Gli anarchici noi siamo di Milano

Leda Rafanelli era nata a Pistoia il 4 luglio 1880, orgogliosa di avere sangue arabo nelle vene «per via di un mio nonno materno che era figlio naturale di uno zingaro tunisino. Fin da bambina ho rivelato le tendenze orientali della mia anima e in famiglia mi consideravano stravagante perché amavo adornarmi con collane di gemme brillanti e reclamavo per le piccole orecchie grandi cerchioni che mi davano l’apparenza di una zingarella».[1] Agli inizi del Novecento si presentava come una donna esile, di media statura, con i capelli neri folti e ondulati, «di andatura svelta e espressione fisionomica simpatica», precisava biografandola la prefettura di Firenze. All’età di vent’anni, vivendo per qualche mese con alcuni famigliari ad Alessandria d’Egitto, aveva conosciuto – in mezzo alla folta comunità italiana anarchica e socialista che frequentava il gruppo della Baracca Rossa, fondato dallo scrittore lucchese Enrico Pea – l’uomo che il 24 maggio 1902 sarebbe diventato suo marito: Luigi Polli, nato a Galluzzo, Firenze, nel 1870, capelli scuri lisci e lunghi, baffi e barba rasa, che ad Alessandria si era stabilito da qualche anno per svolgere con molte difficoltà il mestiere di libraio: «Nell’opinione pubblica non riscuote buona fama perché facile a contrarre debiti e a non soddisfarli», aveva scritto di lui la polizia. Dopo il matrimonio, a Firenze avevano avviato una casa editrice, la Rafanelli-Polli, diventata in breve un punto di riferimento per libri e opuscoli anticlericali, antimilitaristi e femministi come Le memorie di un prete, Dopo lo sciopero, Donne oneste, che Leda scriveva e Luigi smerciava a un centesimo l’uno: «Il Polli milita ora nel campo anarchico. In una riunione di anarchici tenuta il 24 giugno per prendere deliberazioni a cui dovrà uniformarsi l’azione di partito, specialmente di fronte ai postulati del recente congresso di Roma, fu deciso tra l’altro di dare incarico a Polli per l’acquisto a Ginevra di opuscoli di cui dovrà farsi a scopo di propaganda ampia diffusione fra gli anarchici fiorentini», annotava un informatore nel 1907.

Due anni dopo la coppia è a Milano. Leda è diventata quasi famosa. Ha pubblicato un romanzo intitolato Un sogno d’amore che ha ricevuto parecchie lodi ed è stato tradotto in spagnolo. Nel movimento anarchico è sempre più stimata e apprezzata, pare che a convincerla a trasferirsi siano state le insistenze di Ettore Molinari e Nella Giacomelli, desiderosi di avere la sua penna al servizio de La Protesta Umana.

Nella era furiosa. Dopo la rottura con il Gavilli e la conseguente chiusura de Il Grido della Folla, era arrivata quella con l’uomo chiamato a sostituirlo alla guida del nuovo periodico, Paolo Schicchi, un siciliano sanguigno e testardo; vantava nel suo curriculum un comizio anticlericale tenuto da ragazzo sulle scalinate della chiesa di Cefalù che gli era costato quasi il linciaggio, e due bombe che avrebbe pagato con dieci anni carcere: la prima fatta esplodere a Palermo nel 1891 davanti a una caserma, la seconda a Genova l’anno successivo, davanti al consolato spagnolo. Al giornale era durato appena qualche mese, poi se n’era andato sbattendo la porta, affidando tutto il suo disgusto a un opuscolo intitolato La degenerazione dell’anarchismo: «Milano! La città secchiona per eccellenza che tanto ha preso e nulla ha mai dato né intellettualmente né pecuniariamente. Sono venuto a salvarvi da quel Gavilli che per me altro non era che un agente della questura e così mi trattate? Venite ultimi nel movimento sociale e nel dramma dell’anarchismo non siete che comparse dell’ultima ora!»

