalla Bosnia allo Sri Lanka, passando dall’Algeria al Sudan, alle Molucche, al Messico, e buona parte di questi mettono in pericolo l’unità di diversi stati, una frammentazione da cui deriveranno ulteriori conflitti.”

Carvalho si fermò a riflettere per ricordare quel che gli serviva ricordare. Agiva mosso da una nuova personalità che forse un tempo era stata la sua. Quella dell’esperto capo del comando, colui che fornisce la chiave della situazione.

“C’è sempre più una maggiore diversità di ragioni e una maggiore autonomia per dare inizio ai conflitti, perfino armati, e la reazione globale per fermarli o controllarli tarda ad arrivare quanto basta perché il primo a colpire possa farlo ancora due o tre volte prima di venire colpito a sua volta”.

L’assenso si era fatto clamore. Avevano appena scoperto un leader. “I servizi di informazione cominciano a essere indispensabili a ogni struttura di potere, da un’impresa a quanto rimane dello stato, da un potere rionale al rapporto tra un governo regionale e le multinazionali, attraverso fronti tanto diversi quanto quello finanziario, quello economico nel senso più ampio della parola, il fronte strategico compreso quello delle armi, quello etnico legato all’elemento linguistico e a quello differenziale in ogni suo aspetto, l’ecologico. Ma le norme culturali da seguire per avere un servizio completo continuano a basarsi su asserzioni elementari: la volontà di difendersi a partire da un’identità e la mancanza di scrupoli per ottenere i fini che ci si è proposti. Se volete un servizio di informazione vostro, o lo pagate molto bene, in modo estremamente concorrenziale, o puntate su patrioti pronti a giocare sporco, un gioco che va dall’uccidere alle prestazioni sessuali.” L’idea di uccidere l’avevano incassata senza batter ciglio, ma sentir parlare di prestazioni sessuali fece chiudere gli occhi a tutti, Xibert escluso, che cominciava a considerare Carvalho quasi al pari di un dirigente dello spionaggio israeliano.

“Per esempio, nella Cia insegnano a uccidere e torturare adoperando barboni, emarginati della cui sorte nessuno si interessa.” Questa volta anche Xibert, per un attimo, chiuse gli occhi.

“Se si vuole la sovranità, bisogna imparare a torturare. A meno che voi non inventiate un nuovo modo di mostrarla, a meno che non deleghiate un altro stato alla tortura dei vostri prigionieri.”

Nei presenti c’era un tale sconcerto, che Carvalho scese dal carro dell’immaginazione ironica.

“La cosa sarebbe inconcepibile. A meno che non si arrivi a un accordo europeo, in prima istanza, e si deleghino le funzioni di tortura a uno stato o una comunità concreta per evitare che le altre si sporchino da un punto di vista etico. Forse la Turchia, nel caso entrasse nella Comunità, potrebbe torturare e impiccare per evitare che lo facciano i tedeschi o voialtri. Ma in ogni caso, i migliori istruttori nel campo della tortura sono gli americani. Sono stati loro a diffondere la tortura scientifica in tutta l’America latina, a partire dagli anni sessanta.”

Quimet sembrava allarmato dalla svolta presa dal discorso di Carvalho. Anche Carvalho lo era, e attese il segnale di Quimet come una liberazione.

Ormai solo con Quimet, a Carvalho le parole non venivano più fluide, ma i suoi gesti annunciavano l’intesa e finalmente trovarono i termini adeguati. Lei è stato troppo crudo e nessuno intende torturare o prostituirsi, almeno finché il responsabile di tutto questo resto io. Noi abbiamo tutt’altro stile, capisce? Come può un popolo che è stato torturato, assassinato, sottoposto a genocidio sistematico, diventare torturatore, assassino, genocida?

“C’era chi mi ascoltava con grande attenzione.”

“Certo! Perché a un sacco di patrioti manca qualche rotella, sono privi di seny [senno]. Si riferisce forse a Xibert? Si sbaglia. Xibert è un possibilista. Deve invece sapere che vi fu chi ha proposto di colorare i catalani in modo da aumentare il loro fattore differenziale nei confronti di altri popoli, soprattutto degli spagnoli.”

“Me lo ripeta.”

