Tecnologia
Il mezzo è il messaggio.
MARSHALL MCLUHAN
La tecnologia non è roba da smanettoni, ma una grande opportunità. […] L’Italia deve cambiare faccia, anzi interfaccia.
MATTEO RENZI
Ma davvero: «Il mezzo è il messaggio»? Oppure questa frase oramai di uso comune rappresenta una mitologia (la terza di questo nostro viaggio), sulla quale vale la pena farsi qualche domanda nell’epoca della democrazia del pubblico. Questo slogan rappresenta l’esempio più conosciuto, se non il manifesto, della dottrina del determinismo tecnologico sviluppata dalla Scuola di Toronto di Harold A. Innis (che ne era il leader), di Walter Ong e, appunto, di Marshall McLuhan (che ne fu la star, e lo coniò). Un filone multidisciplinare di pensiero, il quale, decisamente agli albori della «rivoluzione elettronica», studiando i mezzi e le vie di comunicazione (dall’importanza delle risorse arboree e di legno del Canada per lo sviluppo della stampa nordamericana alla radio), aveva rovesciato l’impianto culturale e gli assunti del marxismo.
All’economia come «struttura» di base e fondamento, da cui derivano sostanzialmente tutti i processi culturali, sociali e politici (che identificano delle «sovrastrutture»), i padri fondatori delle scienze della comunicazione avevano sostituito la tecnologia (a partire dalle tecnologie della comunicazione). Una surroga di tutto punto. Provenienti da campi disciplinari differenti, questi studiosi si erano concentrati sull’analisi degli effetti che i mass media e le forme di comunicazione producono (indipendentemente dai contenuti veicolati) sull’immaginario e il comportamento degli individui. In quest’ottica i media sono metafore. E, dunque, non rappresentano dei puri e semplici mezzi, né unicamente degli intermediari ma, come scriveva McLuhan in uno dei suoi testi principali (Understanding Media: The Extensions of Man, uscito nel 19641) riportando il termine all’etimologia greca, sono agenti del «trasportare», che cambiano e modificano la totalità dei soggetti e dei contenuti coinvolti: il mittente, il ricevente e il messaggio.
Questi pionieri delle discipline comunicative avevano compreso per primi come i media non fossero neutri, ma influenzassero in maniera massiccia e incontrovertibile l’utente, sia dal punto di vista della forma mentis che della sensorialità, giungendo alla conclusione che la forma della tecnologia determina de facto il contenuto e le articolazioni del pensiero e le sue modalità di espressione.
Il gruppo che ha operato all’Università di Toronto si è fatto così campione, nella seconda metà del Novecento, di un determinismo tecnologico che ha letto i mutamenti della società e della storia umane quali effetti diretti ed esclusivi delle innovazioni che si producono nella tecnica. E oggi, alla luce del nesso strettissimo tra la ragione alternativa della mentalità populista e i new media digitali (ormai anch’essi tanto maturi e utilizzati da non essere più «nuovi»), possiamo dire che non si tratta affatto di una mitologia.
Vediamo questo connubio all’opera nei funambolismi impolitici del Movimento 5 Stelle che, in origine, affidava ai propri militanti, attraverso consultazioni internettiane, il compito di stilare il programma politico, preferendo invece, più recentemente, sottoporlo loro già redatto per una pedissequa vidimazione di gradimento e un prevedibile e plebiscitario via libera (per non parlare dei ripetuti casi di punti programmatici «votati dalla rete» ma riscritti dal vertice). Come lo riscontriamo nell’estrema rilevanza per i pentastellati, la Lega e tutto l’arco populista europeo (anzi eurasiatico) della propaganda mediante social network – nella quale confluiscono, oltre a varie, indiscutibili intuizioni comunicative anni luce in anticipo rispetto ai loro avversari, anche una considerevole quota di fake news, dirty tricks, e sfruttamento non ortodosso e lesivo della privacy dei dati personali degli utenti (come ha palesato lo scandalo Cambridge Analytica-Facebook).