Nella ed Ettore gli avevano risposto pubblicando anche loro un opuscolo, Un triste caso di libellismo anarchico. Lo accusarono di essere un violento, gli rinfacciarono, «testimone il compagno Malagoli di Napoli», un vecchio episodio accaduto a Parigi nel 1890 quando nel retrobottega di un caffè, brandendo un coltello, si era gettato come un forsennato contro un compagno che lo contraddiceva: «Noi anarchici di Milano abbiamo avuto questa sventura di amare un uomo attorno al quale da anni brillava un’aureola di bontà e di grandezza, di credere alla sua forza, al suo ingegno, alla sua nobiltà, ma ne siamo stati puniti con tutto il rigore». E forse per sbollire la rabbia, a un certo punto Nella aveva deciso di andarsene per un po’ in Francia, quasi al confine con il Belgio, nelle Ardenne, dove ad Aiglemont un parigino di nome Fortuné Henry aveva fondato da alcuni anni una colonia comunista libertaria tentando di riproporre nel cuore dell’Europa l’esperienza della Colonia Cecilia, sorta nel 1890 in Brasile nello stato del Paraná, tra Curitiba e Palmeiras, per volontà di Giovanni Rossi, un barbuto agronomo e veterinario pisano che alla testa di un piccolo gruppo di emigranti si era imbarcato da Genova per Rio cantando: «Ti lascio Italia terra di ladri / coi miei compagni vado in esilio / e tutti uniti a lavorare / formeremo la colonia social».

Tornata da Aiglemont, Nella Giacomelli aveva raccontato quanto aveva veduto in un libretto di una quarantina di pagine intitolato Una colonia libertaria nelle Ardenne: «quattro piccole costruzioni in legno adibite in parte ad abitazione, in parte a officina e una bella palazzina bianca a due piani che sorgono fra bellezze inenarrabili, in solitarie boscaglie dove nessuno arriva a recare noia, neppure la polizia». L’entusiasmo però lasciava presto spazio a critiche: «Mentre la colonia è stata fondata allo scopo di dimostrare che gli uomini sono capaci, allo stato di libertà, di reggersi da soli, senza freno di leggi, senza capi e senza autorità, nella pratica occorre che gli uomini per farne parte devono essere costituiti nel tale e tale modo, dotati di tali requisiti, di quelle tali virtù e qualità speciali, di cui solo il suo fondatore possiede l’elenco e il modello». Il prefetto di Milano intanto scriveva il 13 luglio 1908 al ministero dell’Interno per dire che non sembravano «del tutto attendibili le confidenziali notizie pervenute dal Regio Console Generale d’Italia a New York, circa la richiesta cioè di esplodenti che la Giacomelli avrebbe fatta al Cantoni Ernesto, residente a New York». La ragione pareva lampante: «Materie esplosive, quali nella detta pretesa richiesta, possono bene procurarsi, e certo con minori difficoltà, in Svizzera ed anche in Italia, pel fatto speciale che la Giacomelli, convivente, com’è noto, da lungo tempo col correligionario Molinari Ettore, professore di chimica, potrebbe a suo agio, senza compromissioni e con le debite cautele, fabbricarle in casa con le istruzioni del Molinari». Il prefetto si riservava tuttavia «di disporre maggiore vigilanza»: «pure ammesso che la Giacomelli abbia rivolto effettivamente la ripetuta richiesta, si sarebbe indotti a ritenere che l’abbia fatta allo scopo di vieppiù persuadere gli anarchici di America, facendo loro credere che i compagni di Milano non pensano di rimanere inattivi per difendere il loro giornale, ad inviare gli aiuti finanziari, dei quali il giornale ha bisogno e senza i quali, stante l’attuale deficit, sarebbe costretto a sospendere od addirittura a chiudere le pubblicazioni». In effetti, le condizioni finanziarie erano pessime. Per protestare contro l’ennesimo sequestro de La Protesta Umana che ne impediva la vendita e quindi gli introiti lasciando inalterate le spese, gli anarchici avevano persino occupato per un momento il Duomo domenica 17 maggio 1908: «Perché se deve essere ritenuto lecito sopprimere agli anarchici il diritto di propagare il loro ideale, che infine tende al trionfo di un maggior bene umano e sociale, deve essere giusto negare anche ai preti, propagandisti di impostura, la libertà di turlupinare le coscienze con grottesche cerimonie», avevano scritto sul loro volantino.