“Ecco. Una volta stavamo scherzando, più di vent’anni fa, ai primi tempi della Transizione, e qualcuno disse: Peccato che noi catalani non siamo neri perché potremmo distinguerci meglio dagli spagnoli e dai francesi, nostri oppressori. Un giovane docente universitario non di ruolo, e docente di scienze, nientemeno, disse: Si può fare. Ha sentito bene, Carvalho? Secondo quel pazzo mediante un additivo alimentare diluito nei generi di prima necessità, per esempio nell’acqua, è possibile cambiare la pigmentazione della pelle.”

“Su quale colore erano orientati?”

“L’istigatore pensava che dovesse essere un colore veramente differenziale; né nero, né giallo, né ramato.”

“Pelle fucsia a pallini gialli, per esempio.”

“Rida pure se vuole, ma si fatica a trovare il punto di equilibrio tra il tutto e il nulla, mi capisce? È da quando ero giovane che seguo il presidente, dai tempi delle congregazioni mariane. Mi fido di lui. Ha il dono della misura, ma una causa come la nostra ha bisogno di radicalità, soprattutto in periodi di normalità eccessiva, come quello di cui stiamo vivendo la fine. La stessa cosa capita nel calcio, Carvalho. I fanatici sono utili per creare una tifoseria, ma devono essere controllati. È per questo che lei si trova qui. Lei verrà rispettato perché rappresenta l’epoca eroica dello spionaggio duro e della guerra fredda dura. Ci è molto necessario. Dovrebbe partecipare regolarmente alle lezioni che abbiamo inserito in un corso accelerato, ma prima devo precisarle una cosa: non siamo un servizio ufficiale, non abbiamo legami con la polizia autonomistica, né con l’assessore alla Sicurezza. Saremo un servizio parallelo.”

“Al servizio di chi o di che cosa?”

“Della Catalogna.”

“Si spieghi meglio.”

“È possibile che perderemo le prossime elezioni, ma nel caso le vincessimo, ci troveremmo in una situazione assai precaria, diciamo pure transitoria. Tuttavia, bisogna creare reti stabili di potere catalano che non possano essere smantellate dalla nuova maggioranza che è indubbiamente, nonostante cerchi di dissimularlo, spagnolista”.

“Adesso non ci serve un servizio di informazione ma ci servirà in futuro. Mi dia retta, partecipi al corso. Siamo disposti a pagarla, ma soprattutto resti in contatto con me. Riceverà istruzioni.” Carvalho partì verso Horta in cerca del Vaticano catalano, per tentare di trovare Margalida all’uscita dal lavoro senza dover passare attraverso il telefono, intercettato. All’ora logica per il pranzo, la ragazza non apparve. Prese quindi dalla macchina il rapporto consegnatogli sui Testimoni di Lucifero assumendo l'espressione di colui che stava per restituirlo disciplinatamente. Davanti alla porta non c’era servizio di sicurezza, ma notò tuttavia gli occhi di una telecamera a circuito chiuso che lo seguirono per tutta la strada dedicata a Satana e affini. Apri la porta meccanicamente, come se non si aspettasse di trovare nessuno dentro, ma Margalida era lì, con il corpo piegato sulla scrivania, la testa coperta da entrambe le braccia, che cercava di soffocare i singhiozzi. Carvalho aspettò che i sospiri rimpiazzassero i singhiozzi e si raschiò la gola in piedi sulla porta. Il viso di Margalida si levò umido, arrossato dagli occhi fino alla punta del naso, incredulo davanti alla presenza di Carvalho, finalmente allarmato.

“Venivo a restituire il rapporto.”

“Quale rapporto?”

“Quello della setta dei Testimoni di Lucifero.”

“Nessuno ti aveva chiesto di riportarlo.”

Carvalho fece spallucce, avanzò fino alla scrivania, vigilato dall'ostilità di Margalida e lasciò la cartella sul piano.

“Non voglio prendermi la responsabilità di tenermi un rapporto così evidentemente incompleto. A proposito, ho conosciuto il signor Pérez i Ruidoms. È un grande attore.”

“È un gran figlio di puttana.”

La frase le era sfuggita con odio, con rabbia, con tutta la violenza con cui le parole escono a denti stretti. Non sembrava che la ragazza provasse un disgusto professionale, ma per precauzione Carvalho le chiese se fosse stata licenziata. Margalida rispose di no con la certezza che nessuna, nessuno e nulla poteva licenziarla. Sorrideva addirittura con prepotenza.