La tesi del trio di studiosi canadesi (al netto di qualche forzatura eccessivamente, giustappunto, deterministica) non costituisce, dunque, una mitologia, bensì una realtà e un dato di fatto. In buona sostanza, si tratta di una verità nell’era della postverità, come ha ribadito il sociologo Manuel Castells sottolineando in questi ultimi anni il fatto che (anche) la rete è il messaggio, e che quanto avviene dentro di essa cambia in maniera inesorabile le nostre menti e i nostri comportamenti di fruitori e navigatori.
SPECCHI TELEVISIVI
La visione del determinismo tecnologico si sposa pienamente con l’elaborazione intorno alla telecrazia (o videocrazia) di Giovanni Sartori: la televisione muta così profondamente il modo di pensare e interpretare una realtà che si è fatta sempre più simulacro da avere favorito il reinstallarsi della prevalenza di una cultura visuale al posto di quella alfabetica. E il postmoderno, che archivia tutta la carica politicamente emancipativa del progetto moderno si unisce così idealmente, nell’egemonia della dimensione iconica, con il premoderno. Un’operazione di metamorfosi cognitiva nella quale a svolgere una parte rilevantissima è precisamente la neotelevisione commerciale e antipedagogica, che spalanca le porte all’avvento dell’audience democracy nella vita pubblica2. Con gli anni Duemila la neotv, intensificando la sua media logica, diviene transtelevisione, e fa entrare il pubblico nella sceneggiatura e nella macchina produttiva: un risparmio e, soprattutto, una garanzia sicura di indici di ascolto elevati nel nome del sempiterno meccanismo mimetico del rispecchiamento (o della curiosità morbosa…), quello che ci fa sintonizzare volentieri su un programma di cui vediamo protagonista – o quanto meno comparsa – il nostro dirimpettaio e vicino di casa. Ma si tratta anche di una rinnovata Weltanschauung: la regina tv si supera, e va oltre la già significativa concessione della scelta “plurale” del canale, e di quella “elettorale” del televoto nello show.
A fare da minimo comun denominatore tra la transtv e l’attuale postpolitica sono la liquidità totale e la convergenza: di format, di interazione e coinvolgimento del pubblico (che avvengono in maniera costante e massiccia), di piattaforme di veicolazione dei contenuti, nel caso della prima; di forme comunicative, di leader e di messaggi postideologici, in quello della seconda. Quello della transtelevisione costituisce un mondo (mediale) dove, per usare un aggettivo che piace molto a Grillo, tutto è «meraviglioso». Talmente «meraviglioso», giustappunto, e irresistibile da essere dilagato e avere sfondato qualunque barriera, generando quella che possiamo definire come l’ideologia postpolitica del neorealitysmo.
Il centrifugato di uomo politico come celebrity, società dell’immagine, politainment (e politica spettacolista, in generale) è lungi dal costituire una novità. Identifica una specie di permanenza della vita pubblica, che parte dagli Stati Uniti degli anni venti del secolo scorso, si sposa con l’esplosione della mediatizzazione televisiva nel corso dei sessanta e giunge a travolgere ogni argine dagli ottanta in poi. Così, la tanto discussa proposta di «contratto di governo» (cosiddetto) “alla tedesca” partorito dal Movimento 5 Stelle nella lunga fase di gestazione dell’esecutivo post-voto 4 marzo 2018, nella sua versione politicamente double face – “di destra” con la Lega, “di centrosinistra” con il PD –, fa affiorare in un battibaleno l’analogia con il format tv del game show («Preferite la busta n. 1, o la busta n. 2»?). Non per nulla, l’inclinazione per le buste da quiz vanta già una storia robusta in seno al partito-non partito pentastellato, come ci rammenta quella sfoderata da Grillo nel 2017 nella cerimonia di proclamazione del risultato delle primarie interne, contenente il nome (scontatissimo) del vincitore.
