Capitolo quinto
AKADEMEIA

Giunti alla fine del nostro itinerario, dobbiamo in ultimo affrontare il tema della insegnabilità dell’arte. Quale akademeia può pensarsi per un’arte intesa non più come originalità estetica, ma come esemplarità etopoietica? Lo faremo iniziando ad analizzare, di quel tema, il senso propriamente filosofico.

Al capitolo terzo − intitolato L’architettonica della ragion pura e inserito nella Dottrina trascendentale del metodo, posta a chiusura della Prima Critica − Kant distingue la conoscenza meramente storica, che è cognitio ex datis, da quella propriamente razionale, che è cognitio ex principiis. Chi segue scolasticamente un sistema filosofico, resta fermo al caso singolo senza addivenire alla regola generale, limitandosi ad applicare una estrinseca facoltà imitativa e non produttiva, cioè non derivata dalla ragione quindi impossibilitata alla critica. Egli, scrive Kant, «ha ben capito e ritenuto, cioè imparato; ed è una maschera di gesso d’uomo vivo» (corsivo ns.): fa parte dunque di coloro «che non vanno mai al di là della scuola e restano tutta la vita scolari»1. La matematica, i cui principi lo scolaro non può contestare in termini criticamente genuini, è l’unica scienza razionale che è possibile propriamente imparare; non la filosofia, se non appunto ex datis, cioè storicamente in quanto documento. Sembra qui valere la figura dell’asintoto: la filosofia appare come una «scienza possibile»2 che non potrà mai esporsi per intero come un oggetto finito (la stessa impossibilità caratterizzerà nella Terza Critica le idee estetiche), ma alla quale incessantemente «si cerca di accostarsi per diverse vie»3. Dunque, precisa significativamente Kant nello stesso luogo, si può soltanto imparare a filosofare, cioè a vivere (interpoliamo l’idea del bios, che alla lettera non c’è in Kant, ma che, vedremo subito, riteniamo congrua alla sua esposizione) esercitando il talento − e forse soprattutto il diritto − della ragione, allo scopo di criticare in senso trascendentale quei principi generali (la cognitio ex principiis) che la sottofondano. Vi è tuttavia un livello superiore. Più in alto sta − secondo un ‘concetto cosmico’ (conceptus cosmicus) della filosofia − la personificazione del «filosofo come modello»4 (è evidente dal contesto discorsivo declinato al passato che Kant si riferisce all’antichità: quel concetto «lo si personificava e lo si raffigurava»). Gli specialisti dei vari distretti disciplinari − i logici, i matematici, i naturalisti − sono soltanto dei ragionatori; il Filosofo (quasi un prototipo) è invece «il legislatore dell’umana ragione»5, è fons et origo non delle conoscenze settoriali ma della relazione “architettonica” tra ogni conoscenza ed il fine essenziale cui la ratio è destinata. Meno che mai, perciò, questa figura − che non ha alcun contenuto determinato da trasmettere se non la propria caratura modellizzante − può essere oggetto di insegnamento-apprendimento. Tuttavia (e ricompare qui un movimento asintotico) questo Filosofo − che quasi si indistingue dall’artista di genio: Kant non dice neanche questo, lo diciamo noi −, cioè l’unico che potrebbe legittimamente fregiarsi di tale titulus, resta un ideale, «non si trova in nessun luogo»6. Se ne ravvede comunque l’opera testimoniale, della quale noi usufruiamo, perché intessuta in maniera letteralmente istitutiva nell’architettonica della ragione umana. Ma non si trova, appunto, il modello incarnato, il “chi”, il “soggetto portatore”. Kant sembra voler fornire di ciò una prova ex contrario. Presso gli Antichi (e qui la prospettiva storica emerge chiara) il filosofo era colui che si occupava della morale, cioè della destinazione ultima dell’uomo, scopo finale della filosofia. Non è dunque un caso, conclude Kant, se ancor oggi, per analogia, chiamiamo filosofo colui che sa dominare sé stesso ed i propri impulsi «mediante la ragione»7, cioè indipendentemente da quanto possa mostrarsi parziale o angusto il raggio del suo sapere sistematico, evocando così in controluce l’antica figura del saggio, di colui che vive la vita filosofica, che fa filosofia attraverso il bios.

Se ora andiamo alle celebri pagine della Terza Critica in cui Kant espone la sua dottrina del genio, è facile accorgersi che, per quanto concerne la questione della possibilità o delle condizioni di un insegnamento-apprendimento partitamente della filosofia e dell’“arte bella”, sussiste un parallelismo con ciò che abbiamo visto esposto nella Ragion pura. La regola dell’arte non è data a priori, altrimenti l’opera sarebbe risalibile per concetti. La regola è tutt’uno con l’atto operativo che da essa, al contempo, discende non determinatamente ma intuitivamente: si fa in itinere con il suo stesso farsi, l’universale si singolarizza nell’opera. La sintesi immaginativa libera da fini, propria delle idee estetiche, non è in potere del soggetto che pure la realizza nel manufatto. L’artista che possiede il genio − o da cui è posseduto − non saprà mai spiegare metodicamente (come invece lo scienziato può e sa fare) le tappe del processo creativo che lo ha condotto fino alla produzione concreta della sua opera: esse sfuggono alla presa della sua volontà-intenzionalità. Ciò non significa sia affidata solo allo spontaneo germinare del genio naturale. Essenziale è il momento tecnico, e di conseguenza decisivo è il suo corretto, rigoroso, disciplinato apprendimento: «non vi è alcun’arte bella in cui non si trovi qualche cosa di meccanico, che può essere appreso e seguito secondo regole, e quindi qualche cosa di scolastico che costituisce la condizione essenziale dell’arte»8. Rimane che l’“in sé” dell’idea estetica è costitutivamente inintenzionale. E ciò significa anche, per molti versi, assolutamente contingente: dunque − quanto al suo senso interno, al Geist vivificatore che anima le facoltà conoscitive e che permette l’esibizione dell’idea estetica − né imitabile se non per inafferente contraffazione, né insegnabile-apprendibile. Il metodo scientifico si può insegnare e imparare, il suo procedimento analitico è reversibile: dal risultato finale è possibile risalire all’inizio euristico che lo ha originato. Se il genio è per Kant il talento, cioè il dono naturale «di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata»9, allora, invece, l’arte di genio non è insegnabile né apprendibile né integralmente risalibile (ma comunque oggettivabile, quanto meno nella misura in cui lo dimostra l’incessante interpretazione alla quale essa si espone). È però esemplare10, perché chi ha il talento e lo spirito indispensabile e sufficiente per farlo, può mettersi sulle sue tracce e sperare di dar luogo ad una nuova regola che a sua volta farà tutt’uno con l’opera cui in certo senso sovrintende. Ed è in tal modo che quest’ultima istituisce l’orizzonte in cui si rende partecipabile e comprensibile la sua indeterminata originalità, a sua volta paradigmatica poiché comunica universalmente un concetto, ma che non consegue appunto da alcuna regola precedente. L’opera d’arte fornisce regole in assenza di regole. «È difficile spiegare come ciò sia possibile», ammette Kant11. Per questo, l’opera d’arte sarà sempre un inizio ontologico che incarna una originalità esemplare.

Il motivo dell’esemplarità − così connesso alla questione dell’insegnamento-apprendimento, anzi sua conditio sine qua non − era già presente, con qualche oscillazione, nel Kant delle Lezioni di etica: «gli esempi servono a fini di incoraggiamento e di emulazione ma non debbono essere usati come modelli […] Il fine dell’esempio non è tanto l’imitazione quanto piuttosto l’emulazione. Il motivo dell’azione deve essere ricavato non ricorrendo all’esempio degli altri, ma richiamando la regola»12. E nella tarda Antropologia pragmatica aveva sostenuto che «il meccanismo dell’istruzione, costringendo sempre lo scolaro all’imitazione, è invero sempre nocivo al fiorire di un genio, per quanto riguarda l’originalità»13. Non si devono riprodurre i singoli accidenti e le singole forme della natura, ma si deve, per quanto è dato, associarsi alla sua intrinseca vis produttiva. Proprio per questo, e allo stesso modo, nella creazione artistica e nella possibilità della sua comunicazione-partecipazione mediante l’insegnamento, l’esempio non è da copiare ma da seguire: deve cioè essere in grado di suscitare o risvegliare, in coloro che ne ricevono la forza maieutica, il sentimento dell’originalità ed il coraggio di sviluppare a loro volta la libera applicazione di regole nella pratica immaginativa mediata all’intelletto e indirizzata alla produzione dell’opera. Ma se l’esempio non è da copiare ma da seguire mettendosi sulle sue tracce, se ne può allora plausibilmente dedurre che esso rappresenta il punto d’attacco, la stazione di partenza di un itinerario di vita, di un percorso esistenziale incentrato sull’arte: che è quanto dire l’impulso iniziale necessario per operare una scelta etica che non può non implicare anche un lavoro di sé sul sé, una vera e propria etopoiesi, una costruzione-invenzione di sé stessi.