“Allora, avevi ragione. Qui nessuno è quel che sembra. Forse neanche Pérez i Ruidoms è quello che sembra. Un attore. Un uomo ricco sfondato. Un padre protettivo.”

“Certo che non è un padre protettivo. È stato un padre castratore.”

Margalida sembrava parlare con conoscenza di causa. Carvalho le indicò malinconico il rapporto abbandonato.

“Mi piacerebbe tantissimo assistere a un incontro rituale dei Testimoni di Lucifero. Tu dovresti sapere come riuscirci.”

Gli occhi di Margalida lo stavano studiando. La ragazza sembrava un alberello scosso da uragani interiori.

“L’altro giorno mi hai seguita e mi hai vista andare incontro ad Anfrúns.”

“Da qualche giorno ho il sospetto che tutti seguano tutti.”

“È logico che io conosca Anfrúns. Sono specializzata in satanismo.”

Continuò a calcolare il rischio che avrebbe corso accontentando Carvalho e finalmente assentì con la testa.

Vale, tio, però no et passis de rosca di de llest o a la primera bajanada, s’ha acabar el bròquil.’’ [Va bene, amico, ma non esagerare e non fare il furbo, altrimenti alla prima baggianata hai chiuso.]

Era evidente. Margalida, le verità assolute le diceva in catalano. Parlarono dei piaceri dell’estate, di quanto era stato stimolante il tempo trascorso in spiaggia, ma Margalida si scostò la camicetta per mostrargli le spalle e i segni lasciati dal sole. Portava un reggiseno potente per le sue tette voluminose, un reggiseno da signora avanti con gli anni, in contrasto con il suo visino da pulzella di Orléans pronta a morire sul rogo delle passioni personali e nazionaliste. Carvalho indicò le quattro mura, il rapporto, il computer, l’occhio della telecamera, che si supponeva segreto.

“Vocazione? Bisogno di lavorare?”

Margalida frugò in uno zaino ed estrasse un mazzo di sigari San Julián e ne offrì uno a Carvalho; lui rifiutò una simile prova di degrado nella scala del gusto di fumare, ma quando la vide accendersene uno, cambiò idea.

“Ho cambiato opinione. Non si deve lasciare che una donna fumi da sola.”

“Sei più matusa di mio padre. Lui queste cretinate non le dice.”

Carvalho ripeté la domanda: Vocazione antisatanica? Bisogno di lavorare?

“Sono catalanista e lavoro per l’indipendenza della Catalogna. Oggi il mio posto è qui, domani chissà. Ce l’ho nel sangue, insomma. Il mio nonno paterno fu ucciso dai franchisti, la mia nonna materna dovette andare in esilio con il marito malato e quattro marmocchi. Al suo ritorno i fascisti del paese l’accusarono di separatismo e le resero la vita impossibile. Olio di ricino. Le ammazzavano i cani. Era un paese di quelli nella cosiddetta Catalogna profonda dove quattro fascisti potevano mettere tutti in riga con l’aiuto della Guardia Civil. E la lingua catalana proibita, e guai se facevi un esame alla scuola di Balaguer parlando castigliano con accento catalano troppo marcato. Tutte cose che mi ha raccontato mio padre. Capisci, allora? Franco arrivò dappertutto, ma qui ci venne due volte, contro i rossi e contro di noi. Inoltre la mia famiglia non solo era catalanista, ma anche rossa, tanto per esagerare. Cominci a capire?”

“Per vocazione, quindi.”

Ammise Carvalho, aveva voglia di abbracciare segretamente la ragazza, senza che lei se ne accorgesse, un abbraccio senza entusiasmo, non l’abbraccio di un compagno di ideologia ma di memoria o di pazienza storica, eppure si limitò a lanciarle un'occhiata di complicità.

“Non sono indipendentista. Non credo nelle indipendenze, ma detesto le dipendenze. Non so se mi spiego, Margalida.”

“Se ti sembra troppo lungo chiamami Marga.”

“Se ti chiami Margalida, non lasciare che ti chiamino Marga. Mai. Da nessuno. Se ti chiamassi Margarita sarebbe diverso. Ma Margalida è un nome assoluto.”

