Non ti scordar di me
L’istruzione che segue avrebbe dovuto essere la prima di tutte, ma ho ritenuto che la si sarebbe compresa molto meglio dopo aver staccato il piú possibile il metodo fascista dagli episodi storici, affinché fosse chiaro a chiunque che chi vuole essere fascista può diventarlo in qualunque momento, a ogni latitudine si trovi e in ogni lingua del mondo.
Non sarebbe però giusto cancellare il fatto che gli italiani hanno la fortuna di poter essere fascisti proprio nel paese dove il fascismo si è battezzato e conservare la memoria di quello che siamo stati è fondamentale per ritrovare l’orgoglio di esserci ancora. Non è facile fare questo in un’Italia che ha (per il momento) una costituzione che si pretende antifascista, perché implica che la storia, cosí come ce l’hanno raccontata, ci sia arrivata deformata, strumentalizzata e mistificata. Il lavoro per riappropriarsene sarà molto duro, il che vuol dire che bisogna cominciare a farlo subito. Ogni volta che provi a toccare la loro versione, i democratici si oppongono e il perché si capisce: se la sono raccontata in modo da farci dentro una bellissima figura e non è strano che non vogliano sentirsi dire il contrario. Per questo sono stati scaltri – forse è l’unico caso in cui lo sono stati veramente – a mettere dei dispositivi di sicurezza a guardia della loro narrazione: per anni nella scuola dell’obbligo si è insegnato ai bambini che gli eroi erano i partigiani e i fascisti erano traditori della patria e complici consapevoli degli orrori di uno Stato estero. Questo modo di fare arrogante e violento, lungi dal dare ragione alla loro versione, prova solo che la memoria è un fatto politico e la memoria di guerra è il piú politico di tutti i fatti: cosa e come ricordare lo decidono i vincitori sul corpo di chi ha perso e non può piú dire la sua.
Le cose però possono cambiare, perché la memoria ha la caratteristica della deperibilità: se non viene conservata va in malora e questo è un rischio che i democratici corrono ogni volta che nasce una nuova generazione e loro si dimenticano di propinare ai bambini le panzane ufficiali dei programmi di storia. Sta già succedendo. Per diversi decenni la democrazia si è sentita al sicuro, forte del fatto che ci fossero ancora in vita i partigiani. I democratici hanno trattato la repubblica italiana come un fatto cosí incredibile che ci volevano i testimoni oculari per crederci. Per dimostrare di esistere pensavano bastasse la versione dei loro sopravvissuti. Naturalmente è falso. I partigiani non possiedono la storia, ma solo i loro ricordi, tracce di un’esperienza individuale che appartiene a malapena a chi l’ha vissuta. La memoria è qualcosa di piú: è il modo in cui un gruppo di persone dominanti sceglie alcuni ricordi dei fatti accaduti in un preciso momento storico, vi trova un senso utile e se lo tramanda come se quel senso fosse di tutti.
I democratici hanno compiuto una scelta e l’hanno chiamata storia, ma sempre di una loro scelta stiamo parlando. Per questo avere chiara la distinzione tra ricordi e memoria resta importante: gli uni sono un patrimonio personale degli individui, l’altra è il risultato di un processo collettivo. La differenza per il fascista è sostanziale: i portatori di ricordi presto o tardi saranno morti tutti, per cui non ha alcun senso fare la guerra a loro. Basta aspettare e intanto prepararsi a riprendere in mano la verità del proprio passato. La sequenza d’azione fascista, quando verrà il momento, sarà in progressione lineare: prima inquinare la memoria altrui, poi decostruirla e infine, alla buon’ora, riscriverla.
Inquinare la falsa memoria è il primo passo necessario per poterla purificare. I democratici si sono regalati una coppia di ricorrenze – 25 aprile e 2 giugno – che sanciscono la nascita della democrazia e decretano al contempo la morte del fascismo. Per giustificare la prima e rendere legittima la seconda è stata messa in piedi una retorica patriottarda che da un lato esalta il ruolo dei propri eroi e dall’altro infama senza ritegno la controparte, in un gioco di bianco e di nero dove non c’è piú spazio per le sfumature. Invece è proprio dalle sfumature che voi potrete iniziare l’inquinamento.
In questa prima fase non va negato niente di quel che attribuiscono ai nostri padri, nonni e bisnonni: sarebbe prematuro e susciterebbe un’indignazione molto alta, non arginabile. Fingetevi invece miti, limitatevi a integrare la loro versione. Ripetete di continuo che «c’è stato anche molto altro». I democratici contrappongono giovani coraggiosi a infami violenti? Dite che è facile giudicare col senno di poi, ma che allora era tutto cosí sfumato che nella stessa famiglia Gramsci c’erano sia Antonio, il fratello partigiano, che Mario, quello fascista. I democratici fanno commemorazioni dei loro morti? Voi presentatevi ai monumenti ai caduti con le vostre corone d’alloro, ricordando silenziosamente che le date dove si suona la fanfara sono un lutto nazionale, non una festa, perché i morti erano tutti italiani. Se i democratici racconteranno ogni orrore del fascismo (e lo faranno), voi non smentiteli: andate a ricordare i loro. Le associazioni dei partigiani ricordano le fosse ardeatine? Voi ricordate le foibe. E soprattutto indicate le strade, le infrastrutture, i monumenti, e dite: «ha fatto anche cose buone». Non sottovalutate la pedagogia degli spazi: quelli fascisti parlano di grandezza, di vittoria, di efficienza e di fierezza, mentre la democrazia ha costruito solo villette a schiera e rotonde spartitraffico. Chiunque ascolti e veda comincerà a percepire la crepa nel monolite della narrazione democratica, ma il massimo che succederà a voi sarà essere definiti nostalgici.