Nella stessa pagina della Critica del Giudizio, in conclusione del paragrafo 43 (Dell’arte in generale) in cui viene operata la distinzione tra arte e mestiere, Kant scrive: «Non è tuttavia fuor di luogo ricordare che in tutte le arti liberali è pure necessario qualche cosa di costretto, ovvero, come si dice, un meccanismo, senza del quale lo spirito, che nell’arte dev’essere libero e che solo anima l’opera, non acquisterebbe corpo e svaporerebbe interamente (così, per esempio, nella poesia, la proprietà e la ricchezza della lingua, come la prosodia e la ritmica); non è inopportuna questa osservazione, perché parecchi dei nuovi educatori credono di favorire l’arte nel miglior modo, scartando da essa ogni costrizione e mutandola da lavoro in semplice gioco»14. Si tratta di una precisazione importante nella logica dell’itinerario interpretativo che stiamo seguendo. Contro ogni velleitarismo spontaneistico (purtroppo ancor oggi ben presente) che colloca la pratica artistico-espressiva in una dimensione di malintesa “libertà” e di ludica eccentricità meramente soggettivistica, qui Kant rivendica − non a caso richiamando il tema della Bildung, della ‘formazione’ − la regola severamente autoimposta, la costruzione via costrizione, il sapiente operari (un «lavoro», dice!) che astringe e vincola il Trieb, l’‘impulso’, il pathos nella logica e nella “meccanica” della forma. Questa tecnica, dunque, secondo Kant, può e deve sì essere insegnabile e apprendibile, può e deve sì essere materia di una scuola: anche e forse soprattutto quando è il mezzo per la manifestazione del genio, quando è il nomos che permette di esprimerlo, di lasciarne affiorare la presenza.

Uno dei luoghi più alti, intensi e significativi in cui questo nesso si stringe e questa dialettica si dispiega, lo troviamo in una pagina di Friedrich Hölderlin. Ci riferiamo alle straordinarie Note all’Edipo scritte nel 1804 − poco più di dieci anni dopo la Critica del Giudizio − che assieme alle Note all’Antigone possono certamente risultare ermetiche ed oscure, «strane e incomprensibili»15 come, peraltro, le traduzioni che il poeta fece delle due tragedie sofoclee, tanto anomale, stranianti, “eccessive” nel loro seguire la lettera dell’originale, la presenza quasi fisica della phone greca, che furono interpretate da molti (compresi Schiller e Goethe) come primo sintomo della sua follia. Pur trattenendo una sorta di aura enigmatica ed un’oscurità che è comune a molti altri testi propriamente filosofici del poeta, le Note, però, possono forse venire maggiormente in chiaro se si leggono alla luce del pensiero poetico fondamentale dello Hölderlin amico e sodale di Schelling e Hegel, un pensiero innestato sul motivo del conflitto, della contraddizione, della scissione.

In modo irriducibilmente dialettico e processuale, il Tutto può trasparire soltanto attraverso il confronto alternato e irricomponibile delle sue parti, l’unità può vivere solo mediata, ritmata dalla frammentazione del molteplice particolare. La stessa natura si manifesta nel suo delicato fiorire o nel suo travolgente impeto, vale a dire nell’alternarsi di due opposti principi. L’organico è il principium individuationis che genera e “coltiva” la forma come un tutto limitato e identificabile, dando origine al determinato; l’aorgico è il senza forma dell’illimite, la pulsione primordiale che non sopporta confine, l’infinito che sfigura e spaura ma che al contempo attrae e seduce. Come in Eraclito, l’Uno si mostra in controluce nella Differenza: nelle scissioni radicali, tragiche, senza cui nemmeno potrebbe porsi né pensarsi. Non c’è un intero che precede la scissione, perché la scissione è letteralmente originaria. L’aorgico, l’apeiron-‘infinito’ può penetrare e lasciar intuire la sua potenza − se il poeta ha il coraggio e il mestiere, vedremo, per affrontarlo − nella sintassi, nell’articolazione dell’organico, del peras-‘finito’. Nelle sue pieghe.

È su questi presupposti concettuali − qui delineati in modo troppo abbreviato e schematico − che dobbiamo rileggere (all’interno del nostro percorso sull’akademeia, quindi privilegiando il motivo della possibilità di un insegnamento-apprendimento artistico) le considerazioni hölderliniane sulla techne poietike. La poesia moderna difetta di quella che lo stesso poeta chiama (proprio come Kant nei paragrafi 43 e 44 della Terza Critica) mechane, cioè di quel carattere meccanico-fabbrile e produttivo, che comporta un saper fare tecnico che invece i Greci avevano innalzato al massimo grado nelle loro arti, ed in particolar modo nella scrittura della tragedia. Alle opere della modernità «manca la fidatezza»16, manca cioè quell’attendibilità che discenderebbe unicamente dal «calcolo delle loro leggi» e dall’utilizzo «degli altri procedimenti con cui viene prodotto il bello» (corsivo ns.), dall’applicazione insomma di princìpi e regole compositive sicure e tecnicamente attendibili. «Ma soprattutto alla poesia moderna», prosegue Hölderlin toccando un punto qui per noi molto significativo, «mancano la scuola e il mestiere, manca cioè che il suo modo di procedere possa essere calcolato e insegnato e che, una volta appreso, possa essere ripetuto in tutta fidatezza nella pratica» (corsivi ns.). Il compito davanti al quale si trova la modernità estetico-artistica, dunque, da queste parole sembra possedere anche una dimensione politica e “repubblicana”17, tant’è vero che assolvere a quel compito appare la condizione che garantirebbe ai poeti, sostiene Hölderlin proprio in incipit al testo, «un’esistenza civile». Il che può significare un’esistenza riconosciuta professionalmente (il riferimento alla scuola e al mestiere è in tal senso indicativo) dal consesso sociale, quindi parte integrante del patrimonio di cultura condiviso dalla comunità e trasmesso con l’insegnamento. Non è un caso se in quel celebre frammento che è stato intitolato Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco − una “lettera filosofica” alla quale abbiamo già fatto riferimento e che contiene i lineamenti di un vero e proprio programma estetico-politico di estinzione dello Stato e di riunificazione etica e culturale tra il popolo e «i suoi sapienti» attraverso una rinnovata «mitologia della ragione» − si sostiene l’inderogabile necessità di conferire «alla poesia una dignità superiore», perché torni ad essere «ciò che era all’inizio – educatrice dell’umanità»18.

Bisogna però precisare che Hölderlin, propugnando una logica poetica, una mechane compositiva che eviti alla poesia moderna di naufragare nella vaghezza semantica e nella sregolata eccentricità soggettiva (l’arte mutata «in semplice gioco», come, abbiamo visto, diceva Kant), non ha affatto in mente una precettistica, un formulario pronto all’uso. Dal seguito delle sue complesse considerazioni tecniche sulla versificazione e la prosodia della tragedia greca, si comprende bene, infatti, che «la legalità cui fa riferimento Hölderlin non è tanto una sequenza di regole, ma un equilibrio»19. E questo equilibrio si invera in quella che il poeta chiamerà la «cesura», che stabilisce il ritmo (nozione centrale nel “pensiero poetante” hölderliniano) del susseguirsi incalzante di rappresentazione, sensazione e ragionamento nel testo sofocleo. È qui che acquisisce tutta la sua importanza la misura che (lo vedremo tra breve) attende all’immisurabile, il «calcolo delle leggi» che può e deve essere insegnato, appreso, tramandato e costituito in eredità culturale. Per Hölderlin il poeta incarna la figura del Mediatore che mette in comunicazione il vicino con il lontano, gli uomini con gli dèi. È dunque esposto alla forza selvaggia, “orientale” e attrattiva dell’aorgico, del Sacro, al quale i Greci − nel tentativo di arginarne e “comporne” la potenza − avevano risposto con l’elemento apollineo del metron organico-poietico. Chi vive in questa frattura, in questa scissione, però, deve essere pronto a lasciarsene lacerare: «qui veut assumer le pouvoir de la communication», scrive Blanchot in un suo saggio sul poeta tedesco, «doit se perdre dans ce qu’il transmet»20. Ecco la ragione per cui il poeta deve saper conciliare-armonizzare, organizzare l’innominabile attraverso la parola che nomina in base a «princìpi e limiti sicuri», e che per questo, nominando, rende stabile: «Ma ciò che resta lo istituiscono i poeti», è il celebre verso della lirica Andenken, Rammemorazione, commentato da Heidegger21. La parola poetica, che è affermazione, persistenza, durata, deve assegnare un limite all’illimitato e lì dimorare stabilmente. E per far questo ha bisogno di una scuola. Si comprende, allora, come il contenuto particolare da esprimere debba entrare in rapporto, scrive Hölderlin, «nella connessione infinita ma assolutamente determinata», con il «calcolo delle leggi», e in che modo «l’andamento e ciò che deve essere fissato, quel senso vivente che non è misurabile, venga posto in relazione alla legge calcolabile» (corsivi ns.). E questa techne poietike deve poter appunto essere determinata, insegnata e appresa22.

La tragedia greca, o meglio la forma tragica, con il suo ritmo di cesure e scissioni, è qui − per questo Hölderlin anomalo e forse sorprendente, certamente anti-romantico− un modello di coerenza e impaginazione compositiva del dicibile, un paradigma di credibilità e di elaborazione sintattico-organizzativa dei materiali, ai quali la poesia moderna deve tornare a guardare come a qualcosa cui di nuovo attingere, posto che sia intenzionata a proteggere e sviluppare la sua stessa esistenza civile. Poter pensare la tragedia, o meglio il tragico, e immaginarne una possibile soluzione moderna, significa ipso facto, perciò, saperlo fare muniti di un’attrezzatura tecnico-costruttiva, di una mechane affidabile dunque tramandabile anche attraverso la missione politico-culturale dell’insegnamento. Si capisce allora, tra l’altro, quanto questo Hölderlin abbia potuto colpire e commuovere Anton Webern, che lo cita per esteso in una lettera del 1944: il Webern strenuamente impegnato a «difendere una forma» attraverso la ricerca e la formulazione di norme attendibili e razionali che potessero sovrintendere alla logica dello sviluppo compositivo dei materiali musicali23.

