I.
Voltaire scopre Shakespeare
(1726-1748)
1. La tragedia in Francia
A vent’anni Voltaire nutriva un’ambizione: diventare un autore tragico, nel solco tracciato da Corneille e Racine, e debuttare alla Comédie-Française1. A quel tempo in Francia la tragedia doveva essere regolare, in cinque atti e in versi alessandrini, ispirarsi al mondo greco-romano, avere come protagonisti eroi, re, principi, e come argomenti eventi straordinari tratti dalla mitologia e dalla storia. Doveva rispettare le bienséances2, il gusto, il decoro, osservare la verosimiglianza (che vietava l’apparizione di spettri, streghe e fantasmi) e seguire le regole di Aristotele. Per rispettare l’unità di luogo, l’azione si svolgeva in un unico spazio; per rispettare l’unità di tempo, l’intrigo veniva ridotto allo scioglimento, al suo finale. Tutto ciò che avveniva in luoghi diversi o in tempi lontani, non era agito, ma solo raccontato. La tragedia classica, infatti, si apre su una crisi. Inizia in medias res. Tutto è già avvenuto quando la pièce inizia. Corneille e Racine avevano scritto come se Shakespeare, la cui unica regola era l’ispirazione, non fosse apparso mai sulla terra, oppure fosse vissuto e fosse stato poi dimenticato, alla fine di un’altra civiltà, considerata barbarica e superata. Invece si era spento nello stesso secolo XVII, a poche centinaia di chilometri da Parigi. Ma allora le distanze, geografiche e culturali, erano molto diverse da quelle di oggi. Quasi nessuno in Francia conosceva il nome di Shakespeare.
Quando la prima tragedia di Voltaire compare sulle scene, nel 1718, Luigi XIV è morto da appena tre anni. In attesa della maggiore età di Luigi XV, la reggenza è nelle mani del duca Filippo d’Orléans, che trasferisce la corte da Versailles a Parigi. Con l’inizio della reggenza si sgretola l’irrigidimento autoritario che aveva caratterizzato il regno del vecchio re, svapora il mito della grandeur e subentra un nuovo ideale di libertà, di consumo e di godimento.
Finita l’epoca del Re Sole, lasciata Versailles e la corte per la città, la rappresentazione della tragedia, cerimonia elitaria dell’aristocrazia, stava perdendo il ruolo centrale di specchio della società che aveva avuto nel Seicento. Il pubblico non era più solo quello esclusivo e delicato della corte, ma anche quello colto e borghese della città. E con l’affiorare di un nuovo pubblico cominciavano a farsi sentire nuove esigenze.
Alla Comédie-Française, che dal 1680, quand’era nata per volontà di Luigi XIV, aveva il monopolio della rappresentazione della tragedia, la messinscena si svolgeva in condizioni che rendevano impossibile l’illusione da parte dello spettatore. La sala era illuminata dalle candele, come la scena. Nulla indicava una separazione tra l’area della finzione, dove agivano gli attori, e quella della realtà, dove sedevano gli spettatori. Gli uni e gli altri in un certo senso davano spettacolo e così sarebbe stato fino alla fine dell’Ancien Régime. Il palcoscenico era ingombro di panche, su cui sedevano i petits maîtres, giovani spettatori privilegiati che pagavano a caro prezzo quei posti adatti a mettersi in mostra3. Per mancanza di spazio e per scarsa illuminazione, l’attore recitava in proscenio, rivolgendosi più al pubblico che agli altri attori, e la scena, che rappresentava un palazzo, uguale in tutte le tragedie, non era intorno a lui, ma dietro di lui, come nel teatro antico. A differenza di quanto avveniva nell’Opéra, nella scena tragica tutto era statico, non c’erano né grandezza né movimento. Il lavoro dell’attore e l’attenzione dello spettatore durante la rappresentazione erano concentrati sulla bellezza dell’espressione poetica e sulla musicalità dei versi. Nessun connaisseur, per definizione tradizionalista, si aspettava un nuovo brivido. La tragedia era considerata un piacere mentale, squisitamente testuale e per niente visivo, che poggiava sulla capacità di astrazione degli spettatori. Ma nello stesso tempo, e forse proprio per questo, la tragedia era a giudizio di molti in grande decadenza. Il pubblico borghese, ma anche parte di quello aristocratico, mostrava di preferire la commedia e gli spettacoli irregolari e antiletterari dei teatri della Foire, che negli ultimi anni del regno di Luigi XIV avevano cominciato a rappresentare non più solo acrobazie di funamboli, giocolieri e saltatori di corda, ma anche brevi pièce di teatro4.
Le tragedie dei nuovi autori deludevano. Di volta in volta si incolpavano gli attori, la loro recitazione, la scena, i costumi, i lunghi racconti che allontanavano dagli occhi ciò che invece si aveva voglia di vedere5. Il periodo creativo iniziato da Corneille e portato alla perfezione da Racine sembrava per sempre concluso. Stanco di grandeur, il pubblico incoraggia una trasformazione lenta, dall’interno, di un genere che continua a chiamarsi tragedia ma ha perso l’aspetto rituale della rappresentazione.
2. Voltaire diventa autore drammatico
È per seguire un’ambiziosa strategia, più che per ispirazione poetica, che Voltaire, fin d’allora abilissimo versificatore, decide di farsi il successore di Corneille e Racine. Essere autore tragico era all’epoca il ruolo più prestigioso a cui un letterato potesse ambire e a quella fama Voltaire mai avrebbe rinunciato, fino alla fine della vita. Per le difficoltà che era necessario superare, le qualità di cui bisognava dare prova, la tragedia era il risultato supremo della civiltà, una civiltà oggi a noi lontana, incentrata sull’importanza del limite: creare un soggetto; inventare un intreccio e un finale; dare a ogni personaggio il suo carattere, sostenerlo, renderlo interessante, e aumentare questo interesse di scena in scena; far sì che nessuno appaia ed esca di scena senza una ragione sentita da tutti gli spettatori; non lasciare mai il palcoscenico vuoto; far dire a ciascuno ciò che deve dire, con nobiltà e senza enfasi, con semplicità, senza bassezza6; superare la difficoltà di essere precisi ed eloquenti in versi nella lingua7; vincere continuamente la difficoltà della rima8; la strada che conduce al buono è strettissima.
La riabilitazione ufficiale della tragedia doveva aver luogo naturalmente alla Comédie-Française. Il 18 novembre del 1718 Voltaire ha ventiquattro anni e nel teatro di rue des Fossés-Saint-Germain-des-Prés viene rappresentato Œdipe. La sala, oggi demolita, corrispondeva al numero 14 dell’attuale rue de l’Ancienne-Comédie, a pochi metri dal carrefour de l’Odéon, di fronte al Café Procope, che esiste ancora. La capacità del teatro, a forma di sala di pallacorda, era di circa duemila posti. Dietro la platea, dove il pubblico stava in piedi, c’era un anfiteatro per gli spettatori più ricchi. Pagando un biglietto salato e per il piacere di mostrarsi al resto del pubblico, c’era chi poteva occupare anche la scena, sedendo su piccole panche poste di lato9.
Gli interpreti principali di Œdipe erano Dufresne e Mlle Desmares. Inizialmente gli attori erano restii a rappresentare una tragedia senza amore. Con la reggenza si era diffuso il gusto del gioco mondano e sentimentale e il modello corneilliano della tragedia virile era passato di moda. Per accontentare gli attori che esigevano ruoli amorosi, Voltaire aveva incorporato il personaggio di Filottete che fa la corte a Giocasta10. Quando la pièce va in scena, creando un effetto incongruo e comico in una tragedia francese, il giovane Voltaire compare a sorpresa sul palcoscenico reggendo lo strascico del sommo sacerdote, per evitare che finisse per impigliarsi nelle banquettes su cui sedevano i petits maîtres. C’era in questo esordio lo spirito irriverente e autoironico del Voltaire migliore.
Nelle sue mani la tragedia non era più, se non dal punto di vista formale, quella che era stata nel Grand Siècle. Voltaire eredita il linguaggio, la forma, la compostezza, la semplicità, la struttura della tragedia, ma non erano più la poesia, la pietà, la compassione, il sublime ad attrarre il pubblico. Piacevano lo spirito di aperta ribellione, l’irriverenza religiosa, l’ardore anticlericale, i riferimenti all’attualità teologica. Con Voltaire la tragedia francese stava diventando l’occasione per esprimere nuove idee, la possibilità di usare il teatro anche per formulare pensieri filosofici. Œdipe, in cui i protagonisti oppongono alla predestinazione giansenista il «ma» della loro innocenza, è la prima tragedia filosofica di Voltaire11. Edipo e Giocasta sono predestinati al male, un Dio crudele precipiterà le due vittime a loro insaputa nel parricidio e nell’incesto, punendoli per crimini a loro sconosciuti. Ma qui insorge la protesta di Voltaire, che era stato educato dai gesuiti, contro il Dio crudele, terribile e vendicativo dei giansenisti. Nel finale del suo Œdipe, l’innocenza dei due eroi è dichiarata. La responsabilità dell’incesto passa dagli uomini agli dèi.
«Crediamo solo in noi; coi nostri occhi osserviamo. / Son per noi vaticini, oracoli, e anche dèi».
(atto II, scena V)
«O impietosi numi, è vostro ogni mio crimine / E siete voi a punirmi».
(atto V, scena IV)
«Gli dèi ho svergognato che mi hanno spinta al crimine».
(atto V, scena VI, battuta finale di Giocasta, che chiude la tragedia)
L’orrore del Dio terribile si proietta sul clero che lo serve:
«Non sono i nostri preti come il volgo li vede / E fa la loro scienza la nostra sciocca fede».
(Giocasta, atto IV, scena I)12
A differenza di Fedra che si riconosce colpevole e anticipando la meritata punizione esegue su di sé la vendetta divina, l’Edipo di Voltaire non si riconosce peccatore, non accetta la colpa. Ma, più che a Racine, l’Œdipe di Voltaire rispondeva all’Œdipe di Corneille (1659). La tradizione classica misconosceva l’idea di originalità, si avvaleva di modelli, per questo era frequente che più autori scrivessero opere su uno stesso soggetto. Corneille aveva una visione fondata su un eroismo della fede più vicino ai gesuiti che ai giansenisti. Il suo Edipo si rivolta contro una condizione che lo rende colpevole senza essere responsabile. Accecandosi, Edipo si punisce da solo, rifiuta di continuare a vedere il fato antico come rappresentazione metafisica del mondo. Il suo gesto di libero arbitrio13 protesta contro un’immagine dell’uomo e del divino che è quella della tragedia greca ma anche quella del giansenismo. Prevenendo l’ingiustizia degli dèi, Edipo mostra che l’uomo è superiore al destino che gli viene imposto, è capace di decidere. Punendosi, si salva e salva anche la città. È proprio a causa delle virtù che non gli vengono dagli dèi che l’Edipo di Corneille decide di morire per tutti. Per il giovane Voltaire, invece, gli dèi sono colpevoli. Poco a poco la fiducia che Edipo ripone in loro e nel loro rappresentante, il sommo sacerdote, si sgretola. La sua morte non è una redenzione ma la testimonianza di un eroe legittimo che con la sua terribile morte accusa gli dèi14.
Con Voltaire la tragedia stava cambiando. Ma nel 1718 il giovane Arouet non è ancora un filosofo, vuole essere soprattutto un poeta. Vuole entrare nel mondo delle gens de lettres e degli autori drammatici. Grande conoscitore del pubblico, sa che per avere successo bisogna fare delle concessioni. Per questo, pensando di rendere la tragedia più mossa e grandiosa sulla scena, introduce nel primo atto di Œdipe un coro di tebani, ma la novità non piace agli spettatori del Théâtre-Français (così veniva chiamata dai parigini la sala della Comédie-Française), che alla prima ridono15. Voltaire, che nelle sue lettere e nei racconti si rivelerà maestro nell’arte di far ridere, temeva moltissimo il ridicolo nella tragedia e disprezzava le irriverenti e dissacranti parodie del teatro della Foire16, che spesso seguivano il debutto di una nuova tragedia, non solo perché riteneva inaccettabile la volgarità del burlesco che «parlava il linguaggio delle Halles»17, ma anche perché aveva paura dell’effetto sovversivo del dileggio, arte che lui stesso esercitava con successo. Così, dopo la prima rappresentazione di Œdipe si corregge, elimina il coro e mai più lo proporrà in alcuna tragedia.
Sempre attentissimo a non urtare il gusto e i pregiudizi degli spettatori in ambito teatrale, a differenza che nei suoi futuri scritti filosofici, Voltaire non osa mai troppo, innova con estrema prudenza, cancella le novità se il pubblico non le accoglie, evita gli eccessi. La riuscita immediata di un’opera, se non era sufficiente per consacrarla, gli sembrava necessaria per farla vivere: non credeva alle rivelazioni postume. Sapeva che il teatro aveva bisogno di essere subito condiviso, che era un’arte del presente, necessariamente compromissoria, che non poteva permettersi, com’era concesso alla musica e alla pittura, di cambiare in modo troppo rapido e radicale, accontentandosi di essere capita in futuro.
Œdipe è un trionfo, ventinove rappresentazioni alla Comédie-Française e quattro al Palais-Royal, dove risiedevano gli Orléans: il maggiore successo tragico della reggenza, al quale Voltaire aveva lavorato da quando aveva diciotto anni. Gli spettatori del Théâtre-Français sentono per la prima volta un autore che parla con il linguaggio della tragedia classica e nello stesso tempo riesce a coinvolgerli con riferimenti all’attualità. Si mormorava infatti che Voltaire avesse raccontato l’incesto di Edipo anche per alludere agli amori contro natura del reggente Filippo d’Orléans con la figlia maggiore, la duchessa de Berry, e che per questo il pubblico era accorso in folla alla prima. Poco dopo Dominique, che era stato l’Arlecchino più celebre del teatro della Foire18, mette in scena al Théâtre-Italien la parodia Œdipe travesti. Era un segno di successo, una parodie d’hommage, riservata alla pièce di cui più si parlava. L’11 febbraio 1719 Œdipe viene recitato davanti al reggente. Poco dopo Voltaire pubblica il testo, dedica l’opera alla duchessa d’Orléans, e per la prima volta si firma Arouet de Voltaire19.
Grazie a Œdipe il giovane Arouet acquista fama e diventa un tragediografo alla moda. È la prima pietra di un successo di pubblico che continuerà sempre a curare come prova e misura del proprio potere.
Incoraggiato dal buon esito, scrive una seconda tragedia, Artémire, non più basata su modelli letterari precedenti, ma interamente di fantasia, anche se meno ispirata. Ambientata in Macedonia dopo la morte di Alessandro Magno, racconta la storia della regina Artémire, donna virtuosa perseguitata da un marito che non ama, Cassandre, ma a cui resta fedele. Al debutto, il 15 febbraio 1720, il primo atto viene fischiato per l’interpretazione della protagonista, Adrienne Lecouvreur, amante di Voltaire, che aveva rinunciato alla tradizionale declamazione cantata per una dizione «semplice, nobile, naturale»20. Per difenderla, Voltaire interviene dal palco, arringa gli spettatori e riesce a trasformare i fischi in applausi, manifestando un tratto a lui congeniale: la tendenza a personalizzare il successo. Più del testo contava ormai l’autore, il vero protagonista era lui. Dominique al Théâtre-Italien fa la parodia della tragedia, con il medesimo titolo. Ma alla Comédie lo spettacolo non supera le otto repliche. Voltaire ritira la pièce e ne impedisce la pubblicazione.
Nel 1716 il reggente Filippo d’Orléans aveva richiamato a Parigi gli attori italiani che Luigi XIV aveva cacciato nel 1697. Con il ritorno degli Italiani inizia la crisi anche economica dei teatri reali (Comédie-Française e Opéra) e lo sviluppo dei teatri secondari nelle Fiere stagionali di Saint-Germain e Saint-Laurent. La crisi riflette il cambiamento sociale in atto. Il pubblico di Racine era costituito da un ambiente chiuso di sudditi che escludeva gli strati sociali ed economici inferiori e andava a teatro per assistere a un avvenimento raffinato e mondano. Ma a partire dall’inizio degli anni Venti il centro della gravità sociale comincia a spostarsi verso la classe media, amante dell’azione, del pathos e del lieto fine, che non si riconosce nella tragedia e accorre in massa alle rappresentazioni non ufficiali. Anche molti aristocratici cominciano ad annoiarsi nei teatri reali e frequentano i teatri della Foire apprezzandone la libertà e la vivacità. Il rinnovamento della tragedia diventava sempre più necessario.
Il 6 marzo del 1724 Voltaire affronta per la terza volta il pubblico della Comédie-Française con una nuova tragedia incentrata sulla seconda moglie di Erode il Grande, Mariamne. Infrangendo la regola classica che lo vietava, la protagonista muore in scena. L’interprete principale era ancora Adrienne Lecouvreur, ma gli altri attori della Comédie erano ostili. Prima che la pièce vada in scena Voltaire scrive all’amico d’Argental:
Risponderò ai nostri signori attori con le belle parole che il duca d’Orléans dice ai deputati del Parlamento: andate a... Mariamne piace più a me che a loro. Voglio che sia ben fatta prima che vada in scena. [...] Lavoro giorno e notte. Faccio pochi versi e ne cancello molti21.
La sala alla prima è stracolma, perciò l’insuccesso appare ancor più clamoroso. Nel finale il pubblico ride. Molti anni più tardi ricordando l’episodio Voltaire scriverà: «Mariamne veniva avvelenata da Erode; appena bevve la coppa, la cabala gridò: “La regina beve!” e la pièce fallì»22. Una regina non poteva bere da una coppa, era considerato volgare. Mariamne non viene replicata. Voltaire si accorge dei difetti della tragedia assistendo alla rappresentazione e ancora prima che esca la solita parodia corre ai ripari. Ritira la pièce e la rimaneggia. Elimina la morte in scena della protagonista e riporta tutto in racconto. Evitare uno scandalo era più importante che modernizzare la tragedia incrementando l’azione23. Rielaborata, la pièce torna in scena l’anno dopo come Hérode et Mariamne24.
Intanto Voltaire lavorava alla Henriade, il poema epico su Enrico IV che tesseva la gloria del grande re che aveva liberato la Francia da trent’anni di guerre religiose, garantendo la libertà di culto. Opera «monarchica e borbonica», l’Henriade, una sorta di Eneide trasposta in Francia, avrebbe dato a Voltaire una grande e duratura celebrità. Nel 1818, col ritorno dei Borboni, un esemplare del testo verrà rinchiuso nel ventre del cavallo della statua di Enrico IV al Pont Neuf. Il 17 ottobre 1725, Voltaire scrive:
L’epica è affar mio, [...] e mi sembra che si proceda molto più a proprio agio in una carriera in cui si hanno per rivali Chapelain, La Motte, e Saint-Didier, che in quella in cui bisogna tentare di uguagliare Racine e Corneille25.
3. L’esilio in
Inghilterra
e la scoperta di Shakespeare (1726-1729)
All’inizio del 1726, nonostante due insuccessi teatrali, Voltaire era ormai un giovane autore conosciuto, ricevuto a corte e nei salotti parigini. Ma la fortuna mondana e i successi cortigiani vengono bruscamente interrotti da una vicenda le cui conseguenze sarebbero state decisive per la sua vita. Era entrato in polemica con un nobile, il cavaliere Guy-Auguste de Rohan, conte di Chabot, il quale, in seguito a un diverbio, lo fa bastonare dai suoi servi. Voltaire protesta e chiede aiuto, ma la legge stava dalla parte degli aristocratici e lui era un borghese, così in aprile viene imprigionato alla Bastiglia e subito dopo invitato ad andare in esilio. Sceglie l’Inghilterra, paese che lo attirava per le istituzioni e le conquiste scientifiche. La sua curiosità e la sua intelligenza trasformano il periodo inglese in un’occasione di formazione, maturazione e crescita. Il giovane Arouet rivela fin da allora una grande capacità di mettere a profitto le opportunità offertegli dalla vita.