C’era andata anche Leda Rafanelli, che aveva trovato una sistemazione nella periferia milanese, a Greco, in viale Monza. Una casa che incuriosiva tutti quelli che entravano per i tappeti e le stuoie, i divani bassi, il braciere con l’incenso, le iscrizioni coraniche appese alle pareti. Si professava musulmana, ma in salotto teneva un piccolo Buddha in bronzo con un pietra preziosa sulla fronte e al collo portava un ciondolo con il segno dello Yin e dello Yang. «Io so che il credere in una entità superiore è privilegio degli arrivati, degli illuminati, degli svegliati. Ma io non farò mai propaganda religiosa, sia pure mussulmana, alle folle diseredate dei loro diritti sulla terra. Non ne hanno bisogno, la loro vita sembrerebbe la prova che, almeno per loro, dio non esiste. È inutile quindi fare balenare dinanzi ai loro occhi il miraggio di una vita ultraterrena, con lo scopo di far loro sopportare in pace tutta la miseria, le rinunzie di questa vita materiale. Del resto a fare questa opera di indebolimento rassegnato pensa anche troppo il prete. Ma chi legge, chi sa, chi comprende il cosmo, l’eternità, l’infinito, la natura, comprende dio. Dio entità, dio essenza, non certo fatto a immagine e somiglianza dei miseri e imperfettissimi uomini», le piaceva ripetere, certa che il suo pensiero non fosse in contraddizione con l’ideale anarchico: «I miei compagni sono atei, e padroni di esserlo. Io sono credente. In tutte le questioni sociali siamo in armonia. A me non interessa affatto che gli altri siano religiosi, amo esserlo io. Del resto non sono iscritta a nessun circolo, a nessuna loggia. Sono individualista».[2] Non tutti condividevano. Spesso erano battute, risatine, qualcuno l’accusava di essere fanatica. Non Nella: «Lei è un’anima libera e irreligiosa, mi critica aspramente e mi chiama feticista, ma lo fa in mia presenza, apertamente, perché mi vuole bene».[3]

Luigi Polli si era impiegato presso la Società Editoriale Milanese di Sesto San Giovanni come commesso viaggiatore. Il lavoro lo costringeva spesso fuori: Boston, Buenos Aires, la Svizzera, sempre vigilato dai consolati e dalle prefetture. La storia d’amore tra lui e Leda era sostanzialmente finita, trasformata in una affettuosa amicizia. A lei veniva attribuita una relazione con Carlo Carrà, pittore futurista che si era fatto conoscere dipingendo i funerali dell’anarchico Angelo Galli. Poi si era invaghita di un altro toscano, Giuseppe Monanni, un aretino di sei anni più giovane che aveva conosciuto tempo prima a Firenze frequentando la rivista Vir, e che aveva ritrovato a Milano: «Gode in pubblico di mediocre fama, è di carattere calmo, ha educazione discreta, è intelligente, dotato di non comune cultura benché, a quanto consta, abbia frequentato soltanto le cinque classi elementari. Esercisce in via San Vito 41, ove pure abita, una Libreria Editrice Sociale per la pubblicazione e smercio di stampa sovversiva. Fu qui per qualche tempo uno dei redattori del giornale anarchico La Protesta Umana che cessò le pubblicazioni nel dicembre u.s., ed ora collabora con i periodici libertari La Rivolta e La Sciarpa Nera. Fa propaganda delle sue teorie con discreto profitto tra i giovani operai. Partecipa attivamente alle riunioni dei compagni, come ad ogni pubblica o privata manifestazione dei partiti sovversivi», diceva di lui la prefettura milanese il 29 gennaio 1910. L’editoria è il loro mestiere e fra mille difficoltà fatte di sequestri, debiti e cambiali, sarà quello che Leda e Monanni continueranno a fare. Non solo i libri di Proudhon, di Pietro Gori o di Kropotkin, ma anche le opere di Stirner e di Nietzsche che portavano parole nuove coniugando uguaglianza e libertà, rivoluzione collettiva e rivoluzione individuale. Era stato Carlo Carrà a disegnare il logo della casa editrice, una specie di demoniaco volto ribelle con sotto il motto «che solo amore e luce ha per confine». Tra la casa editrice e le molte riviste, tutte di chiara matrice individualista, Leda trova anche il tempo di mantenere viva la sua passione per l’Oriente impegnandosi, all’interno del fronte anticolonialista, in un’attività di propaganda a sostegno delle rivendicazioni dei falascià, un gruppo etnico etiope di religione ebraica perseguitato dal governo e dalla chiesa copta. Il 1910 è anche l’anno in cui lei e Monanni mettono al mondo l’unico figlio, Marsilio, che Leda preferisce chiamare Aini, in arabo «occhi miei».