Il nesso tra canto ispirato e razionalità numerante, tra lebendig Sinn, ‘senso vivente’ e Zuverlässigkeit, ‘fidatezza’, ‘attendibilità’, appare qui necessario, genetico. L’origine − l’aorgico, il Sacro − resta “in sé” inconoscibile, il pathein rimane “in sé” indicibile, la Fonte irrisalibile. Ma il poeta, l’artista deve saperne distillare il numero, deve saperne comporre il ritmo, deve calcolarne dunque mediarne la potenza: che soltanto così potrà venire esercitata. Mai senza l’ordine formale e la tecnica tramandabile che ne sovrintende il nomos, potrà apparire ciò che va oltre l’ordine e la tecnica. Mai senza applicazione e sforzo competente, “mestiere” e artigianalità (Hölderlin usa il termine altotedesco Handwerksmäßigen) potrà offrirsi ciò che li trascende. Soltanto la sicurezza, la credibilità della scrittura secundum regulae possono aprire a questo possibile. L’immisurabile, l’incalcolabile − il ‘senso vivente’, appunto − si dona nel calcolo, nella misura: unicamente esercitandosi attorno a questo enigma, il poeta, l’artista potrà sperare, solo sperare, di acquisire, direbbe l’Eupalinos di Valéry, il «raro potere» di avvincere «un’analisi a un’estasi»24.

Se partiamo da questi presupposti filosofici, i soli che possano confortarne l’esigenza, si comprende bene l’aporia costitutiva e l’intrinseca problematicità che persistono nel cuore stesso dell’insegnabilità dell’arte e che questa deve saper gestire con cura e attenzione. Un’aporia, beninteso, che non soltanto attraversa ma sostiene ogni tipo di insegnamento: vi si affronta sempre e comunque (tranne forse nella didake di contenuto strettamente scientifico) un’impossibilità: quella della trasmissione integrale e senza resti del sapere. Ne deriva che l’insegnamento più responsabile (cioè, alla lettera, che può rispondere di sé stesso) è quello che riconosce questa sua faglia interna e quindi sa prodursi e svilupparsi a partire da questo impossibile da sapere, sa custodirlo, evocarlo e, per così dire, indirettamente comunicarlo. «Nella misura dunque in cui l’educazione è un’arte, appare quasi impossibile che abbia successo […] Tutto quel che si può fare, usando ogni possibile premura, è avvicinarsi più o meno alla meta, ma per raggiungerla ci vuole fortuna»: è Rousseau nell’Emilio25. Da qui ad affermare che l’educazione dura tutta una vita − esattamente come, già lo sappiamo, dichiaravano gli Antichi e come poi afferma lo stesso Rousseau − il passo è breve.

Ma questa impossibilità − ecco la nostra tesi di fondo − si misura in modo ancor più evidente se l’oggetto dell’insegnamento-apprendimento è l’arte, ove l’elemento protrettico è decisivo, e precisamente ciò che appare impossibile da imitare si rivela in realtà, nello stesso tempo, l’esortazione, e di più, la spinta, lo sprone all’imitatio più intensa e partecipata. Che tuttavia, e proprio per questo, non può considerarsi più “imitazione”, lo vedremo, nel senso triviale del termine. Anzi, saremmo di fronte ad un evento, quello della creazione artistica, che supera la possibilità della sua riproduzione. È in particolar modo qui che emerge l’irriducibilità del bios e dell’esperienza espressivo-emozionale (non solo del discente) al sapere contenutisticamente, “tematicamente” inteso. Se ‘insegnare’ significa ‘marcare’, ‘tracciare’, ‘imprimere dentro’, allora qualcosa come l’arte o l’artisticità, l’eccedenza che essa presenta (e al contempo lascia sfuggire) rispetto ad ogni acquisizione tecnico-esecutiva, non può porsi ad oggetto o contenuto determinato di un insegnamento né ricondursi ad alcuna nomotetica pedagogica. «L’arte ha origine al di là di tutti i metodi», dichiara Walter Gropius inaugurando il Bauhaus nel 1919, «essa non è di per sé insegnabile»26. Lo aveva già detto Kant, abbiamo visto, centocinquant’anni prima. Tra l’altro, il sapere artistico è un tipo di sapere etico-pratico che non può venire trasmesso (come invece altre forme di sapere) indipendentemente dal suo contesto di appartenenza, ma che il maieuta deve far emergere dalla stessa concretezza delle problematiche via via messe in campo. In verità, comunque, non vi è alcun bisogno di fare appello ad alcuna teoria sull’inesplicabilità del genio per riconoscere che l’arte, così come noi continuiamo ad intenderla, eccede ogni tecnica insegnabile e acquisibile, ogni competenza trasmissibile e apprendibile, in modo per così dire caratteristicamente indeterminato: è la tecnica di andare oltre la tecnica, verso un non sapere preventivamente incalcolabile e posteriormente irrisalibile, come se, in qualche modo, si lacerasse il legame tra verità e metodo. Sarebbe grave, diceva Lacan, «se gli psicoanalisti sapessero che cos’è la psicoanalisi»27. Non potrebbe concepirsi alcuna conoscenza che non fosse innestata su di una preventiva partecipazione non conoscitiva. Un’oscillazione tra sapere e non sapere attiene peraltro, già in Aristotele, all’essenza o alla costituzione dello stesso apprendimento: chi apprende «in un certo senso sa, ma in un certo altro senso non sa» (Secondi analitici, 71a, 25), ed infatti nulla impedisce «che quanto viene appreso si possa in un certo senso conoscerlo, e in un altro ignorarlo» (71b, 5)28. Si può cogliere qui, ratificato nella cultura e nell’eredità dell’ethos linguistico occidentale, un nesso con uno dei significati etimologici di ‘educare-educere’, così affine a quello di ‘sedurre-seducere’: cambiare direzione, sviare o deviare conducendo e facendosi condurre altrove. Alla radice dell’insegnamento e della sua erotica29 − in cui è sempre e comunque in gioco un collasso istitutivo, una manque centrale − troviamo dunque un’eccedenza, una tensione spaesante, una potenza che dis-loca il soggetto. Sapere e non sapere sono indissolubilmente connessi nel processo dell’apprendimento così come nella genesi dell’opera d’arte, ove l’incalcolabile può sorgere solo dal calcolo più rigoroso. L’insegnamento artistico si può dunque considerare un rigoroso, disciplinato, scrupoloso esercizio attorno ad un impossibile30.

Occorre anche ricordare che non corrisponde affatto alla verità storica la convinzione diffusa secondo cui l’Accademia di Belle Arti − come luogo istituzionale dell’insegnamento artistico − sarebbe vocativamente legata alla manualità e alla mera prassi. Sull’impronta dell’Akademeia fondata da Platone nel 387 a.C. come spazio fisico circoscritto − il boschetto nei dintorni di Atene − ove ritirarsi ed esercitare la totale dedizione al pensiero disattivando il commercio con il mondo31, l’Accademia del Disegno è nata a Firenze nel 1563 su idea del Vasari proprio accogliendo la volontà degli artisti del tempo di emanciparsi dalla condizione socialmente subalterna del lavoro artigiano, una volontà innestata sulla rivendicazione e la valorizzazione dei presupposti teoretici, ideologici e scientifici riconosciuti per la prima volta alla base della specificità artistica rispetto alla ripetibilità artigianale.