Quando arriva in Inghilterra, Londra è una città immensa, grande il doppio di Parigi, con più di 900.000 abitanti. Dal 1714, finita la lunga dinastia degli Stuart, cattolici e filofrancesi, che avevano dominato oltre cento anni dalla morte di Elisabetta (1603), regnava il protestante Giorgio I di Hannover. Trent’anni prima, con la «Glorious Revolution» del 1689, il Parlamento aveva dato vita alla prima monarchia costituzionale europea. L’Inghilterra possiede, agli occhi di Voltaire, due grandi pregi: è un paese libero e non cattolico. A Parigi, fin dal 1719 Voltaire aveva frequentato la colonia inglese e aveva subìto in particolare l’influenza di Lord Bolingbroke, leader dei Tories (conservatori) più illuminati, che si era esiliato volontariamente in Francia alla morte di Anna, ultima sovrana del casato degli Stuart, e all’elezione di Giorgio di Hannover sostenuta dai Whigs (liberali), scegliendo come residenza il castello de La Source, vicino a Orléans. Politicamente Bolingbroke era per un «torismo rinnovato»26, pensava che il governo di un re forte, sostenuto dalle masse popolari, fosse più favorevole al paese che non un’oligarchia parlamentare. Ma più che sul piano politico, Bolingbroke è stato l’iniziatore di Voltaire come filosofo, incoraggiandolo a coltivare la ragione e indirizzandone le letture. Il castello de La Source è servito come punto di incontro di molti intellettuali ed è probabile che in quella cerchia Voltaire sia stato avviato per la prima volta alla filosofia naturale, all’opera di Locke e in particolare allo studio dei newtoniani inglesi. Bolingbroke era da poco rientrato in Inghilterra quando Voltaire arriva a Londra all’inizio del maggio 1726. Dopo tre mesi, il 12 agosto, scrive all’amico Thieriot:
Sono ancora molto incerto se ritirarmi a Londra. So che è un paese dove tutte le arti sono onorate e ricompensate, dove c’è differenza tra le condizioni sociali, ma nessun’altra differenza tra gli uomini che quella del merito. È un paese in cui si pensa liberamente e nobilmente, senza essere trattenuti da alcun timore servile. Se seguissi la mia inclinazione mi fermerei qui, non fosse che per imparare a pensare. Ma non so se la mia modesta fortuna, così disturbata da tanti viaggi, la mia cattiva salute, più alterata che mai, e il mio gusto per il più profondo ritiro mi permetteranno di andare a ficcarmi in mezzo al chiasso di Whitehall27.
Alla fine di agosto Voltaire si ritira a Wandsworth, a sud del Tamigi, che oggi è un quartiere periferico inglobato nella città, ma allora era un villaggio in campagna, abitato fin dal 1685 da un’importante colonia di rifugiati religiosi e dai quaccheri. Voltaire mostra una particolare simpatia per la semplicità primitiva dei loro costumi e per la loro religiosità priva di formalismi. A Wandsworth lavora in solitudine, scrive e acquisisce poco a poco familiarità con l’inglese. Il desiderio di ritirarsi e isolarsi per poter pensare lo avrebbe accompagnato per tutta la vita, ed è uno dei segreti della sua sconfinata produzione intellettuale.
Alla fine di ottobre, dopo quasi due mesi, Voltaire torna nella capitale, comincia a frequentare i teatri e, grazie a Bolingbroke28, ha contatti con Alexander Pope29, Jonathan Swift e altri letterati.
L’interesse e l’apertura di Voltaire verso ogni aspetto della cultura inglese rappresentavano un fatto del tutto nuovo per un francese. In quegli anni a Parigi pochi parlavano e leggevano l’inglese, si era diffusa una certa anglofilia, ma di carattere esclusivamente politico e non letterario. Voltaire si interessa invece a tutto, anche alla letteratura. Alcuni scrittori avevano cominciato a sperimentare l’uso di forme letterarie come la novella e il teatro per creare un nuovo genere di critica politica. I viaggi di Gulliver di Swift, apparsi solo pochi mesi prima del suo arrivo, sono l’esempio più famoso di questa nuova fusione di scrittura letteraria e critica politica. Voltaire ne invia una copia al suo amico Thieriot proponendogli di tradurlo:
Gulliver è il Rabelais d’Inghilterra, ma un Rabelais senza fronzoli. Il libro sarebbe divertente anche solo per la singolare immaginazione di cui è pieno, per la leggerezza del suo stile, se non fosse d’altronde la satira del genere umano30.
In novembre John Gay, grande amico di Swift, parla per primo della presenza di Voltaire a Londra. Quando i due scrittori si incontrano, Gay mostra a Voltaire il manoscritto di The Beggar’s Opera (L’opera dei mendicanti), una satira dell’opera di Händel e della corruzione dell’inamovibile Robert Walpole31, primo ministro whig. Si tratta di un’opera cinica e brutale, che si svolge nella prigione di Newgate, dove i ladri, purché avessero denaro, venivano trattati dai carcerieri come gran signori32. Dipinge una società immorale, che non controllava i suoi banditi e che, per un impulso di ferocia, li ammirava. Attraverso Gay, Voltaire entra nel mondo teatrale inglese. Viene presentato al commediografo Colley Cibber33 che lo mette in contatto con William R. Chetwood, suggeritore al Drury Lane. Grazie a lui ha la possibilità di andare ogni giorno a teatro e di assistere a varie tragedie di Shakespeare con il testo sotto mano: Amleto, Otello, Macbeth, Giulio Cesare e Riccardo III34. In una lettera scritta già in inglese all’amico Thieriot, Voltaire, in occasione della recente morte di sua sorella, parafrasa il monologo di Amleto:
La vita non è altro che un sogno pieno di stelle di follia, e di miserie immaginarie e reali. La morte ci risveglia da questo doloroso sogno, dandoci un’esistenza migliore, o nessuna esistenza35.
E annota laconicamente nei Notebooks:
Scene in Shakespeare, non drammi.
Vogliamo azioni36.
È il primo riferimento a Shakespeare, che fino ad allora era per lui soltanto un nome. Ma si capirà con gli anni che l’esperienza di «Shakespeare on stage» doveva essere stata molto forte. In quel tempo la conoscenza di Shakespeare in Europa era limitata alla sola Inghilterra. Da quando, con la restaurazione al trono di Carlo II Stuart, nel 1660, erano stati riaperti i teatri rimasti chiusi per diciotto anni durante la Rivoluzione e il Protettorato di Cromwell, Shakespeare era stato rappresentato in versioni purgate, adattate ai princìpi classici francesi, che con Carlo II erano divenuti precetti anche in Inghilterra. Tuttavia negli adattamenti shakespeariani della Restaurazione molto dell’originale era rimasto, sfuggito alla mano livellatrice dell’estetica classica: la miscela di tragico e comico ereditata dai morality plays, il linguaggio quotidiano e popolaresco mescolato alla declamazione tragica, il soprannaturale delle apparizioni dei fantasmi e dei sogni premonitori, l’efferatezza dei delitti che derivava dall’influsso che nell’Inghilterra della seconda metà del Cinquecento aveva esercitato il teatro di Seneca. Voltaire resta sfavorevolmente sorpreso dalle caratteristiche per lui barbariche di questo teatro così diverso, ma anche molto colpito dal movimento, dall’impatto, dall’efficacia comunicativa.
Non è facile stabilire a quali versioni shakespeariane abbia assistito Voltaire, però certamente non è attraverso la lettura, ma attraverso la rappresentazione, sul palcoscenico e in presenza del pubblico, ch’egli ha fatto la conoscenza diretta delle tragedie di Shakespeare. Non è colpito dal linguaggio verbale, per lui ancora difficile da capire, ma dal linguaggio scenico, dall’azione. Shakespeare, che non infrange l’unità di luogo, la trascende o la ignora, con due parole trasforma il palcoscenico in una strada di Londra, in un bosco, in un palazzo, in una nave o nella terrazza di un castello. Grazie alla capacità degli attori di ricreare un universo di immagini, tutte le sue opere diventano un grande spettacolo pieno di frastuono d’armi, di cortei militari e di duelli; vi si vedono banchetti e grandi bevute, buffoni che fanno le capriole, venti e tempeste, atrocità e sofferenze. Lo spettatore crede veramente che sulla scena sia scoppiata una tempesta, che la nave stia affondando, che il re e il seguito partano per la caccia, che un sicario a pagamento passi l’eroe a fil di spada. Tutto avviene per davvero37.
Bandita dalla tradizione per rispettare le unità aristoteliche di tempo e di luogo e per dare centralità ai versi, sostituendo la vista con l’udito, l’azione era stata sostituita in Francia dal racconto. Voltaire, che aveva timidamente cercato di inserire l’azione nelle sue prime tragedie perché non risultassero monotone conversazioni, sui palcoscenici dei teatri di Londra, più ampi di quelli francesi, vede per la prima volta il teatro: il male, l’ambizione, la sete di potere, l’ingiustizia, il dolore, l’astuzia, la magnanimità, il dubbio, la vendetta, tutto il crogiolo dell’esperienza umana non più raccontati, assorbiti nel racconto, come volevano le regole classiche, ma finalmente agiti.
L’esperienza dei teatri inglesi ha un influsso decisivo sulle opere successive di Voltaire e sulla sua concezione della tragedia. Nelle tragedie classiche francesi tutto il peso del significato era affidato alle parole. Più che vedere, si ascoltavano i drammi in versi proprio come si ascoltava la musica. La lingua di Shakespeare è invece azione parlata. Persino il monologo non è un momento di stasi, è azione, rappresentata col ritmo, coi suoni, coi gesti, coi movimenti scenici. Dopo l’esperienza dei teatri di Londra, l’effetto visivo dello spettacolo, «gli avvenimenti necessari alla pièce», come scriverà in seguito, pur se subordinati ai bei versi, al discorso poetico38, diventano per Voltaire di importanza fondamentale. Sicuramente è colpito anche dalle reazioni del pubblico, dal forte coinvolgimento che i drammi di Shakespeare provocavano negli spettatori e forse cerca – come faranno anni dopo i Romantici – di studiarne le ragioni. La partecipazione nei teatri inglesi era di natura diversa da quella cui lui era abituato. La forza della rappresentazione, la concretezza, la recitazione espressiva e gestuale degli attori inglesi erano le stesse che Diderot descriverà anni dopo nella Lettre sur les sourds et muets:
Ci sono gesti sublimi che tutta l’eloquenza oratoria non renderà mai. È il caso di Lady Macbeth nella tragedia di Shakespeare. La sonnambula Macbeth avanza in scena in silenzio con gli occhi chiusi, imitando l’azione di una persona che si lava le mani, come se le sue fossero ancora tinte del sangue del suo re che lei più di vent’anni prima aveva sgozzato. Non conosco nel linguaggio verbale nulla di altrettanto patetico del silenzio e del movimento delle mani di questa donna. Quale immagine del rimorso!39
Voltaire non riconosce a Shakespeare la statura di un grande autore, non sembra affascinato dal suo mondo poetico, ma è scosso da quel teatro così diverso, dove la verità era scenica e non letteraria. Shakespeare lo interessa per l’effetto che produce, le possibilità teatrali che implica, i suggerimenti che è in grado di dare all’esangue tragedia francese.
L’apparizione degli spettri, banditi dall’estetica classica perché inverosimili e invece frequenti nella drammaturgia shakespeariana, non lo attira per il mistero, oggi diremmo l’inconscio, né per il meraviglioso, come sarà per i Romantici40, ma unicamente come espediente drammatico di successo. Tutto questo risulterà evidente solo più tardi. Nella corrispondenza di Voltaire da Londra non ci sono tracce dirette della sua esperienza di spettatore teatrale. L’Inghilterra sembra affascinarlo e convincerlo più per i costumi sociali che per quelli estetici. Gli piacciono la rapidità e la secchezza dello stile inglese, che influenzerà la scrittura delle sue lettere e dei suoi racconti, e anche molti tratti della sua personalità, del suo modo di essere.
In Inghilterra tutti si preoccupano della cosa pubblica, in Francia unicamente dei propri interessi. Un inglese è pieno di pensieri, un francese pensa solo a gesti, complimenti, parole dolci e carezzevoli, si attacca a seducenti apparenze, esagera con le parole, ossequioso con orgoglio e molto preoccupato di sé stesso mantenendo le apparenze di una piacevole modestia. L’inglese è economo in parole, apertamente fiero di sé e distaccato da tutto il resto. Dà vita il più rapidamente possibile ai suoi pensieri per paura di perdere tempo. [...] Noi in Francia abbiamo cominciato a scrivere abbastanza bene molto prima di aver iniziato a pensare. In Inghilterra è il contrario41.
Soprattutto a Voltaire interessa la scienza e in particolare Newton, di cui ammira le idee, il laicismo, l’empirismo razionale, la visione antimetafisica e il senso tragico della vita, che più tardi contribuirà a divulgare in Francia e in Europa.
Oltre a Bolingbroke e alla sua cerchia di amici, un primo e importante contatto con l’Inghilterra è l’amicizia con un giovane mercante suo coetaneo, Everard Falkener, conosciuto a Wandsworth. Falkener introduce Voltaire in un ambiente londinese opposto al circolo Tory raccolto intorno a Bolingbroke, aprendogli le porte dei Whigs, allora al potere, tra cui c’erano figure come il filosofo deista Samuel Clarke e i suoi amici che si autoproclamavano newtoniani. Voltaire non ha conosciuto Newton, che muore il 20 marzo 1727 a 85 anni, ma il 7 aprile assiste a Westminster Abbey ai suoi funerali42. È sorpreso dal prestigio sociale e mondano di cui gode la scienza in Inghilterra, dal riconoscimento e dalla considerazione rivolta ai pensatori, agli scienziati e ai filosofi, che aveva spianato la carriera a più di un uomo politico. L’apertura e la libertà di pensiero degli inglesi lo fanno sentire a suo agio. Verso i primi di giugno incontra Swift a casa di Pope. Scriverà trent’anni dopo:
Swift diverte ed istruisce a spese del genere umano. Come amo l’arditezza inglese! Come amo le persone che dicono quello che pensano! Non osar pensare che a metà equivale a vivere a metà!43
Certamente, molto dipendeva anche dalla sua indole. Ma è fuor di dubbio che l’esperienza inglese abbia avuto un’influenza determinante sul modo di pensare di Voltaire e sulle sue scelte. L’indipendenza di giudizio che tanto ammirava negli inglesi sarebbe rimasta la sua principale caratteristica, difesa nell’esilio e fino al letto di morte. L’Inghilterra gli suggerisce un cambiamento radicale del ruolo dell’intellettuale di cui lui in Francia costituirà il primo esempio44.
Nel gennaio del 1728 Voltaire assiste a The Beggar’s Opera di John Gay al Lincoln’s Inn Fields Theatre. La pièce ha un successo strepitoso, viene rappresentata a Londra sessantatré sere di seguito e nella stagione successiva in tutta l’Inghilterra. Anche lì, come in Francia, la tragedia stava cedendo il passo alla commedia e a generi più leggeri come la ballad opera.
Nell’autunno di quell’anno, dopo aver pubblicato a Londra per sottoscrizione La Henriade dedicata alla regina inglese Carolina45, Voltaire rientra in Francia. Aveva trentaquattro anni.
4. Tracce di
Shakespeare nelle nuove tragedie:
Brutus, La mort de César, Ériphyle
Nell’aprile del 1729 a Parigi Voltaire inizia a scrivere Brutus, la prima tragedia «romana» ispirata a Shakespeare, di cui a Wandsworth aveva abbozzato il primo atto in inglese46. L’opera, tipico mélange di un po’ di audacia inglese e molta prudenza francese, mostrava in modo evidente l’ascendenza dal teatro di Londra. Il modello formale era il Giulio Cesare, che Voltaire considerava la più corneilliana delle tragedie di Shakespeare per il soggetto incentrato su una congiura. Come nel Giulio Cesare l’ultimo Bruto, figlio adottivo di Cesare, uccide il padre perché era un tiranno, nella tragedia di Voltaire il suo avo Bruto, che aveva abbattuto il despota Tarquinio e istituito il potere dei consoli, condanna a morte i figli che avevano tradito la Repubblica. Entrambi antepongono agli affetti familiari i loro ideali di libertà. Era l’elogio della libertà civile tanto apprezzata in Inghilterra, la condanna di ogni potere dispotico, il tema della pièce. Più tardi, durante la Rivoluzione, la tragedia sarà interpretata e utilizzata come manifesto del Repubblicanesimo, Tarquinio verrà equiparato a Luigi XVI e Roma alla Francia rivoluzionaria. Dal 1790 fino alla caduta di Robespierre, Brutus sarà l’opera più rappresentata sulle scene francesi, Voltaire verrà celebrato come un antesignano della Rivoluzione e nel 1791 – poche settimane dopo il ritorno di Luigi XVI, catturato e riportato a Parigi mentre tentava la fuga – il sarcofago con le sue spoglie sarà portato trionfalmente al Panthéon.
Ma non era la Repubblica l’ideale di Voltaire. Roma era per lui metafora dell’Inghilterra monarchica e costituzionale, Tarquinio era tiranno non perché re, ma per il carattere dispotico della sua forma di governo47. Voltaire non aveva alcuna intenzione di preconizzare per la Francia delle istituzioni repubblicane. Combatteva ogni potere dispotico, non la monarchia, anche se assoluta, come in Francia, alla quale restò sempre fedele, auspicando la libertà pubblica, il rispetto delle leggi e dei diritti fondamentali dell’individuo, qualunque fosse la forma di governo. E avrebbe avuto sicuramente orrore di Robespierre e del suo dispotismo, come di quello di Tarquinio.
Alla fine del 1729, terminata la stesura di Brutus, Voltaire riunisce gli attori della Comédie-Française e legge loro il testo. Ma poco dopo, per paura degli attacchi di Crébillon, che oltre a essere suo rivale diventerà censore ufficiale delle opere teatrali in attesa di rappresentazione48, e forse anche per il poco entusiasmo degli attori, lo ritira e prende tempo per rielaborarlo.
Nel frattempo, il 20 marzo del 1730, muore a Parigi, a 38 anni, Adrienne Lecouvreur. L’attrice, in vita, era stata acclamatissima e ricevuta in tutti i salotti della capitale, ma un’antica legge vietava in Francia la sepoltura degli attori in terra consacrata se prima di morire non avessero rinunciato alla loro professione, per antichi pregiudizi considerata sconveniente49. Adrienne Lecouvreur muore improvvisamente, secondo alcuni avvelenata, e non ha il tempo di abiurare. Il suo corpo viene sepolto in un champ commun, un cimitero per morti senza nome, come avviene ancora per i clochard nel quartiere du Gros Caillou, tra il Champ de Mars e les Invalides. La contraddizione era bruciante. La tragedia in Francia era considerata il vertice della cultura, dell’orgoglio e dell’identità nazionale, mentre i suoi interpreti avrebbero dovuto aspettare la Rivoluzione per vedere riconosciuti i propri diritti civili, insieme ai protestanti e agli ebrei. Voltaire, che era stato amico e amante dell’attrice, reduce dall’Inghilterra dove aveva constatato il rispetto e gli onori che venivano tributati agli attori, annota: «Attori pagati dal re, e dichiarati infami»50. In seguito scriverà un poema, La mort de Mlle Lecouvreur, pubblicato due anni dopo, in cui paragonerà l’empio trattamento riservato al corpo dell’attrice francese con le celebrazioni che in Inghilterra si erano svolte quello stesso anno per la morte di Mrs Oldfield, attrice inglese sepolta a Westminster Abbey, come Dryden51, Addison52 e Newton. Quando il poema esce in Francia dà scandalo. La grande maggioranza del pubblico considera la gente di teatro estranea alla società53.
Alla fine dell’anno, l’11 dicembre, Brutus va in scena alla Comédie-Française. Per incrementare lo spettacolo e l’elemento visivo, come aveva visto fare in Inghilterra, Voltaire inserisce precise note di messinscena all’inizio degli atti, con indicazioni dettagliate dei costumi, degli atteggiamenti e dei gesti dei personaggi. Per dare coralità all’evento tragico, contravvenendo alla regola francese che vietava la comparsa di molti personaggi, mostra i senatori riuniti in assemblea, vestiti di rosso e disposti in semicerchio, davanti all’altare di Marte. Per imprimere più ritmo e movimento alla pièce, avrebbe voluto un décor simultaneo, contenente i vari luoghi dell’azione (il tempio, la casa dei consoli, la sala dell’udienza, l’altare di Marte), ma le sue indicazioni non vengono seguite e Brutus viene rappresentato in modo convenzionale, con il solito palais à volonté come sfondo. Il colpo di scena alla fine della quinta scena del quarto atto, in cui il fondale del teatro si apre e Bruto appare al figlio, viene eliminato.
Alla prima la tragedia ottiene grande successo di sostenitori e di amici. Ma a partire dal secondo giorno l’incasso crolla da 5.065 a 2.540 lire e all’ultima rappresentazione, dopo quindici repliche, è di sole 660. La cifra è eloquente. I tentativi di rinnovare la tragedia utilizzando il modello inglese non risultavano particolarmente graditi al pubblico francese54.
Il successo relativo di Brutus era probabilmente dovuto anche alla debolezza dell’intrigo amoroso. Voltaire sapeva che in Francia una pièce senza personaggi femminili e senza amore non poteva più piacere. Per questo aveva introdotto, pur senza molta convinzione, il ruolo di Tullia, figlia di Tarquinio amata da Tito, figlio di Bruto. Ma il personaggio risultava sbiadito. Mlle Dangeville, l’attrice quindicenne che lo impersonava, non viene ben accolta. L’indomani della prima Voltaire le scrive una lettera per rassicurarla, scagionandola dalla responsabilità dell’insuccesso e facendo autocritica.
La pièce è indegna di voi, ma siate sicura che vi guadagnerete la gloria spandendo le vostre grazie sul mio ruolo di Tullia [...]. Non scoraggiatevi, pensate che avete recitato meravigliosamente durante le prove, che ieri vi è mancata una sola cosa: essere ardita. La vostra stessa timidezza vi fa onore. Domani dovete prendervi la vostra vendetta55.