Per non parlare del format di presentazione all’opinione pubblica del professor Giuseppe Conte. Con il suo dichiararsi l’«avvocato del popolo», oltre a richiamare in maniera spiccata il robespierrismo (ci torneremo sopra a proposito della quinta mitologia), il presidente del Consiglio in quota pentastellata ha messo in campo pure un’altra tipologia (molto postmodern) di giustizialismo. Quello – ci risiamo – tecnotelevisivo, del difensore civico e avvocato della gente, secondo il modello delle trasmissioni, fra tv di servizio e infotaiment, che arriva dritto fino alla miliare Striscia la notizia (e si sa quanto quest’ultimo programma sia stato simbolicamente centrale ed elettoralmente fruttuoso per la vision del Movimento, con Grillo affine e paragonabile nella sua predicazione a una sorta di «Gabibbo barbuto»).
E sempre per rimanere nelle praterie dei paradossi postmoderni di cui si rivelano imbottiti e imbevuti il Movimento 5 Stelle come svariati altri partiti di ispirazione neopopulista, non ci si deve fare indurre in inganno dalla retorica della rete e dal fondamentalismo internettiano. È precisamente in televisione che si sono fatti le ossa alcuni dei suoi uomini chiave (come pure di altre formazioni politiche di questo periodo), a cominciare dallo stesso Grillo e dal capo delle PR Rocco Casalino, e di videomaker, oltre che di informatici, è pieno il suo gruppo dirigente.
La logica mediale – come hanno messo in evidenza in un libro importante uscito nel 1979 i due sociologi statunitensi David L. Altheide e Robert P. Snow – è allo stesso tempo una sintesi e un combinato disposto di forma e formato3. In materia, si può quindi dire a ragion veduta che il partito grillino si è fatto specchio e cassa di risonanza dell’applicazione al web di una logica mediale televisiva, totale e totalizzante, tanto quella pedagogica (caratteristica della paleotv) – moltiplicando così i propri militanti appartenenti al genere dei “veri credenti” – quanto quella del flusso di contenuti (e di format) della politica come intrattenimento. Come si è verificato anche con lo streaming, che ha imperversato nella fase trascorsa della rivendicazione inflessibile e irremovibile della trasparenza totale, assumendo dei connotati che rimandano assai più all’entertainment e alla teatralizzazione della politica – oltre che al genere tv della candid camera – che non al citizen journalism o a una funzione watchdog (e di “cani da guardia”-sentinelle) degli allora “portavoce” grillini a favore dei cittadini-elettori.
NEOREALITYSMO ITALIANO
Ed ecco, dunque, che con il neorealitysmo quale ideologia politica si compie un ulteriore salto di qualità. Il populismo nella versione di un’ideologia “sottile” e flessibile risulta prontissimo ad accogliere innesti esterni, come quelli generati dalle forme tecnologiche e dai mezzi di comunicazione che generano visibilità. Di qui la saldatura del cerchio: l’ideologia del neorealitysmo propone un modello di ridefinizione del rapporto tra cittadini-elettori e politica analogo a quello che intercorre tra i telespettatori e la trans-televisione dei reality: il reclutamento-casting, surrogato della selezione-cursus honorum, l’interazione col pubblico che vota i beniamini (nelle tornate elettorali come nei programmi), l’apparente orizzontalizzazione democratica (tutti candidati o tutti tronisti, basta partecipare; in apparenza, per l’appunto), il dominus-conduttore (ossia il garante, o il capo politico). Nell’Italia trapassata dal neorealismo al neorealitysmo, per diventare reali (ossia: per esistere tout court), bisogna andare in tv e, possibilmente, bucare lo schermo. Perciò esiste un reality (o un talent show) dedicato a qualsivoglia aspetto dell’esperienza umana. Un format che si rivela lo specchio più conforme (e conformista) dello stato della società contemporanea, di cui riproduce fedelmente tantissime dinamiche. Il neorealitysmo, pertanto, è (anche) una forma ideologica di populismo – pensata da comunicatori e spin doctor – nell’età della riproducibilità tecnica della logica neotelevisiva e transtelevisiva mediante le piattaforme digitali.