A Milano era arrivata da qualche anno anche Maria Rygier, fuggita da Roma e dal padre polacco, uno scultore assai ricco. Nata a Cracovia il 5 dicembre 1885, «alta 1.60, di corporatura snella, capelli neri, occhi neri, abbigliamento abituale dimesso ma decente, porta occhiali», si era sposata con Virginio Corradi, un sindacalista socialista ben noto alla prefettura: «Fa parte del circolo socialista di via Paolo Sarpi, composto di elementi rivoluzionari i più scalmanati. È tra i più attivi propagandisti e con profitto, specie tra la classe operaia. Prese parte attiva ai congressi socialisti di Imola nel 1902, di Bologna e Brescia nel 1904 e a quello delle Camere del lavoro e delle Federazioni di resistenza tenutosi a Genova nello scorso gennaio sostenendo in essi le teorie più avanzate e proponendo quale utile espediente la lotta di classe e la violenza». Maria Rygier si dichiarò anarchica a partire dal 1910. Prima, da socialista e da sindacalista, aveva già collezionato un bel po’ di condanne per eccitamento all’odio di classe, incitamento alla disobbedienza e alla violazione del giuramento dei militari, vilipendio dell’esercito, oltraggio, violenza e resistenza alla forza pubblica, grida sediziose, istigazione e associazione a delinquere. Una sera di agosto del 1909 a Rovigo, parlando di fronte a cinquecento persone, era stata più volte interrotta dal commissario di pubblica sicurezza «perché con linguaggio violento aveva incitato all’odio di classe continuando a profferire parole offensive contro l’esercito e la bandiera nazionale», e quando il commissario aveva ordinato ai sensi di legge lo scioglimento della riunione, lei «incitando i presenti a non obbedire pronunciò parole oltraggiose indirizzate a funzionari ed agenti per cui fu senz’altro tratta in arresto e tradotta in carcere». In cella ci restava qualche settimana, a volte qualche mese. «Un trattamento più umano s’impone per questa signora, tanto più che trovasi ammalata di tubercolosi», arrivavano in suo soccorso in parlamento i deputati socialisti e repubblicani, mentre la sua fama valicava la frontiera: «Maria Rygier è la più conosciuta agitatrice rivoluzionaria, la personalità più attiva della così vivente fazione sindacalista del socialismo italiano» l’aveva definita su L’Humanitè la giornalista militante Antonietta Sourge. Ogni nuova riconquistata libertà era per lei l’occasione per improvvisare un comizio davanti ai suoi numerosi sostenitori che andavano ad acclamarla fuori di prigione, alla stazione e persino sotto casa. Difficile contenere la sua abilità oratoria anche nei tribunali: «La Rygier affermò in udienza con vivacità di parola i suoi principi antimilitaristi e rivoluzionari ai quali questa donna fa completa dedizione della sua vita», si legge nella cronaca di un processo nel quale, in quanto fondatrice del foglio Rompete le righe!, doveva rispondere dell’accusa di apologia al regicidio. Qualche giornalista tentava di tracciarne un profilo: «Parecchie leggende circondano questa donna che ha ora 26 anni, che è piuttosto brutta, ma che appare molto intelligente. Si è detto che sia indifferente agli uomini, ma è una leggenda perché quando venne arrestata a Piacenza le furono sequestrate lettere e telegrammi i quali parrebbero affermare che la giovane anarchica è tutt’altro che indifferente agli amorosi sensi». Il riferimento è a un episodio accaduto la sera del 17 maggio 1911, quando Maria Rygier aveva provocato l'arresto di un treno e il capitano dei carabinieri si era visto costretto a telegrafare: «Anarchica Rygier Maria partita da Milano treno 29 ore 20 e 15 nei pressi stazione Pontenure (Piacenza) maneggiando bottiglia contenente sostanze infiammabili queste si accesero producendo panico viaggiatori che fecero fermare treno mentre Rygier portatasi nella ritirata lasciava cadere la bottiglia. Personale viaggiante accorso gettò sulla linea bottiglia infiammata facendo proseguire treno. Capostazione Pontenure informato da quello Bologna rinveniva i resti bottiglia che consegnava Arma Pontenure. Resti raccolti esaminati tecnici questa direzione artiglieria dichiararono trattasi non sostanze esplodenti ma fosforo bianco ordinario. La Rygier trattenuta personale ferroviario fu dichiarata arresto a Bologna. Essa mantienesi negativa ed oggi per richiesta questo Procuratore del Re sarà qui tradotta. Dal complesso circostanze fin qui raccolte pare debba escludersi idea attentato». Al processo però l’accusa aveva insistito. La Rygier, presentatasi in aula «con un modesto abito di cotonina a rigoni bianchi e cenere, con il capo coperto da un cappellino semplicissimo a forma di piatto», doveva spiegare che cosa era andata a fare qualche giorno prima in Svizzera: «Ha tentato di fare incetta di fosforo e potassio pare allo scopo di un attentato contro il carcere di Firenze o contro il tribunale di Milano», aveva segnalato il consolato di Lugano. Lei si era difesa sostenendo che la bottiglia che aveva preso fuoco altro non era che una ricarica per la macchinetta accendisigari e che la lettera che aveva fatto in mille pezzi e gettato dal finestrino all’arrivo dei carabinieri era soltanto una lettera amorosa ricevuta da un giovane socialista di cui mai avrebbe voluto rivelare l’identità.