Il 24 gennaio 1731, al Théâtre-Italien Dominique mette in scena Bolus, una parodia di Brutus. Pochi mesi dopo, quando Brutus viene pubblicato, Voltaire fa precedere il testo da una prefazione dedicata al suo amico Bolingbroke, Discours sur la tragédie à Milord Bolingbroke. Shakespeare non si sarebbe mai sognato di far precedere le sue tragedie da una prefazione. Scriveva per essere ascoltato dal vivo, non per essere letto. Non si occupò mai delle pubblicazioni delle sue opere e non ne diede una versione autorizzata. La doppia identità di un autore come poeta e teorico, la fusione fra valore creativo e valore critico, è una prerogativa, relativamente recente, nata nell’epoca classica francese. Il teatro ateniese e quello elisabettiano ignoravano il dibattito teorico. L’immaginazione regnava sovrana. Solo dalla metà del XVII secolo in poi i drammaturghi si fanno critici e teorici, scrivono per demolire una vecchia teoria o difendere una tesi, introducono i loro lavori con dichiarazioni programmatiche e manifesti. In Inghilterra il prototipo di questo tipo di intellettuale, al tempo stesso autore e teorico, era Dryden, che Voltaire apprezzava. Consapevole della grandezza di Shakespeare, Dryden restava nello stesso tempo fedele ai canoni della tradizione classica, ammirava Corneille e lo stile elevato della tragedia francese, riteneva che il blank verse elisabettiano non corrispondesse all’argomento grande e nobile del genere tragico.
Il Discours sur la tragédie è il primo scritto teorico sul teatro in cui l’influenza dell’esperienza inglese è evidente. È un documento ambivalente56, in cui Voltaire da un lato insiste sulla indiscutibile superiorità della poesia e della versificazione nella tragedia classica francese (per la purezza, l’eleganza, l’andamento regolare, lo stile) e dall’altro coglie per primo nell’uso inglese di sostituire l’azione al racconto una prerogativa essenziale che, di lì a qualche anno, avrebbe prodotto in Europa la morte della tragedia classica e l’avvento di una nuova era teatrale.
Gli Inglesi danno molta più importanza di noi all’azione, parlano di più agli occhi. I Francesi danno più importanza all’eleganza, all’armonia e al fascino dei versi57.
In Francia ci sono stimate tragedie che più che la rappresentazione di un avvenimento sono conversazioni [...]. La nostra eccessiva delicatezza a volte ci forza a raccontare ciò che vorremmo mostrare. Temiamo l’azzardo di rappresentare sulla scena teatrale spettacoli nuovi davanti a una nazione abituata a ridicolizzare tutto ciò che non le è abituale58.
Ciò che a Parigi era il racconto di un avvenimento, che lo spettatore ricostruiva per immagini nella sua mente tramite le parole, a Londra era l’avvenimento stesso, facile da vedere nel concreto. Molti erano gli esempi: la presenza in carne ed ossa del fantasma di Pompeo e dello spettro di Bruto, il cadavere di Cesare esposto allo sguardo della populace e sul quale Marc’Antonio declamava una commovente richiesta di vendetta nel Giulio Cesare, il corpo senza vita di Marco, portato davanti agli occhi del padre nel Catone di Addison59, una pièce che a Voltaire piaceva particolarmente.
Voltaire reclama anche in Francia – come aveva visto a Londra – una scena ampia, capace di dare spazio a una scenografia simultanea e nello stesso tempo rispettare la tradizionale unità d’azione. Per questo interviene contro le banquettes che sulla scena della Comédie-Française occupavano un quarto del palco ostacolando ogni «azione grande e patetica», un’usanza in seguito molto mal vista anche da Diderot che chiederà di liberare il palcoscenico dalla presenza dei petits maîtres per permettere alla scena di apparire come un quadro, favorendo l’illusione ottica60.
Il luogo in cui si rappresenta la commedia e gli abusi che vi si sono intrufolati sono ancora la causa di quell’aridità che si può rimproverare ad alcune delle nostre pièce. I posti per gli spettatori che sono sul palcoscenico restringono la scena e rendono ogni azione del tutto impraticabile. Questo difetto è il motivo per cui gli abbellimenti scenici, così raccomandati dagli antichi, sono raramente adatti alla pièce. Soprattutto ciò impedisce che gli attori passino da una stanza all’altra sotto gli occhi degli spettatori, come i greci e i romani facevano saggiamente, per preservare sia l’unità di luogo sia la verosimiglianza61.
Inglesi e francesi nella tragedia tendevano secondo Voltaire a eccessi opposti. Gli inglesi, scambiando spesso – come i greci – l’orrore con il terrore, rischiavano di superare i limiti del tragico. I francesi, al contrario, spesso non raggiungevano il tragico per effetto di eccessiva prudenza.
So bene che i tragici greci, d’altronde superiori a quelli inglesi, hanno commesso errori scambiando spesso l’orrore con il terrore, e il disgustoso e l’incredibile con il tragico e il meraviglioso. L’arte era nell’epoca della propria infanzia al tempo di Eschilo come a Londra al tempo di Shakespeare; ma fra i grandi errori dei poeti greci, e anche fra i vostri, si ritrova un reale patetico e singolari bellezze; e se qualche francese che conosce le tragedie e i costumi stranieri solo attraverso traduzioni o il sentito dire, le condanna senza alcuna riserva, egli è, a mio parere, come un cieco che sostiene che una rosa non può avere colori vivaci solo perché ne conta a tastoni le spine. Ma se voi e i greci oltrepassate i limiti della convenienza, e se soprattutto gli inglesi hanno rappresentato spettacoli spaventosi volendo rappresentarne dèi terribili, noi altri francesi, tanto scrupolosi quanto voi temerari, ci siamo trattenuti troppo, per paura di lasciarci prendere la mano e talora non arriviamo nemmeno al tragico, nel timore di oltrepassarne i limiti62.
Nel Discours sur la tragédie l’apertura al modello inglese è evidente: il rinnovamento della tragedia supponeva una flessibilità e un’idea di natura più forte della rigidità dei precetti. Voltaire invitava i francesi al cambiamento:
Tocca all’abitudine, che è regina di questo mondo, sia di cambiare il gusto della nazione, sia di mutare in piacere gli oggetti della nostra avversione [...]. La natura non è la medesima in tutti gli uomini?63
Nel giugno 1731 Voltaire finisce di scrivere la sua seconda tragedia «romana», La mort de César, dichiaratamente ispirata al Julius Caesar, di cui nel Discours aveva tradotto alcuni passi64. L’accoglienza non troppo entusiasta riservata al Brutus non lo aveva scoraggiato. Continuava a utilizzare Shakespeare per rinnovare la tragedia francese. A causa dell’ambientazione romana e del tema della congiura, topos della tragedia classica come nel Cinna di Corneille, la tragedia shakespeariana sembrava il modello ideale per una riscrittura regolare nel filone corneilliano. Voltaire cerca di inserire la trama del Giulio Cesare nella tradizione francese, di correggere e migliorare Shakespeare sottomettendolo alle norme, al gusto, alle bienséances, alle unità di tempo e di luogo e al verso alessandrino, senza accorgersi di perderne la poesia. A noi tutto ciò appare incomprensibile, arido, una questione formale. Ma fino alla fine dell’Ancien Régime la forma rappresentava per i francesi la sostanza. Per Voltaire e per la tradizione classica nella quale si era formato, le regole erano il simbolo della civiltà, la base della società, del gioco, della letteratura e anche della tragedia. Le regole erano il segno dell’intervento e del dominio della ragione umana sul caos. L’assenza di regole portava il trionfo del disordine e della barbarie. E le regole, nonostante l’apertura di Voltaire ad un certo relativismo culturale, non dovevano valere solo per i francesi: dovevano essere uguali per tutti e diventare così universali.
Voltaire fa conoscere Shakespeare ai francesi non perché lo ritenga superiore, ma perché è interessante, concetto nuovo, destinato ad avere fortuna, che prima del Settecento non esisteva. Shakespeare poteva offrire spunti e suggerimenti, ma andava corretto e non soltanto adattato. La diversità, l’anomalia e l’eccentricità shakespeariana – tutto ciò che a partire dal Romanticismo noi apprezziamo in lui – andavano normalizzate, reinserite nei canoni della dottrina classica. La superiorità del modello classico restava fuori discussione, era un dogma.
Il punto di vista di Voltaire era indiscutibilmente francese, ma esprimeva allora idee condivise anche dalla più consapevole critica shakespeariana inglese. Un compromesso tra l’aspirazione all’ordine e alla regolarità e l’ammirazione per Shakespeare, con la sua irregolarità e la sua esuberanza. Shakespeare viene biasimato per non aver rispettato le regole, ma giustificato in base alle condizioni culturali in cui si era trovato a operare. Nicholas Rowe, nella prefazione alla sua edizione di Shakespeare, aveva scritto nel 1709:
Se uno dovesse impegnarsi a esaminare la maggior parte dei [suoi] drammi secondo le regole stabilite da Aristotele e prese dal modello del teatro greco, non sarebbe compito difficilissimo trovare un gran numero di difetti; ma siccome Shakespeare viveva sotto una specie di semplice luce della Natura, e non aveva mai fatto la conoscenza del regolamento di tali precetti scritti, sarebbe ingiusto giudicarlo secondo una legge della quale non sapeva nulla. Lo dobbiamo considerare come un uomo che viveva in uno stato di quasi universale licenza e ignoranza. Non c’era nessun giudice preposto, quindi ognuno si prendeva la libertà di scrivere secondo i dettami della propria fantasia65.
E Pope, nel 1725, aveva accettato Shakespeare «nonostante» le sue irregolarità:
Concludo dicendo a proposito di Shakespeare, che con tutti i suoi difetti e con tutta l’irregolarità dei suoi drammi, le sue opere a confronto di altre più rifinite e più regolari, si possono vedere come un maestoso e antico esempio di architettura gotica paragonata a una graziosa costruzione moderna; quest’ultima è più elegante e vivace, ma la prima è più forte e solenne. Bisogna ammettere che in quest’ultima si trovano materiali sufficienti per costruirne tante delle altre. Ha una varietà molto maggiore e ha appartamenti molto più nobili; benché spesso ci si arrivi attraverso dei passaggi bui, strambi e rozzi. Il tutto non manca di infonderci un maggiore rispetto, anche se molte delle sue parti sono infantili, mal situate e non all’altezza della sua grandezza66.
Nel Giulio Cesare di Shakespeare i primi due atti della tragedia trattano della congiura, la morte di Cesare apre il terzo atto, seguono due atti sul fallimento politico dell’assassinio da parte dei congiurati fino alla battaglia di Filippi e al suicidio di Cassio e di Bruto. Dei cinque atti dell’originale inglese Voltaire conserva nella sua tragedia soltanto i primi tre ed elimina gli ultimi due che non lo interessano perché esulano dal tema della congiura, fermandosi alla morte di Cesare; riprende fedelmente il discorso di Antonio che ammirava particolarmente. Cancella i ruoli femminili e le scene di folla, riduce i personaggi a cinque e concentra l’azione sul conflitto interiore di Bruto, diviso tra l’amore personale per il Cesare padre e l’odio politico per il Cesare dittatore67. Attirato dalla forza della presenza in scena del cadavere visto a Londra, Voltaire, per rispettare le bienséances, non mostra l’assassinio di Cesare come aveva fatto Shakespeare ma riesce a «spectraliser la mort»68 introducendo nell’ultimo quadro il cadavere sanguinante del dittatore.
Tra la tragedia di Voltaire e quella di Shakespeare le differenze sono profonde. Nel Giulio Cesare non ci sono né vincitori né vinti e i personaggi storici sono trattati al rango di uomini comuni, spesso moralmente e fisicamente fragili, che commettono errori, hanno sentimenti, debolezze, dubbi, preoccupazioni, incubi, paure e allucinazioni. Voltaire, invece, resta fedele all’idea della tragedia eroica: Cesare mantiene la posizione e il rango di un semidio, Bruto sacrifica i suoi sentimenti personali in nome di un principio civico e così l’idea dell’eroe tragico rimane intatta, come volevano i francesi. Niente era più lontano da Shakespeare della tragedia eroica. Oltre a mostrare l’umanità dei personaggi, Giulio Cesare offre un’immagine della fragilità e mutevolezza umana e della relatività del reale. Non ci sono eroi nel Giulio Cesare perché non ci sono certezze, né valori assoluti. Tutto passa e tutto cambia; i miti sorgono e decadono, per essere sostituiti da altri che a loro volta crolleranno; la realtà è inafferrabile e sfuggente, osservabile da mille punti di vista e suscettibile di mille interpretazioni, nessuna delle quali è sicuramente vera, come nessuna è sicuramente falsa69. Non è certamente questo il tema di La mort de César, anche se il soggetto è lo stesso. La tragedia di Voltaire non è una tragedia storica che ci fa riflettere sulla tragica inutilità della morte di Cesare nella conquista della libertà; è una tragedia psicologica circoscritta al personaggio di Bruto, diviso tra l’amore filiale e l’imperativo di abbattere la tirannia, simile nell’impianto alle tragedie di Corneille. In questo le due pièce scritte da Voltaire dopo l’esilio inglese si somigliano: entrambe sono celebrazioni della vittoria della libertà sulla tirannide.
Eppure Voltaire non si è mai spinto a interrogarsi su cosa stesse alla base della libertà inglese, garantita dal Parlamento e quindi dalla divisione dei poteri, né si è mai arrischiato a pensare all’ipotesi per la Francia di una monarchia costituzionale, basata sull’equilibrio dei poteri che tanto impressionò Montesquieu. Nei Notebooks qualche anno dopo farà una difesa dell’assolutismo francese:
Gli inglesi che non hanno viaggiato credono che il re di Francia sia il padrone dei beni e della vita dei sudditi, il quale dicendo soltanto «è così che ci garba», toglie le rendite a un suddito per donarle a un altro. Un simile governo non esiste su tutta la terra. Le leggi sono osservate, nessuno è oppresso, un uomo a cui un intendente dovesse fare un’ingiustizia ha il diritto di lamentarsene presso il consiglio. Non si obbliga nessuno a servire, come in Inghilterra, e se i ministri abusano troppo del loro potere le grida pubbliche sono loro funeste. È quando i re non erano assoluti che i popoli erano infelici. Erano preda di cento tiranni70.
In La mort de César, Cesare dichiara ai suoi avversari che «Roma chiede un capo» perché in «tempi corrotti» la libertà non è che anarchia e solo l’ascesa di un capo può impedire che le fazioni scatenino la guerra civile. Per Voltaire non sembra esserci nulla oltre l’alternativa tra assolutismo e tirannide.
Dal punto di vista formale Brutus e La mort de César erano un tentativo di regolarizzare e correggere Shakespeare per farlo accettare ai francesi e nello stesso tempo un modo di rinnovare il teatro francese accogliendo alcuni elementi di Shakespeare71. Anche se in questa fase giovanile predomina ancora in Voltaire un certo relativismo che lo induce alla comparazione e non alla competizione per il primato culturale, come sarà più tardi, con La mort de César inizia il confronto Shakespeare-Corneille che negli anni successivi diventerà un tema dominante, quasi ossessivo.
Il 7 marzo del 1732 va in scena la terza pièce di Voltaire in cui si avverte l’influenza di Shakespeare, Ériphyle, vagamente ispirata all’Amleto72. Questa volta Voltaire prova a introdurre un fantasma sulla scena francese73. Ma quando nel quinto atto l’ombra di Amphiaraus fa il suo ingresso sul palcoscenico della Comédie-Française, ingombro delle solite panche dei petits maîtres, l’effetto è sgradevole, incongruo. Tuttavia, «si perdona il dessert, quando gli altri piatti sono stati passabili», scrive Voltaire in una lettera74. La pièce viene applaudita soprattutto per i tipici versi frondeurs contro i cortigiani e contro la superstizione.
Se ora volete credere al loro acuto sguardo
Traditore è il ministro, e tiranno ogni principe, [...]
E quando di un gran re s’avvicina il declino,
La moglie o anche suo figlio ne affrettano il destino
Ma degli dèi la voce, o piuttosto dei preti
Da vent’anni mi ha tolto il rango dei miei avi.
Bisognava soccombere alle superstizioni
Che sugli Stati regnano ben più dei nostri re75.
Non contento della sua opera Voltaire si propone di rimaneggiarla e per verificarne l’efficacia la mette in scena privatamente in casa di Mme de Fontaine-Martel, in rue des Bons Enfants, dietro il Palais Royal, dove in quel momento lui viveva. Era l’inizio di una pratica che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Nel Settecento il théâtre de société, cioè il teatro fatto in casa, era abituale nelle residenze degli aristocratici e dei ricchi borghesi. Voltaire amava la pratica del teatro, amava occuparsi della scelta degli attori, della distribuzione delle parti, amava aiutare l’interprete non solo a leggere e declamare il ruolo ma anche a creare il personaggio. E gli piaceva recitare. A partire da Ériphyle mettere in scena personalmente un testo diventa un modo per poterlo osservare dall’esterno, giudicare e correggere. «Ho rilavorato alla mia tragedia con l’ardore di un uomo che non ha altre passioni», scrive all’amico Cideville. «Sapete bene che solo l’esecuzione decide il merito del soggetto»76. «Gli effetti teatrali non si indovinano a tavolino», confiderà qualche anno dopo a de La Noue77. Alla riapertura del teatro, dopo la Pasqua, Ériphyle va in scena in una nuova versione. Voltaire decide però di non farla stampare. La tragedia rimane inedita e verrà pubblicata solo dopo la sua morte, nel 1779.
5. Zaïre
La quarta tragedia in cui si avverte l’eco di Shakespeare è Zaïre. Voltaire la scrive in soli ventidue giorni. Dopo una tragedia politica, rigorosa e virile, come La mort de César, è la volta di una tragedia di soggetto amoroso, come il pubblico sembrava chiedere, in particolare quello femminile. Voltaire guardava con un certo disprezzo le tragedie incentrate sull’amore e a giudicare dalla sua vita, come emerge dalle lettere, non era incline alla tenerezza e apprezzava nelle donne soprattutto l’attività intellettuale, che considerava una caratteristica maschile. Gli piacevano alcune donne, dotate di tratti virili, ma non la femminilità. «La maggior parte delle donne non conosce che la passione e l’indolenza», scriverà sprezzantemente anni dopo78. Ma Voltaire è ambizioso, e pur di avere successo si concede ai gusti del pubblico. «Il mio vero interesse è la mia reputazione»79, dichiara, e il pubblico finalmente lo premia. Zaïre è di tutte le tragedie di Voltaire quella che ha avuto più repliche, più apprezzamenti, non solo in Francia ma anche in Inghilterra, in Germania, in Italia, in Russia e in America. Per il tema della gelosia immotivata, Zaïre somigliava all’Otello di Shakespeare. Ma Voltaire trasporta il soggetto nel Medioevo e in Oriente, tra i cavalieri cristiani francesi a Gerusalemme.
L’azione si svolge al tempo delle Crociate. Zaira, nata cristiana, ma cresciuta nell’islam, è amata dal sultano turco Orosmane. Il giovane Nerestano è incaricato della raccolta del riscatto per la liberazione dei cristiani. Il sultano rilascia un centinaio di cavalieri, ma si rifiuta di rilasciare Zaira. Il vecchio re Lusignano, liberato a sua volta, riconosce in Zaira e Nerestano i suoi figli che credeva morti. Orosmane, ingannato da una lettera ambigua, pugnala Zaira che crede infedele. Accortosi del suo errore, si uccide sul corpo della sua amata.
Riferirsi al disprezzato mondo medievale e dare nomi e cognomi autentici ai re e alle loro famiglie invece di nasconderne l’identità dietro modelli classici costituiva una grande novità per il teatro francese, tratta esplicitamente dal teatro inglese e che preludeva al teatro romantico. Zaïre era un primo esempio di tragedia storico-nazionale, un genere destinato al successo.
È al teatro inglese che devo l’ardire che ho avuto nel mettere in scena i nomi dei nostri re e delle antiche famiglie del regno. Ritengo che questa novità potrebbe essere l’inizio di un genere di tragedia sinora sconosciuto, di cui abbiamo bisogno80.
Voltaire intuisce che con l’ascesa della borghesia il centro degli interessi si stava spostando dalla vita pubblica a quella privata, familiare. Se fino ad allora in una tragedia erano implicati dei personaggi mitici, si avverte ormai il bisogno di un dramma che abbia luogo tra individui normali e luoghi storici reali. L’empirismo e l’evoluzione del pubblico avevano logorato l’inclinazione per i simboli, il linguaggio allegorico, la mitologia. Voltaire inscena per la prima volta una nazione francese che risaliva alle Crociate e all’eroismo della cavalleria.
La struttura di Zaïre è schematica. Orosmane è un sultano illuminato. Zaira, fiera e modesta insieme, è l’immagine positiva della donna. Nerestano è un concentrato di valori: nobiltà, fedeltà, coraggio e generosità. L’opera era un altro elogio evidente della libertà: invitava all’abolizione della schiavitù. Ma era anche un modo per mettere a contrasto i costumi cristiani con quelli islamici. Pur non ponendo in dubbio la superiorità dei francesi, Voltaire era portato a interessarsi anche ad altre culture e civiltà.