A tale ideologia risultano riconducibili molti elementi costitutivi e figure centrali della forma partito (o, per meglio dire, dell’informe movimento-partito) pentastellato. Un esempio su tutti è il già citato Casalino, ex “gieffino” e deus ex machina incontrastato della propaganda del Movimento, per il quale comunicare non è solo involucro esterno e packaging, ma anche sostanza, trattandosi di un communication-oriented party che ha riscritto almeno parzialmente, ma di sicuro sostanziosamente, la geometria e la grammatica della macchina partitica. Casalino è infatti il portavoce (e tutt’altro che ombra) del premier Conte, nonché l’artefice del famigerato «codice Rocco», un insieme di condizioni non trattabili a cui devono sottoporsi le redazioni dei programmi televisivi se vogliono avere come ospite (rigorosamente senza contraddittorio) un qualche dirigente pentastellato di prima fila. E se si pensa alla presentazione durante la campagna elettorale del futuro “governo solista” di Di Maio, la modalità scelta risultava sovrapponibile in tutto e per tutto al format del casting di un reality.
Il neorealitysmo, di fondo, è l’epopea dell’uomo comune portato alla ribalta televisiva o della vita pubblica, come nel caso di molte delle candidature iniziali dei portavoce-parlamentari a 5 stelle, coincidenti con una serie di cittadini sconosciuti al mondo politico che si sottoponevano al web-voto dei militanti (corrispettivo del tele-voto) previo video di autopresentazione. Una formula dalle evidenti consonanze con il reality pieno di eliminatorie e nomination. Le modalità sono leggermente cambiate nelle ultime tornate di elezioni quando il capo occulto Davide Casaleggio, di concerto con quello politico Di Maio, ha optato, in maniera più tradizionale per una vasta percentuale di candidati scelti direttamente dai due, che sono comunque stati presentati pubblicamente in puro stile talent show.
Sotto le apparenze della promozione del divismo del vicino di casa, l’ideologia del neorealitysmo, effettua però anche tutta una serie di operazioni di rimediazione, in controtendenza con la sbandierata riproposizione tal quale della realtà. Una contingenza che vale allo stesso modo su un’isola dei famosi per VIP dalla parabola discendente, nel tinello in sedicente real time della vita quotidiana, come in politica. I reality show sono dei simulacri di esistenza che offrono all’uomo e alla donna della porta accanto il miraggio della popolarità e del successo, senza richiedere altra competenza che il mettere in scena la propria «nuda vita», biopolitica allo stato puro, perfezionata dalle regole della società dello spettacolo integrato (per dirla à la Guy Debord). E, dunque, il loro linguaggio è diventato anche uno strumento per farsi capire e intendere nel migliore dei modi da parte di quegli imprenditori della politica populisti (a partire dal pantocratore del postmodernismo politico in Italia, il cavalier Berlusconi) che dalla popolarità fanno derivare direttamente il consenso elettorale. Insomma, dalla psicologia delle folle di Gustave Le Bon al neorealitysmo per direttissima (e per diretta tv, senza più quella in streaming).
A ulteriore conferma della correttezza delle tesi del determinismo tecnologico c’è poi un testimonial globale in carne e ossa: Donald Trump. Il presidente americano è, in tutto e per tutto, un campione dell’old economy, dalla predilezione per il mattone nell’impero economico di famiglia fino all’industria pesante che ha promesso di riportare “a casa” ai suoi sostenitori della Rust Belt (dove gli operai, già alcuni decenni or sono, voltarono le spalle ai democratici per abbracciare il reaganismo). Assai verosimilmente, questo «uomo che fuggì dal passato» (in primo luogo il suo, pieno di lati oscuri e di quesiti inevasi) non sarebbe riuscito a fare politica in maniera così efficace e vittoriosa se non avesse avuto la possibilità di avvalersi delle piattaforme digitali e dei social messi a disposizione di tutti dagli “unicorni” informatici e dai sultani della Silicon Valley, altri miliardari a differenza sua tendenzialmente liberal e progressisti, supporter del Partito democratico e della candidata sconfitta (ma che aveva comunque preso più voti) Hillary Clinton.