Maria Rygier era andata costruendosi la fama di donna bizzarra e spesso un po’ isterica: «Sempre smaniosa di mettersi nella massima evidenza, segnatamente tra i compagni di fede, e di far parlare il più che le riesca possibile di sé», l’aveva definita il prefetto di Milano in un rapporto del 6 ottobre 1909. Un uomo navigato come Amilcare Cipriani, classe 1844, che oltre a essere stato garibaldino aveva combattuto alla Comune di Parigi, incontrandola nella capitale francese l’aveva definita «pazza e assai leggera», e un medico delle carceri di Roma, visitandola dopo un arresto, scriveva nel referto di «accessi tonici e clinici con congestione accentuata del volto e grida periodiche simili a ululato. Uno stato che talvolta dura anche mezza ora, la lascia abbattuta, estenuata da bisognare parecchio tempo per riaversi». Lei sapeva di essere in grado di seminare il panico ovunque andasse. «Da quando qui è giunta la sua presenza provoca notevole agitazione tra gli elementi rivoluzionari italiani residenti in questa città», segnalava preoccupato nel marzo 1911 il consolato italiano a Parigi. Dopo essere stata tra le animatrici dei circoli pro Francisco Ferrer, l’anarchico promotore delle scuole laiche in Spagna che nonostante il grande movimento internazionale in suo favore, alla fine, accusato di essere fra i protagonisti della semana trágica di Barcellona, era stato fucilato nel 1909, Maria Rygier si stava dedicando anima e corpo alla causa di Augusto Masetti, un ragazzo di Sala Bolognese che, chiamato a fare il soldato e destinato a partire per la Libia, «dove i nostri novelli eroi si battono con ardore», scrivevano i giornali, la mattina del 30 ottobre 1911 nella caserma Cialdini di Bologna, radunato in fila e sull’attenti con altri trecento soldati ad ascoltare le parole degli ufficiali che dal palco incitavano a mettere da parte la famiglia, la fidanzata e gli amici per difendere nient’altro che la patria, a un certo punto aveva fatto partire un colpo dal suo fucile ferendo un tenente colonnello: «Viva l’anarchia! Abbasso l’esercito!» si era messo a gridare mentre lo portavano via cercando di tappargli la bocca. Il Resto del Carlino non ebbe dubbi: «È un vile, un fellone, un indegno traditore della Patria mentre la Nazione tutta è unita in uno sforzo di concordia, sacrificio e valore per spingere la bandiera dell’Italia alla vittoria in questa guerra necessaria». E lui, per evitare il plotone di esecuzione, aveva perso la memoria: «Non ricordo, ho avuto come un capogiro, non so cosa sia successo», ripeteva durante gli interrogatori. «Augusto Masetti non è pazzo! Ha compiuto uno straordinario atto di coraggio contro la guerra e il governo italiano non ha che due vie d’uscita, o liberarlo definitivamente o fucilarlo! E in quest’ultimo caso il popolo saprà fare il suo dovere!» s’infervorava la Rygier perorando la sua causa in giro per l’Italia, spesso insieme con Armando Borghi, un trentenne di Castel Bolognese sindacalista e fervente antimilitarista che, come lei, aveva più volte saggiato il carcere: «La campagna pro Masetti prese in breve tempo un’ampiezza improvvisa. Furono mesi di attività e di preparazione intensa. L’Avanti! aderì e vi dedicava una rubrica quotidiana, l’Unione Sindacale Italiana la secondava energicamente e al suo congresso nazionale di Milano, nel dicembre 1913, vi furono momenti di intensa commozione quando nella seduta inaugurale si omaggiò al soldato ribelle», ricorderà anni dopo scrivendo di quei giorni.[4]