Mi venne l’idea di mettere a contrasto, in uno stesso quadro, da un lato l’onore, la nascita, la patria, la religione, e dall’altro l’amore più tenero e il più sfortunato; i costumi dei maomettani e quelli dei cristiani; la corte di un sultano e quella di un re di Francia81.
Voltaire non ne parla, ma la critica, in ogni epoca, è sempre stata d’accordo nel ritenere che la tragedia ricalchi in modo evidente il tema della gelosia che Voltaire aveva scoperto in Otello, adattandolo a un contesto diverso. La nobiltà d’animo di un eroe esotico e valoroso come Orosmane, la lotta impotente contro una gelosia ossessiva, l’assassinio, l’errore, il suicidio ricordano Otello82. Il contrasto tra un maschio potente e una tenera e fragile vittima suggerisce una parentela evidente tra le due pièce83. E tuttavia la parentela è formale. Otello ha offerto lo spunto, ma non la sostanza a Zaïre. Il modello seguito da Voltaire è Racine, non Shakespeare. Il tema principale di Zaïre non è la gelosia, la protagonista è lei, non Orosmane. Il motivo è raciniano: è il conflitto interiore di una giovane donna divisa tra la passione amorosa e l’identità di cristiana, la fedeltà alla religione in cui è cresciuta, a cui appartiene: tema per eccellenza classico, di cui la gelosia non è che una conseguenza. Zaïre resta una pièce classicamente francese84.
La tragedia debutta il 13 agosto 1732. L’esito è mediocre. Voltaire scrive all’amico Formont:
Mi irrita molto che abbiate visto solo la prima rappresentazione di Zaïre. Gli attori recitavano male, la platea era tumultuosa e io avevo lasciato nel testo alcuni passi un po’ trascurati, che furono evidenziati con un tale accanimento che tutto l’interesse era distrutto85.
E nel Commentaire historique aggiunge: «È stata sul punto di venire fischiata»86. Voltaire rimette mano alla tragedia che, a partire dalla quarta rappresentazione, diventa un trionfo – il primo dopo Œdipe –, presto sancito da diverse parodie nei teatri della Foire e al Théâtre-Italien: Les Enfants-trouvés ou le Sultan poli par l’amour, Caquire: parodie de Zaïre, Arlequin au Parnasse ou la Folie de Melpomène87.
Il 14 ottobre, la Comédie recita Zaïre a Fontainebleau, davanti al re Luigi XV che ormai, raggiunta la maggiore età, regnava dal 1723 e aveva reintegrato l’uso delle rappresentazioni a corte. Poco dopo la pièce viene tradotta in inglese e adattata da Aaron Hill col titolo Zara. Nel 1736, rappresentata al Drury Lane per quattordici sere, essa rivela al pubblico Susannah Cibber, giovanissima e sconosciuta attrice debuttante. Il successo è prodigioso. Coperta di gloria in poche ore, Mrs Cibber diventerà una delle attrici più in vista del secolo. Da allora Zara verrà associata per anni al suo nome88.
Grande «successo di lacrime», Zaïre è stata anche la pièce più amata da Voltaire attore, che si divertiva a recitare i ruoli delle sue tragedie. Sostenendo di essere vecchio, malato e addirittura moribondo anche da giovane – vezzo del suo carattere ipocondriaco che ricorre spesso nella corrispondenza –, posseduto dalla passione teatrale, ha continuato per tutta la vita a interpretare la parte del vecchio Lusignano, malato e moribondo, su tutte le sue scene private, quasi fosse un doppio di sé stesso. Molti hanno descritto Voltaire come un commediante, un istrione, un Proteo sempre propenso allo sdoppiamento ironico; lui stesso teneva molto a questo ruolo enigmatico e inafferrabile. «Un uomo che non era sé stesso se non quando recitava il personaggio di un altro, ma di un altro proveniente dalla sua propria invenzione, l’essere riflettendo l’apparire e reciprocamente, all’infinito, come entro due specchi»89.
Nel 1733 il testo di Zaïre viene pubblicato in tre successive edizioni. La terza conteneva come dedica l’Épître à Falkener (Lettera a Falkener). Unico vero grande amico dei suoi anni giovanili, Everard Falkener (o Fawkener, 1684-1758) era il ricco mercante inglese, proprietario di un’importante impresa di import-export, che Voltaire aveva conosciuto a Wandsworth. Con la sua presenza e la sua ospitale disponibilità, Falkener aveva addolcito i primi mesi del suo esilio inglese. Voltaire si sarebbe ricordato di lui anni dopo tratteggiando il personaggio di Jacques, il buon anabattista del Candide90. Per la prima volta un’opera letteraria veniva dedicata non più a un personaggio influente della corte, un aristocratico di cui assicurarsi la protezione, ma a «un degno e virtuoso cittadino», un intraprendente borghese «semplice negoziante», solido, attivo e scapolo, per il quale Voltaire suo coetaneo sentiva una forte affinità91. Era una svolta provocatoria e significativa.
Ho il grande piacere di poter dire alla mia nazione con quali occhi siano visti presso di voi i commercianti, di quanta stima goda una professione che fa la grandezza dello Stato e con quale preminenza alcuni di voi rappresentino la loro patria in Parlamento, elevandosi al rango di legislatori [...]. «Un adulatore ipocrita / Dentro me proietta, triste, / Il timore suo e il contegno. / Ma uno spirto audace e libero / Desta in me pensiero e ardore»92.
Anche se compariva come dedica in una tragedia, l’epistola a Falkener non affrontava questioni teatrali. Il teatro viene utilizzato da Voltaire per elogiare pubblicamente i costumi e la libertà di pensiero degli inglesi. Falkener era uno spirito libero. Voltaire aveva appreso in Inghilterra una realtà fondamentale: che i soldi sono un modo per emanciparsi dalle protezioni e dai privilegi, conquistare l’indipendenza e permettersi di parlare chiaro. Nel 1730, grazie ad alcuni investimenti riusciti e alla parte di eredità avuta dal padre, Voltaire era diventato ricco. Disponeva di un notevole capitale, che nel tempo, grazie alla sua intraprendenza, sarebbe ulteriormente aumentato. Questo gli avrebbe permesso di rinunciare alle pensioni del re, che implicavano la soggezione, come agli introiti, sempre incerti, delle sue produzioni letterarie, non regolate dal diritto d’autore e spesso in balia della pirateria editoriale, allora imperante. L’agio economico gli avrebbe consentito di non dipendere da alcuno, di scrivere in libertà e di farsi rispettare dai potenti. Poco dopo la pubblicazione di Zaïre con la dedica a Falkener, la Comédie-Italienne mette in scena una parodia che ridicolizzava Voltaire e quella dedica a «un semplice negoziante». In risposta, in una successiva edizione (1736), Voltaire pubblica una seconda lettera a Falkener, divenuto nel frattempo ambasciatore d’Inghilterra a Costantinopoli, in cui ribadiva il concetto di merito:
Alcune persone corrotte dall’indegna abitudine di rendere omaggio solamente alla grandezza, hanno tentato di irridere la novità di una dedica fatta ad un uomo che all’epoca non vantava altri titoli se non il proprio merito93.
6. Lettres
philosophiques:
Voltaire introduce Shakespeare in Francia
Escono intanto in Inghilterra (1733) le Letters Concerning the English Nation94 che Voltaire aveva scritto tra il 1726 e il 1729. Il libro è provocatorio e appare come una glorificazione dell’Inghilterra: la vendetta di Voltaire cacciato dalla Francia95, che vuole far conoscere ai francesi quel paese fino ad allora a loro ignoto, per farli riflettere sulle proprie istituzioni comparandole con quelle inglesi, assai più avanzate grazie alla divisione dei poteri, e aperte anche ai borghesi. Il libro tratta di religione, di politica, di scienza, di vaccini96 e, nella lettera XVIII, della tragedia.
Il ritratto che Voltaire fa dell’Inghilterra è un’apologia della diversità, della tolleranza religiosa, della libertà dello spirito e delle istituzioni inglesi. Voltaire ha simpatia per la sobrietà, l’apertura e il pacifismo dei quaccheri più che per lo zelo conformista del clero anglicano e per la severità dei presbiteriani, ma soprattutto vede nella molteplicità e nella convivenza delle dottrine – oltre che nel potere globalizzante del denaro – non la conseguenza bensì la ragione della tolleranza religiosa:
Entrate nella Borsa di Londra, questa piazza ben più rispettabile di molte corti; vi vedrete riuniti i rappresentanti di tutte le Nazioni per l’utilità degli uomini. Lì l’ebreo, il maomettano e il cristiano si trattano l’un l’altro come se fossero della stessa religione e non danno il nome di infedeli che a quelli che fanno bancarotta; là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano riceve la promessa del quacchero. All’uscita di queste libere e pacifiche assemblee, gli uni vanno alla Sinagoga, gli altri vanno a bere; uno va a farsi battezzare in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; l’altro fa tagliare il prepuzio di suo figlio e mormorare sul bambino delle parole ebraiche che non capisce; altri ancora vanno nella loro chiesa ad aspettare l’ispirazione divina, col cappello in testa, e tutti sono contenti. [...] Se in Inghilterra non ci fosse che una religione ci sarebbe da temere il dispotismo; se ce ne fossero due si taglierebbero la gola; ma essendocene trenta vivono in pace e felici97.
La più grande diversità tra Francia e Inghilterra riguardava naturalmente la monarchia. In Inghilterra il potere del Parlamento regolava tutti i poteri, compreso quello del re:
La Nazione inglese è la sola della terra che sia riuscita a regolare il potere dei Re resistendo loro, e che, di sforzo in sforzo, abbia infine stabilito quel saggio governo in cui il Principe, onnipotente per fare il bene, ha le mani legate per fare il male, in cui i Signori sono Grandi senza insolenze e senza vassalli, in cui il popolo condivide il governo senza confusione. [...] I Francesi pensano che il governo di quest’isola sia più tempestoso del mare che la circonda, ed è vero; ma (questo avviene) quando il Re comincia la tempesta, quando vuole diventare padrone del vascello di cui non è che il primo pilota. Le guerre civili francesi sono state più lunghe, più crudeli, più feconde in crimini di quelle inglesi; ma di tutte queste guerre civili non ce ne è stata una che abbia avuto per oggetto una saggia libertà98.
Proprio perché Voltaire non arriverà mai a proporre una monarchia parlamentare in Francia e resterà ancorato fino alla fine al mito del Re Sole, colpisce la sua lucidità nel descrivere ed elogiare le istituzioni inglesi, le cause e gli effetti della democrazia. Voltaire auspicava in Francia una monarchia illuminata ma pur sempre assoluta. Non amava Luigi XV non perché era un sovrano assoluto, ma perché non era illuminato. Il modello inglese, che lui osserva, descrive ed elogia con tanta chiarezza non lo smuove dalle sue posizioni nel proprio paese. Voltaire sembra indifferente alla questione della forma di governo: il suo progetto non era in primo luogo politico, ma civile. E tuttavia ha uno straordinario acume nel cogliere la modernità, come quando, nella decima lettera, elogia il commercio:
Il commercio, che ha arricchito i cittadini in Inghilterra, ha contribuito a renderli liberi, e questa libertà ha esteso a sua volta il commercio; così si è formata la grandezza dello Stato. È il commercio che ha dato vita poco a poco alle forze navali, grazie alle quali gli inglesi sono i padroni dei mari. Attualmente hanno circa duecento vascelli di guerra. La posterità verrà a sapere forse con sorpresa che una piccola isola, che non ha di suo che un po’ di piombo, stagno, terre à foulon99 e lana grezza è diventata a causa del commercio abbastanza potente per inviare, nel 1723, tre flotte contemporaneamente in tre estremità del mondo: una davanti a Gibilterra, conquistata e conservata con le armi, l’altra a Portobelo per impedire al Re di Spagna di godere dei tesori dell’India e la terza nel mar Baltico per impedire alle Potenze nordiche di combattere100.
Riprendendo l’elogio del negoziante della Épître à Falkener, pubblicata lo stesso anno, Voltaire scrive:
In Francia è Marchese chi lo vuole; e chiunque arrivi a Parigi dal fondo di una provincia con denaro da spendere e un nome in Ac o in Ille può dire «un uomo come me, un uomo della mia qualità», e disprezzare sommamente un negoziante; il negoziante sente lui stesso così spesso parlare con disprezzo della sua professione che è così stupido da arrossire. Io non so però chi sia più utile a uno Stato, se un Signore incipriato che sa esattamente a che ora si sveglia il Re, a che ora va a letto e che si dà delle arie di Grandeur rivestendo il ruolo di schiavo nell’anticamera di un Ministro, o un negoziante che arricchisce il proprio paese, dà ordini nel suo ufficio a Surate101 e al Cairo e contribuisce alla felicità del mondo102.
Ritorna il tema del merito: come il negoziante è superiore al cortigiano, così ai grandi politici e ai conquistatori (Cesare, Alessandro, Tamerlano, Cromwell) Voltaire contrappone la vera grandezza, quella di chi, come Newton, avendo ricevuto da Dio la genialità, se ne era servito per illuminare sé stesso e gli altri:
È a chi domina gli spiriti con la forza della verità, non a chi crea degli schiavi con la violenza, è a chi conosce l’Universo, non a chi lo deturpa, che noi dobbiamo il nostro rispetto103.
Subito dopo l’elogio di Newton, nella diciottesima lettera sulla tragedia, Voltaire introduce finalmente Shakespeare ai francesi dandone un giudizio ambivalente.
Gli inglesi avevano già un teatro, così come gli spagnoli, quando i francesi non avevano che dei palchi da saltimbanchi. Shakespeare, che passava per il Corneille degli inglesi, fiorì più o meno all’epoca di Lope de Vega. Creò il teatro. Aveva un genio pieno di forza e di fecondità, di naturalezza e di sublime, senza la minima scintilla di buon gusto e senza la minima conoscenza delle regole. Vi dirò una cosa azzardata ma vera: il merito di questo autore ha rovinato il teatro inglese; ci sono delle belle scene, dei passi così grandi e così terribili sparsi nelle sue farse mostruose che vengono chiamate tragedie, che sono sempre state rappresentate con grande successo. Il tempo, solo a creare la reputazione degli uomini, finisce col rendere rispettabili i loro difetti. La maggior parte delle idee bizzarre e gigantesche di questo autore hanno acquistato, dopo duecento anni, il diritto di passare per sublimi; gli autori moderni l’hanno quasi tutti copiato; ma ciò che riusciva a Shakespeare viene fischiato quando si tratta di loro e voi capirete che la venerazione che si ha per questo anziano aumenta quanto più si disprezzano i moderni104.
In Inghilterra la posizione ambigua di Voltaire nei confronti di Shakespeare non era una novità. Nei primi decenni del Settecento gli intellettuali inglesi erano ancora classicisti. Lo erano dal 1660, quando, morto Cromwell e restaurata la monarchia, i teatri chiusi dai puritani avevano riaperto e l’Inghilterra era passata sotto il dominio culturale francese. Thomas Rymer aveva definito le commedie di Shakespeare «sfoghi spontanei di un talento naturale» e i drammi elisabettiani un esempio di sfrenata fantasia dalla quale derivavano eccessive licenze e inverosimiglianze come quella di Gloucester che nel Re Lear si butta dalle scogliere di Dover105. Nel 1725, un anno prima del soggiorno londinese di Voltaire, Pope aveva pubblicato un’edizione di Shakespeare106 in cui parlava di un genio rozzo e grossolano, le cui pièce, disseminate di passi e tratti luminosi, non erano che il frutto amaro di una immaginazione debordante. Shakespeare andava apprezzato come genio poetico, per la sua forza, la naturalezza e la fantasia, ma andava respinto per il cattivo gusto, le espressioni volgari e l’assenza di regole, retaggio di un’epoca lontana, primitiva e ineducata, che aveva preceduto l’età classica. Era questo il giudizio dominante su Shakespeare quando Voltaire arriva in Inghilterra. Dunque agli inglesi di allora Voltaire non diceva niente di nuovo. Ma Voltaire si rivolgeva ai francesi, alla maggioranza dei quali il nome di Shakespeare era rimasto fino ad allora ignoto107.
Tutto ciò che precedeva il Grand Siècle era ritenuto vetusto, volgare e ancora barbarico. Imprimere a Shakespeare il buon gusto, la regolarità e la lingua della tradizione classica era un’impresa impossibile. Shakespeare non poteva essere normalizzato né imitato. (Eppure proprio questa operazione impossibile Voltaire aveva tentato con La mort de César!)
Voltaire respinge il linguaggio e l’impianto delle tragedie shakespeariane nel loro complesso ma salva «dei passi sorprendenti che domandano la grazia per tutti i suoi errori», un’operazione selettiva tipica della critica classicista. E per i francesi traduce in versi alessandrini il monologo dell’Amleto, mantenendone il senso. Era il suo secondo intervento sulla tragedia, ma questa seconda volta esplicito.
Non crediate che io abbia reso l’inglese parola per parola; guai a chi fa traduzioni letterali, che traducendo parola per parola snaturano il senso! È uno di quei casi in cui si può dire che la lettera uccide e il senso vivifica.
Demeure; il faut choisir et passer à l’instant De la vie à la mort, et de l’être au néant. Dieux justes! s’il en est, éclairez mon courage. Faut-il vieillir courbé sous la main qui m’outrage, Supporter ou finir mon malheur et mon sort? Qui suis-je? Qui m’arrête? et qu’est-ce que la mort? C’est la fin de nos maux, c’est mon unique asile; Après de longs transports, c’est un sommeil tranquille; On s’endort et tout meurt108. |
To be, or not to be, that is the question: Whether ’tis nobler in the mind to suffer The
slings and arrows of outrageous fortune, And by opposing end them. To die—to sleep, No
more; and by a sleep to say we end That flesh is heir to: ’tis a consummation Devoutly to be wish’d. To die, to sleep... |
Voltaire non temeva tanto Shakespeare, la sua mancanza di gusto e le espressioni volgari quanto i suoi cattivi imitatori, come Otway109, che in Inghilterra avevano prodotto, secondo lui, una pessima letteratura drammatica. In Francia questo non doveva accadere, perché ciò avrebbe portato alla decadenza della tragedia.
Le pièce degli inglesi, quasi tutte barbariche dal punto di vista dell’ordine e della verosimiglianza, hanno barlumi stupefacenti in mezzo a questa notte. Lo stile è troppo ampolloso, troppo fuori della natura, troppo copiato dagli scrittori ebrei, così pieni di influenza asiatica; ma bisogna anche confessare che i trampoli dello stile figurato, sui quali si regge la lingua inglese, elevano lo spirito molto in alto, sebbene con andamento irregolare. [...] Il primo Inglese che ha fatto una pièce ragionevole, scritta dall’inizio con eleganza, è l’illustre M. Addison. Il suo Catone è un capolavoro, per la dizione e per la bellezza dei versi. Il ruolo di Catone è a mio avviso molto al di sopra di quello di Cornelia nel Pompée di Corneille, che d’altronde non è un personaggio necessario e tende talvolta a fare discorsi sconnessi [...]. L’uso di introdurre a tutti i costi l’amore nelle opere drammatiche passò da Parigi a Londra verso il 1660, con i nostri nastri e le parrucche. Le donne, che con la loro presenza abbelliscono lo spettacolo, come qui, non sopportano che si parli loro d’altro che d’amore. Il saggio Addison ebbe la molle compiacenza di piegare la severità del suo carattere ai costumi del tempo, e rovinò un capolavoro per aver voluto piacere.
Dopo di lui le pièce sono diventate più regolari, il popolo più difficile, gli autori più corretti e meno arditi. Ho visto delle nuove pièce molto sagge ma fredde. Sembra che gli inglesi non abbiano fatto finora che produrre bellezze irregolari. I mostri brillanti di Shakespeare piacciono mille volte di più che la moderna saggezza. Il genio poetico degli inglesi somiglia, finora, a un albero dal fogliame denso e disordinato piantato dalla natura, che getta casualmente mille rami e che cresce irregolarmente con forza. Muore se volete forzare la sua natura e lo tagliate come un albero dei giardini di Marly110.
Shakespeare per Voltaire era inimitabile: un’idea diffusa nell’Europa settecentesca. Ma l’affermazione si poteva leggere in due modi: inimitabile perché insuperabile, superiore – sarà questa la posizione dei giovani dello Sturm und Drang dopo il 1770 – oppure inimitabile perché privo delle prerogative necessarie per essere imitato. Solo un autore di gusto poteva servire da modello, mentre un barbaro geniale non avrebbe prodotto che guasti. Questo pensava Voltaire. L’idea del resto era già stata sostenuta da Dryden, che aveva scritto: «La magia di Shakespeare non si può copiare / Dentro quel cerchio nessuno tranne lui osa camminare»111.