In ogni caso, compito del maestro dal Romanticismo in poi, cioè da quando si afferma la teoria del genio, non è più quello di trasmettere, con i metodi dell’apprendistato, un prontuario di regole pratiche. Suo compito diventa quello di presentarsi come esempio maieutico non normativo − un esempio cioè che non dovrebbe diventare un oggetto di imitazione, ma che dovrebbe mettersi soggettivamente in questione, lo vedremo meglio più avanti − cioè testimonianza vivente in grado di distruggere i clichés e gli automatismi acquisiti favorendo le disposizioni creative, di sollecitare, coltivare e sviluppare il potenziale espressivo nell’allievo assieme alla consapevolezza che questi, di quel suo potenziale, deve progressivamente saper conquistare, uscendo in tal modo dalla relazione didattica. L’Accademia quindi potrebbe o dovrebbe essere il luogo istituzionale più adatto per attuare una trasformazione radicale dell’insegnamento non solo per quanto riguarda l’“ingegneria” della didattica ma anche per ciò che tocca da vicino il suo stesso ètimo. Il maestro, afferma Pareyson nella sua Estetica (e sembra far eco al proposito fondamentale che sostiene anche il Manuale di armonia di Schönberg), «è tale al solo titolo che insegna agli alunni a far da sé com’egli stesso va facendo»32. Forse è proprio nel caso dell’insegnamento artistico che assume il suo significato più autentico e concreto l’affermazione di Seneca secondo la quale i maestri «non sono i nostri padroni, ma le nostre guide» (Lettere a Lucilio, 33, 11). Ed occorre sottolineare che mai quanto nell’insegnamento artistico − che non ha un apparato predefinito di nozioni − il maestro è un “soggetto messo in questione”, come direbbe Lacan: è davvero in gioco, non soltanto perché parte della relazione pedagogica e primo agente della sua necessaria e inaggirabile asimmetria, ma perché in essa deve mettersi in gioco, impegnare sé stesso come soggetto di un comportamento parresiastico che in quanto tale si spinge oltre la trasmissione dei contenuti di un sapere, allo scopo squisitamente maieutico di aiutare l’altro, il discente, a “generare sé stesso”. «Il discepolo è l’occasione perché il maestro comprenda sé stesso», scrive Kierkegaard con straordinaria, efficacissima sintesi, «e viceversa il maestro è l’occasione perché il discepolo comprenda sé stesso»33. Qualcosa di molto simile lo sostiene anche Adorno in un saggio intitolato Tabù sulla professione dell’insegnante, quando scrive che gli insegnanti «dovrebbero ammettere a sé stessi e lasciar scorgere agli altri le proprie emozioni, e con ciò disarmare gli allievi», ad esempio denunciando, loro stessi e per primi, le proprie eventuali ingiustizie: «“Sì, certo, sono ingiusto, sono un uomo proprio come voi, certe cose mi piacciono e certe no”». E questo, aggiunge Adorno, essenzialmente comporterebbe «la necessità dell’addestramento psicoanalitico e dell’autocoscienza nella professione dell’educatore»34. L’insegnante, il magister, insomma, dovrebbe agire controdiscorsivamente rispetto al proprio statuto. Ed è ciò che, lo vedremo tra poco, farà Joseph Beuys. Ora, indipendentemente dal fatto se l’allievo diventerà o no un “artista” (ammesso che ancora si sappia che cosa precisamente designiamo con questo termine), quella nascente consapevolezza dei propri mezzi non può non svolgersi (nel senso preciso che non v’è alcuna probabilità che si svolga in modo diverso) all’interno di una condizione ottativa, cioè sotto il profilo del desiderio, dell’auspicio, dell’eventuale. Della contingenza. Senza alcuna garanzia di riuscita, senza alcun risultato preventivamente calcolabile, in qualità di effetto secondario che non ha alcuna possibilità di essere voluto ma a cui occorre fare luogo, a cui bisogna attendere. L’eventuale successo allora si profila, a ben vedere e in buona sostanza, alla luce della gratuità e dell’esperienza donativa.

Proprio a questo proposito è importante sottolineare come il primo impegno di ogni magister sia quello di distruggere, come si è appena accennato, di azzerare i clichés espressivi dell’allievo per avviarlo verso una epistrophe, una ‘conversione’ che possa liberarlo dagli stereotipi, dalle deformazioni, dalle cattive abitudini inconsciamente acquisite, trasformandone le qualità inerziali. Solo in tal modo il magister può dimostrare ciò che deve essere, cioè, appunto, un autentico protreptikos, colui che orienta nella giusta direzione. De-discere, ‘disimparare’ è il primo passo che il discente deve compiere per imparare. Eliminare, fare piazza pulita di ogni automatismo attraverso un costante esercizio è la conditio sine qua non per apprendere i nuovi logoi, le corrette “posture” che − prendendo il posto delle dipendenze ossificate da recidere alla radice − devono penetrare nella stessa motilità espressiva, nella stessa mneme corporea dell’allievo fino a diventare parte integrante della pratica di sé, fino a trasformare il suo habitus, il suo modo d’essere e di comportarsi espressivamente35. Viene in luce qui il carattere kenotico dell’educare-insegnare: prioritario è lo svuotamento, l’evacuazione di ogni contenuto presupposto. L’apprendimento comincia con la radicale secessione dall’abitudine. «La prima educazione deve essere puramente negativa», sosteneva già Rousseau36. Abbiamo già analizzato questo tema nella pedagogia teatrale di Grotowski. Questa de-automazione psichica e fabbrile, questa decontaminazione sia mentale che manuale non ha però lo scopo di ritrovare, sotto la coltre degli errori, una natura pretesa originaria e originale, pura e incorrotta, come se ci fosse un solido ed immutabile essere da recuperare sotto il fare e l’agire; piuttosto ha lo scopo di liberare il sé dell’allievo, offrendogli gli strumenti per cogliere le possibilità espressive latenti che le cattive abitudini di cui è stato inconsapevole preda non gli avevano dato modo né occasione di mettere a frutto.

L’arte dunque − nel suo aspetto o tratto di presupposto a-tecnico impartecipabile e intramandabile, nel suo rivelarsi mistero − si può soltanto mostrare, presentare in atto; il fare artistico si può soltanto esibire esemplarmente, “teatralizzarne” il modus operandi. Proprio in connessione con il problema della sua partecipabilità, dunque del suo insegnamento-apprendimento, emerge qui la virtù ostensiva dell’opera e della dinamica creativa − che certo comporta una prassi − dalla quale trae origine. Come un organo o uno strumento di cui viene meno l’operazione o l’uso al quale è deputato, ma che rimane presente nonostante l’abolizione della sua funzionalità, il fare artistico, all’interno del setting didattico, esibisce sé stesso, si autopresenta senza diventare un contenuto determinato, una “sostanza” oggettiva trasferibile, comunicabile ad libitum, veicolabile in quanta di informazione. E in fondo si potrebbe forse anche aggiungere che in questa esibizione senza contenuto viene come evocato in controluce proprio il modo in cui Kant definisce il bello, cioè la messa in forma di una finalità libera da concetti e senza la rappresentazione di uno scopo.

Si dovrà allora dire non tanto o non solo che insegnare l’arte è impossibile, quanto che resiste alla propria possibilità: ma che di questa resistenza fa un percorso, una odos, un tao, una via possibile all’interno dell’impossibile37.

Nell’ambito dell’insegnamento-apprendimento, dunque, si può solo mostrare − direbbe il Wittgenstein delle Ricerche filosofichecome si fa, si può solo restituire il fare operativo nel presente della viva esperienza. Bene: ma quando l’arte non è più soltanto un fare? Quando non consiste più unicamente nella produzione di oggetti, di manufatti, quando non si limita più alla creazione di “opere”? Quando si presenta sine materia e prevale il versante propriamente concettuale? Che ne è allora dell’insegnamento artistico? Quale nuova, inedita inflessione può e deve assumere, quale tipo di trasformazione − ammesso che abbia la forza e la capacità di andare al fondo di sé stesso e all’autenticità del proprio compito sia pedagogico, sia storico, sia politico − non potrà non affrontare? Domande tuttora totalmente inevase da tutto il pensiero sulla pedagogia dell’arte, perché ancora fermo ad una concezione dell’operatività artistica limitata alla produzione di “oggetti”, perché penosamente arretrato e incapace di tener conto e di “rispondere” adeguatamente − forse per semplice ignoranza − agli esiti più radicali, ma al contempo più caratterizzanti, delle arti novecentesche.

Riandando al paradigma dell’antichità, potremmo sinteticamente dire che la filosofia non si può a rigore insegnare per il “semplice” fatto che si deve vivere. Bene: oggi ma non da oggi ciò si può e si deve ripetere (non sappiamo se risolverci o no ad aggiungere: a maggior ragione) per l’arte. La nostra tesi è che si dovrebbero trarre anche in ambito didattico-pedagogico tutte le necessarie conseguenze da quel decisivo, cruciale viraggio di cui abbiamo già ampiamente discusso e che si è prodotto nella pratica delle arti del XX secolo in rapporto al bios, alla vita, e che ha visto alcuni dei più significativi artisti e delle istanze più caratterizzanti del Novecento lasciare dietro di sé non soltanto, appunto, “oggetti”, “opere”, ma comportamenti carismatici, mitologie personali, modi parresiastici e alternativi di vita: tutta una stilistica creativa dell’esistenza che fa parte integrante della loro prassi artistica, e che nel modo più assoluto non riguarda (fatti salvi i tralignamenti degli epigoni) “maniere”, costumi estrinseci neanche lontanamente fraintendibili come vezzi estetizzanti o dandistici nel senso corrotto e triviale del termine. Non si comprende nulla di tutto un versante delle arti moderno-contemporanee, del loro ètimo più profondo, della loro linfa più dirompente e innovativa se non si comprende “operativamente”, quindi non soltanto dal punto di vista storico-ricostruttivo, che esse stanno altrove rispetto alla sola trasmissione di una prassi tecnico-materiale, che non riconoscono più come un loro problema (punto davvero cruciale, decisivo, che abbiamo già toccato) quello dell’immagine e della sua produzione, del suo “fare”, sostituendolo in tutto o in parte con un altro “fare”, cioè fare del bios, della vita, un esercizio di esperienza, vale a dire un esperimento. O meglio: praticando un’arte del vivere che fa della propria vita un’opera, costituendosi come soggetto nel proprio essere singolare. Il compito storico delle Accademie era quello di tramandare i fondamenti tecnici delle arti, ma le avanguardie hanno mostrato che l’arte non può astringersi ad un insieme più o meno articolato di abilità tecniche, e hanno de-professionalizzato (ma non “democratizzato”, come spesso si continua ingenuamente a fraintendere) la figura dell’artista. L’insegnamento artistico − in qualunque luogo o sede istituzionale esso si svolga − deve dunque continuare a limitarsi all’esibizione di un fare produttivo nel senso stretto e letterale del termine, oppure dovrà anche farsi carico di quella profonda trasformazione della cultura e della pratica artistica venata di inoperosità avvenuta nelle arti del Novecento e che tuttora prolunga i suoi effetti? Non dovrà forse costitutire il luogo istituzionale più appropriato e più accreditato in cui − realizzando a vista l’incrocio semantico tra ‘ozio’ e ‘studio’ depositato nel fondo del termine schole − si impara il non fare attraverso il fare38?