“Ti piace?”

Gli occhi di lei erano pieni di luce.

Nell’ufficio immigrazione della Caritas Delmira Mata i Delapeu si fa ancora chiamare Delmira Rius, non utilizza il suo altro cognome, Casademont, e nemmeno la congiunzione copulativa. Carvalho provò un certo sollievo nel non dover trascinare tante parole. Delmira arrivò con le mani piene di cartelle, gli occhiali pendenti sul petto e l’aria assente, per cui tardò a entrare in sintonia con Carvalho. Le era stato affidato l’incarico di tutelare i bambini del Maghreb che vagavano per le strade di Barcellona dopo essersi introdotti illegalmente nel paese, e altri figli di famiglie spezzate dalla morte o dalla delinquenza.

“In alcuni casi i genitori sono emigrati in Francia a guadagnarsi da vivere senza neanche sapere se i figli sono vivi.”

I casi che passavano per le mani di Del mira Rius erano seguiti con i cinque sensi dalla donna, come fosse lei stessa a mettersi alla prova, e Carvalho verificava in silenzio le prime vibrazioni positive inviategli dalla cliente, appena riuscì a liberarsi dalla corazza di pregiudizi con cui l’aveva considerata. Era molto indaffarata o cercava di guadagnare tempo prima che Carvalho prendesse a parlare e le togliesse ogni speranza. Aspirò tutta l’aria che i vecchi polmoni riuscirono a incamerare e invitò con un gesto Carvalho a spiegarsi. Il detective cominciò dalla sequenza del finto veglione, cioè dalla fine, supponendo che a quel punto il marito della donna avesse già ricevuto il rapporto della polizia dove si spiegava che gli assassini del figlio erano morti nell’opporre resistenza all'ordine di arresto. Lei fu sorpresa di scoprire che Carvalho era altrettanto sorpreso della sua sorpresa.

“Mio marito e io non ci parliamo nemmeno per farci le condoglianze. Viviamo in case separate. In paesi separati. Non voglio che il mio paese sia il suo. Non avrei voluto nemmeno che fosse quello di mio figlio, ma non sono riuscita a evitare che quello del padre lo colpisse. È stato da quel territorio che sono usciti per ucciderlo. Povero figlio mio. Come un capro espiatorio, scelto senza ragione e senza pietà.”

“In pratica, signora, il caso, con la sua verità ufficiale, ormai è chiuso. Pérez i Ruidoms manderà il figlio a studiare all’estero e inizierà una nuova vita per arrivare un giorno a vivere come suo padre, essere come suo padre. Il satanico non è nelle sette sataniche. È dovunque. L’altro giorno ho visto un servizio alla televisione in cui uomini insegnavano a un cane da combattimento a fare a pezzi un povero barboncino, ancora piuttosto ben messo, indubbiamente rubato da poco o rapito per strada. Poiché il cane da combattimento non aveva una gran voglia di mordere il cagnolino nelle zone vitali; era la voce umana a guidarlo: il collo, le zampe, i coglioni, e il cane da combattimento ubbidiva e il barboncino non riusciva quasi più nemmeno a guaire e, quando cercava di scappare, si trovava davanti una barriera di uomini che glielo impediva. Il satanico era lì. La voce umana era satanica. I corpi umani erano satanici.”

“Storie come questa, io le vedo e leggo tutti i giorni. Ma, al posto del barboncino, metta bambini e vecchi e donne, tutti selvaggiamente maltrattati.”

“Duemila anni di educazione cristiana, centocinquanta di razionalismo emancipante, marxismo, anarchia… non sono serviti a niente. La Creazione è stata una cosa da niente, i sermoni hanno un doppio linguaggio e la selezione delle specie è un brutto pasticcio. Ha vinto il più crudele. Ebbene. Riteniamo chiuso il caso?” “Non è arrivato fino in fondo?”

“Dubito perfino che quei due morti siano i veri assassini. In ogni caso sono caduti in trappola.”

“Chi è il colpevole?”

“Suo marito, il signor Mata i Delapeu, e il suo rivale, Pérez i Ruidoms, sono stati avvertiti attraverso il dramma dei figli. Uccidono un figlio di Mata i Delapeu per accusare quello di Pérez i Ruidoms. Dietro tutto questo c’è qualcuno che li vuole spaventare.” “Spaventare mio marito? Ma lei lo sa chi è?”