Non appena la democrazia allenterà la guardia e comincerà a dare per scontato che la sua storia sia l’unica possibile, significa che sarà venuto il momento di decostruirla. Come capirlo? Da mille piccoli indizi, il primo dei quali è che gli insegnanti cominceranno a dire distrattamente che al programma del Novecento non hanno fatto in tempo ad arrivarci.
Bastano due generazioni di ragazzini che non hanno subito il lavaggio del cervello sulla Resistenza e voi avrete davanti la strada spianata. Ai nipoti dei partigiani avete già insinuato il dubbio che i fatti della storia possano essere raccontati da almeno due punti di vista, entrambi in un certo senso veri. Ai loro figli cominciate a dire che forse cosí veri quei punti di vista non sono. Affermate che il fascismo non ha ucciso nessuno, al massimo ha mandato qualcuno in vacanza al confino. Ripetete che gli italiani non hanno avuto parte nella pianificazione e nell’esecuzione della Shoa. Se vedete che nessuno reagisce, spingetevi oltre: cominciate a dubitare che la Shoah ci sia mai stata. O dubitate del modo. O dei numeri.
Anche se non hanno reagito prima, è certo che a quel punto i democratici smetteranno di chiamarvi nostalgici e cominceranno a definirvi negazionisti, ma le cose saranno andate cosí avanti che potrebbe essere complicato stabilire chi è che nega cosa. Siamo in tempi in cui le fonti di informazione hanno perso autorevolezza e la fondatezza delle affermazioni tende per tutti al grado zero (cfr. istruzione 3 sulla banalizzazione). Ciascuno a quel punto difenderà la sua verità ad armi pari, ma grazie al vostro lavoro i ragazzini che nasceranno negli anni della decostruzione avranno molti piú strumenti della generazione precedente per capire che la storia scritta dai vincitori non era necessariamente tutta vera.
Questo rimaneggiamento della memoria è necessario anche per difendersi dalla brutta abitudine dei democratici di trasformare ogni colpa in responsabilità. La colpa vera o presunta può essere anche grave, ma attiene al passato: tutti hanno fatto delle cose di cui possono essere incolpati, ma quelle azioni iniziano e finiscono con chi le ha commesse, sennò non si va avanti. La responsabilità invece è una trappola infinita, ipoteca anche presente e futuro e non ti liberi mai.
In democrazia, ogni volta che ti arrivano in mano le conseguenze di un disastro che hai ereditato da chi è venuto prima, devi assumertene il peso come se fossi stato tu a farlo e agire come se toccasse a te risolverlo. È un modo di stare al mondo impossibile da sostenere, eppure è proprio cosí che la scuola democratica ha educato per anni i nostri figli: ricordando loro continuamente qualcosa di cui non hanno colpa. Quel che è stato è stato. Non mi interessa cosa hanno fatto i fascisti del ventennio: io non ho ucciso sei milioni di ebrei nei campi di concentramento (che poi è da vedere fino a che punto siano veri questi numeri) e non ho firmato le leggi razziali. Perché mai me ne dovrei dunque sentire responsabile?
Le cosiddette giornate della memoria sono un ricatto morale: servono per far sentire colpevole dei fatti accaduti anche chi non era nemmeno nato. È un modo per impedire che le idee alternative alla linea democratica si possano difendere nel presente ad armi pari. Provate a dire che gli ebrei controllano la finanza mondiale e le politiche occidentali e verrete subito associati ai campi di concentramento. Provate ad affermare che non basta essere nato in Italia per fare di un negro un italiano e vi ritroverete immediatamente inquadrati come filoariani hitleriani. Del resto, se adottate la stessa strategia e vi azzardate ad attribuire la responsabilità dei gulag o delle foibe ai nipoti dei partigiani di allora, vedrete immediatamente come nessuno di loro vorrà ereditare le schifezze dei loro nonni, mentre tutti continueranno a pretendere che i presunti orrori dei nostri ci vengano imputati di continuo. È questo il gioco sporco a cui serve la memoria in democrazia: trasformare le azioni dei loro nonni in colpe personali da dimenticare e quelle dei nostri in responsabilità collettive da ricordare fino alla settima generazione.
Ecco perché riscrivere la memoria deve essere la fase finale del percorso di riappropriazione. I fatti, distorti o inventati dalla retorica della resistenza democratica, devono essere raccontati da capo secondo una piú giusta versione, che restituisca al fascismo le sue buone intenzioni, la sua capacità di progettare il paese e il riconoscimento dell’efficacia delle sue politiche. È il momento di smettere di suonare Bella ciao alle manifestazioni pubbliche, perché quella canzone – peraltro mediocre – per troppo tempo ha diviso gli animi. Sarà anche tempo di riconoscere il valore del pensiero e dell’azione fascista nella vita civile italiana, dedicando strade e monumenti ai suoi padri nobili e ai suoi figli fedeli, e finalmente si potrà mettere in discussione l’assurda esistenza di un reato d’opinione come quello dell’apologia di fascismo, che – alla faccia della democrazia – punisce penalmente anche il solo sollevare un braccio in segno di rispetto per quello che siamo stati.
A quel punto avremo smesso di essere immaginati innocui nostalgici e dementi negazionisti. Essere definiti fascisti o neofascisti dai democratici sarà la norma. Sarà però anche la nostra vittoria: avremo riportato sulla bocca di tutti una parola che pochi decenni prima era associata ai morti e al passato, a una realtà creduta già scomparsa.
Noi non scompariamo.
Noi stiamo.
E alla fine, nella storia come nella geografia, vince chi resta.