Già la stessa pratica artistica per exempla “produttivi” non può mai venire disgiunta, all’interno del rapporto didattico, dall’esperienza etica, e non solo estetica, cui dà accesso. Il maestro − anche nell’ambito del fare “oggettuale”, della produzione di “opere” − deve in ogni caso aver cura che l’allievo abbia cura di sé39. Dal momento che l’intera esistenza dell’uomo libero ha bisogno di euritmia e di armonia, in Platone e in Aristotele è del tutto evidente il ruolo prioritario assunto nel didaskaleion, nella scuola, dall’educazione alla vita rispetto alla mera trasmissione delle technai, che restano semplici orpelli se non sono insegnate ed apprese come viatico alla virtù. Ai maestri, ricorda Platone nel Protagora, si raccomanda «di avere molto maggior cura del buon contegno dei fanciulli che non delle lettere e della musica» (325c). Ma se tutto questo è vero, allora in particolare e a maggior ragione (per motivi che speriamo appaiano ora sempre più evidenti) la pratica dell’insegnamento artistico più consapevole di quella trasformazione storica che siamo andati analizzando in tutto il nostro percorso, è attraversata da parte a parte da un più necessario e decisivo quoziente etico che si esprime in un’esigenza di formazione del sé e di costruzione dell’identità, tanto che essa oscilla tra una disposizione pedagogica e una psicagogica. Occorre certamente che il maestro, il docente − secondo la necessaria asimmetria della relazione didattica − doti l’allievo di saperi e di tecniche, di abilità e di competenze che prima non possedeva; ma parallelamente, in quanto vivente exemplum dell’ethos artistico, deve saper modificare il modo di essere del soggetto discente, deve aiutarlo a lavorare per diventare oggetto di sé stesso in un itinerario più o meno lungo e faticoso di autoformazione creativa ed espressiva. L’insegnamento produce soggettività, o meglio, nel linguaggio di Foucault, è un processo di soggettivazione, e ciò è tanto più vero per quello artistico. E appunto: se l’insegnamento universitario della filosofia non può ormai da tempo più contenere in generale alcun valore psicagogico, forse l’insegnamento artistico è il luogo in cui la cura e la “conduzione delle anime” potrebbe per certi versi esprimere ancora una sua funzione40.

Se avesse la capacità di mantenersi coerente a quell’eredità novecentesca che per noi qui costituisce il tratto che fa la differenza, l’insegnamento dell’arte accoglierebbe in sé un più alto quoziente o coefficiente etico, ed allora − punto politico essenziale − maggior forza esso potrebbe acquisire per rivendicare la sua indisponibilità ad un utilizzo in termini di immediata efficienza produttivo-professionalizzante, insomma per reclamare o battersi in favore della sua “sovrana inutilità”, il cui senso profondo e la profonda necessità sembra oggi andata totalmente perduta. La stessa “inutilità” cui si riferiva Aristotele asserendo che «esiste una forma di educazione nella quale bisogna educare i figli non perché utile né perché necessaria, ma perché liberale e bella» (Politica, 1338a, 30). E qui bisogna raccogliere i premonitori fasci di luce gettati sul nostro presente dalla seconda, ancora schopenhaueriana Inattuale del giovane Nietzsche, redatta nel lontano 1871, Sull’avvenire delle nostre scuole. Accompagnata da un’eccezionale, affilata lucidità, e sorretta da una «consapevolezza quasi marxiano-gramsciana»41 dello status quaestionis, vi si trovano, come noto, affermazioni di staordinaria, precognitiva radicalità in merito al nesso perverso che si è saldato e stretto in modo apparentemente inscalfibile tra l’educazione scolastica e universitaria, da una parte, e, dall’altra, l’utilizzazione e l’addestramento basati sul principio di prestazione efficace di una forza-lavoro intellettuale “allevata” negli istituti educativi e all’interno del sistema statale o degli apparati della produzione e dell’industria culturale nati nella modernità. Quando Nietzsche sostiene con grande e giovanile trasporto che un’autentica Bildung non può che essere e restare libera da qualunque «istinto utilitario» o brama di guadagno materiale e immediato, aggiungendo che ciò suona «quasi incredibile − e in ogni caso biasimevole − alla nostra epoca, ostile a tutto ciò che è inutile» (corsivo ns.)42, lo “spirito del tempo” al quale ci stiamo assuefacendo ci spinge inequivocabilmente quanto drammaticamente a convincerci che egli parli anche della e alla nostra epoca. È a tutti evidente che oggi la scuola nei suoi vari ordini e gradi fino all’Università, e dunque − quantomeno in Italia − l’Accademia di Belle Arti, sta diventando o è già diventata − complice non ultima l’introduzione di un ridicolo, derisorio ed incongruo gergo aziendalistico-economicista − un’“agenzia formativa” (questo l’argot del gregge burocratico-ministeriale) attenta soltanto alle attitudini “professionalizzanti”, preda dell’isteria applicativo-produttiva e obbediente alla logica dell’impresa, in dovere di trasmettere un “pacchetto di competenze” adeguate e compatibili con l’ideologia e il sistema neoliberista, e che ricorda o addirittura replica le scuole di “avviamento professionale” (questo era il loro titulus) in cui negli anni Sessanta del secolo scorso confluivano i figli del proletariato urbano, con il risultato di riprodurre la subalternità della propria condizione sociale. La liturgia del vincolo professionalizzante, l’ideologia dell’“alternanza scuola-lavoro”, la spersonalizzazione della figura dell’insegnante, la completa negazione della stessa radice “ontologica” della scuola come schole-otium per ridefinirla unicamente in termini di negotium, costringono a vedere nel sapere e nel percorso formativo unicamente dei mezzi e strumenti per raggiungere scopi che li oltrepassano. Ed è per questa ragione e a questo fine che ne viene normativamente istituzionalizzata (nei programmi didattici ministeriali, nei piani di studio, nella struttura organizzativa dei corsi di laurea) l’utilità, l’adattabilità e la congruenza pragmatica la più stretta possibile alle esigenze produttive e al raggiungimento di obbiettivi di natura economico-materiale: la scuola-automaton. Ma per evitare o quantomeno allontanare equivoci di vecchia data, che però sempre sorgono intorno alla sua figura e alle sue posizioni filosofico-culturali, occorre fare attenzione alla logica argomentativa del giovane “ribelle” Nietzsche. Perché è precisamente il vincolo stretto e attualmente ancor più soffocante tra l’estendersi “democratico” dell’istruzione tra le masse (o quelle che una volta così si chiamavano), per un verso, e, per l’altro verso, il suo svilimento “impiegatizio” a meri scopi di utilità immediata; è esattamente la critica e la denuncia di un sapere che, avendo di mira la formazione e l’addestramento di funzionari dell’Apparato, si sviluppa solo orizzontalmente perdendo di vista l’indispensabile verticalità; è proprio il fatto che «una rapida cultura» (quanto ci concerne questo corsivo di Nietzsche!) si conceda «soltanto nella misura in cui interessa il guadagno»43: sono queste e non altre le ragioni “strutturali” che portano Nietzsche alla conclusione − apparentemente solo aristocratico-elitaria e certo sgradevole o scandalosa per gli automatismi del senso comune invalso e di un’opinione immobilizzata sulla retorica progressista − secondo cui «la cultura comune a tutti è per l’appunto la barbarie»44. Nulla più di quest’affermazione va letta e intepretata all’interno del contesto argomentativo di cui fa parte e che ne giustifica il senso complessivo e la direzione profonda: estratta e isolata, appare semplicemente reazionaria.

Potremmo fare a questo punto alcuni esempi concreti. Eugenio Barba, ormai stabilitosi definitivamente in Norvegia, nel 1964 entra in contatto con un gruppo di giovani la cui unica aspirazione era quella di diventare attori (e che formeranno il primo nucleo del costituendo Odin Teatret), chiedendo e ottenendo dalla Scuola di teatro di Oslo la lista dei candidati che non avevano superato il concorso di ammissione. Oltre ai celebri salons des refusés della Parigi ottocentesca (rivelatisi come noto fucina degli impressionisti) dove esponevano i pittori e gli scultori respinti dalla commissione giudicatrice che selezionava gli aspiranti alle mostre ufficiali, viene a mente il Cinosarge ateniese dove insegnava Antistene cinico, frequentato, come già abbiamo ricordato, dai nothoi, i figli di nascita illegittima. Ci muoviamo infatti all’interno di situazioni, pratiche e strategie che hanno sì come referente l’istituzione, ma in quanto occasione e luogo di una scelta di campo in favore dell’eccentricità e dell’eccedenza, dell’irregolarità e dell’anomalia.