“So che presiede tutto ciò che non presiede Pérez i Ruidoms, che guadagna tutto il denaro che Pérez i Ruidoms non guadagna e viceversa. Ma la faccenda si complica ulteriormente, signora. Ci sono fattori determinanti che collegano quest’operazione a interessi esteri o locali, e che implicano una concezione multinazionale del ricatto e del crimine d’alto bordo.”

“Misuri le sue forze.”

“E le sue?”

“Io mi limito a pagare. E lei?”

“Potrebbe farmi un’assicurazione sulla vita? Se muoio lascio due orfani più che grandicelli che saranno incapaci di riciclarsi.” “Cerchi di trovare una compagnia di assicurazioni di cui non siano coproprietari mio marito o Pérez i Ruidoms. Se va avanti lei, io la seguo.”

Carvalho uscì dalla Caritas con un biglietto dov’era indicato il nome di un agente assicurativo di fiducia di donna Delmira e tornò in ufficio per incaricare Biscuter dello svolgimento di alcune indagini complementari.

“Vorrei che ti intrufolassi in qualche setta, Biscuter, che ne pensi di quella catara?”

“Un mio amico, il Coscianera, lei lo ricorda, il cuoco nel carcere di Lerida? Proprio come Lausin. Anche lui è finito in una setta.”

“Eri interessato ai catari.”

“In qualcosa bisogna pur credere, capo.”

“Vorrei che indagassi su una setta che si chiama neocatarismo o Universo Cataro. Arrangiati come puoi.”

Biscuter se ne tornò in cucina assaporando la parola cataro. “Suona bene, capo, ricorda cateto e catetere.”

Carvalho diede un’occhiata al programma del corso passatogli da Quimet e nelle settimane seguenti frequentò le lezioni organizzate per gli aspiranti che volevano approfittare delle ferie d’agosto. Era come tornare alla scuola per agenti della Cia verso la fine degli anni cinquanta e nei primi sessanta, quando l’idea di indagini sotterranee si imponeva su quella di un semplice servizio di informazione preventivo. La Cia già allora aveva abbattuto Jacobo Arbenz in Guatemala e aveva tentato di fare altrettanto con Sukarno in Indonesia, per non citare le tecniche di guerra sporca adoperate in alcuni conflitti periferici della guerra fredda. Il giovane Carvalho era stato colpito dalla commistione di spionaggio e superstizione quando gli spiegavano come far sì che i contadini filippini rifiutassero la guerriglia comunista e la osteggiassero. La Cia fece correre voce che i comunisti avevano introdotto nella regione spiriti del male vampireschi che succhiavano il sangue, gli asuang, e per provarlo sequestrava i guerriglieri comunisti, gli huk, li uccideva facendo due buchetti nelle vene del collo per dimostrare l’intervento dei mitici vampiri. Per Carvalho, l'aspetto più duro della faccenda era stato l’allenamento alla tortura con cavie umane vive, in genere mendicanti senza famiglia che passavano per i laboratori di tortura perché gli agenti si potessero allenare, ma soprattutto militari del terzo mondo reclutati dalla Cia per difendere la civiltà occidentale dalla minaccia del comunismo. Se quanto aveva vissuto gli sembrava vissuto da un altro, ora, in questa cripta della Teologia della sicurezza catalana, la leggerezza, il volontarismo, la mimesi con i discepoli di Baden Powell propria degli insegnanti, suscitavano in lui una particolare malinconia, la stessa che gli suscitavano gli studenti, divisi tra disoccupati pronti a lavorare a tutti i costi e autentici patrioti che avevano fatto dell’indipendenza della Catalogna la loro causa di vita e, se necessario, di morte.

