Autenticità

Le interpretazioni errate, i fraintendimenti, impediscono il cammino verso la conoscenza autentica più di quanto faccia la totale ignoranza.

MARTIN HEIDEGGER

Quando vedo il tricolore mi incazzo di brutto. Io quella bandiera la uso per pulirmi il culo.

UMBERTO BOSSI

La Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti promulgata il 4 luglio del 1776, nel suo preambolo, come si sa, proclama il «diritto al perseguimento della felicità». Un diritto inalienabile secondo i padri fondatori che si ribellarono alla corona britannica, al punto da collocarlo accanto ai diritti alla vita e alla libertà. Un’intuizione che piaceva molto anche a Gaetano Filangieri, il giurista e filosofo esponente dell’alquanto geolocalizzato Illuminismo napoletano, il quale, nel 1780, nella sua opera più famosa, La Scienza della Legislazione, indicava il «progredire della felicità nazionale» – da intendersi in maniera molto specifica e circostanziata nei termini della «somma di felicità dei singoli individui» – come l’autentica e suprema finalità del governo1.

Passati questi entusiasmi illuministici, le Carte costituzionali contemporanee – come la nostra – si sono mostrate decisamente più parche e frugali nel riconoscimento di un diritto la cui fruizione risulta tanto intima e privata e, sotto svariati profili, inafferrabile. E, dunque, se non esiste un diritto relativo al conseguimento di quella materia così anelata ma sfuggente che è la felicità, figuriamoci se in costituzione può venire contemplato un “diritto al rutto” o un “diritto all’insulto” – e, analogamente, non esiste un diritto all’eruttare fake news come fossero “verità vera” (o, per dirla come Bannon e gli spin doctor trumpisti, «verità alternativa»).

Eppure è proprio questa la seconda mitologia che accompagna e sorregge la democrazia in salsa populista: quella del diritto a rivendicare in politica la cosiddetta «sincerità-veracità» e una presunta schiettezza. E che si manifesta nell’esaltazione dell’assenza di mediazioni in qualunque ambito della vita associata, nessuno escluso. Disintermediazione à gogo, quindi, compresi i rapporti con gli oppositori politici, con i quali si deve andare al sodo, al corpo a corpo, aggredendo verbalmente l’avversario (meglio, «il nemico»), offendendolo, denigrandolo, e magari facendo pure killeraggio a colpi di dossier o di «squadrismo mediatico», inclusa la forma soft del gossip su qualche rotocalco rosa.

Una rivendicazione di «vere verità» che corrisponderebbe al saltare e bypassare gli inutili orpelli del formalismo caratteristici della dialettica politica della democrazia formale. E permetterebbe, in tal modo, di avvicinarsi giustappunto, una volta di più, alla sana e benedetta disintermediazione, rispondendo appieno a quella voglia popolare di autenticità che attraversa come un’istanza irresistibile e irrefrenabile l’età della democrazia del pubblico.

In virtù di uno dei primissimi paradossi postmoderni, la dilatazione ed espansione dell’ego e l’aspirazione all’autorealizzazione di sé sono andate a braccetto con una sempre più spasmodica ricerca di ciò che è autentico.

Le cause sono molteplici: la mobilitazione cognitiva strutturatasi a metà degli anni Sessanta, (con l’incremento dei tassi di istruzione e della quantità di informazioni che hanno ampliato la capacità dei singoli di dare giudizi autonomi sui temi di rilevanza pubblica); la diffusione dei valori postmaterialisti; la diffidenza esponenzialmente in crescita nei confronti di quello che, da un certo punto in poi, verrà chiamato «establishment», dagli intermediari dell’informazione all’industria alimentare, dalla cultura ufficiale e scolastica, fino, inevitabilmente, alle istituzioni, il cui galateo e il cui linguaggio indirizzati a stemperare i conflitti vengono giudicati sempre più come insinceri.