IDEOLOGIA CALIFORNIANA
Se nel vecchio continente si sono fatti largo i partiti personali, negli Stati Uniti con «The Donald» si è definitivamente inaugurata la stagione disintermediante delle personalità politiche senza partito (qui più simili, da sempre, di comitati elettorali); un aspetto che vale per Trump, come pure per qualunque altro tycoon o imprenditore prestato alla politica – compreso, in prospettiva, Mark Elliot Zuckerberg o qualche suo collega sultano del silicio e imperatore degli algoritmi che accarezzasse ambizioni politiche. E precisamente la traiettoria di «Zuck» fornisce un’ulteriore riprova dell’appropriatezza dell’elaborazione dei teorici del tecnodeterminismo. Perché buona parte del villaggio globale si ritrova attualmente a pensare sulla base delle categorie stabilite e approntate dagli appartenenti alle due sottoculture (o, più propriamente, ai due stereotipi culturali, secondo un pezzo della letteratura sociologica) nerd e geek passate all’assalto.
Insomma, gli smanettoni nerds (più introversi e autoreferenziali) e geeks (più proiettati verso l’esterno e fieri) sono arrivati al potere (quasi) assolutistico sull’onda della capacità della tecnologia di orientare e determinare le forme del pensiero.
I nerds ce li siamo a lungo raffigurati come personaggi privi di abilità sociali, incapaci di avere rapporti normali con gli altri, zavorrati da comportamenti goffi e da un aspetto non esattamente in linea con i dettami della società dell’immagine, tenuti a debita distanza dalle ragazze, e adusi, essendo portatori di una qualche ossessione, a stordirsi di fumetti, cinema e film di (vario) genere. Fino a quando in molti si sono buttati a testa bassa sull’informatica, che ha fornito loro una corazza emotiva e una fissazione originale e innovativa, e hanno cominciato a smanettare sui PC e con i videogiochi, divenuti via via un passatempo realmente di massa. In poco tempo, la dimensione ludica ha ceduto il passo a quella professionale, e la loro magnifica ossessione si è tradotta nel destino spirituale di quello straordinario lembo di estremo occidente che è la California, contagiando la quotidianità di tantissimi da un angolo all’altro del pianeta.
L’idealtipo di questa metamorfosi è stato giustappunto Zuckerberg, il cui social network è nato proprio per rispondere a uno dei problemi esistenziali di questi giovani (di cui lui era un esemplare), vale a dire le difficoltà di relazione con l’altro sesso. E da perdente nella vita sociale è passato a essere un (super)vincente: lui come gli altri “sultani” della Silicon Valley – dal «Mosé dell’età digitale» Steve Jobs a Elon Musk.
Intere generazioni di ragazzi hanno fatto il salto, di qualità e di paradigma, aderendo a quel principio fondamentale della mentalità statunitense rappresentato dal «do it yourself», e inserendosi nei circuiti del mercato del lavoro – e dell’accettazione sociale – nelle vesti di programmatori e sviluppatori. Affermandosi, va da sé, come i migliori di essi, mentre l’avanzata inarrestabile della new economy e la progressiva smaterializzazione di quella tradizionale evidenziavano il fatto che data is the new oil (i dati personali costituiscono il “nuovo petrolio” e la risorsa principe della fase odierna del capitalismo delle piattaforme).
Le sottoculture nerd e, soprattutto, geek si sono quindi convertite, almeno dalla metà degli anni novanta, nella spina dorsale di una nuova egemonia culturale, quella del coding (la programmazione informatica), dal momento che proprio dal codice dipende la stragrande maggioranza dei dispositivi e dei devices che determinano il nostro stile di vita.
I modelli e i riferimenti di nicchia di quelli che venivano considerati casi umani si sono tramutati nella cultura dominante, nella quale hanno riversato tic, connotati e aspetti provenienti dalle loro esperienze pregresse. E il codice è divenuto architrave della nuova cultura pop – al punto che gli ex losers si sono via via concessi anche un bel po’ di autocelebrazione proprio attraverso i prodotti dell’industria culturale di massa: dalla pellicola seminale del 1984 La rivincita dei nerds fino al più recente e celebrato serial The Big Bang Theory, oltre ai biopics dei pionieri vecchi e nuovi (come Steve Jobs, il film del 2015 di Danny Boyle con Michael Fassbender come protagonista, e The Social Network del 2010) e a quell’impressionante manifesto visivo (e postmodernisticamente supercitazionista) della sottocultura geek che si fa mainstream che è Ready Player One (2018) di Steven Spielberg.