Affiora nella lettera sulla tragedia un tema di grandissimo successo in Europa lungo tutto il Settecento: il contrasto tra il gusto, sommo valore della società secentesca, e il genio, qualità che stava per affermarsi nel XVIII secolo. Il genio del poeta come virtù – innata, naturale – era stato preso in considerazione anche dall’estetica classica francese, ma sempre in seconda linea rispetto all’arte e al gusto, così come delle regole non veniva messa in dubbio l’esistenza, bensì eventualmente il contenuto112. Poco per volta, nel corso del XVIII secolo, prima in Inghilterra poi anche in Francia, il ruolo del genio poetico acquista sempre più importanza e la parola «genio» da attributo qualitativo (sinonimo di genialità) diventa sostantivo. Di Shakespeare si comincia a dire non più solo che aveva «del genio» ma che era un genio poetico, anche se privo di gusto. Il passo successivo sarà la competizione esplicita tra genio e gusto: gli inglesi (seguiti dai tedeschi) privilegeranno il primo, i francesi (Voltaire in testa) il secondo.
Le Letters hanno successo in Inghilterra. Voltaire scrive a Formont:
Le lettere filosofiche, politiche, critiche, poetiche, eretiche e diaboliche si vendono in inglese a Londra con gran successo. Ma gli inglesi sono degli eretici che dio ha maledetto, sono fatti apposta per approvare l’opera del demonio. Temo che la Chiesa gallicana sarà un po’ più difficile113.
In effetti, quando un anno dopo, nel 1734, le lettere escono segretamente in Francia (Lettres philosophiques), vengono immediatamene condannate e bruciate dal Parlamento parigino come «scandalose, contrarie alla religione, ai buoni costumi e al rispetto dovuto ai poteri». Inizia così la lunga trafila di condanne, richieste di incarcerazioni, censure, confini ed esilî scaturiti dalla penna di Voltaire, che lo avrebbero perseguitato per tutta la vita. Il libro viene giudicato «idoneo ad ispirare il più pericoloso libertinaggio per la religione e per l’ordine della società civile». L’attacco si riferisce soprattutto ai giudizi di Voltaire in campo politico e sociale. Ma il suo atteggiamento nei confronti di Shakespeare, che, se paragonato alle posizioni inglesi, appare tradizionale, cauto e addirittura arretrato, in Francia appariva del tutto scandaloso. «Le Lettres philosophiques – ha scritto Gustave Lanson, che ne realizzò la prima edizione critica nel 1909 – furono un grande avvenimento nella vita intellettuale del XVIII secolo [...], la prima bomba lanciata contro l’Ancien Régime»114.
7. Mme du
Châtelet, polemiche su
La mort de César, Voltaire cortigiano
Era cominciata da poco la relazione di Voltaire con Mme du Châtelet, la femme savante che è stata l’unico grande amore della sua vita, «il genio di Leibniz con della sensibilità», come lui l’ha definita115. Per sfuggire all’arresto in seguito alla condanna delle Lettres philosophiques, Voltaire si nasconde nel castello di lei a Cirey, in Champagne, e si rinserra nel lavoro. È l’inizio di un periodo particolarmente felice. Lei è appassionata di scienza, traduce Newton, distoglie Voltaire dalla poesia, lo incoraggia a darsi una formazione scientifica. Ma è anche la guida femminile e la protezione materna di cui lui, celebre ma instabile e imprudente come un bambino, ha bisogno116. In cambio lui diventa la guida intellettuale che lei aveva cercato in Maupertuis, Clairaut, König117. Cirey è il riposo, lo studio, la sicurezza.
Mentre Voltaire è lontano, l’11 agosto 1735 a Parigi, al Collège d’Harcourt dove pochi anni prima aveva studiato Diderot, viene rappresentata per iniziativa di un insegnante di retorica, l’abate Asselin, La mort de César, in forma privata e riservata ad un pubblico esclusivamente maschile. In seguito alla serata la pièce, che Voltaire non riteneva ancora pronta per la scena né per la pubblicazione, viene stampata senza la sua approvazione, con tagli e integrazioni arbitrarie. Ciò non sorprende, non esistendo all’epoca il diritto d’autore118. Voltaire protesta. E Desfontaines, un tempo suo amico119 e ora suo nemico, lo attacca:
In questa pièce in tre atti non ci sono né donne, né amore. Tutti i personaggi si danno del tu come tra pari, anche Bruto dà del tu a Cesare, che riconosce come padre senza smettere di volerlo assassinare. Questo Romano, più quacchero che stoico, ha dei sentimenti più mostruosi che eroici. Se questa pièce, in cui l’intreccio, lo svolgimento, il dialogo, lo stile e i pensieri sono nel gusto del teatro inglese, da un lato potrebbe in qualche modo essere utile ai nostri costumi, ispirando uno zelo generoso per la patria e per la libertà pubblica, dall’altro potrebbe anche essere nociva perché offre l’esempio di un coraggio feroce e snaturato. Il carattere di Cesare è piuttosto debole; non ha altra grandezza al di fuori di quella che gli attribuiscono le lusinghe di Antonio. Non si capisce alla fine che ne è di Bruto, capo e anima della congiura: l’azione termina con l’ottava scena dell’ultimo atto; ciò che segue è una sorta di orazione funebre per Cesare sotto forma di controversia. Antonio e i Romani esprimono il proprio pensiero sulla morte e poi escono per andare ad appiccare il fuoco alle case dei congiurati.
Questa tragedia (se così possiamo chiamarla), malgrado tutti i suoi difetti, reca pur sempre l’impronta del suo autore, cioè di un grande genio e di un grande scrittore. Si ammirano diversi pensieri vivaci, maschi e nuovi e bellissimi versi. Ma quanti altri ce ne sono deboli e duri! Quante espressioni maldestre! Quante brutte rime! Credo che l’autore, i cui lumi, il cui talento e la cui reputazione sono assolutamente al di sopra di ogni critica, ritenga anche lui quest’opera come un tentativo singolare. Affidandola a un teatro di scuola, ha voluto tentare di far conoscere in Francia il gusto tragico inglese: sono persuaso che egli non abbia scritto questa pièce per la scena francese e ancor meno per la stampa. Del resto mi sono permesso di far notare che l’amore della patria è molto diverso in Francia e in Inghilterra: in Francia, non è molto diverso dall’amore per il Principe; noi siamo buoni sudditi e buoni cittadini nella misura in cui amiamo e rispettiamo il capo dello Stato, il nostro maestro, nostro legislatore, nostro padre. È vero, d’altronde, che Cesare aveva oppresso la Repubblica e usurpato l’autorità, ma seguendo le regole della sana morale non spettava né a Bruto, né a Cassio, né agli altri congiurati, che erano dei privati cittadini nella Repubblica, punire il tiranno: da cui concludo che La mort de César e tutte le tragedie di questo genere, prese alla lettera, potrebbero essere molto più dannose delle pièce in cui regna l’amore. Ma fortunatamente le nostre circostanze fanno sì che la morale non abbia nulla da temere da parte di tali rappresentazioni120.
Voltaire risponde a Desfontaines con una lettera questa volta tutta a favore di Shakespeare e molto critica nei confronti dei francesi:
La Francia non è l’unico paese in cui si scrivono tragedie e il nostro gusto o piuttosto la nostra abitudine di non rappresentare a teatro che delle lunghe conversazioni d’amore non piace alle altre nazioni. Il nostro teatro è privo d’azione e solitamente di grandi interessi. Manca d’azione perché la scena è nascosta dai nostri petits maîtres; e i grandi interessi sono banditi perché la nostra nazione non li conosce. La politica piaceva ai tempi di Corneille, perché si era in piena guerra della Fronda, ma oggi non si va più a vedere le sue pièce. Se voi aveste visto rappresentare l’intero testo di Shakespeare, come l’ho visto io e come l’ho più o meno tradotto, le nostre dichiarazioni d’amore e le nostre confidenze vi sembrerebbero a confronto povere cose121.
Il passo è una delle testimonianze più favorevoli a Shakespeare che Voltaire abbia scritto. In quegli anni esitava ancora tra la teoria classica del diamant brut – Shakespeare è un genio stimolante ma primitivo e per portarlo sulla scena francese andrebbe levigato – e la teoria più moderna del gusto locale: a ogni popolo o clima, a ogni cultura, nazione o tradizione letteraria, corrisponde una forma artistica peculiare che dobbiamo comprendere, non giudicare.
Nel 1736, per cancellare nel pubblico l’impressione negativa lasciata dall’edizione pirata della tragedia, piena di lacune ed errori, Voltaire pubblica La mort de César preceduta da una prefazione e da una Lettera d’Algarotti, giovane veneziano che era stato ospite di Mme du Châtelet e suo a Cirey122. Algarotti presenta la tragedia di Voltaire come un esempio felice di integrazione fra le culture.
Monsieur de Voltaire ha imitato in alcuni passi Shakespeare, poeta inglese, che ha riunito nella stessa pièce le più ridicole puerilità e i pezzi più sublimi; ne ha fatto lo stesso uso che Virgilio faceva delle opere di Ennio [...]. Non è forse un residuo di barbarie in Europa volere che i confini che la politica e la fantasia degli uomini hanno prescritto per la separazione degli Stati servano anche da limiti per le scienze e le belle arti, i cui progressi potrebbero estendersi attraverso uno scambio reciproco dei lumi dei vicini? Questa riflessione conviene ancor più alla nazione francese che a tutte le altre: essa si trova nella situazione di quegli autori dai quali il pubblico richiede di più, perché ne ha ricevuto di più; essa è così generalmente educata e colta che dà il diritto di esigere da lei non solo di approvare, ma anche di cercare di appropriarsi di ciò che trova di buono presso i suoi vicini123.
Dopo il 1736, con l’affievolirsi del ricordo dell’esperienza inglese, l’interesse di Voltaire per Shakespeare passa in secondo piano. Si attutisce anche la sua vena drammatica: tra il 1736 e il 1741 non compone alcuna pièce. Nei primi anni dell’operoso e felice ritiro nel castello di Cirey in compagnia di Mme du Châtelet Voltaire è assorbito da altre passioni.
Ho abbandonato due teatri che sono troppo pieni di cabale, quello della Comédie-Française e quello del mondo. Vivo felice in un affascinante ritiro [...]. Godo nella pace più pura e nel più operoso tempo libero le dolcezze dell’amicizia e dello studio con una donna unica nella sua specie, che legge Ovidio ed Euclide e che ha l’immaginazione dell’uno e la precisione dell’altro124.
Nel 1741 Voltaire compone una tragedia dedicata agli orrori dell’intolleranza, Le Fanatisme ou Mahomet le prophète (Il fanatismo o il profeta Maometto)125, nella quale riesce a far diventare attuale un profeta, quasi fosse un contemporaneo, trascinando il pubblico da una parte alla condanna e dall’altra all’ammirazione più sconsiderata. La tragedia suscita feroci nemici e accesi sostenitori. Gli eccessi di Voltaire urtano anche alcuni suoi fedelissimi ammiratori come Lord Chesterfield126:
Voltaire mi affascina, finanche la sua empietà, con la quale non riesce a fare a meno di ingrassare ogni suo scritto e che dovrebbe sopprimere con giudizio perché in fin dei conti non bisogna turbare l’ordine stabilito. Ognuno la pensi come vuole, o come può, ma non diffonda le sue idee quando queste saranno tali da compromettere la quiete della società127.
Ritirata dalla scena dopo la terza rappresentazione, Mahomet è perseguitata in Francia dai giansenisti che la denunciano come «scandalosa ed empia» ma è protetta a Roma grazie a una dedica al papa Lambertini Benedetto XIV, e dopo alcune correzioni viene riammessa sul palcoscenico, accolta con entusiasmo e rappresentata 158 volte nel corso del secolo128. Tradotta da Goethe, piacerà molto a Nietzsche che in Umano, troppo umano scriverà nell’aforisma «La rivoluzione nella poesia»:
Basta leggere ogni tanto il Maometto di Voltaire per rappresentarsi alla mente con chiarezza che cosa una volta per tutte con quella rottura della tradizione sia andato perduto per la civiltà europea. Voltaire è stato l’ultimo dei grandi autori drammatici che ha saputo dominare la sua anima polimorfa, che era all’altezza anche delle più grandi tempeste tragiche, con la misura greca129.
All’inizio del Novecento il critico americano Thomas Lounsbury mette in relazione il Mahomet con Macbeth:
In questa pièce è presente un’imitazione diretta di Shakespeare. Essa consiste nelle circostanze che accompagnano la morte di uno dei personaggi, Zopiro, il venerabile sceicco de La Mecca. Seid, trasportato dal fanatismo, uccide l’anziano governatore nonostante nutra per lui un’istintiva venerazione. Dopo aver commesso l’atto, resta orripilato apprendendo che colui che ha colpito a morte era suo padre. Affianco a lui c’è la protagonista, Palmira, che da una parte tenta di dissuadere il suo amato dal perpetrare il crimine la cui ricompensa sarebbe la sua mano e dall’altra è propensa all’atto grazie al quale si realizzerebbe il suo più grande desiderio. Di fronte alle conversazioni che precedono l’assassinio e poi alla rappresentazione dell’atto stesso, nessun lettore che abbia dimestichezza con la letteratura inglese mancherà di cogliere l’evidente tentativo di riprodurre l’effetto delle tremende situazioni che precedono e seguono l’assassinio di Duncan nel Macbeth. Tutte le componenti della scena presenti nella pièce shakespeariana vengono introdotte in quella di Voltaire, nella misura in cui lo consentono le differenze tra le due trame. È la presenza di Lady Macbeth e il ruolo da lei svolto nella tragedia a ispirare a Voltaire la partecipazione di Palmira all’omicidio. È la conversazione tra marito e moglie, appena precedente l’atto del crimine (nel Macbeth), a suggerirgli la conversazione tra i due innamorati. Ma per quanto forti siano le scene rappresentate da Voltaire, esse risultano tenui e deboli, in confronto all’incredibile grandezza delle scene originali. In queste, l’intensità dell’eccitazione giunge quasi al punto del dolore. Ancora più considerevole è l’inferiorità della pièce francese sul piano dell’arte drammatica. Nel Mahomet, la presenza della donna è una necessità teatrale, e non naturale. Ciò che in Shakespeare deriva da un’esigenza artistica inevitabile, in Voltaire è il frutto di un artificio130.
Oggi Mahomet ha ritrovato una tragica attualità, tanto che la sua rappresentazione sulle scene francesi è diventata impensabile.
Voltaire per qualche anno si guarda dal provocare scandalo con opere troppo ardite e nel 1743 fa rappresentare alla Comédie-Française Mérope, una tragedia sull’amore materno, ispirata all’omonima pièce di Maffei131, che a causa del tema, molto gradito al pubblico borghese, verrà replicata fino a fine Ottocento132. Era la prima volta, dai tempi di Athalie di Racine, che una tragedia senza intrigo amoroso veniva accolta con favore. Commenterà più tardi il romantico Gérard de Nerval:
In Mérope Voltaire è veramente grande e inimitabile, e nessuno più di lui si è avvicinato agli effetti solenni e pomposi della tragedia greca [...]. Ha superato persino meglio di Racine la difficoltà di sostenere l’interesse di una pièce senza intrigo amoroso [...]. Mérope ha tutte le qualità che devono avere le tragedie: la grandezza, l’interesse e la semplicità133.
Il successo di Mérope «è straordinario», racconta un contemporaneo: «Non si è mai visto rendere a nessun autore simili onori»134. Alla prima a Parigi la tragedia viene così apprezzata che Voltaire alla fine della recita appare in uno dei primi palchi ed è applaudito per un quarto d’ora, dall’anfiteatro alla platea. Inoltre – cosa che non era mai accaduta prima per nessun autore –, viene chiamato sulla scena insieme agli attori. Un omaggio fino ad allora impensabile ma che in seguito, nei casi di grande successo, sarebbe diventato consueto.
Gli anni Quaranta sono anche gli anni del Voltaire cortigiano. Entrato nelle grazie di Mme de Châteauroux, favorita del re, dopo la morte di lei trova una protezione ancor più devota in Mme de Pompadour, che lo introduce a corte. Scrive una comédie-ballet da rappresentare a Versailles, La princesse de Navarre (1745), e con Rameau Le temple de la gloire (1745), un’opéra à grand spectacle per celebrare la vittoria di Fontenoy135. Diventa Gentilhomme de la Chambre, storiografo di corte – come Racine era stato storiografo di Luigi XIV – e membro dell’Académie Française (1746), oltre che delle Accademie di Roma, San Pietroburgo, Cortona e Firenze. È apparentemente al colmo della gloria, eppure non piace a Luigi XV che «di quel tipo di gente non si fida»136. Più tardi Voltaire scriverà nei suoi Mémoires:
[L’amicizia con Mme de Pompadour] mi valse delle ricompense che non sarebbero mai state date né alle mie opere né ai miei servizi. Fui giudicato degno di essere uno dei quaranta membri inutili dell’Académie. Fui nominato storiografo di Francia e il re mi fece il regalo di un incarico di Gentilhomme ordinaire de sa Chambre. Conclusi che per fare la minima fortuna era meglio dire quattro parole all’amante di un re che scrivere cento volumi137.
8. Prima traduzione di Shakespeare in Francia: Le Théâtre Anglois di de La Place
Voltaire riprende a interessarsi a Shakespeare solo nel 1745138. Un anno prima la Francia aveva dichiarato guerra all’Inghilterra, inserendosi nella guerra di successione austriaca, che sarebbe finita quattro anni dopo139.
L’occasione per il rinnovato interesse per Shakespeare è la pubblicazione dei quattro volumi del Théâtre Anglois di Pierre-Antoine de La Place (1746-1747)140. Anche se l’opera era dedicata solo in parte a Shakespeare, adattato al gusto francese e tradotto in modo approssimativo, volutamente infedele, grazie all’edizione di de La Place la conoscenza di Shakespeare in Francia sfugge per la prima volta alla mediazione e al controllo del solo Voltaire. E la possibilità di leggerlo, ristretta fino ad allora a pochi specialisti e letterati, si allarga al pubblico colto141.
Il primo volume è preceduto da un Discours sur le Théâtre Anglois142 in cui il traduttore, che dichiara di essersi ispirato a Pope e alla sua edizione shakespeariana del 1728143, esprime giudizi e punti di vista originali e aperti, proposti con toni pacati, senza accenti polemici.
De La Place si mette dalla parte del pubblico, insiste sull’importanza del piacere teatrale dello spettatore, che deve essere metro di giudizio di una pièce al posto della critica e della fedeltà alle regole che raffreddano il godimento: «Preferisco la licenza che mi sveglia all’esattezza che mi addormenta». Shakespeare, «inventore dell’arte drammatica inglese», era un attore e ragionava ed agiva come tale, voleva piacere al pubblico, «essere applaudito e guadagnare denaro», non seguire Aristotele. «Se è riuscito a piacere ha raggiunto il suo scopo: non merita che elogi». Shakespeare, afferma de La Place, esprime ciò che gli inglesi chiedevano e dopo 150 anni continuano a chiedere al teatro: spettacolo, azione, movimento e immagini. Anticipando di diversi anni Diderot, a proposito delle scene di Shakespeare de La Place parla di tableau: «Un inglese non concepisce che il naturale possa scioccare gli occhi, se è esente da indecenza, [...] la tragedia non è in fondo che la storia messa in azione».
De La Place non utilizza Shakespeare come aveva fatto Voltaire nelle Lettres philosophiques, da un lato per criticarlo, dall’altro per correggere il teatro francese. Il suo intento è sinceramente anglofilo e cosmopolita: divulgare la conoscenza del teatro inglese e in particolare di Shakespeare. Egli si apre alle culture, ai costumi, ai caratteri e al gusto di altri paesi, mostra curiosità e interesse nei confronti del diverso e dichiara: «poco importa che [Shakespeare] abbia lavorato in un gusto differente dal nostro: questa stessa ragione non deve servire che a raddoppiare la nostra curiosità». In linea con questo pensiero, de La Place arriva ad accusare di provincialismo alcune prese di posizione francesi: «Chi volesse giudicare Shakespeare conformemente alle regole di Aristotele sarebbe altrettanto ingiusto di un giudice che non consultasse che le leggi della propria provincia per giudicare uno straniero».
Il Discours diventa così un’equilibrata analisi comparativa del teatro e dello spettacolo in Francia e Inghilterra: «Vi devo confessare che sarebbe desiderabile che il Francese fosse meno schiavo dell’Arte e l’Inglese meno attaccato alla Natura». In una tragedia inglese «lo stile è sempre soggetto alle cose e mai le cose allo stile», come invece è in Francia.
Il gusto delle pièce inglesi corrisponde al gusto degli inglesi. Se i francesi vogliono piacere e ragione, gli inglesi si accontentano del piacere, se è piccante. Chi è più saggio o più felice? Mi guardo bene dal deciderlo144.