Certo, c’è un’inequivocabile differenza tra la ricerca di cibo biologico e organico o la predilezione per i «mercati del contadino», e il ritornello machista (e scarsamente igienista) per cui «l’omo ha da esse omo, e ha da puzzà». Ma si tratta in qualche modo sempre, in contesti culturali e con predilezioni differenti, della medesima rivendicazione della primazia dell’autentico che salta le filiere: da quelle della grande distribuzione. per restituire la naturalità e la vicinanza alla terra di ciò che mangiamo, a quelle, si potrebbe dire, della deodorazione industriale. Insomma, natura über alles, che costituisce però una significativa contraddizione: gli uomini, come noto, rappresentano una specie animale molto particolare, dal momento che non di sola natura sono fatti, ma anche di cultura. O, se si preferisce, poiché la cultura rappresenta, da molti punti di vista, proprio la nostra seconda essenza. E, ciononostante (o, forse, proprio per questo…), impazza la voglia di “natura al naturale” come anelito all’autenticità.

SOCIETÀ AL NATURALE

I positivismi e gli scientismi riservavano alla natura la funzione di luogo di verifica (e di cavia da laboratorio) del progredire della scienza, oppure, in taluni casi, di deposito ideologico e di idola tribus dei vari irrazionalismi con i quali ingaggiarono il loro scontro di civiltà nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento. Da qualche tempo a questa parte, invece, quello della Natura con la maiuscola è diventato una sorta di mantra, variamente intonato e declinato e un certo “neo-naturalismo” si è imposto quale ideologia dell’epoca corrente, percorrendo in maniera assai trasversale, seppure all’insegna di accenti differenti, gli ambiti politici.

Questa tendenza può allora assumere varie fattezze: da un impasto di nuova sacralità, political correctness e desiderio di essere trendy, alla confluenza tra ecologismo, un sapere scientifico bisognoso di “lavare” la propria immagine (e, forse, anche la propria coscienza) dall’industrialismo e dal nuclearismo del Secolo breve, all’idea, estremamente à la page, di spontaneità e genuinità, di cui il cibo slow, i “mulini bianchi”, i prodotti DOC e DOP rappresenterebbero solamente la punta dell’iceberg e l’effetto del recepimento di una nuova ideologia totalizzante da parte del sempre attento e scafatissimo marketing commerciale.

Ma può presentarsi anche con le sembianze del tradizionalismo sociale rilanciato nel discorso pubblico da un’estrema destra cristiana in forma scoppiettante – quella che il solito Bannon e la sua alt-right si sono incaricati di supportare e disseminare, e di cui il ministro leghista della Famiglia Lorenzo Fontana si fa portavoce di governo in Italia. Tale «destra alternativa» persegue una restaurazione dei costumi «naturali» avversa ai diritti gay e LGBT, e rigetta furiosamente qualsivoglia modello di nucleo familiare giustappunto non “naturale”. Ed ecco così che questo neo-naturalismo finisce (siamo sempre dalle parti dei paradossi postmoderni) per toccarsi e ricongiungersi in certo qual modo con il mito dell’autenticità2, che ha cominciato il suo lento percorso da ben altre sponde, nella temperie del Sessantotto, nel nome della rivolta contro le rigidità dell’educazione borghese e della messa in discussione di un paradigma di relazioni sociali giudicate troppo formalistiche e insincere e, pertanto, da ribaltare a favore di rapporti tra gli individui improntati a una forma di naturalità.

Prima del Sessantotto, però, questa forma di mitopoiesi (che costituisce ancora una volta un prodotto della postmodernità) affonda le sue solide e antimoderne radici nel primo Novecento, in particolare in quel guazzabuglio e repertorio di visioni che è Essere e tempo (1927) di Martin Heidegger. Il “pastore” e il predicatore del «gergo dell’autenticità», oggetto delle critiche durissime e senza sconti di Theodor W. Adorno, uno dei padri della Scuola di Francoforte.

Pensatore di culto, suggeritore di varie suggestioni filosofiche, nemico acerrimo del «progetto moderno» e della sua carica emancipativa in quanto autonominato «custode dell’Essere», pifferaio magico, intellettuale di punta del Terzo Reich e feroce antisemita, Heidegger è stato certamente un uomo di genio e originale, ma anche un innegabile e inequivocabile cattivo maestro. La sua adesione al nazismo non fu, come sostengono gli innocentisti (alcuni dei quali in buona fede), peregrina o unicamente opportunistica, ma costituì a ben guardare l’esito necessitato – come avrebbe detto lui – di una concezione profonda e radicata, e lo sbocco dovuto di un’intera filosofia anti-illuministica e che si voleva antimetafisica.