Sei anni dopo, nel 1971, Joseph Beuys, da dieci anni docente di Scultura Monumentale all’Accademia di Düsseldorf, compie − non sappiamo quanto consapevolmente − il medesimo gesto di Eugenio Barba, e dichiara di voler ammettere nel proprio corso i 142 studenti respinti agli esami di ammissione. Se è vero che ogni essere umano è un artista (questa, lo sappiamo, la sua concezione allargata dell’arte, estesa oltre i suoi tradizionali confini storici, tecnici, estetici), sostiene Beuys, non c’è alcuna ragione per limitare con il numero chiuso l’accesso agli studi d’arte. Ove si ponesse un problema concreto di spazi fisici, Beuys replica alla dirigenza dell’Accademia richiamandosi − non sappiamo, anche qui, se esplicitamente, ma in ogni caso per noi molto significativamente − alle scelte radicali di Diogene il Cane: «Se necessario», dichiara, «posso insegnare in un barile»45. Gli studenti che non avevano superato l’ammissione ufficiale venivano comunque scrupolosamente valutati da Beuys; non però sulla base dei loro lavori o delle cartelle di disegni più o meno accettabili con cui si presentavano alla prevista prima commissione istituzionale, ma «per verificare se gli studi all’Accademia d’arte potessero o meno essere validi per la loro vita» (corsivo ns.)46. L’asimmetria tra magister e allievo, come si vede, è rispettata, ma la valutazione avviene, tuttavia, non secondo il riscontro tecnicistico basato su parametri quantitativo-prestazionali (o addirittura, oggi, logaritmici) atti a verificare e certificare burocraticamente l’introiezione della norma da parte dell’aspirante, bensì secondo una prospettiva didattica e una strategia pedagogica protrettica, tesa a indirizzarlo verso la cura e la pratica di sé attraverso l’arte e i suoi linguaggi.

Dobbiamo però sgombrare il campo da una possibile obiezione. Abbiamo visto precedentemente quanto Beuys incarni la figura dell’artista carismatico, e si può pensare che il carisma non possa venir considerato di per sé insegnabile tanto esso si identifica con la persona che lo esercita, avendone ricevuta per grazia la dotazione. Qui le pagine di Weber che abbiamo già esaminato possono di nuovo venirci in aiuto quantunque si riferiscano, lo ripetiamo, alla dimensione sociologica del politico e del religioso (anche se, e anche questo lo abbiamo precisato, non completamente, e proprio ciò ha contribuito a darci modo di utilizzarle ai nostri fini). «Una volta che l’abilità carismatica è divenuta una qualità oggettiva che può essere trasmessa con un qualche mezzo, all’inizio meramente magico, allora è aperta la via», scrive Weber, «verso la sua metamorfosi da dono di grazia […] in qualcosa in linea di principio acquisibile. Così l’abilità carismatica diviene possibile oggetto di educazione»47. E teniamo in debito conto queste parole, allora si può considerare l’Accademia come uno dei luoghi in cui il carisma viene trasmesso subendo una sorta di secolarizzazione, di laicizzazione, un luogo in cui i doni carismatici, che «in prima battuta non sono considerati insegnabili», possono tuttavia, «laddove sono presenti in forma latente, essere risvegliati attraverso la rinascita dell’intera personalità»48. Che è esattamente − ci si accorderà senza particolari problemi − la strategia pedagogica di cui stiamo argomentando sotto la prospettiva artistica. E non è certo un caso se poche righe dopo Weber fa riferimento anche alla «vita studentesca»49. Da questo punto di vista, ci sembra evidente l’affinità con il nostro tema: è dunque del tutto lecito interpretare l’insegnamento artistico come una delle possibli esemplificazioni dell’educazione carismatica, cioè della trasmissione-oggettivazione del carisma così come l’intende Weber.

D’altra parte Beuys intendeva e frequentava il rapporto didattico nei termini di un’apertura alla possibile alternanza dei soggetti in gioco: si smarcava così da ogni rigido principio d’autorità istituzionalizzata, concependo parresiasticamente il proprio ruolo con l’assunzione del rischio inerente alla sua dislocazione. Attraverso una maieutica di impronta socratica in cui prevaleva l’ascolto e lo stimolo rivolto verso l’interlocutore ad esprimere il proprio pensiero e a metterlo in comune, insegnava attraverso il proprio comportamento; anzi la sua stessa persona esemplarmente intesa era fonte di insegnamento come etica della comunicazione diretta e vivente. Non ci si deve lasciar guidare dalla convinzione, sosteneva, che «chi sa è l’insegnante e l’allievo deve semplicemente stare ad ascoltare. Non si deve ritenere un fatto naturale che l’allievo sia meno capace del professore. Il rapporto insegnamento-apprendimento deve quindi essere aperto e costantemente reversibile. Questo significa l’eliminazione dell’insegnamento e dell’apprendimento come modi o comportamentali istituzionalizzati»50. Ora, qui è interessante osservare come le parole (e la prassi didattico-pedagogica) di Beuys siano perfettamente interpretabili lungo la prospettiva sotto cui Foucault ha distinto le relazioni di potere da quelli che definiva gli stati di dominio. Tutte le relazioni umane sono strutturate e attraversate da dinamiche di potere. Nessuna esclusa. Dunque anche la relazione pedagogica. Ed infatti Beuys, abbiamo visto, non ne rifiuta affatto l’indispensabile, anzi costitutiva asimmetria: si parte sempre da un punto in cui un soggetto sa più di un altro soggetto. Il potere tuttavia non va considerato come un male in sé, dal quale bisogna − magari investiti da un’ansia utopica di trasparenza assoluta e “liberatoria” − affrancarsi ad ogni costo per ritrovare un’edenica e primigenia purezza dei rapporti umani che il potere, appunto, abolirebbe o inquinerebbe. Esso va inteso invece come il referente, la posta in gioco o il punto d’attacco − oltre che di una normatività giuridica, economica, tecnica ecc. − di un ethos, di una pratica di sé che possa svilupparsi il più liberamente possibile in un autentico processo di soggettivazione. «Non vedo che cosa ci sia di male», afferma infatti Foucault in una lunga e importante intervista del 1984, «nella pratica per cui, in un dato gioco di verità, qualcuno che ne sa più di un altro dice a quest’ultimo quello che bisogna fare, insegna, gli trasmette un sapere, gli comunica delle tecniche»51. Il problema è semmai quello di sorvegliare a che le strategie con cui gli individui cercano di determinare o governare la condotta altrui non si trasformino in uno stato di dominio, e ciò accade non appena si arriva a bloccare, a congelare quelle stategie, a immobilizzarle impedendo ogni reversibilità del movimento. I maestri che ci hanno preceduto, scrive Seneca, «non sono i nostri padroni, ma le nostre guide» (Lettere a Lucilio, 33, 11). Come si vede, c’è un’evidente analogia tra le posizioni di Foucault e la mobilità invocata e praticata da Beuys all’interno di un rapporto insegnamento-apprendimento contrassegnato da una vettorialità biunivoca e reversibile in grado di contrastare ogni identificazione o slittamento della coppia magister/allievo in quella privilegio/subalternità52. Queste considerazioni implicano una conseguenza straordinariamente importante soprattutto per l’insegnamento artistico e l’etica in esso racchiusa: un po’ come, ricorda Schopenhauer, Kant evitò «di esporre dalla cattedra la propria dottrina»53, viene qui evocata o invocata la necessaria rinuncia da parte del magister-artista a indirizzare in modi più o meno espliciti o seducenti l’allievo esclusivamente sulle tracce linguistiche ed espressive della propria opera o ricerca individuale. Può essere motivo di riflessione a questo proposito il fatto che dalla scuola di Joseph Beuys, che non dipingeva, sono usciti grandi pittori (ad esempio Blinky Palermo, prematuramente scomparso, e soprattutto Anselm Kiefer), come se davvero l’oggetto-non-oggettivo del suo insegnamento accademico − riecheggiando in qualche modo quello di Grotowski − non fosse “fare” l’artista ma prima di tutto essere artista, indipendentemente dai linguaggi adottati e praticando ogni possibilità espressiva che questa forma di vita, questo tropos dell’esistenza può liberare. Non scolae sed vita discimus, era la celebre massima dei maestri medievali54. Nel 1972 Beuys viene destituito dalla cattedra di docente, e c’è una celebre fotografia che lo ritrae sorridente e trionfante, seguito dai suoi studenti, mentre esce definitivamente dall’Accademia tra due ali di poliziotti dopo il suo licenziamento.

Un altro esempio di pedagogia artistica in linea con i precedenti e metodologicamente molto simile (sia ciò più o meno intenzionale) alla pedagogia teatrale di Grotowski e Barba, può essere quello di Marina Abramovič, fondatrice dell’IPG (Independent Performance Group), una scuola di formazione per giovani artisti. In occasione della sua memorabile mostra al MOMA di New York The Artist is Present, in cui la performer è stata tutti i giorni per tre mesi («Se una performance dura tre mesi, diventa come la vita», dichiara l’artista55) seduta in silenzio a disposizione degli spettatori che, uno alla volta, potevano sedersi davanti a lei e scambiare (talora con risultati emotivi molto forti) l’intensità di uno sguardo prolungato, l’artista ha scelto trenta dei suoi allievi incaricandoli di ricreare − in contemporanea con la sua azione negli spazi del museo − alcune delle sue performances storiche. Per prepararli a questo grande impegno, Marina Abramovič − utilizzando parte degli esercizi svolti all’IPG − ha organizzato uno stage in cui il gruppo ha vissuto per tre giorni a stretto contatto con la natura, in completo isolamento cenobitico, a digiuno, in totale silenzio, così che officium vòlto alla preparazione della mostra ed esperienza di vita come azione di sé su di sé, come prassi autocostitutiva, si attraversassero reciprocamente. Si crea in tal modo uno spaziotempo fortemente carismatico in cui il singolo − praticando una serie di esercizi fisico-spirituali segnati da una ritualità severamente scandita − deve fare il vuoto in sé stesso e concentrarsi sull’hic et nunc, sull’immediato presente. Il tipo di training antropotecnico indirizzato all’espressività del corpo-mente e nutrito, come evidente, di metodologie provenienti dalle culture orientali è appunto analogo a quello specificamente teatrale di Grotowski, Barba e certo anche del Living. «L’artista deve essere un guerriero, per conquistare sé stesso», afferma Marina Abramovič56: la cura sui e la pratica di sé diventano il perno e la leva su cui operare un avvicinamento fino a distanza zero tra techne artistica ed ethos, tra “opera” e stilizzazione di sé.