Le materie erano poche. Storia della Catalogna. Il nuovo ordine internazionale. Servizi di informazione, materia suddivisa in storia, teoria e pratica. A sua volta la pratica era suddivisa in tre seminari: legislazione e informazione, strumenti dell'informazione e deontologia dei servizi di informazione. Il capo degli studi era un tale Piferrer, che il primo giorno di corso ordinò loro di acquistare un quaderno per appunti e un'agenda con copertine nere marca Myrga, senza precisare il perché di tutti questi particolari. Carvalho osservò che i suoi quattordici compagni di classe avevano riempito le copertine del quaderno con adesivi, la bandiera catalana, il Barcelona FC, Sharon Stone, la top model catalana Judit Mascó. Le tre ragazze del corso si distinguevano attaccando la foto del motociclista Alex Crivillé, del calciatore Josep Guardiola e una aveva osato addirittura esibire una foto del subcomandante Marcos, leader intellettuale del neozapatismo. La Storia della Catalogna che veniva spiegata era quella di un rimando vissuto tra la finta unificazione dei Re cattolici e il governo di Jordi Pujol. Si insisteva molto sul rilancio nazionalista degli anni settanta legato agli incontri delle Nazioni senza Stato e al ruolo giocato dal CIEMEN, Centro Internazionale Escarré per le Minoranze Etniche e Nazionali. Dalla filosofia del CIEMEN nasceva la proposta di un nuovo ordine internazionale che per il momento passava dall’Europa delle Regioni, tesi elaborata da un politico francese, Edgar Faure, da un ex monaco di Montserrat chiamato Aureli Argemí e ratificata dal pensiero politico di Jordi Pujol. Si annunciava la formazione di un fronte europeo di Nazioni senza Stato, rafforzata dai piccoli stati sorti dalla nuova geopolitica in seguito alla caduta del Muro di Berlino. Bisognava organizzare un’assemblea di nazioni europee senza stato e venivano convocati gaglieghi, baschi, corsi, padani, friulani, nazionalisti dell’Alto Adige, bretoni, gallesi, occitani perché portassero avanti gli accordi presi all’inizio degli anni ottanta nel monastero benedettino di Sant Miquel de Cuixà. Le lezioni sul nuovo ordine internazionale e le Nazioni senza Stato partivano dalla storia del movimento regionalista, in particolare dalla lotta per il riconoscimento delle lingue regionali o minoritarie, come il danese superstite in Germania, la lingua dei frisoni, il serbo superstite in Germania dell’Est, il gaelico nelle sue varianti, il catalano, l’albanese di alcune comunità italiane, il croato, il friulano, il franco-provenzale, il greco, che viene ancora parlato in Italia del Sud e in Sicilia, l'occitano, il sardo. Ogni paese aveva la sua enclave linguistica priva di ufficialità e repressa. In certi casi, le lingue traducevano la volontà di un’affermazione nazionale, come nel caso della Catalogna o del Paese Basco e in misura minore nella Galizia spagnola, in quanto la rivendicazione nazionale gagliega stava diventando semplice regionalismo, controllata com’era dalla destra “spagnolista”. I corsi estivi dell’Università di Prada o del Monastero di Cuixà avevano contribuito a tenere in vita tali rivendicazioni in tempi di basso franchismo e, contro ogni attesa, la democrazia e l’autonomia non avevano dato slancio alla lotta per la rivendicazione dei Popoli senza Stato.

“Che cosa volevano questi Popoli senza Stato? Avere uno stato?” Forse perché la domanda di Carvalho era stata fatta in castigliano, al detective parve che il silenzio che ne seguì fosse doppiamente pesante.

“Pretendono una sovranità sufficiente a decidere se vogliono costituirsi in stato oppure no. Ci sono cinquanta milioni di Europei che vivono come minoranze represse o sotto tutela.”

Nei testi originali che venivano loro consegnati appariva con frequenza il nome di Aureli Argemí, l’ex monaco benedettino di Montserrat che dal monastero di Sant Miquel di Cuixà aveva promosso il movimento durante gli anni settanta e ottanta. Argemì era un deciso fautore delle Ong come strumento per la costruzione di un nuovo ordine a partire dal basso e una cultura della solidarietà. Un’Europa dei popoli avrebbe creato un referente per un nuovo ordine internazionale. Sebbene il governo spagnolo non avesse preso posizione nei confronti di quei movimenti, di fatto li aveva ostacolati, sia in Spagna sia nei fori internazionali.