Tale pensiero ruotava appunto intorno alla categoria di «autenticità», di cui in Italia si occupa con frequenza, naturalmente in maniera molto interessata ed elogiativa, «L’intellettuale dissidente», uno dei siti think tank dell’italica galassia populista dove l’heideggerismo in salsa di estrema destra va per la maggiore, si salda con il «Sessantotto-pensiero»3 (secondo la formula di Luc Ferry e Alain Renaut), e fornisce argomentazioni gnoseologiche alla relativa mitologia veicolata dai cortei e dalle assemblee studentesche in lotta con il fariseismo dei parrucconi e i galatei troppo borghesi. Quel

Il Dasein (l’Esserci) – che è la modalità esistenziale dell’uomo immerso in un contesto sociale –, lo snaturerebbe e condizionerebbe in modo strutturale, allontanandolo dall’autenticità della condizione del Sein (l’Essere). In buona sostanza, l’individuo all’interno della società (era per questo che il filosofo preferiva le lunghe passeggiate cogitabonde in solitaria tra gli alberi della Foresta Nera e le meditazioni nel silenzio della sua baita) diviene un ostaggio del conformismo e dell’impersonalità dei «si dice», «si fa», «si crede», «si ritiene» – e, in modo siffatto, finisce pure per recidere i suoi legami organici con la comunità (peraltro, un ritornello e un refrain essenziale del pensiero ultraconservatore e reazionario tedesco, al pari dell’opposizione tra Kultur e Natur).

L’inseguimento dell’autenticità riporta infatti spessissimo a una qualche forma di estetizzazione della Natura oppure di nostalgia del passato. Nonché alla “naturalità perduta”, che come scrive Gianfranco Marrone4, oscilla fra due polarità simmetricamente speculari, compendiabili nelle figure di Prometeo e Orfeo: il primo, al tempo stesso protagonista e vittima della tecnica, dona all’umanità il fuoco, sfida e forza la Natura oltre i suoi limiti (e incorre nella “società del rischio” di Chernobyl e della mucca pazza, tinteggiata da Ulrich Beck), mentre il secondo anela a fondersi con essa in una sintesi panteistica e simpatetica, in prototipico stile new age. Ci sono, insomma, dei fili nascosti che collegano il pensiero orfico rinascimentale la deep ecology degli anni Settanta, passando per l’idealismo schellinghiano, e che portano dritto al ragù di soia e al grano kamut offerti sugli scaffali dei negozi bio ai consumatori green oriented.

ECOLOGIA SOVRANISTA

E la voglia di autenticità rappresenta un volano formidabile anche di quello che possiamo etichettare come «ecopopulismo». Secondo il sociologo e storico delle idee Pierre-André Taguieff (un altro studioso molto conosciuto di queste tendenze politico-ideologiche), il populismo è descrivibile alla stregua di uno stile politico-comunicativo e di un repertorio retorico, e presenta due poli: quello protestatario-sociale e quello identitario-nazionale5. Ecosovranismo e ecopopulismo risultano chiaramente riconducibili a questa seconda polarità, dove natura e territorio risultano componenti centrali di una «identità» (in buona parte artificiosa, ricostruita e reinventata ex post). Proprio nelle varie sfaccettature dell’ecologismo, infatti, si possono ritrovare le tracce di un’altra delle fratture essenziali del conflitto politico contemporaneo, quella tra il sovranismo dilagante e il globalismo in difficoltà. Un certo modo di intendere l’oikos (la «casa», all’origine della parola «ecologia») rimanda a una corrente dell’ambientalismo conservatore e, soprattutto, reazionario di lungo periodo, che con il populismo e il sovranismo si sposa alla perfezione. La «casa» coinciderebbe allo stesso tempo con la Natura e la Patria (l’Heimat, per richiamare un termine che ricorda qualcosa), e si esprimerebbe in un’idea di comunità umana che convive con le risorse naturali della nazione, rimanendo chiusa agli stranieri – e di cui troviamo una trasposizione sostanzialmente tale e quale nell’odierna concezione populista del respingimento dei migranti.