Nel presentare Shakespeare ricorrono frequentemente le parole «natura» e «ispirazione», che paiono preannunciare il Romanticismo. «Shakespeare sembra aver conosciuto ciò che viene chiamato il mondo per una specie di ispirazione», deve essere visto «meno come l’imitatore e il pittore della natura che come l’organo dei sentimenti e dei movimenti che la caratterizzano». I suoi personaggi sono sempre veri (e non verosimili), sempre naturali, mai simili gli uni agli altri. «Ciò che conta è “la verità del sentimento” che deve interessare o commuovere lo spettatore, verità del sentimento che non è né verità reale che presenti i fatti e i personaggi così come sono stati, [...] né verosimiglianza che li mostri come avrebbero potuto essere, ma un quadro che li rappresenti come devono essere nel momento in cui sono presentati per fare impressione sullo spettatore nella situazione attuale in cui li vede». E la verità del sentimento è sempre relativa: «dipende dai diversi caratteri di ogni popolo, dai suoi costumi e dal suo governo». «In Francia normalmente è la Corte che dà il tono alla capitale, e la capitale al resto del Regno. Non è così in Inghilterra. La libertà inglese non rispetta, non fugge, non gusta che ciò che gli piace».
Ma prudentemente de La Place bilancia il desiderio di far conoscere il teatro inglese con il rispetto per la delicatezza francese. Di Shakespeare e delle tragedie inglesi vengono descritte anche le mancanze. La mescolanza di comico e tragico viene respinta per le stesse ragioni indicate da Voltaire. «Ci sono in Shakespeare quadri, passi, discorsi ingiustificabili in qualsiasi tempo e in qualsiasi paese perché sono contrari alla verità, alla ragione e alle bienséances generali, che sono dappertutto le stesse. Quando Amleto conversa coi becchini o quando uccide Polonio prendendolo per un topo, l’effetto è rivoltante [...] ma questi sono difetti che gli inglesi perdonano a lui, non però agli autori moderni [...]. Se l’autore tragico ci coinvolge e ci sveglia, tutti i suoi difetti sono perdonati».
Complessivamente de La Place assume una posizione relativistica, agli antipodi della fede universalista di Voltaire, ma straordinariamente illuminata e aperta al futuro.
Perché avremmo la presunzione di credere che le nostre conoscenze siano arrivate all’ultimo grado di perfezione nel genere drammatico? O il dolore di immaginare che non si perfezioneranno più quando vediamo giornalmente che si fanno delle scoperte in un’infinità di altri generi? Le facoltà del cuore e dello spirito sarebbero più limitate delle proprietà materiali? O la loro conoscenza più perfezionata di quella della fisica, della geometria, e dell’anatomia, così da sentire di essere ancora lontani dalla perfezione? [...] Guardiamoci dal condannare oggi in modo unilaterale ciò che i nostri nipoti forse un giorno applaudiranno145.
Voltaire reagisce positivamente alla pubblicazione del Théâtre Anglois. Forse perché de La Place si inserisce prudentemente sulla strada da lui aperta, lo riconosce, lo cita e lo loda, o forse perché la traduzione di de La Place è frammentaria e imprecisa, parzialmente in prosa, e «uno che vuole scrivere una tragedia in prosa somiglia a uno che ad un ballo invece di danzare cammina»146, Voltaire non vede in lui un rivale che gli contende il monopolio shakespeariano, come avverrà in futuro. Dopo l’uscita dei primi volumi si adopera perché escano gli altri e scrive a un amico: «Il signor de La Place, autore del Théâtre Anglois, ha pubblicato da tempo tre volumi senza che nessuno abbia avuto nulla da ridire. È un’opera molto valida. Il pubblico si lamenterebbe se non uscissero gli altri due volumi e l’autore sarebbe rovinato»147.
9. L’eco di Amleto: Sémiramis
Nel 1746, poco dopo l’edizione di de La Place, Voltaire pubblica la tragedia Sémiramis. Era una ripresa, rimaneggiata, di Ériphyle. Molte scene e situazioni erano tratte in modo evidente, seppure non dichiarato, da Shakespeare. Nella tragedia la regina babilonese istiga l’amante Assur a uccidere il marito Nino. Nel terzo atto compare l’ombra di Nino che chiede vendetta a suo figlio Arsace. Il modello è Amleto, che Voltaire aveva visto a Londra e da cui era stato colpito per il colpo di scena dell’apparizione del fantasma del padre, da lui già imitato in Ériphyle. La citazione shakespeariana in Sémiramis è una doppia risposta a de La Place. Voltaire sembra sfruttare una nascente moda shakespeariana e dimostrare una conoscenza diretta di Shakespeare, da spettatore, più profonda e teatrale di quella dello stesso de La Place, la cui opera era destinata alla sola lettura.
Due anni dopo, nella Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne pubblicata come premessa a Sémiramis, Voltaire bilancia le solite critiche all’Amleto di Shakespeare con considerazioni positive sui suoi bizzarri «tratti geniali e sublimi»:
Sicuramente gli inglesi non credono ai fantasmi più dei romani, tuttavia ogni giorno vedono con piacere nella tragedia di Amleto l’ombra di un re che appare sulla scena in un’occasione più o meno simile a quella in cui a Parigi si è visto lo spettro di Nino. Sono certamente ben lontano dal giustificare completamente la tragedia di Amleto: è una pièce grossolana e barbara, che non sarebbe tollerata dalla più vile populace francese e italiana.
Amleto impazzisce al secondo atto e la sua amante al terzo; il principe uccide il padre dell’amante, fingendo di uccidere un topo, e l’eroina si getta nel torrente. Si scava per lei la fossa in scena. I becchini dicono dei quodlibet degni di loro, tenendo in mano dei teschi. Il principe Amleto risponde alle loro volgarità abominevoli con follie non meno disgustose. Nel frattempo uno degli attori conquista la Polonia. Amleto, sua madre e il suo patrigno bevono insieme in scena: si canta a tavola, si discute, ci si batte e ci si uccide. Si direbbe che quest’opera sia il frutto dell’immaginazione di un selvaggio. Ma in mezzo a queste volgari irregolarità, che ancora oggi rendono il teatro inglese tanto assurdo e barbaro, si trovano in Amleto, per una ancor maggiore bizzarria, tratti sublimi, degni dei maggiori geni. Sembra che la natura si sia compiaciuta a riunire nella mente di Shakespeare ciò che ci si può immaginare di più forte e di più grande insieme a ciò che la volgarità senza spirito può avere di più basso e detestabile148.
L’ombra del padre di Amleto che viene a chiedere vendetta per il crimine subìto, diventa agli occhi di Voltaire e del suo deismo ottimista l’espressione e la prova rassicurante dell’esistenza onnipotente di un Essere Supremo:
Bisogna confessare che, tra tutte le bellezze che scintillano in mezzo a queste terribili stravaganze, l’ombra del padre di Amleto è un colpo di scena che fa effetto. Quest’ombra ispira più terrore alla sola lettura dell’apparizione di Dario nella tragedia di Eschilo I Persiani. Perché? Perché Dario in Eschilo compare solo per annunciare le disgrazie della sua famiglia, mentre in Shakespeare l’ombra del padre di Amleto viene a chiedere vendetta, a rivelare crimini segreti. Essa non è né inutile, né introdotta per forza: serve a convincere che esiste un potere invisibile che è il padrone della natura. Gli uomini, che hanno tutti un fondo di giustizia nel loro cuore, naturalmente si augurano che il cielo sia interessato a vendicare l’innocenza. Si vedrà sempre con favore, in ogni epoca e in ogni paese, un Essere Supremo che si preoccupi di punire i crimini di coloro che gli uomini non possono chiamare in giudizio149.
Il 29 agosto 1748 Sémiramis va in scena alla Comédie-Française. Nelle intenzioni di Voltaire l’opera deve offrire al pubblico «un’azione grande, spettacolare e patetica». Le scene lussuose, da grand spectacle, affidate ai fratelli Slodtz150 e pagate da Luigi XV 5.000 franchi, avanzano nella parte laterale e anteriore della scena, fino a toccare i palchi. Molte comparse impersonano cortei di schiavi e soldati. La critica loda «i quadri, lo splendore dello spettacolo, il patetismo delle azioni, la giusta distribuzione delle comparse su piani adatti e lieti»151, insomma ciò che oggi chiameremmo la mise en scène, la regia152. Ma alla prima la tragedia si risolve in un insuccesso per l’incongruità della scena, ingombra come al solito di spettatori, che impedisce ogni illusione e verosimiglianza, come quando si vede «l’ombra di Nino urtare un riscossore di imposta sgomitando per passare» e un soldato di guardia gridare: «Signori, prego, fate posto all’ombra!»153. L’abitudine che consentiva ai petits maîtres di sedere su panche che occupavano lateralmente un quarto del palco continuava a ostacolare la messinscena. Voltaire scrive nella Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne:
Uno dei maggiori ostacoli che impediscono al nostro teatro azioni grandi e patetiche è la folla di spettatori confusi sulla scena con gli attori; tale indecenza si è fatta particolarmente sentire alla prima rappresentazione di Sémiramis. La principale attrice di Londra, che era presente allo spettacolo, non si riprendeva dallo stupore; non poteva concepire come ci fossero uomini talmente nemici dei propri piaceri da rovinare lo spettacolo senza goderne154.
Voltaire – commenta Mercier – dopo aver visto questa pièce [Amleto], immaginò anche lui di far apparire un’ombra, ma la fece venire in mezzo agli Stati Generali riuniti per Semiramide. I Grandi dello Stato sollevarono educatamente i loro sgabelli per lasciar passare l’Ombra. Ma chi può aver paura di un’ombra quando essa appare davanti a una grande assemblea?155
«L’ingresso dell’Ombra è fallito», scrive Voltaire a un amico156 e immediatamente elimina la scena nella nuova stesura della tragedia. L’effetto mancato viene messo in evidenza da una parodia anonima, Zoramis ou le spectacle manqué (Zoramis o lo spettacolo mancato), fortunatamente non rappresentata grazie all’intervento del duca di Richelieu. «Richelieu ci fa sapere di aver proibito per sempre le parodie. Non conosco nulla di più essenziale per il buon gusto», commenta Voltaire ai d’Argental157.
Il teatro francese non era ancora in grado di accogliere mutamenti, era strutturato per la conversazione158. Dopo Sémiramis e la Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne, Voltaire si disinteressa di Shakespeare per più di dieci anni.
1 Nel 1680 il re istituì la nascita della Comédie-Française, accordò ai membri della troupe il titolo di Comédiens du Roi e assicurò alla nuova compagnia un privilegio esclusivo di rappresentare pièce recitate in francese (tragedie e commedie) «vietando a tutti gli altri attori francesi di stabilirsi nella città e nel faubourg di Parigi senza espresso ordine di Sua Maestà».
2 La migliore definizione di bienséances è quella data da Marmontel che distingue chiaramente le bienséances dalle convenances: «Nell’imitazione poetica le convenances e le bienséances non sono esattamente la stessa cosa: le convenances sono relative ai personaggi; le bienséances sono più particolarmente relative agli spettatori; le une riguardano gli usi, i costumi del tempo e del luogo dell’azione, le altre riguardano le opinioni e i costumi del paese e del secolo in cui è rappresentata l’azione. Quando si è fatto parlare e agire un personaggio come avrebbe agito e parlato nel suo tempo, si sono osservate le convenances; ma se i costumi di quel tempo erano sconvenienti per il nostro, dipingendoli senza addolcirli, si sarà venuti meno alle bienséances; e se un’imitazione troppo fedele ferisce non soltanto la delicatezza, ma il pudore, si sarà venuti meno alla decenza. Così, per meglio osservare la decenza e le bienséances attuali, si è spesso obbligati ad allontanarsi dalle convenances, alterando la verità», Éléments de littérature, in Répertoire de la littérature, Paris, Castel de Courval, 1824-1827, 30 voll., t. IV, pp. 368-369.
3 Il termine petits maîtres designava dei nobili che vivevano tra Parigi e Versailles, giovani eleganti, manierosi, frivoli, preoccupati di seguire le mode o se possibile di lanciarle.
4 Parallelamente alla creazione della Comédie-Française, nel 1680 gli attori italiani, eredi della Commedia dell’Arte, si installano all’Hôtel de Bourgogne e prendono il nome di Comédie-Italienne. Nel 1697 l’annuncio di una prossima rappresentazione di La Fausse Prude (La falsa pudica), pièce che alludeva in modo esplicito alla Maintenon, amante del re, serve di pretesto a Luigi XIV per far chiudere il teatro (4 maggio). La compagnia si disperde tra Parigi (nei teatri allestiti durante le Fiere stagionali di Saint-Germain e Saint-Laurent), la provincia francese e l’Italia. Dopo la morte di Luigi XIV, all’inizio della reggenza il duca d’Orléans nel 1716 richiama a Parigi all’Hôtel de Bourgogne gli italiani che al ritorno trovano nei teatri della Foire un nuovo concorrente. Per distinguersi la troupe italiana di Riccoboni rinnova non solo la maniera di recitare, che diventa più naturale, ma anche il repertorio, interpretando pièce più regolari che creano gelosie alla Comédie-Française, sempre più in crisi. Anche il teatro della Foire si evolve. Nascono delle vere e proprie imprese che si installano in sale confortevoli e costituiscono troupe stabili gestite da uomini d’affari che fanno concorrenza ai teatri reali ufficiali, superando la gerarchia culturale stabilita dal sistema teatrale. Poco per volta si assiste alla nascita di un nuovo genere drammatico, l’opéra comique, mélange di tutti gli altri, che attira grandi masse di pubblico di tutte le classi mettendo in crisi i teatri ufficiali.
5 P. Frantz, L’Esthétique du tableau dans le théâtre du XVIIIe siècle, Paris, PUF, 1998, p. 42.
6 Voltaire, Parallèle d’Horace, de Boileau et de Pope (1761), in Id., Œuvres complètes, éd. L. Moland, 52 voll., Paris, Garnier, 1877-1885, vol. XXIV, p. 223 (d’ora in poi si indicherà questa edizione con la sigla OCM). Cfr. R. Naves, Le Goût de Voltaire, Genève, Slatkine Reprints, 2001, p. 261.
7 Voltaire, Réponse à un académicien (1764), in OCM, vol. XXV, p. 223.
8 A Lekain, 27.7.1763 (Best. D11325), in Correspondence and Related Documents, ed. Th. Besterman, in The Complete Works of Voltaire (Œuvres complètes de Voltaire), Oxford, Voltaire Foundation, 1968-, voll. 85-135. D’ora in avanti questa edizione delle opere complete di Voltaire verrà indicata con la sigla OCV e la corrispondenza con la sigla Best. D.
9 L’edificio della Comédie-Française misurava 17,55 metri di larghezza per 35,10 di lunghezza. La scena, ridotta dalla presenza delle banquettes, era di 4,87 metri di lunghezza per 3,57 di larghezza. Cfr. H. Lagrave, Le Théâtre et le public à Paris de 1715 à 1750, Paris, Klincksieck, 1972, p. 75.
10 «Nessun argomento tragico sopporta che l’amore vi venga introdotto come un di più. Esso deve esservi necessario, deve costituirne la base, l’unica anima. L’amore è tragico quando è furioso, terribile, criminale, accompagnato da rimorsi. Così è in Phèdre, Roxane, nel Cid. Ma se alieno all’opera diviene galante e freddo. A quel punto diventa insopportabile; tuttavia si esigeva sempre che vi fosse. In Œdipe fui costretto a rovinare la trama facendo ricomparire un vecchio sentimento di Giocasta per Filottete. Non mi sono mai consolato per aver rammollito in questo modo alcune scene del secondo soggetto tragico dell’antichità», Voltaire, Notebooks 2, in OCV, vol. 82, 1968, pp. 455-456.
11 R. Pomeau, La Religion de Voltaire, Paris, Nizet, 1994, p. 87.
12 «Ne nous fions qu’à nous; voyons tout par nos yeux. / Ce sont là nos trépieds, nos oracles, nos dieux»; «Impitoyables Dieux, mes crimes sont les vôtres, / et vous m’en punissez»; «J’ai fait rougir les dieux qui m’ont forcée au crime»; «Nos prêtres ne sont point ce qu’un vain peuple pense / Notre crédulité fait toute leur science».
13 Corneille, Œdipe, IV, 1, vv. 1149-1185.
14 Cfr. Ch. Biet, Œdipe en monarchie, tragédie et théorie juridique à l’âge classique, Paris, Klincksieck, 1994, pp. 217-218 e 263-264.
15 «Quando introdussi in Œdipe un coro di tebani che diceva: “Oh morte, noi imploriamo i tuoi funesti soccorsi; oh morte, vieni a salvarci, vieni a porre fine ai nostri giorni!”, il pubblico, invece di esser colpito dal patetico che poteva esserci in questo passaggio, sentì immediatamente la ridicola pretesa di avere messo questi versi in bocca ad attori poco vestiti, e vi fu uno scoppio di risa». Così scrisse anni dopo Voltaire nel Discours sur la tragédie à Milord Bolingbroke, in OCV, vol. 5, 1998, p. 176.
16 Nelle parodie, scritte subito dopo la creazione delle pièce ridicolizzate, l’intreccio originale delle tragedie veniva ripreso in modo estremamente semplificato. L’elemento caratteristico era la degradazione del modello tragico, la perdita del prestigio sociale e il declassamento dei personaggi. Gli eroi di Voltaire vengono detronizzati, diventano dei semplici borghesi, preoccupati dei loro affari, come il defunto sposo di Colombina in Œdipe travesti. Il declassamento sociale si accompagnava all’irriverenza verbale e alla degradazione del linguaggio (cosa che urtava particolarmente Voltaire).
17 N. Boileau, L’Art poétique, I, vv. 95-97.
18 Pier Francesco Biancolelli detto Dominique, che aveva brillato in tutte le pièce dell’antico teatro italiano, riprese nel teatro della Foire dopo la cacciata degli Italiani. Al ritorno di questi, nel 1717, ingaggiato da Riccoboni, aveva lasciato la Foire Saint-Laurent ed era passato al Théâtre-Italien all’Hôtel de Bourgogne, debuttando l’11 ottobre come Pierrot in La force du naturel. Con Dominique la compagnia italiana inizia a recitare in francese e a cambiare repertorio integrando forme e soggetti su imitazione della Foire, come appunto le parodie.
19 «Voltaire è il nome di una piccola proprietà di famiglia che apparteneva alla madre dell’autore della Henriade. Qualcuno ha sostenuto che il nome Voltaire fosse l’anagramma della firma usata in gioventù, Arouet L. J. (Arouet le jeune). Io sono portato a credere che non fosse quella la sua firma, e che lui si chiamasse Arouet il minore. [...] La dedica d’Œdipe a Madame, madre del reggente, è firmata Arouet de Voltaire. Tale dedica è del 1719; l’autore aveva venticinque anni. L’unione dei due nomi prova che non era per far dimenticare il primo che egli aveva assunto il secondo. Non si è mai saputo dove fosse ubicata la piccola proprietà da cui François Arouet aveva tratto il suo pseudonimo», Condorcet, Vie de Voltaire, in OCM, vol. I, p. 254, n. 4.
20 G. Bengesco, Les Comédiennes de Voltaire, Paris, Perrin, 1912, pp. 26-27.
21 A Charles-Augustin Feriol, conte d’Argental, gennaio 1724? (Best. D184). Consigliere al Parlamento di Parigi, d’Argental (1700-1788) è stato l’amico e il confidente più intimo di Voltaire nell’arco di più di sessant’anni. Primo lettore, consulente e correttore delle sue opere teatrali, mediatore nei rapporti con gli attori della Comédie-Française, suo avvocato presso i librai e gli editori, suo protettore presso i potenti, destinatario privilegiato della sua corrispondenza (circa 1.200 lettere, nelle quali Voltaire lo chiama «mon ange») insieme alla moglie Jeanne-Grâce Bosc du Bouchet, d’Argental ebbe il compito di vegliare a Parigi sull’immagine del suo grande amico.
22 [Voltaire,] Commentaire historique sur les œuvres de l’auteur de La Henriade, Basle, chez les Héritiers de Paul Duker, 1776, p. 8.
23 «Confesso che aver trasposto in racconto la morte di Mariamne invece di agirla in scena è contrario ai miei gusti; ma non ho voluto combattere in nessun modo il gusto del pubblico: scrivo per il pubblico, non per me stesso; sono i sentimenti del pubblico, non i miei che devo seguire», Voltaire, Préface di Hérode et Mariamne, in OCV, vol. 3C, 2004, pp. 183-195.
24 Il testo di Mariamne del 1724 non ci è pervenuto. La pièce è situata a Gerusalemme dopo la morte di Antonio e ha per protagonisti Erode, tirannico re di Palestina, e sua moglie, la romana Mariamne.
25 A Nicolas-Claude Thieriot, 17.10.1725 (Best. D253). Nicolas-Claude Thieriot (o Thiriot) (1697-1772) è stato uno degli amici più antichi e intimi di Voltaire, che non lo privò mai della sua confidenza, generosità e indulgenza nonostante il comportamento ambiguo, indelicato, spesso ingrato e sleale di lui, da molti considerato un indolente e simpatico parassita che visse la sua vita a spese degli altri. Voltaire gli scrisse più di trecento lettere.