Questa attitudine “auto-operativa” è peraltro direttamente proporzionale alla progressiva autonomia che l’allievo deve sapersi conquistare. Insegnare l’arte significa prima di ogni altra cosa, lo abbiamo visto, insegnare a far da sé. Perché sta precisamente qui il nesso che collega l’ethos come processo di soggettivazione alla progressiva indipendenza dal magister. Un nesso già messo in luce da Foucault, per quanto riguarda le pratiche dell’antichità, in un’intervista del 1984: «Sotto l’Impero [romano] si insegnava ai giovani a comportarsi bene durante le lezioni, in seguito, ma solo in seguito, si insegnava loro a formulare domande, poi a esprimere le loro opinioni, a formulare queste opinioni in forma di lezione e infine in forma didattica»57. Insegnare (secondo Freud, come noto, una delle tre “professioni impossibili” assieme a quella di governare e psicoanalizzare) è certamente, in termini foucaultiani, una tecnica di governo degli altri. Essa deve però innescare nell’allievo o nel discente un processo di soggettivazione che possa condurlo ad autogovernarsi. Il magister deve perciò condurre (e deve avere gli strumenti pedagogici per saperlo fare) una vera e propria pratica di natura etopoietica, che produce e modifica la relazione di sé con sé da parte dell’allievo. Dunque quando Nietzsche biasima il fatto che tra gli insegnanti «mancano i talenti realmente inventivi», capaci di comprendere concettualmente e operativamente che «la vera genialità e la vera prassi devono necessariamente incontrarsi nel medesimo individuo»58, egli sembra auspicare l’avvento di un tipo di magister analogo a quello di cui andiamo delineando il possibile ma necessario profilo. Rispetto ad altre tipologie pedagogiche o alla trasmissione di altri saperi e contenuti didattici, nell’insegnamento artistico il docente ha l’opportunità − che spesso si configura in una responsabilità − di sviluppare un rapporto più ravvicinato con il singolo allievo, e di curare con la dovuta attenzione le dinamiche di natura personale che nell’ambito di tale rapporto si innescano. Questa specificità è dovuta ovviamente in prima istanza alla maggiore mobilitazione della dimensione emozionale-espressiva che si verifica nell’esperienza artistica rispetto ad altri percorsi o contentuti didattici. Si tratta di una specificità del tutto evidente che è, come si dice, “nelle cose”; ma questa evidenza, ripetiamo, è generalmente irriconosciuta o non riesce ad emergere come dovrebbe e meriterebbe all’attenzione dei pedagogisti e degli studiosi della formazione. Se è vero che «il rapporto di docenza», scriveva Roland Barthes, «non è altro che il transfert da esso stesso istituito», se è vero che il docente chiede al discente «di lasciarsi sedurre, di prestarsi a un rapporto amoroso», e se è vero anche che il discente chiede al docente «di essere un iniziatore all’ascesi, un guru»59, allora con ogni probabilità non è possibile immaginare un luogo istituzionale o un dispositivo più suscettibile di produrre fenomeni di transfert tra allievo e docente quanto l’insegnamento artistico. E di più: se è altrettanto vero che «il maestro è colui che sa dislocare il transfert amoroso mobilitato dall’allievo dalla sua persona all’oggetto del sapere»60, allora è precisamente con l’insegnamento artistico che questo passaggio si fa più impegnativo, complesso e oggetto di una cura particolare, proprio perché al suo interno la persona o la personalità stessa del magister assume una valenza carismatica e fascinatrice che in certi casi può implicare il ruolo, direbbe Foucault, di “direttore di coscienza”. D’altra parte abbiamo già analizzato questo passaggio occupandoci della pedagogia teatrale di Grotowski. E ciò è tanto più vero, ripetiamo, quando il quoziente etico, come lo abbiamo chiamato, incide maggiormente nella relazione didattica, cioè quando il docente opera in conseguenza di quel viraggio verso il bios e l’“assenza d’opera” che rappresenta il legato non solo artisticamente ma anche filosoficamente più intenso (e, aggiungiamo, interessante) delle avanguardie novecentesche. Il suo compito appare dunque delicatissimo, esposto all’equivoco, al malinteso, a rischi di plagio e di subornazione personale. Occorre perciò da parte del magister grande attenzione, cautela, intelligenza psicologica, sensibilità.

Resta che tutto un versante dell’arte del Novecento − per molti versi, appunto, quello storicamente e filosoficamente più significativo per aver segnato una più netta discontinuità con il passato − pone un problema etico, cioè di relazione di sé a sé. Se questo è vero, allora l’insegnamento artistico che di tale discontinuità vuole essere maggiormente consapevole ed erede è tra tutti gli altri quello che ha il preciso dovere di trarne tutte le opportune conseguenze didattico-pedagogiche; quello in cui, come dicevano i latini e come ripete l’Eupalinos di Valéry, fabricando fabricamur, ‘costruendo ci costruiamo’. È la pratica in cui non tanto apprendere le condizioni di conoscibilità-riproducibilità dell’oggetto, quanto quelle di trasformabilità creativa ed espressiva dei propri assetti soggettivi e del tropos, del modo della propria vita; il luogo tra tutti privilegiato in cui, nell’ambito del rapporto didattico-pedagogico, il processo di autopoiesi non è diverso dal domandarsi a quali condizioni e con quali pratiche i linguaggi artistici possono imprimere e conferire una forma non solo alla materia ma alla vita o fare della propria vita la materia, dando uno stile alla propria esistenza, al proprio bios. Ancor più impegnativo e delicato, appunto, diventa in questo caso il compito del maestro e dell’educatore, del docente o dell’insegnante che lavorano a partire da quel viraggio verificatosi nelle arti novecentesche: perché va oltre l’insegnabile per affidarsi all’unicamente testimoniabile, anche al di là di quanto ciò non si verifichi già − questo è il punto − nell’esibizione del fare produttivo. Una didake che, quasi come nella pratica dei maestri zen, può anche arrivare ad essere efficace proprio perché “senza contenuti”, un insegnamento che non insegna “nulla”, o meglio privo di “insegnamenti”. Ed ecco perché proprio qui acquisisce un carattere di verità e di urgenza un breve folgorante aforisma di uno che aveva capito quasi tutto, e quello che non aveva capito lo considerava la sua stella polare, un aforisma del più grande scrittore taoista del xx secolo, Franz Kafka: «Il compito sei tu. Da nessuna parte si vede un alunno»61.

1 I. Kant, Critica della ragion pura (1781); trad. it. Laterza, Roma-Bari 1977, p. 632 e p. 633.

2 Op. cit., p. 633. Abbiamo già visto nel capitolo su Rousseau che Kant, in modo più corsivo ma del tutto analogo nei suoi passaggi, affronta questo tema nelle lezioni raccolte nell’Enciclopedia filosofica.

3 Ibidem.

4 Op. cit., p. 634.

5 Ibidem.

6 Ibidem. E qui Kant, in conformità all’orizzonte storico appena dischiuso, forse avrebbe potuto aggiungere (come invece aveva fatto appunto nell’Enciclopedia): perlomeno ai nostri tempi − così diversi da quelli in cui vita e sapere, conoscenza e prassi erano uno− cioè in quel Moderno che lui stesso stava contribuendo così decisivamente a delineare.

7 Op. cit., p. 635.

8 I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 169.

9 Op. cit., p. 166.

10 Sull’importanza del concetto di esempio nel pensiero kantiano (sia esso Exempel, inteso sul piano morale, o Beispiel, inteso in senso illustrativo) cfr. M. Ferraris, Kant e l’esemplarità dell’esempio in Filosofia ’94, a cura di G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1995; per quanto riguarda invece particolarmente l’afferenza estetica, cfr. P. Montani, Estetica ed ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1996, al cap. “L’opera d’arte come esempio. Kant”.

11 I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 168.

12 I. Kant, Lezioni di etica (1775-1781); trad. it. Laterza, Roma-Bari 1971, pp. 127-8.

13 I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 113.

14 I. Kant, Critica del Giudizio, cit., pp. 162-3.

15 R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. Feltrinelli, Milano 1980, p. 41.

16 F. Hölderlin, Note all’Edipo, in Scritti di estetica, cit., questa e tutte le altre citazioni dal testo sono a p. 137. Abbiamo utilizzato, oltre a quella di R. Ruschi, anche la traduzione di G. Pasquinelli e R. Bodei (Sul tragico, trad. it. Feltrinelli, Milano 1980).

17 «La forma razionale, che qui si configura tragicamente, è politica, e certamente repubblicana», scrive Hölderlin nelle Note all’Antigone a proposito dell’equilibrio strutturale che egli rileva tra il “peso” espressivo e compositivo “calcolato” da Sofocle per il personaggio di Creonte e quello per il personaggio di Antigone (Scritti di estetica, cit., p. 150).

18 Scritti di estetica, cit., p. 162. Redatto probabilmente nel 1797, il testo, scoperto nel 1913, non trova però concorde attribuzione tra gli specialisti, che ne hanno assegnato la paternità alternativamente a Hölderlin, a Schiller e a Hegel.