Gli ecosovranismi e gli ecopopulismi, nella loro volontà di restaurare una comunità «pura», immersa in una natura che deve tornare a essere immutabile (almeno a parole), ci sciorinano pertanto l’ennesima riproposizione di un mito di autenticità, in cui il popolo, riportato finalmente all’innocenza originaria, assume le sembianze di una comunità angelica contrapposta all’inferno e alla corruzione sparsi dalle varie caste politiche e culturali. La ben conosciuta idea per cui il pesce puzzerebbe sempre e solo dalla testa – mentre pure la coda, per la verità, dal punto di vista olfattivo non scherza…

L’estrema destra novecentesca è stata sovente innervata da tutto un filone di naturalismo reazionario e perfino animalista. Una delle sue espressioni ha coinciso con la «rivoluzione conservatrice» avversa alla repubblica di Weimar degli anni Venti e Trenta (che era sprezzantemente e violentemente anti-partitica). E un ulteriore sovranismo, in versione tremendamente oscena, ha alimentato anche quanto può venire considerato alla stregua del dark side dell’“ambientalismo” e del naturalismo, quello espresso da Ricardo Walther Darré (1895-1953), uno dei teorici di riferimento delle SS e il ministro dell’Agricoltura del regime nazista. Darré, che impiegava comunemente la parola «ecologia» coniata nel 1866 dal biologo tedesco Ernst Haeckel, fu uno degli artefici dell’aberrante e mostruosa ideologia del Blut und Boden (il «sangue e suolo», o «sangue e terra»), per la cui «elaborazione» attinse dal mito ruralista e dalle idee steineriane sull’agricoltura biodinamica.

Il binomio autenticista «terra e natura» in seno ai populismi lo si ritrova con una frequenza elevatissima anche in periodi più recenti, specialmente quando ha una matrice che lo fa discendere o lo collega in presa diretta con la destra radicale. Come nel caso della nouvelle droite francese di fine anni sessanta, che dei populismi con una matrice di estrema destra, ma assai desiderosi di sfondare il muro delle distinzioni e di «andare oltre la destra e la sinistra», è stata l’autentica incubatrice e l’indubbia startup. All’insegna della sua strategia «metapolitica» (tutta spostata sull’obiettivo di fare leva sull’immaginario), e a colpi di quello che venne chiamato il «gramscismo di destra», la nouvelle droite di Alain de Benoist mescolava tradizionalismo, nietzscheanesimo, antiliberalismo, anticapitalismo e antimondialismo, riservando un posto d’onore nella sua sincretistica tavolozza ideologica all’ambiente, nel nome del legame mistico dell’uomo con la natura. La «bioregione» – come la definivano gli eredi della nuova destra – costituisce il pilastro di un comunitarismo basato sull’identità etnica che, giustappunto, non può che essere regionale e incardinata sul territorio; e, così, l’eco-localismo è diventato una componente a tutti gli effetti di questi populismi verdebruni.

Secondo il sociologo e storico delle idee Pierre-André Taguieff, il populismo è descrivibile alla stregua di uno stile politico-comunicativo e di un repertorio retorico, e presenta due «poli»: quello protestatario-sociale e quello identitario-nazionale. L’ecosovranismo e l’ecopopulismo risultano chiaramente riconducibili a questa seconda polarità, dove la natura e il territorio divengono componenti centrali di una «identità» (in buona parte artificiosa, ricostruita e reinventata ex post). Non a caso tra etnosocialismo, sentori di ecologismo profondo (la deep ecology) e qualche strizzata d’occhio alla decrescita il «marin-lepenismo» – contenitore alquanto flessibile dal punto di vista ideologico e delle correnti di pensiero – ospita anche la corrente della nouvelle écologie (o degli «eco-fasci») di Laurent Ozon, le cui tematiche hanno trovato spazio pure su «La Padania», house organ ufficiale di quella che era la Lega Nord (prima dei rebranding operati da Matteo Salvini), e sulla sua versione radiofonica, Radio Padania.

Un’altra formula del sovranismo in versione green è quella che si è sviluppata in concomitanza con la «sindrome NIMBY» – «Not In My Back Yard», ovvero «non nel mio cortile» –, e che si rivela saldamente presente nella genealogia del grillismo e in quella di vari dei comitati locali di protesta e meet up degli «Amici di Beppe Grillo», che contribuirono alla nascita del Movimento 5 Stelle, e sono finiti via via emarginati dai vertici del partito-non partito, spesso per questioni collegate alle candidature nelle varie tornate elettorali.