26 A. Maurois, Histoire d’Angleterre, Paris, Fayard, 1937, p. 520.
27 A Nicolas-Claude Thieriot, 12.8.1726 (Best. D299).
28 Secondo Pomeau, quando Voltaire sbarcò in Inghilterra i suoi rapporti con Bolingbroke si erano raffreddati. Tuttavia nell’inverno 1726-1727 Voltaire fa indirizzare la sua corrispondenza a Londra a casa di Lord Bolingbroke. Cfr. R. Pomeau, La Religion, cit., p. 126.
29 Ad Alexander Pope Voltaire scrive, tra settembre e ottobre 1726, la sua prima lettera in inglese (Best. D301). Nel 1724 Pope, prima di conoscere personalmente Voltaire ma avendolo letto, aveva scritto a Bolingbroke: «Mi sembra che il suo giudizio sull’umanità, il suo modo di osservare le azioni umane da un punto di vista elevato e filosofico, sia una delle principali caratteristiche di questo scrittore, che pur essendo un uomo ragionevole è nello stesso tempo un poeta. Non sorridete se aggiungo che io lo stimo per questi onesti princìpi e per lo spirito di vera religione che brilla attraverso l’insieme, e che è per questo che, senza conoscere M. de Voltaire, concludo che è contemporaneamente libero pensatore e amico del riposo; non bigotto, e tuttavia non eretico; capace di onorare l’autorità e le leggi nazionali, senza pregiudizio della verità o della carità; più avanzato nello studio della ragione che della controversia, e dell’umanità più che dei Padri della Chiesa; un uomo, in una parola, degno, per il suo temperamento ragionevole, dell’amicizia e della familiarità di cui l’onorate», cfr. A. Ballantyne, Voltaire’s Visit to England 1726-1729, London, Smith, Elder and Co., 1893, p. 71.
30 A Nicolas-Claude Thieriot, 2.2.1727 (Best. D308).
31 Robert Walpole (1676-1745) esercitò le funzioni di premier per 21 anni (dal 1721 al 1742), prima sotto Giorgio I (1714-1727) poi sotto Giorgio II (1727-1760). Voltaire appunta nei Notebooks: «Un inglese del Parlamento diceva: se M. Robert Walpole non mi manda del denaro, io voterò secondo coscienza», Voltaire, Notebooks 2, cit., p. 530.
32 Alla Beggar’s Opera duecento anni dopo si sarebbe ispirato Brecht per la sua Opera da tre soldi. Come ha scritto Steiner, «La storia della grande letteratura drammatica è costellata di plagi geniali», G. Steiner, Morte della tragedia, Milano, Garzanti, 2005, p. 40.
33 Colley Cibber (1671-1757), uno dei primi actor-manager del teatro inglese, dal 1710 direttore del Drury Lane, adattatore di Shakespeare. Sostenitore della causa dinastico-protestante che portò al trono Giorgio I di Hannover, fu personaggio discusso, ridicolizzato da Pope, Johnson, Fielding. Nel 1740 pubblicò la sua autobiografia, Apologie for the Life of Colley Cibber, Comedian.
34 Oltre che agli spettacoli del Drury Lane, Voltaire probabilmente assiste anche a quelli dell’altro teatro ufficiale londinese, il Lincoln’s Inn Fields, dove l’11 novembre 1726 debutta Julius Caesar con James Quin nel ruolo di Bruto (cfr. M. Martinez, Les Théâtres à Londres pendant la saison 1726-1727 et 1727-1728, in «Revue Voltaire», 15, 2015, pp. 171-187).
35 «Life is but a dream full of stars of folly, and of fancied, and true miseries. Death awakes us from this painful dream and gives us, either a better existence or no existence at all». Voltaire era particolamente legato alla sorella maggiore che aveva svolto per lui il ruolo di madre, morta quando lui era bambino. A Nicolas-Claude Thieriot, 26.10.1726 (Best. D303).
36 «Scenes in Schakespear [sic]. No plays. We want action», Voltaire, Notebooks 1, in OCV, vol. 81, 1968, p. 104.
37 J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 2006, passim.
38 Voltaire, Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne, in Sémiramis, Tragédie, in OCV, vol. 30A, 2003.
39 D. Diderot, Lettre sur les sourds et muets, in Id., Œuvres complètes, éd. R. Lewinter, Paris, Le Club Français du Livre, 1969, t. II, p. 527.
40 Cfr. L. Tieck, Il meraviglioso in Shakespeare, in M. Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 91-113.
41 Voltaire, Notebooks 1, cit., pp. 54-55.
42 Così afferma Voltaire nelle Lettres philosophiques. Nicholas Cronk sostiene che non se ne ha prova. Cfr. N. Cronk, Choses vues ou choses lues? Autour du Théâtre Anglais dans Le Lettres sur les Anglais, in «Revue Voltaire», 15, 2015, p. 190.
43 A Marie de Vichy de Chamrond marquise du Deffand, 13.10.1759 (Best. D8533).
44 Cfr. P. Bénichou, Le sacre de l’écrivain 1750-1830. Essai sur l’avènement d’un pouvoir spirituel laïque dans la France moderne, Paris, Gallimard, 1996.
45 Carolina era la moglie di Giorgio II, succeduto al padre Giorgio I nel giugno del 1727. Sui rapporti di simpatia tra Voltaire e la regina inglese cfr. A.-M. Rousseau, L’Angleterre et Voltaire, «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 145-147, Oxford, The Voltaire Foundation, 1976, vol. I, pp. 90 sgg. (d’ora in poi questa collana sarà indicata con la sigla SVEC). Carolina era grande sostenitrice di Sir Walpole. Nel 1728 Voltaire pubblica Essai sur la poésie, in cui per la prima volta parla di Shakespeare, ora in OCM, vol. VIII, pp. 306 sgg.
46 A Roma il tiranno Tarquinio è stato abbattuto ed è stata fondata la Repubblica a capo della quale ci sono due consoli, Valerio Publicola e Giunio Bruto. Nasce una congiura per ristabilire la monarchia a cui partecipano anche i figli di Bruto, Tito e Tiberino. Bruto, inflessibile, condanna a morte i propri figli e instaura la Repubblica.
47 Cfr. M.L. Lanzillo, Introduzione a Voltaire, Bruto, Torino, La Rosa, 2001, p. xi.
48 Prosper Jolyot de Crébillon (1674-1762) fu il grande rivale di Voltaire: debuttò quindici anni prima di lui con Idoménée (1703). Trattò di preferenza soggetti di carattere tetro, anzi truculento (odi familiari inesplicabili che portavano a estreme violenze consumate in scena) che ricordavano il tragico antico o elisabettiano. Compose nove tragedie: dopo Idoménée, Atrée et Thyeste (1707), Électre (1708), Rhadamiste et Zénobie (1711), considerato il suo capolavoro, Xerxès (1714), Sémiramis (1717), e in seguito, dopo un lungo silenzio dovuto all’insuccesso di Pyrrhus (1726), Catilina (1748) e Triumvirat (1754), ultima tragedia accolta freddamente. Nel 1731 Crébillon entrò all’Académie Française. Nel 1733 fu nominato censore reale per la letteratura e la storia e nel 1735 censore reale degli spettacoli. Nel 1745, Madame de Pompadour gli fece attribuire una pensione di 1.000 libbre e un posto di bibliotecario del re. La protezione della favorita di Luigi XV, che ingelosirà Voltaire, era dovuta alle sue difficili condizioni economiche e psicologiche. Divenuto misantropo dopo eccessi di prodigalità, Crébillon viveva in un granaio, circondato di cani, gatti e corvi, fumando ininterrottamente e non vedendo altri che suo figlio (Claude-Prosper Jolyot de Crébillon fils, anche lui scrittore, 1707-1777). In questo stato di solitudine, usufruendo di una eccezionale memoria, componeva e teneva a mente le sue tragedie, trascrivendole solo all’ultimo momento.
49 Questa legge non valeva per gli attori della Comédie-Italienne. La scomunica era una pratica che resta di competenza locale, gestita dai singoli vescovi delle città e non direttamente dall’autorità papale. Il concordato di Bologna, firmato nel 1516 tra papa Leone X e Francesco I, disciplinò le relazioni fra la Chiesa cattolica e il regno di Francia fino al 1790, conferendo ai re di Francia un potere sulla Chiesa francese del quale nessun altro sovrano cattolico disponeva. Di fatto Francesco I aveva la facoltà e il potere di eleggere i «suoi» vescovi. Ecco il motivo per cui la pratica della scomunica agli attori era esercitata, tra i paesi europei, solo in Francia. Invece, anche se lavoravano a Parigi e anche se erano francesi, gli attori della compagnia italiana avevano diritto ai sacramenti. Nel XVII secolo Arlecchino e Pantalone, qualche anno prima di venir espulsi per l’incorreggibile oscenità del loro repertorio e della loro mimica, figuravano nelle processioni religiose e reggevano il cordone del baldacchino; Scaramouche, più fortunato di Molière, ha avuto l’onore di solenni funerali a Saint-Eustache. Gli attori dell’Opéra sfuggivano alla scomunica come gli attori italiani, ma per un cavillo: l’Opéra si chiamava Académie royale de musique: cantanti e ballerini non erano letteralmente attori, ma una sorta particolare di accademici. O forse il loro privilegio dipendeva dall’origine italiana del genere operistico. Cfr. L. Ganderax, La Condition des comédiens, in «Revue des deux mondes», 3e période, t. 83, 1887, pp. 452-465.
50 Voltaire, Notebooks 1, cit., p. 110.
51 John Dryden (1611-1700), drammaturgo, critico, teorico del teatro, ammiratore della tragedia francese e aderente ai canoni della dottrina classica, fu il principale rappresentante della heroic tragedy, forma teatrale tipica del primo periodo della Restaurazione. Dovendo unire all’argomento «grande e nobile» uno stile altrettanto elevato, la heroic tragedy sostituì il blank verse elisabettiano non rimato con l’heroic couplet, un distico formato da due pentametri giambici a rima baciata che ricordava il verso della tragedia francese.
52 Joseph Addison (1672-1719), uomo politico whig e autore di tragedie neoclassiche in voga durante il regno della regina Anna (1702-1714), diede vita al quotidiano «The Spectator» che, pur se di breve durata (1711-1712), svolse un’opera di fondamentale importanza per la promozione in Inghilterra dei nuovi valori borghesi.
53 Cfr. Voltaire, La mort de Mlle Lecouvreur, poema che viene pubblicato ad Amsterdam nel 1732, a Parigi solo nel 1739, in OCM, vol. IX, pp. 370-371 (prima versione): «Que vois-je? Quel objet! Quoi! Ces lèvres charmantes, / Quoi! Ces yeux d’ou partaient ces flammes éloquentes, / Éprouvent du trépas les livides horreurs! / Muses, Grâces, Amours, dont elle fut l’image, / O mes dieux et les siens, secourez votre ouvrage! / Que vois-je? C’en est fait, je t’embrasse, et tu meurs! / Tu meurs, on sait déjà cette affreuse nouvelle; / Tous les cœurs sont émus de ma douleur mortelle. / J’entends de tous côtés les beaux-arts éperdus / S’écrier en pleurant: “Melpomène n’est plus!”. / Que direz-vous, race future, / Lorsque vous apprendrez la flétrissante injure / Qu’à ces arts désolés font des hommes cruels? / Ils privent de la sépulture / Celle qui dans la Grèce aurait eu des autels. / Quand elle était au monde, ils soupiraient pour elle; / Je les ai vus soumis, autour d’elle empressés: / Sitôt qu’elle n’est plus, elle est donc criminelle! / [...] Tes talents, ton esprit, tes grâces, tes appas: / Je les aimai vivants, je les encense encore / Malgré les horreurs du trépas, / Malgré l’erreur et les ingrats, / Que seuls de ce tombeau l’obbrobre déshonore. / Ah! Verrai-je toujours ma faible nation, / Incertaine en ses vœux, flétrir ce qu’elle admire: / Nos mœurs avec nos lois toujours se contrédire; / Et le Français volage endormi sous l’empire / De la superstition? / Quoi! n’est-ce donc qu’en Angleterre / Que les mortels osent penser? / O rivale d’Athène, o Londres! hereuse terre! / Ainsi que les tyrans vous avez su chaser / Les préjugés honteux qui vous livraient la guerre. / C’est là qu’on sait tout dire, et tout récompenser; / Nul art n’est méprisé, tout succès à sa gloire. / Le vainqueur de Tallard, le fils de la victoire, / Le sublime Dryden et le sage Addison, / E la charmante Ophils, et l’immortel Newton, / Ont part au temple de la mémoire: / Et Lecouvreur à Londres aurait eu des tombeaux / Parmi les beaux-esprits, les rois et les heros. / Quiconque a des talents à Londres est un grand homme. / [...] Dieux! Pourquoi mon pays n’est-il plus la patrie / Et de la gloire et des talents?» («Che vedo! Quale oggetto! Le sue graziose labbra, / Come? I suoi occhi fonte di un’eloquente fiamma / Della morte sopportano i lividi terrori! / O muse, grazie e amori, di cui lei fu l’immagine, / O dèi miei e suoi l’opera vostra presto aiutate! / Che vedo? Ormai è finita, ti stringo a me e tu muori! / Tu muori: già conosco l’orribile notizia; / Ogni cuore compiange la mia mortale pena. / Sento che in ogni dove, l’arte oramai smarrita / Già grida tra i singhiozzi: “Melpomene è defunta!” / Cosa direte, o posteri, / Quando vi sarà nota quell’avvilente offesa / Che uomini crudeli arrecano alle arti? / Di sepoltura privano / Colei a cui la Grecia altari avrebbe eretto. / Per lei, quando era in vita, ognuno sospirava; / Li ho visti sottomettersi, correre attorno a lei: / E non appena è morta diviene criminale! [...] / I talenti, il tuo spirito, le tue grazie e beltà / Se li amavo da vivi, io li incenso tuttora / Nonostante la morte / L’errore e quegli ingrati, / Che del sepolcro tuo l’obbrobrio disonora. / Dovrò veder per sempre / La mia debole patria, / Incerta dei suoi voti, far seccar quel che ammira? / La legge coi costumi nostri sempre in conflitto? / E il leggero Francese dormir sotto l’impero / Della superstizione? / Che? Solo Inghilterra osa pensar la gente? / O rivale d’Atene! O Londra! terra lieta! / Voi avete scacciato come fosse un tiranno / L’indegno pregiudizio che vi faceva guerra. / Lì tutto si può dire, tutto ricompensare; / Nessun’arte è negletta, ogni successo è gloria. / Il figlio del trionfo, vincitore a Tallard, / E Dryden il sublime insieme al saggio Addison / Con la graziosa Ophils e l’immortale Newton / Son degni di memoria: / E Lecouvreur a Londra avrebbe sepoltura / Tra gli elevati spiriti, tra i re e tra gli eroi. / Chiunque abbia talento è grand’uomo lì a Londra. / Dèi! Perché il mio paese la patria non è più / Di gloria e di talenti?»). Traduzione di Vincenzo De Santis.
54 Alexis Piron scrisse un maligno epigramma accusando Voltaire di plagio. L’ispirazione sarebbe venuta dal Brutus di Mlle Bernard e del suo presunto coautore Fontenelle. Le similitudini fra le due tragedie sono superficiali, ma i nemici di Voltaire sapevano che, data la sua suscettibilità, l’accusa di plagio lo avrebbe particolarmente ferito. Cfr. J. Renwick, Introduction à Brutus, in OCV, vol. 5, cit., pp. 80-81 e H. Lion, Les tragédies et les théories dramatiques de Voltaire, Paris, Hachette, 1895, pp. 49-53. Nel corso del Settecento Brutus in Francia ebbe un medio successo di pubblico (106 rappresentazioni), ma è stata significativamente la tragedia più tradotta all’estero e la più amata dagli stranieri per il suo tema, lo scontro tra la tirannide e la libertà repubblicana che in Inghilterra era stata ritrovata, anche sotto un monarca, e che in Francia mancava.
55 A Marie-Anne Dangeville, 12.12.1730 (Best. D387).
56 J. Renwick, Introduction à Brutus, in OCV, vol. 5, cit., p. 71.
57 Voltaire, Discours sur la tragédie, cit., pp. 176-177.
58 Ivi, p. 164.
59 Joseph Addison (vedi cap. I, nota 52) fu autore di Cato, la più nota delle tragedie neoclassiche inglesi. Fedelmente ligia alle regole di unità d’azione, la tragedia celebrava la grandeur del protagonista, che sacrificava la vita ai principi repubblicani in cui credeva. «La forza e l’interesse di Cato stavano (e stanno) nel richiamo alla fierezza nazionale e nell’accostamento dell’Inghilterra alla Roma augustea [...]. Gli spettatori applaudirono l’idea che l’antica nobiltà dell’una potesse rivivere nel presente dell’altra», P. Bertinetti, Storia del teatro inglese dalla Restaurazione all’Ottocento 1660-1895, Torino, Einaudi, 1997, pp. 156-157.
60 Cfr. D. Diderot, Dorval et moi, ou Entretien sur le fils naturel (1757), in Id., Œuvres complètes, cit., t. III, pp. 113-210 e Id., Discours sur la poésie dramatique (1758), ivi, pp. 403-508.
61 Voltaire, Discours sur la tragédie, cit., pp. 164-165.
62 Ivi, p. 171.
63 Ivi, p. 173.
64 Non vanno tralasciati altri influssi presenti nella tragedia di Voltaire, come le tragedie virili, «senza amore», su cui si era formato da ragazzo quando studiava dai gesuiti a Parigi al Lycée Louis-le-Grand, sotto la direzione del Padre Porée, e il Catone di Addison.
65 N. Rowe, cit. in S. Johnson, Preface to Shakespeare e altri scritti shakespeariani, scelta, introduzione e note a cura di A. Lombardo, Bari, Adriatica, 1967, p. 178. Nicholas Rowe (1674-1718) è considerato il primo editor di Shakespeare. Si deve a lui la prima edizione settecentesca di Shakespeare in sei volumi, pubblicata nel 1709, con illustrazioni. Grazie alla sua conoscenza pratica della scena, divise tragedie e commedie in scene (e talvolta in atti) e annotò le entrate e le uscite degli attori. Egli normalizzò anche la pronuncia dei nomi e fece precedere ogni testo da una lista dei personaggi.
66 A. Pope, The Major Works 1725-1744, ed. R. Cowler, Oxford, B. Blackwell, 1986, pp. 25-26.
67 Nel testo di Voltaire, che riprende Plutarco e Svetonio, Bruto è figlio naturale, non solo adottivo, di Cesare.
68 P. Saint-Amand, Spectres de Shakespeare, in «Furor», 26, 1994 (numero speciale Voltaire), p. 80.
69 Cfr. A. Lombardo, Introduzione, in Shakespeare, Giulio Cesare, Milano, Feltrinelli, 2014, passim.
70 Voltaire, Notebooks 2 (senza data, ma presumibilmente intorno al 1750), cit., pp. 445-446.
71 Lucido e impietoso sarà il giudizio di Mercier molti anni dopo: «Confrontiamo il Giulio Cesare di Shakespeare e quello di Voltaire; da una parte si vede il pittore e dall’altra la mano tremante e timida che livella parole armoniose e rimate. Si vedono contrapposte la musa libera e la musa incatenata; una interamente dedita al soggetto, l’altra attenta a ciò che dirà il parterre: i personaggi delle tragedie francesi sono obbligati a parlare per farsi conoscere; i personaggi di Shakespeare fin da quando appaiono si esprimono senza proferire parola», L.-S. Mercier, De la littérature et des littérateurs suivi d’un nouvel examen de la Tragédie Françoise (1778), Genève, Slatkine Reprints, 1970, pp. 124-125.
72 Ériphyle, regina d’Argo, ha sposato Amphiaraus ma ha una relazione con Hermogide che con la sua complicità uccide Amphiaraus. Anni dopo, turbata dalla voce e dallo spettro del marito, Ériphyle è presa dai rimorsi e chiede l’aiuto di Alcméon, giovane generale rientrato vittorioso dalla guerra, creduto figlio di uno schiavo. Alcméon si innamora di Ériphyle ed è sul punto di sposarla quando si aprono le porte del tempio e appare lo spettro di Amphiaraus che rivela di essere suo padre e gli ordina di vendicarlo uccidendo la madre. Grazie al Gran Prêtre che ha conservato il fer sacré, Alcméon è effettivamente riconosciuto come il figlio creduto morto di Ériphyle e Amphiarus. Alcméon invita a duello Hermogide vicino alla tomba del padre, ma accecato dalle Furie per sbaglio, nell’oscurità del tempio, colpisce sua madre, che viene a morire in scena, sorretta dalle sue ancelle.
73 Secondo molti critici l’apparizione dell’ombra in Ériphyle sarebbe da riferirsi non tanto ad Amleto quanto a Le Coefore di Eschilo o all’apparizione di Dario in I Persiani. Cfr. R. Niklaus, Introduction à Ériphyle, in OCV, vol. 5, cit., pp. 342-343.