Testimone dei progressi di Carvalho era una Charo indaffarata con l’allestimento del suo negozio, da inaugurare al rientro dalle ferie dei barcellonesi. Il detective non disse nulla del suo riciclaggio professionale all’unica cliente che gli fosse rimasta, Delmira, cui inviava di tanto in tanto notizie sugli scarsi sviluppi delle indagini. E così agosto scivolò via dal calendario e all’inizio del nuovo mese Carvalho decise di dover chiudere una buona volta il caso Mata i Delapeu, ma senza troppa voglia. Si mise a interrogarsi severamente per ammettere infine a se stesso che sentiva nostalgia dei fax.

Finito il primo ciclo di studi storici e geopolitici, le lezioni successive furono dedicate alla teoria e tecnica dell'informazione. Inizialmente si spiegò come organizzare un ufficio per la lettura dei media e l’elaborazione riassunta dei dati, insieme ai metodi per canalizzare le informazioni confidenziali e ai sistemi per filtrarle. L’espressione “azione coperta” esplose un giorno in classe e a Carvalho parve come arrivata dal tunnel del tempo, da quella scuola della Cia in cui gli eufemismi dimostravano l’immensa capacità del linguaggio di mascherare la realtà. Una cosa è il servizio di informazione che può agire sotto lo sguardo pubblico e un’altra quello che si ottiene mediante un’“azione coperta”.

“Per ‘azione coperta’ si intendono quegli atti non ufficiali e talvolta non legali tendenti a ottenere informazioni o situazioni favorevoli alla nostra causa. Non vi sto presentando la situazione da un punto di vista etico, ma da quello pragmatico e normalmente legato a ragioni collettive poste al di sopra di quelle individuali.”

Nacque allora un piccolo dibattito, perché un ragazzo malato di liberismo mise in discussione le ragioni collettive.

“Non ci sono altre ragioni che quelle individuali.”

“Allora, che senso ha una causa nazionale? E una causa di identità sociale?”

“Vada per la nazionale, se intendiamo il termine nazione come la volontà di identità comune di un insieme di individui, ma la sociale presuppone un soggetto collettivo privilegiato che è al di sopra del diritto della persona, dell’individuo.”

Il professore era e non era d’accordo. In realtà, pensò Carvalho, l’allievo gli faceva paura. Era come se il ragazzo lo avesse colto mentre faceva un passo falso, convinto di muoversi in un’area di sentimento o conoscenza obsoleti e, a partire dalla modernità più “corretta”, fosse in grado di mandarlo in un ricovero per anziani. In cambio ci furono due ragazze a contrastare il perverso individualista e a difendere il diritto del gruppo e perfino delle classi, soprattutto il diritto di legittima difesa delle classi sociali oppresse.

“Le classi sociali non esistono più.”

Ribatté con sdegno il profeta, e una ragazza lo affrontò:

“Ma da quale provetta sei stato generato? Individualisti dovrebbero esserlo soltanto gli esseri umani alti due metri, bellissimi, ricchissimi, fortissimi, intelligentissimi, e mi pare che tu non sia né tanto alto, né tanto bello, né tanto forte, né tanto intelligente, benché forse ricco”.

“Lo sarò.”

La spia individualista seguì la lezione con gli occhi e le guance arrossati. Era un neofita del liberismo che aveva appena combattuto la sua prima battaglia con militanti femministi di un’Ong, non importa quale Ong. I rossi non si creano e non si distruggono. Semplicemente, si trasformano. Mancavano pochi giorni alla fine del corso e non c’era stata nessuna lezione sugli strumenti d'informazione, come se tutto si limitasse a spedire fax o a navigare in Internet, ma una mattina Piferrer si presentò annunciando che negli ultimi giorni il corso avrebbe subito una svolta inattesa e che confidava nella maturità etica degli allievi per capire il senso che possono acquisire le “azioni coperte”.

“Ma per il vostro bene, conviene che vi aggiorni su materie come spionaggio economico e spionaggio politico.”