SCORRETTI E VINCENTI

A dare l’impronta più omnicomprensiva e condivisa alla (per niente) magnifica ossessione della veracità è, però, la sovversione della logica alto/basso. Che arriva sempre per direttissima dalla temperie postmoderna, e fa brutalmente coincidere il rispetto dovuto alla diversità – e, quindi, anche il pluralismo – con la manifestazione somma dell’ipocrisia. Perché, nel frattempo, quella abolizione di distinzioni sotto il profilo delle scelte estetiche è divenuta oggetto di una completa generalizzazione e di un’estensione alla totalità degli ambiti sociali e politici. E qualunque giudizio di merito, se non perfino di valore riguardo la strutturazione di contesti sociali «alternativi» o meno tradizionali, viene accusato di ogni genere di nefandezza e travolto dall’esecrazione di tutta una compagnia di prevaricatori che si presentano come prevaricati. È la strategia del vittimismo – e, nuovamente, del rovesciamento e del sovvertimento – in cui eccellono i leader populisti, coi lupi che si travestono da Cappuccetto rosso (anche se, chiaramente, non è questo il riferimento cromatico nella fattispecie più appropriato). E a venire additato al pubblico ludibrio quale imputato principale è un orientamento ideologico nato nell’ambito della sinistra statunitense degli anni trenta del Novecento, a cui si è già fatto riferimento: il PC, che non sta per Partito comunista, ma per «politicamente corretto», e viene considerato dai suoi detrattori alla stregua della sentina di ogni corruzione.

Una sigla conosciutissima nel mondo anglosassone e una categoria ombrello che raccoglie visioni che vanno dal femminismo al multiculturalismo e al movimento LGBT: parlare di «correttezza politica» davanti agli alfieri della politica populista genera il medesimo effetto dello sventolare un drappo rosso davanti a un toro, infervora uno scontro nel quale fioccano i colpi bassi e, come largamente documentato dalle ultime consultazioni elettorali da un capo all’altro dell’Occidente, sposta molti voti. I populisti stanno avendo sempre più gioco facile nel presentare la political correctness come un’operazione linguistica artificiale che nega la «realtà dei fatti» (il che detto da loro suona inusitato, ma è l’effetto dei paradossi postmoderni) e, quindi, l’autenticità delle cose.

Il politicamente corretto, seppure talvolta ossessivamente rigido nelle sue caselle, tassonomie e classificazioni, rappresenta nei fatti, in ogni caso, pressoché l’unico strumento per garantire la convivenza rispettosa (almeno formalmente, ma le forme, giustappunto, sono importanti) tra i molteplici credi, etnie, gruppi e orientamenti sessuali che compongono la nazione arcobaleno a stelle e strisce. E la sua utilità in questi termini generali appare valida non esclusivamente per gli Stati Uniti.

Nondimeno, a fornire ai propri demolitori alcuni assist sono state proprio le frange più intransigentemente settarie e “di coccio”, per così dire, di una certa sinistra multiculturalista e radical americana, che hanno irrigidito quello che è, appunto, un opportuno codice semantico e un’arma culturale di difesa delle minoranze, dei «diversi» e dei più deboli, fino a farne un tabù inviolabile e ad avventurarsi ai limiti di un estremismo caricaturale. La destra – e non solo quella radicale o populista – ci sta così lucrando elettoralmente alla grande, come dimostra l’ascesa alla presidenza degli Stati Uniti, che ha sfidato parecchie delle leggi di gravitazione della politica, di Donald Trump. Colui che all’inizio della corsa elettorale pareva il meno «presidenziabile» e più improbabile dei candidati repubblicani è entrato alla Casa Bianca anche grazie alla capacità del suo «universo espanso» (staff, comunicatori, radio dell’ultradestra, siti fiancheggiatori dell’alternative right e il «Breitbart News Network») di confezionare in modo efficace, e inedito, un messaggio articolato, ma nel quale la parte del leone, per molti versi, l’ha giocata l’intenzione deliberata e rivendicata orgogliosamente – e sprezzantemente – di essere politicamente scorrettissimo.