74 A Pierre-Robert Le Cornier de Cideville, 8.3.1732 (Best. D466). Amico di Voltaire fin dai tempi del liceo, Pierre-Robert Le Cornier de Cideville (1693-1776) fu per lunghi anni uno dei confidenti più intimi di Voltaire, che dal 1731 al 1765 gli scrisse più di un centinaio di lettere, spesso incaricandolo di dare un giudizio sulle sue nuove opere letterarie, suggerirgli correzioni, prevenire e addolcire i giudizi della censura.
75 «Là, si vous en croyez leur coup d’œil pénétrant / Tout ministre est un traître, et tout prince un tyran, [...] / Et sitôt qu’un grand roi penche vers son déclin, / ou son fils ou sa femme ont hâté son destin / Mais la voix de ces dieux, ou plutôt de nos prêtres / M’a dépouillé vingt ans du rang de mes ancêtres. / Il fallait soccomber aux superstitions / Qui sont bien plus que nous les rois des nations».
76 A Pierre-Robert Le Cornier de Cideville, 3.2.1733 (Best. D459) e 12.4.1733 (Best. D593).
77 A Jean-Baptiste Sauvé de La Noue, 1741 (Best. D2404). De La Noue (1701-1761), attore, direttore di teatro a Douai, poi a Lille, autore di Mahomet second (1739).
78 Alla marchesa di Bernières, 27.10.1726 (Best. D305). Quando morirà Mme du Châtelet, il suo commento sarà: «Ho perduto un amico di venticinque anni, un grand’uomo il cui solo difetto era di essere donna», a Federico II, re di Prussia, 15.10.1749 (Best. D4039).
79 A François-Augustin-Paradis de Moncrif, 1.4.1732 (Best. D474).
80 Voltaire, Epistola dedicatoria a M. Falkener, in Id., Zaïre, a cura di V. De Santis e M. Fazio, Pisa, ETS, 2015, p. 103.
81 Voltaire, Lettre à Monsieur de la Roque sur la tragédie de Zaïre 1732, in Id., Zaïre, éd. P. Frantz, Paris, Gallimard, 2016, p. 167.
82 J. Truchet, Notice de Zaïre, in Théâtre du XVIIIe siècle, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1972, t. 1, p. 1407.
83 P. Frantz, Préface à Voltaire, Zaïre, cit., p. 21.
84 Cfr. H. Lion, Les tragédies et les théories dramatiques de Voltaire, cit., p. 77 e in particolare il paragrafo III del capitolo II (Voltaire e Shakespeare) in cui Lion sostiene la tesi dell’ascendenza più raciniana che shakespeariana di Zaïre.
85 A Jean-Baptiste-Nicolas Formont, 12.9.1732 (Best. D526).
86 [Voltaire,] Commentaire historique, cit., p. 10.
87 I figli ritrovati o il sultano educato dall’amore, Caquire: parodia di Zaïre, Arlecchino al Parnaso o la follia di Melpomene. In quest’ultima parodia, scritta dall’abate Nadal, Melpomene, in preda alla follia, si vanta di dar vita a una tragedia in tre minuti (Voltaire si era vantato di aver creato Zaïre in tre settimane). Immediatamente dopo, i cinque atti (ognuno dei quali è un personaggio e porta il numero sul berretto) compaiono tutti assieme; rozzi e maleducati iniziano a litigare; il secondo si batte con il terzo, pretendendo che il rango tra loro è mal distribuito. Un ordine del Parnaso ingiunge di rinchiudere Melpomene in un ospedale psichiatrico; i cinque atti, che risentono del delirio di Melpomene, vengono cacciati; ognuno fa ricadere la colpa sul compagno e la querelle termina col trionfo di Talia. Cfr. H. Lagrave, Le Théâtre et le public à Paris, cit., p. 619. La parodia fu rappresentata al Théâtre-Italien il 4 dicembre 1732.
88 Dopo il trionfo iniziale e i 14 anni successivi segnati da un lento declino, Zara fu ripresa il 16 marzo 1751, sempre con Mrs Cibber nel ruolo della protagonista femminile, Spranger Barry (Orosmane) e Sparks (Lusignano). Da allora, allestito quasi ogni stagione (dal 1751 al 1785 e occasionalmente fino al 1812), fu l’adattamento di una tragedia di Voltaire più rappresentato sulle scene inglesi. Durante la direzione al Drury Lane di David Garrick (1747-1776), che con il ruolo di Lusignano assunse con un successo clamoroso la pièce nel suo repertorio (25 marzo 1754), Zara fu rappresentata 64 volte in 23 stagioni consecutive, superata solo da Amleto e da Suspicious Husband di Benjamin Hoadly.
89 A.-M. Rousseau, L’Angleterre et Voltaire, cit., vol. II, p. 316.
90 Candide, cap. 3.
91 A Federico II principe ereditario di Prussia, 25.4.1739 (Best. D1991).
92 «Un courtisan pétri de feinte / Fait dans moi tristement passer / Sa défiance et sa contrainte / Mais un esprit libre et sans crainte / M’enhardit et me fait penser», Voltaire, Zaïre, a cura di V. De Santis e M. Fazio, cit., p. 97.
93 Voltaire, Seconde Lettre au même Monsieur Falkener, in Id., Zaïre, éd. P. Frantz, cit., p. 155.
94 Pubblicate in italiano come Lettere Inglesi o Lettere filosofiche sugli Inglesi.
95 A. Lacroix, De l’influence de Shakespeare sur le Théâtre-Français jusqu’à nos jours, Bruxelles, Lesigne, 1856, vol. I, p. 74.
96 L’Inghilterra era all’avanguardia nella lotta contro il vaiolo tramite l’inoculazione del vaccino. Voltaire considerava l’inoculazione una conquista della scienza e un atto di libertà filosofica e la diffidenza nei confronti dei vaccini (diffusa in Francia) come un’espressione di superstizione popolare.
97 Voltaire, Lettres philosophiques, Paris, Garnier, 1956, Sixième Lettre, p. 29.
98 Ivi, pp. 34, 36.
99 La terre à foulon è un’argilla assorbente con poteri sgrassanti, oggetto di commerci internazionali fin dall’antichità, utilizzata dai fabbricanti di tessuti medievali per il trattamento delle stoffe.
100 Voltaire, Lettres philosophiques, cit., p. 45.
101 Città indiana.
102 Voltaire, Lettres philosophiques, cit., p. 46.
103 Ivi, p. 54.
104 Ivi, p. 104.
105 Thomas Rymer (1641-1713), autore di The Tragedies of the Last Age Consider’d and Examin’d by the Practice of the Ancients and by the Common Sense of All Ages (1678). Cfr. G. Steiner, Morte della tragedia, cit., p. 35.
106 The Works of Mr. William Shakespeare. In Six Volumes, collated and corrected by the former edition by A. Pope, London, Jacob Tonson, 1723-1725.
107 Pochi gli autori francesi che si erano interessati a Shakespeare: Saint-Évremond (1614-1703), autore di tre opuscoli, Sur les tragédies (1685), De la comédie anglaise (1689) e Sur les petits (1705); Louis de Muralt (1665-1749), autore di Lettres sur les Anglais et les Français (1725), e Prévost (1697-1763), che nel quinto tomo, pubblicato nel 1731, del suo libro Mémoires d’un homme de qualité (1728) descrive il suo soggiorno a Londra. Cfr. N. Cronk, Choses vues ou choses lues?, cit., pp. 189-201.
108 Voltaire, Lettres philosophiques, cit., pp. 106-107.
109 Thomas Otway (1652-1685), autore di Venice Preserv’d, la più famosa tragedia inglese del periodo della Restaurazione, rappresentata per la prima volta nel 1682.
110 Voltaire, Lettres philosophiques, cit., pp. 108-109.
111 «But Shakespeare’s Magick could not copy’d be; / within that circle none durst walk but he», J. Dryden, Prologue to The Tempest, vv. 19-20.
112 Boileau nella sua Art poétique (I, v. 7) definisce il puro genio «un pericoloso ardore».
113 A Jean-Baptiste-Nicolas Formont, 15.8.1733 (Best. D646).
114 G. Lanson, Voltaire, Paris, Hachette, 1946, pp. 50-52.
115 A Charles-Augustin Feriol, conte d’Argental, 1.10.1749 (Best. D4030).
116 R. Pomeau, La Religion, cit., pp. 124-125.
117 Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759), matematico, fisico e filosofo, propagatore delle teorie di Newton in Francia, presidente della Preußische Akademie der Wissenschaften di Berlino dal 1746 al 1753; Alexis Clairaut (1713-1765), matematico e astronomo, gran rivale di d’Alembert; Johann Samuel König (1712-1757), matematico tedesco, eletto all’Accademia delle Scienze di Berlino nel 1749. Furono tutti insegnanti privati di Mme du Châtelet.
118 «La questione tra i librai e gli autori è di difficile soluzione quanto la pace tra le potenze europee», scriverà Nicolas-Claude Thieriot a Voltaire il 9 maggio 1758 (Best. D7730). Nel 1776, su iniziativa di Beaumarchais, un gruppo di 24 autori iniziò una battaglia contro gli attori della Comédie-Française, accusati di abusare dei propri privilegi privando gli autori della loro parte di incasso. Questo episodio, conosciuto come l’«affaire des auteurs dramatiques», è generalmente considerato il trampolino di lancio di ciò che diventerà più tardi la proprietà letteraria. La prima legge del diritto d’autore, morale e patrimoniale, fu votata dall’Assemblea Nazionale e firmata da Luigi XVI nel 1791.
119 Voltaire aveva contribuito ad ottenere la sua liberazione quando Pierre-François Guyot Desfontaines (1685-1745) nel 1724 era stato accusato di sodomia e aveva usato la sua influenza per aiutarlo a tornare a Parigi, da cui era stato esiliato. Cfr. [Voltaire,] Commentaire historique, cit., pp. 11 sgg.
120 P.-F.G. Desfontaines, Lettre XXVII (Paris, 16 septembre 1735), in Observations sur les écrits modernes, t. II, éd. Chaubert, Paris 1736, pp. 162-168.
121 A Pierre-François Guyot Desfontaines, 14.11.1735 (Best. D940). Cfr. anche l’opuscolo intitolato Le Préservatif, ou critique des Observations sur les écrits modernes (1738), in OCM, vol. XXII, pp. 371-387. Desfontaines rispose anonimamente lo stesso anno con un opuscolo intitolato Voltairomanie, una raccolta di tutte le storie scandalose su Voltaire il quale citò Desfontaines in giudizio per diffamazione, causa che abbandonò solo dopo che l’abate l’anno successivo ebbe sconfessato pubblicamente il libro.
122 Francesco Algarotti (1712-1764), scienziato e letterato veneziano, ammiratore delle teorie di Newton, pubblicò nel 1737 Il newtonianesimo per le dame. Voltaire, che nelle lettere lo chiamava «Caro cigno di Padova», lo conobbe a Parigi negli anni Trenta e lo ritrovò alla corte di Federico II dove Algarotti rimase dieci anni, fino al 1753.
123 Lettre de M. Algarotti a M. l’abbé Franchini envoyé de Florence à Paris sur la tragédie de Jules César par M. de Voltaire, in Voltaire, La mort de César, éd. A.-M. Rousseau, Paris, Société d’édition d’enseignement supérieur, 1964, p. 45.
124 A Nicolas-Claude Thieriot, verso il 15.8.1735 (Best. D899).
125 Profeta di una nuova religione, Maometto ha convertito il popolo arabo all’islam. L’unico che ancora gli resiste è Zopiro, sceicco della Mecca, che lo odia perché Maometto gli ha rapito e ucciso i suoi figli. Nel corso di un drammatico incontro con Zopiro, Maometto dichiara il suo piano: assoggettare gli arabi sotto un re, sotto un dio, e conquistare il mondo. Maometto rivela a Zopiro che i suoi figli sono vivi e annuncia che glieli renderà se lui si assoggetterà al suo piano. Dinanzi al rifiuto indignato di Zopiro, Maometto decide di farlo uccidere da Seid, suo figlio. Il fanatismo trionfa, Seid compie l’assassinio. Mentre Zopiro sta morendo, Maometto rivela ai suoi figli la verità: Seid non ha tempo di vendicarsi, muore avvelenato da Maometto, Palmira si uccide. Maometto ha vinto, nasce il suo impero.
126 Philip Dormer Stanhope (1694-1773), quarto conte di Chesterfield, uomo politico whig e scrittore inglese, emblema del gran signore. Spirito libero legato agli uomini più in vista del tempo – Swift, Bolingbroke, Voltaire, Montesquieu –, affascinato dallo stile, dal gusto e dall’eleganza francesi, tra il 1737 e il 1768 scrisse al figlio Philip Stanhope più di un centinaio di lettere per insegnargli a diventare un uomo di mondo. Pubblicate un anno dopo la sua morte, le lettere ebbero enorme risonanza e diventarono un classico della letteratura inglese e poi europea: Lettres à son fils, Paris, Jules Labitte, 1842, e più recentemente Paris, Rivage, 1993, con prefazione di M. Fumaroli.
127 Chesterfield, Oeuvres diverses, Londres 1774-1853, vol. VI, p. 2529.
128 G. Macchia, Voltaire. Le idee contro gli idoli, in Voltaire, Il secolo di Luigi XIV, Torino, Einaudi, 1994, p. 508.
129 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, vol. I, Milano, Adelphi, 2004, pp. 153-154. Nietzsche apprezza la capacità della contrainte, del rigore, del limite nel lavoro letterario di Voltaire, che si manifesta prima di tutto nel saper vincere la difficoltà della rima.
130 Th.R. Lounsbury, Shakespeare and Voltaire, New York, Scribner’s Son, 1902, pp. 121-122.
131 Francesco Scipione, marchese di Maffei (1675-1755), poeta e antiquario veronese, scrisse nel 1713 la tragedia Merope rappresentata a Parigi alla Comédie-Italienne nel 1717 (cfr. ed. critica a cura di S. Locatelli, Pisa, ETS, 2008). Voltaire, che in un primo tempo aveva pensato di tradurre Merope in francese, cambiò idea e nel 1737 scrisse a d’Argental di aver redatto di suo pugno una nuova Mérope: «Non è la tragedia di Maffei, è la mia» (Best. D1410). La tragedia fu rappresentata sei anni dopo alla Comédie-Française con la Dumesnil nel ruolo della protagonista.
132 Mérope è la vedova di Cresfonte, re di Messene. Per conservare il trono per suo figlio Egiste, che ha dovuto allontanare da Messene fin dalla più tenera età per sottrarlo al furore degli assassini del marito, Mérope si rifiuta ostinatamente di concedere la propria mano a Polifonte che i cittadini di Messene, stanchi di una lunga anarchia, sono pronti ad eleggere come loro re. Un giovane straniero, colpevole di un crimine commesso sulla strada per Messene, è condotto davanti a Mérope che, scambiandolo per l’assassino di suo figlio, vuole dargli la morte con le sue proprie mani. Ma questo straniero è lo stesso Egiste, e Mérope, riconosciuto suo figlio, non pensa più ad altro che a salvarlo dalle mani di Polifonte che vede in lui un pericoloso rivale; per proteggerlo essa finisce con l’accettare di sposare Polifonte. Ma al momento della cerimonia nuziale Egiste uccide Polifonte e si fa riconoscere dai Messeni come legittimo successore di Cresfonte.
133 G. de Nerval, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1984-1993, vol. I, 1989, p. 966.
134 E.-J.-F. Barbier, Journal historique et anedoctique du règne de Louis XV, éd. A. de La Villegille, 4 voll., Paris, J. Renouard, 1847-1856, vol. III, p. 51.
135 La battaglia di Fontenoy, nei Paesi Bassi, combattuta l’11 maggio 1745 contro gli inglesi e gli austriaci durante la guerra di successione austriaca (1740-1748), fu vinta dall’esercito francese guidato dal Maresciallo de Saxe sotto gli occhi di Luigi XV.
136 H. Carré, La Régence et le règne de Louis XV (1715-1774), in E. Lavisse, Histoire de France, t. VIII, Deuzième partie, Paris, Équateurs, (1901) 2014, p. 298.
137 Mémoires pour servir à la vie de M. de Voltaire, écrits par lui même et suivis de Lettres à Frédéric II, Paris, Mercure de France, 1988, p. 52. I Mémoires, per volontà di Voltaire, furono pubblicati postumi (Genève 1784).
138 Va però ricordato che il 29 agosto 1743 fu rappresentata alla Comédie-Française La mort de César.
139 La guerra di successione austriaca (vedi cap. III, nota 21) scoppiò alla morte dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo, nell’ottobre 1740. Dopo la scomparsa del figlio Leopoldo, essendo rimasta unica erede la figlia Maria Teresa, Carlo VI aveva esteso il diritto di successione alla discendenza femminile con una Prammatica Sanzione (1713), abolendo la tradizionale legge salica che vietava la successione al trono per via femminile. La Francia e gli elettori di Sassonia e Baviera non riconobbero la successione di Maria Teresa. Per otto anni, dal 1740 al 1748, un’ampia fetta dell’Europa (Germania, Paesi Bassi, Boemia, Italia) fu teatro del conflitto armato tra i sostenitori di Maria Teresa, Inghilterra, Olanda e Piemonte, e i suoi avversari, Francia, Prussia, Baviera e Spagna. La pace fu firmata ad Aquisgrana il 18 ottobre 1748. Francesco di Lorena e Maria Teresa conservarono la sovranità imperiale; la Prussia, cui fu confermato il possesso della Slesia, pur essendo un piccolissimo Stato, assurgeva a ruolo di grande potenza militare. La fine della guerra non arrestò né l’antagonismo franco-inglese né quello austro-prussiano, che si manifesteranno di nuovo pochi anni dopo, scatenando la guerra dei Sette anni (1756-1763).
140 Su de La Place, futuro direttore del «Mercure» dal 1760 al 1768, cfr. L. Cobb, Pierre-Antoine de La Place: sa vie et son œuvre: 1707-1793, Paris, Boccard, 1928.
141 Il Théâtre Anglois di de La Place era un’importante opera divulgativa. La traduzione, dichiaratamente non letterale, era parte in versi, parte in prosa e alternava dialoghi a riassunti di scene. Nel 1746 escono tre volumi. Il primo contiene Othello e Henry VI. Il secondo volume Hamlet, Richard III (la sola pièce interamente tradotta), Macbeth. Il terzo volume analisi e sommari di Cymbeline, Julius Caesar, Antony and Cleopatra. Nel 1747 esce un quarto volume con analisi e sommari di Timon of Athens e The Merry Wives of Windsor. Nel 1748 escono altri 4 volumi con traduzioni di altri autori inglesi (Johnson, Rowe, Otway, Dryden, Congreve, Addison, Steele).
142 P.-A. de La Place, Discours sur le Théâtre Anglois, in Le Théâtre Anglois, 8 voll., Londres 1746-1748, vol. I, pp. i-cxviii.
143 Nel 1728 uscì una seconda edizione delle opere di Shakespeare curata da Pope nel 1725.
144 P.-A. de La Place, Discours sur le Théâtre Anglois, cit., p. cii.
145 Ivi, pp. lxiv-lxv, lxxi.
146 Voltaire, Notebooks 1, cit., p. 108.
147 A Claude-Henry Feydeau de Marville, maggio 1746 (Best. D3383).
148 Voltaire, Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne, cit., pp. 160-161.
149 Ivi, p. 161.
150 Figli di Sébastien Slodtz, scultore di Anversa, e fratelli di René-Michel Slodtz, detto Michel-Ange, scultore attivo a Parigi, i fratelli Slodtz erano Dominique-François, membro dell’Accademia di San Luca, morto a Parigi l’11 dicembre 1764, e Sébastien, suo fratello maggiore, morto al Louvre il 25 dicembre 1754.
151 Chamfort et Laporte, Dictionnaire dramatique, Paris, Lacombe, 1776, t. III, p. 203.
152 Cfr. P. Frantz, L’Esthétique du tableau, cit., p. 11.
153 Collé, Journal, cit. in A. Jullien, Les Spectateurs sur le théâtre. Établissement et suppression des bancs sur les scènes de la Comédie-Française et de l’Opéra, Paris, Detaille, 1875, p. 21.
154 Voltaire, Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne, in OCV, vol. 30A, 2003, p. 156. L’attrice di cui parla Voltaire era probabilmente Mrs Peg Woffington.
155 Manoscritto 15081(1.2) p. 411 della Bibl. de l’Arsenal, cit. in E. Rufi, Le Rêve laïque de Louis-Sébastien Mercier entre littérature et politique, Oxford, Voltaire Foundation, 1995, p. 107.
156 A François-Thomas-Marie de Baculard d’Arnaud, verso il 1.9.1748 (Best. D3556).
157 A Charles-Augustin Feriol, conte d’Argental, e Jeanne-Grâce Bosc du Bouchet, contessa d’Argental, 11.1.1749 (Best. D3844).
158 Dieci anni dopo, nel 1759, qualche mese dopo la sparizione delle banquettes sulla scena della Comédie-Française, Sémiramis venne ripresa in un allestimento integralmente nuovo, adeguato alle idee di Voltaire, con comparse, scene mutevoli e cambiamenti a vista. Nel corso del Settecento fu rappresentata 162 volte alla Comédie-Française.