Come i consulenti di McKinsey & Company (la famosa società di consulenza aziendale e di mercato) sono stati definiti i «monaci cistercensi» del neoliberismo e gli evangelisti della globalizzazione economica, così i geeks sono identificati come i missionari dell’Ideologia californiana, decodificata – ed etichettata – alla metà degli anni novanta dai massmediologi Richard Barbrook e Andy Cameron su «Mute», una rivista online britannica consacrata alle cyberculture di orientamento radical, che si può considerare alla stregua dell’anti-«Wired», la bibbia del tecno-ottimismo digitale. Tale ideologia corrisponde per sommi capi a un frullato di neoliberismo più o meno temperato, attenzione ai diritti individuali, gender equity (seppure smentita da alcuni comportamenti, e l’esempio più eclatante risiede nei comportamenti di stalking e di sexual harassment di vari dirigenti di Uber), filantropismo, narrativa integralista della trasparenza e, naturalmente, neo-neopositivismo e determinismo tecnologico con una certa inclinazione per il darwinismo sociale. Ancora una volta, dunque, una prolungata sequenza di paradossi postmoderni.
DIGITAL PROPAGANDA
Visto che ci troviamo sempre in questi paraggi, a ben guardare, c’è qualcosa che accomuna i padroni dei social media e i signori dell’algocrazia – a cominciare proprio da Zuckerberg – con i leader populisti da Grillo a Salvini, da Farage a Trump, mettendo nella lista, per un certo verso, pure Julian Assange, il cavaliere digitale senza macchia – apparente – di Wikileaks.
Al netto di svariate difformità (e di alcune differenze palesi), tutte queste figure della vita pubblica contemporanea appaiono, difatti, come altrettante incarnazioni di una manifestazione caratteristica – e, pensiamo, preoccupante – dell’attuale Zeitgeist. Quella compendiabile nello slogan «lanciare il sasso, nascondere la mano». Che si tratti dei capi e degli imprenditori politici dei neopopulismi postmoderni, piuttosto che dei creatori dei social network o di cantanti seguitissimi da eserciti di giovanissimi (e non solo) come vari rapper, ad accomunarli è l’idea di non avere fondamentalmente alcun obbligo morale rispetto alle conseguenze di quello che dicono e predicano. Sono infatti, a vario titolo, tutti leader dotati di grande potere di persuasione e influenza sulla società, che si presentano come privi di responsabilità collettive (o, per dirla eufemisticamente, non pienamente responsabili). Una sensazione di impunità-irresponsabilità a cui hanno contribuito i canali di propagazione dei loro messaggi, perché il web realizza in modo esponenziale e all’ennesima potenza la formula mcluhaniana per cui il mezzo è il messaggio. Dunque, anche il social medium è il messaggio. E se, nell’analisi dello studioso canadese di letteratura elisabettiana che si reinventò come uno dei primi massmediologi, la televisione ha la funzione di rassicurare, oggi possiamo dire che il web ha quella di eccitare gli animi. Per l’una e per l’altro, comunque, si tratta di messaggi il cui ruolo principale, anche per effetto dell’esempio negativo dei leader politici e sociali summenzionati, è quello di confermare le opinioni degli utenti. Tra i quali si sta così radicando sempre più la deresponsabilizzazione rispetto alle proprie azioni.
Certo, la scala del fattore di impatto di ciascuno di loro (in alcuni casi autenticamente planetario) si rivela ogni volta diversa, ma analogo appare l’esito finale: l’attitudine – disseminata ancora più ampiamente in epoca postmoderna – di vasti settori delle classi dirigenti a invocare per sé gli onori senza volersi sobbarcare i corrispondenti oneri. Apprendisti stregoni, incendiari, pifferai magici, o agnostici alfieri dell’indifferentismo, incoraggiano azioni, processi e tendenze di massa rifiutandosi di valutarne le conseguenze e le implicazioni, avendo però l’occhio sempre rivolto all’incasso economico o elettorale.