Ed è così arrivato al potere facendosi portabandiera di una restaurazione della tradizione, tra la mitologia dell’uomo che si fa da solo (un «autoscatto» professionale), la rivincita degli usi e costumi di Main street e dell’America profonda e il primato della White Nation (l’antitesi del sogno di una nazione postrazziale che Barack Obama non è riuscito a trasformare in realtà). Nell’individuare un tema dominante di campaigning elettorale e di strategia comunicativa, aggiungendovi poi parecchio istrionismo e delle doti consumate da mattatore di talent show, l’ex immobiliarista e tycoon newyorkese ha scommesso proprio scelto far sua sull’ideologia del politicamente scorretto, praticamente coincidente con la visione del mondo (e delle relazioni di supremazia nei confronti delle “minoranze” etniche e di genere) dei maschi bianchi adulti degli anni Cinquanta. In tutta evidenza, esiste difatti una relazione diretta tra la tenuta dei consensi a livello personale e la protervia trumpiana nell’assaltare a male parole e becerume gli avversari politici come nello smantellare mattone dopo mattone i santuari del politicamente corretto.

La travolgente avanzata di Trump che prende a craniate donne, portatori di handicap, immigrati e giornalisti, stracciando il galateo multiculturale (rigorosamente senza scompigliare la saldissima chioma), si spiega allora con la sua perfetta interpretazione di un certo spirito dei tempi. O meglio, con il suo esserne un’incarnazione a tutti gli effetti, avendo dalla sua la biografia e (pure) il physique du rôle. Il businessman divenuto presidente è, appunto, «autentico» nell’età che per superare la sfiducia verso la politica pretende il rispecchiamento inteso come garanzia del meccanismo di «autenticazione». E va benissimo se, come nel caso di Trump e dei suoi emuli, si tratta di un’autocertificazione in materia non precisamente credibile – e che si sottrae al principio di realtà – quale la dichiarazione di essere «uno di noi» a dispetto di un conto in banca (si passi la metafora non troppo finanziarizzata) incommensurabile da parte del suo elettore medio della Rust Belt.

Gli applausi che vengono tributati allo sbranatore di liberals non sono dissimili da quelli che accolgono certe battute dell’ipermacho Vladimir Putin o varie tesi del nostrano Salvini e della transalpina Marine Le Pen, come pure diverse dichiarazioni di Beppe Grillo (aduso al ricorso al turpiloquio secondo un format di politica-avanspettacolo) e i post di parecchi dirigenti pentastellati. Una corsa da parte dei capi populisti a superarsi nell’infrangere, sotto il segno inequivocabile e incontestabile dello spargimento dell’odio, quelli che definiscono «tabù» (e che sono invece, in genere, dei pilastri della convivenza civile), il tutto spacciato come anticonformismo. Sofismi (si sarebbe detto un tempo) e strategie retoriche (diciamo oggi) volte a intensificare uno Zeitgeist qualunquista e populista dove si giustappongono il rigetto di ogni establishment equiparato sempre e comunque a una casta detentrice di odiosi privilegi e quello di qualsiasi minoranza che si permetta di «alzare la voce» o di infastidire la maggioranza con qualche richiesta di tolleranza e apertura mentale.

Nelle narrative del politicamente scorretto è così dato di trovare un mix di elementi differenti, e a una prima occhiata non particolarmente congruenti. E si tratta di una lista nutrita. La pervicace determinazione di omologazione (e, quindi, anche la volontà di potenza) reclamata da chi si sente non riconosciuto né valorizzato, a tal punto da generare una paradossale identificazione con il titolare di un patrimonio e di uno stile di vita che nulla hanno a che fare con l’«uomo comune» rancorosamente desideroso di rivincita. Il tornado impetuoso della disintermediazione trasferito su un piano di emozionalità viscerale e a colpi di battutacce grevi e linguaggio da trivio, visti come un cantarla «chiaro» e senza peli sulla lingua (la malintesa “autenticità”, giustappunto). Il sapore dolce-amarognolo dell’iconoclastia quando i campioni della scorrettezza politica abbattono i “grandi” e gli idoli detestati dai tanti che se ne sentono vittime, fornendo uno sfogo a un’invidia di classe tornata in auge dopo la bonifica che avevano operato in materia i partiti di integrazione sociale di massa del secondo dopoguerra, e che ha rimpiazzato il conflitto sociale regolamentato. E, infine, un anti-intellettualismo che, come l’araba fenice, risorge sempre, e taccia automaticamente di snobismo con (assai deplorevole) riflesso pavloviano anche chi, parlando, mette semplicemente in fila soggetto, verbo e complemento oggetto.