Nessuno protestò. Tutti erano eticamente maturi, altrimenti non si sarebbero iscritti a un corso per spie con la scusa di non saper spiare. Nella spia, lo spionaggio è un presupposto, come il valore nel militare. Il primo professore si presentò con una grossa valigia e fece la prima lezione quasi di nascosto, sembrava infatti un economista in ristrettezze economiche che mettesse insieme il pranzo con la cena dando lezioni di spionaggio economico basandosi principalmente sul materiale pubblicato e sui documenti noti, oppure su materiale ceduto da impiegati della concorrenza. Il capitolo sull’indagine legale finiva con “le legittime interviste per dare lavoro a persone che lavorano con la concorrenza”. Se si attraversava la frontiera del legittimo si potevano commettere peccati veniali e mortali. Tra i veniali i più efficaci erano spiare cicli segreti di produzione dell’osservato, offrire finti posti di lavoro agli impiegati per indurli a parlare, fingere di negoziare con i concorrenti perché rivelino le loro stesse negoziazioni. A partire da questo punto cominciavano i peccati mortali, come ingaggiare un professionista perché venga a sapere tutto con ogni mezzo, corrompere la concorrenza e gli impiegati, inserire una spia nell’organico della concorrenza, servirsi dello spionaggio elettronico, del furto di progetti e finalmente dell’estorsione e delle minacce. Carvalho credette di percepire un leggero ansimare nel professore quando propose l’estorsione e la minaccia come mali minori decisivi.

“Le ‘azioni coperte’ dispongono oggigiorno di una gran varietà di materiale; quando avremo finito il corso vi verranno forniti qualche catalogo e un indirizzo nel caso vogliate acquistare un impianto audioelettronico più o meno completo. Se andate a mio nome, avrete un dieci per cento di sconto.”

Senza altri preamboli aprì il valigione e ne estrasse un telefono.

“Ecco il padre di tutti gli spionaggi.”

Come si intercetta un telefono? E un fax? Importante non è l’intercettare per intercettare, ma disporre di una stazione ricevente da cui ascoltare e immagazzinare le registrazioni. Questo sarebbe un uso incruento, perché oggi c’è una tecnica avanzatissima che, una volta ottenuta l’informazione desiderata, produce un'esplosione fulminante che fa fuori lo spiato, tecnica da impiegare solo quando non interessi ottenere ulteriori informazioni dal malcapitato. I cellulari vengono captati mediante macchine o furgoncini trasformati in stazioni radio che intercettano le conversazioni e alla fine del corso ci sarebbe senz’altro stato un giro per spiare le conversazioni in qualche quartiere di Barcellona. Ogni studente aveva le sue preferenze, e Carvalho sospettò che ciascuno cercasse di portare l’acqua al proprio mulino, al proprio quartiere; la curiosità umana comincia sempre dall’immediato. Dopo il telefono, il registratore è la madre di tutti gli spionaggi. Non dimenticate, il padre e la madre.

“Buona parte della pacificazione del movimento operaio si deve al fatto che, mediante registratori piazzati nei luoghi in cui si tenevano assemblee interne, gli industriali sono riusciti a sapere che aria tirava nelle negoziazioni e potevano spiare i punti deboli dei negoziatori. Oggi esistono registratori nascosti addirittura dentro una biro.”

E prese dalla tasca una biro usa e getta, manco una bic, e quella miserabile biro non aveva visto un registratore in tutta la sua vita. Ma al di là dei prolegomeni, l’educatore di spie dimostrò di essere assai più professionale e competente di quanto indicassero i suoi gesti timorati, come se qualcuno stesse spiando la lezione. Come spiare all’aria aperta? Come introdursi negli archivi informatici altrui o creare una guerra di guerriglie di informazione deviante attraverso Internet? Ogni domanda veniva seguita da un nuovo marchingegno che estraeva dalla valigia senza fondo e che mostrava agli studenti, lasciandoglielo addirittura tenere in mano, per far capire quanto può essere piccolo tutto ciò che comunica conoscenza. Per fortuna l’industria e la tecnica dello spionaggio progrediscono talmente in fretta che non c’è anno in cui non nascano nuovi aggeggi e controaggeggi, vale a dire…

“Signore e signori, ascoltate quel che sto per dirvi perché qui c’è una chiave della faccenda. Non esiste spionaggio senza contro-spionaggio. Non ci sono tecniche sofisticate di intercettazione telefonica senza le relative, e non meno efficaci, tecniche per contrastare tale intercettazione. Anche nello spionaggio si avvera il principio fondamentale della concorrenza, ossia che ogni mossa genera una mossa contraria. Pensate che vi ho parlato di un mondo che muove la ricchezza o la povertà degli individui o delle nazioni, ma dovete essere pronti a intervenire in decisioni politiche che riguardano la vita degli individui e dei popoli…”