La sera in cui Maria Rygier tiene la conferenza a Milano la sala è stracolma. Ci sono proprio tutti, Leda e il suo compagno, Nella ed Ettore Molinari, diventato da poco direttore chimico del dinamitificio di Cengio. «Pare abbia scoperto un liquido che imbevuto in uno straccio opera in modo da provocare là dove viene gettato, e dopo brevissimo periodo preparatorio, un incendio», è preoccupatissima la prefettura.

In tasca Molinari ha una lettera di Errico Malatesta appena arrivata da Londra: «Carissimo Ettore, ho intenzione di mettermi a prendere parte attiva al movimento nostro in Italia e un po’ più tardi, possibilmente, tornare a stabilirmici. Mi faresti perciò gran favore dicendomi la tua opinione sulla situazione e dandomi più particolari che puoi. Io so di essere in torto con te e con altri compagni di Milano per il mio ostinato silenzio, ma spero che mi saprai perdonare. Fra giorni riceverai la visita di Francesco Cini e quella di Benedetto Levi, un buon compagno di Ancona ora stabilitosi a Perugia. Ti abbraccio forte».

[1] Leda Rafanelli, Memorie di una chiromante, a cura di Milva Maria Cappellini, Nerosubianco, Cuneo 2010.

[2] Leda Rafanelli, Una donna e Mussolini, Rizzoli, Milano 1946.

[3] Ibid.

[4] Armando Borghi, Mezzo secolo di anarchia (1898-1945), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1954.

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