E lo si tocca con mano, ogni giorno di più, all’interno di un clima di opinione nel quale la ragionevolezza sembra perduta e si moltiplicano in maniera impudente le voci dal sen fuggite di coloro che detengono ruoli che dovrebbero fare da pulpiti di moderazione e senso di responsabilità. La razionalità viene vieppiù considerata, in questo contesto, un sinonimo di mollezza, una “patetica ossessione” per gente senza attributi, mentre spopolano populisticamente l’urlo, l’esagitazione, la sparata e, giustappunto, la creazione del nemico, al punto che i toni del bipolarismo muscolare della stagione berlusconiani vs antiberlusconiani sembrano ora quasi roba da educande. Lo vediamo nella circolazione di falsità, panzane e bufale, nella proliferazione di fake news propagandistiche e nel moltiplicarsi degli eserciti di trolls che immettono nella discussione pubblica e nello svolgimento del processo elettorale elementi non veritieri capaci di incidere in maniera significativa sulla scelta di voto di alcuni cittadini.
Il paesaggio politico e l’orizzonte concettuale riscritti dalla post-verità (termine non a caso rigettato sdegnosamente dai leader e dai teorici dell’ideologia dell’irresponsabilità), sono tanto avversi, almeno a parole, al relativismo dei valori morali (e favorevoli al ritorno a quelli tradizionali, veri e autentici), quanto invece alacremente impegnati nella promozione del relativismo rispetto all’obiettività di numerosi temi, questioni e fatti della vita pubblica. E se la formula della post-verità non piacesse, si può rispolverare il sempre utile e lungimirante Walter Lippmann, il quale, già negli anni venti del Novecento, scriveva della creazione da parte dei mezzi di comunicazione di massa di uno «pseudo-ambiente» quale dimensione parallela che si prestava alla perfezione a favorire la manipolazione dell’opinione pubblica; oppure si può ricorrere agli «pseudoeventi» (i «fattoidi» o «fatti alternativi», alt-facts) di cui parlava, negli anni sessanta, lo storico Daniel Boorstin, più sofisticati della propaganda perché orientano la gente mescolando elementi oggettivi (fatti) e altri creati ad arte (artefatti) e volutamente falsificati. Il mezzo (manipolatore) è il messaggio (manipolato).
E lo misuriamo, infine, nell’archiviazione della militanza di partito, rimpiazzata da una sorta di hooliganismo politico, a cui anche le internettiane camere dell’eco hanno fornito uno stimolo potente. Così come negli hate speeches che dilagano sui social, insieme a una marea di sciocchezze sottoculturali, affermazioni misogine o razziste ed esaltazioni del bullismo e nella circolazione di materiale pornografico o sessuale che viene trafugato ai legittimi proprietari e al loro uso privato per finire travasato nella corrida del web.
Qui, giustappunto, sopraggiunge la problematica della responsabilità di ciascuno di noi, utenti della rete e persone che vogliono dire la propria in politica o esprimere delle passioni. Ma c’è anche – finora un po’ troppo aggirata – la questione dell’assunzione di un impegno morale rispetto alle conseguenze del proprio operato da parte di chi ricopre un ruolo pubblico rilevante oppure ha la proprietà delle piattaforme internettiane. Un nodo serissimo da sciogliere, altrimenti la facile ideologia dell’irresponsabilità farà ancora più danni di quelli (tanti, troppi) che sta già facendo.
La si può chiamare, se si vuole, etica della responsabilità; e, come insegnava Max Weber, dovrebbe risultare indissolubile dalla politica. Mentre di una certa – malintesa – etica della (pseudo)convinzione, come pure (in misura ancora maggiore) di opportunismo, sono lastricate le strade del Far West. O quelle dell’inferno. Che non sono precisamente due luoghi di libertà, così come l’invito al senso di responsabilità, a dispetto di quanto strillano in maniera strumentale gli ideologi dell’irresponsabilità, non è censura, né moralismo, ma ben altro.
1 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, ilSaggiatore, 2008.
2 C. Freccero, Televisione, Torino, Bollati Boringhieri, 2013.
3 D.L. Altheide, R.P. Snow, Media Logic, Roma, Armando, 2018.