Stando ai populismi e alle destre radicali, la finalità programmatica del politicamente scorretto sarebbe quella di pronunciare, senza peli sulla lingua, una serie di (presunte) verità scomode espulse dal discorso pubblico da un’ortodossia alla confluenza tra le visioni del liberalismo, della tecnocrazia e di una non ben specificata sinistra (con condimento di «buonismi» e «Sessantotto-pensieri» vari). Nella sua storia novecentesca, infarcita di «Me ne frego!» (già motto dannunzian-squadrista e, molto più recentemente, salviniano) e qualunquismi, la destra estrema italiana ed europea aveva già ripetutamente optato, non a caso, per una lingua che si voleva «colorita» e «verace», dalla parte del popolo (e con i più deboli tenuti nel mirino). In una parola: autentica.

Questa neoideologia aggressiva – una forma ulteriore di egemonia sottoculturale – che ha eletto a bersaglio il supposto «bigottismo progressista» rappresenta l’ennesima demagogia a scopi elettoralistici, fondata su una violenza verbale (basta dare un’occhiata sommaria ai social per constatarlo) da far rabbrividire. I frame (ovvero, le cornici linguistiche e di senso) le metafore e le «narrative culturali», come indicano le scienze cognitive applicate alla politica, sono estremamente importanti e condizionano fortemente le scelte di voto. E nel contrasto tra la «ragione illuminista» e la «ragione reale» – come ha mostrato lo studioso di linguistica cognitiva George Lakoff – è per lo più la seconda, che rimanda alle convinzioni profonde (così come ai preconcetti) degli individui, a prevalere, perché, anche se viene loro raccontata la «verità», non cambiano di opinione6.

Proprio su questo punto lavorano da tempo le formazioni antisistema. Il populismo ha scelto la dimensione semantica della scorrettezza politica per cavalcare il disagio sociale e la guerra tra i poveri, puntando a sintonizzarsi con i basic instincts innanzitutto delle fasce più spaventate della popolazione. Un’operazione di egemonia del senso comune, che non è buon senso (in un contesto in cui, purtroppo di nuovo, ritorna d’attualità l’osservazione di Alessandro Manzoni secondo la quale «il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune»), ma punta a confermare certi settori dell’elettorato riguardo la «bontà» e giustezza dei loro pregiudizi. Nonché a proporre, una volta di più, un modello di following leadership, in questo caso irresponsabile e pericoloso per la tenuta di una già sfibrata coesione sociale.

Quanto sono lontani, ahinoi, i tempi in cui i grandi partiti popolari si impegnavano a «ripulire» gli stereotipi e a bonificare gli estremismi viscerali e di pancia di taluni loro elettori…


1 G. Filangieri, La Scienza della Legislazione, Napoli, Grimaldi & C. editori, 2003.

2 G. Turnaturi, Signore e signori d’Italia. Una storia delle buone maniere, Milano, Feltrinelli, 2011.

3 L. Ferry, A. Renaut, Il 68 pensiero, Milano, Rizzoli, 1987. Nel loro saggio i due intellettuali francesi imputano al Sessantotto innanzitutto un attacco frontale al pensiero umanistico occidentale, con l’obiettivo prima di decostruirlo, e poi di abbatterlo completamente, utilizzando allo scopo i maestri della “scuola del sospetto” (Freud, Marx e Nietzsche) e, giustappunto, la filosofia antimetafisica di Heidegger.

4 G. Marrone, Addio alla Natura, Torino, Einaudi, 2011. Un libro pieno di suggestioni interessanti, anche se a volte eccessivamente critico con il pensiero dell’ambientalismo che possiede (pure) molti pregi.

5 P. Taguieff, L’illusione populista, Milano, Bruno Mondadori, 2006.

6 G. Lakoff, Non pensare all’elefante!, Roma, Fusi Orari, 2006.