19 A. Mecacci, La mimesis del possibile. Approssimazioni a Hölderlin, Pendragon, Bologna 2006, p. 74, ma cfr. tutto il cap. “Da Tubinga a Tebe. Sofocle e Hölderlin”.

20 M. Blanchot, La parole “sacrée” de Hölderlin, in La part du feu, cit., p. 131.

21 Cfr. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin (1981); trad. it. Adelphi, Milano 1988, in particolare pp. 171-80.

22 È interessante osservare che la necessità di un’assoluta fidatezza del medium la ritroveremo quasi letteralmente in Artaud, nel Primo Manifesto del Teatro della Crudeltà: «Quel che conta è valersi di mezzi sicuri per rendere la sensibilità capace di percezioni più sottili e più approfondite», in Il teatro e il suo doppio, cit., p. 206.

23 Cfr. A. Webern, Verso la nuova musica (1960); trad. it. Bompiani, Milano 1963, pp. 121-2. Ma questi motivi hölderliniani evocano anche il “costruire pensando” di Adolf Loos e la sua grammatica costruttiva ispirata all’“affidabilità” dell’architettura greca e romana.

24 P. Valéry, Eupalinos o l’Architetto (1921), in Tre dialoghi, trad. it. Einaudi, Torino 1990, p. 58. Sul motivo dell’operari poietico in dialettica con il ‘senso vivente’, cfr. il ns. La mosca di Dreyer, cit., al capitolo La tecnica e la grazia.

25 J.J. Rousseau, Emilio, cit., p. 9.

26 W. Gropius, Programma del Bauhaus statale di Weimar, in H.M. Wingler, Il Bauhaus. Weimar Dessau Berlino 1919-1933 (1962); trad. it. Feltrinelli, Milano 1972, p. 37.

27 J. Lacan, Il mio insegnamento e Io parlo ai muri, cit., p. 17.

28 Cfr. su questo paradosso dell’apprendimento anche V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente (1980); trad. it. Einaudi, Torino 2011, pp. 273-6.

29 Cfr. M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014.

30 Cfr. M. Donà, Arte e Accademia, in «Àgalma», marzo 2005.

31 «L’Accademia è l’equivalente architettonico di ciò che Husserl apostrofò come epoché», afferma P. Sloterdijk in Stato di morte apparente, cit., p. 69; ma vedi anche pp. 79-81 e 96-9. La fondazione dell’Akademeia come “equivalente” spaziale del pensiero fa parte integrante dell’archeologia della teoresi. Sull’istituzione platonica cfr. anche E. Berti, Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, Roma-Bari 2010.

32 L. Pareyson, Estetica (1954), ed. riveduta, Sansoni, Firenze 1974, p. 156. Sono pagine straordinarie, queste dedicate alla formazione dell’artista (156-63, ma cfr. anche 167-8), che non soltanto sviluppano fruttuosamente la lezione kantiana circa l’equilibrio tra genialità-originalità e applicatio delle regulae («non c’è altra via all’originalità che l’imitazione», p. 158), ma che dovrebbero essere lette con grande attenzione da ogni attuale “maestro”.

33 S. Kierkegaard, Briciole di filosofia (1844); trad. it. in Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 212. E di più: «La trasparenza dell’esistenza esige che si sia ciò che si insegna», in Diario, trad. it. Morcelliana, Brescia 1962, p. 134.

34 T.W. Adorno, Parole chiave (1969); trad. it. SugarCo, Milano 1978, pp. 112-3.

35 «Gli allievi, prima di tutto e per lo più, sono atleti in divenire» scrive Sloterdijk, «per non dire acrobati che bisogna mantenere in forma», in Devi cambiare la tua vita, cit., p. 205.

36 J.J. Rousseau, Emilio, cit., p. 95.

37 Shen Dao, il quale usava ripetere che «il sapere non sa», frequentò la scuola di Peng Meng dove «apprese come si fa a non insegnare» (Zhuang-zi [Chuang-tzu], cit., pp. 312 e 313).

38 Abbiamo già ampiamente attraversato questo tema a proposito di Duchamp. «Schole mai si sarebbe “tradotta” in “studio” se da sempre anche non lo fosse» (M. Cacciari, Dell’inizio, cit., p. 430).

39 Cfr. le lunghe pagine dedicate da Foucault alla relazione pedagogica in L’ermeneutica del soggetto, cit.

40 Questa specificità non solo didattico-pedagogica ma più ampiamente filosofica dell’insegnamento artistico (men che meno nella versione che stiamo discutendo e auspicando) è ignorata o comunque non riconosciuta dagli studi sulla formazione. Può darsi che sia ancora all’opera un pregiudizio (che comunque non fa onore agli studiosi del settore) derivante dalla sua pretesa e in ogni caso (appunto: è la nostra tesi) del tutto malintesa natura esclusivamente tecnico-artigianale. Non ne troviamo alcuna traccia, ad esempio, in due lavori peraltro importanti: né in Lavorare di cuore. Il desiderio nelle professioni educative, a cura di J. Orsenigo, Franco Angeli, Milano 2010, né in E. de Conciliis, Che cosa significa insegnare?, Cronopio, Napoli 2014. Cfr. anche il n. 358 del 2013 della rivista «aut-aut», interamente dedicato a La scuola impossibile. Nel suo L’ora di lezione, cit., M. Recalcati fa soltanto un riferimento fugace (anche se non del tutto incidentale nel suo percorso argomentativo) all’insegnamento di Emilio Vedova, cfr. pp. 44-6. Per quanto riguarda invece una disamina specifica che proviene dal “fronte interno” delle arti, ma che comunque non trae le conseguenze didattico-pedagogiche del viraggio verso il bios delle correnti novecentesche, cfr. Y. Michaud, Insegnare l’arte? (1999); trad. it. Idea, Roma 2010.

41 E. de Conciliis, Che cosa significa insegnare?, cit., p. 126.

42 F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole (1871); trad. it. Adelphi, Milano 2012, p. 27. Lo Stato − sostiene Sloterdijk sulla scia delle considerazioni di Nietzsche −, pensando e organizzando la scuola come una macchina, si assume il compito della produzione cognitiva delle donne e degli uomini, quindi «ritiene di agire nel proprio consapevole interesse, autorizzando i pedagoghi a occuparsi dei giovani già in tenera età, per aggiogarli fin dai loro primi passi a un curriculum orientato all’ampia utilizzabilità» (Devi cambiare la tua vita, cit., p. 427).

43 F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, cit., p. 32. La più preziosa regola dell’educazione, aveva già affermato Rousseau nell’Emilio, è quella «non già di guadagnar tempo, ma di perderne!», o meglio essa è un mestiere «in cui bisogna saper perdere tempo per guadagnarne» (cit., pp. 94 e 171).

44 Op. cit., p. 33.

45 Cit. in L. De Domizio Durini, Il cappello di feltro. Joseph Beuys, cit., pp. 40-1.

46 Op. cit., p. 42.

47 M. Weber, Economia e società. Dominio, cit., p. 546.

48 Op. cit., p. 547.

49 Op. cit., p. 548.

50 Cit. in L. De Domizio Durini, Il cappello di feltro. Joseph Beuys, cit., p. 41. «Essere un maestro non significa dire: “È così”», aveva già socraticamente affermato Kierkegaard, «non significa neanche impartire lezioni, e simili, no: essere un maestro significa, in verità, essere discepolo. L’insegnamento comincia quando tu, maestro, impari dal discepolo, quando tu ti trasferisci in ciò che ha compreso, e nel modo in cui ha compreso», cit. in P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 97. E nel Diario: «È sempre uno sbaglio esporre un’etica che non esercita sul maestro tale potere così ch’egli stesso l’esprima nella sua vita», cit., p. 228.

51 M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit., p. 291.

52 «Il problema non è di abolire la distinzione tra le funzioni», sostiene Roland Barthes in un testo del 1971 apparso su «Tel Quel», «ma di proteggere l’instabilità, e, per così dire, la “vertigine” dei luoghi di parola», ora in Scrittori, Intellettuali, Professori, in Il brusio della lingua (1984); trad. it. Einaudi, Torino 1988, p. 334.

53 A. Schopenhauer, La filosofia delle università, cit., p. 37.

54 Dichiara l’artista Alberto Garutti con parole significative ed appropriate: «Oggi l’arte è l’unico insegnamento rimasto per la vita. Si insegna un atteggiamento, un’attitudine, come avvicinarsi al mondo, come sopravvivere. È l’ultima vera éducation sentimentale, dove sentimentale non vuol dire “di buoni sentimenti”, ma rimanda a un’educazione alla sensibilità, quella della letteratura che ci siamo lasciati dietro, quella della vera nobiltà d’animo che non è erudizione e nemmeno sfoggio ma educazione alla comprensione e al rispetto dei sentimenti altrui […] È necessario operare uno spostamento linguistico e non populistico, sviluppando un atteggiamento che coinvolga le persone affettuosamente», in A. Detheridge, Scultori della speranza. L’arte nel contesto della globalizzazione, Einaudi, Torino 2012, p. 232.

55 «Work», estate 2005. E nella stessa intervista aggiunge: «bisogna avere una disciplina capace di influenzare completamente la propria vita; in questo senso si può dire che la performance è anche una preparazione alla vita».

56 Cfr. M. Abramovič, The artist is Present, dvd, Feltrinelli, Milano 2012.

57 M. Foucault, Il ritorno della morale, in Archivio Foucault 3, cit., p. 266. Come si vede, il modello è ancora quello tracciato da Platone nel Protagora.

58 F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, cit., p. 38.

59 R. Barthes, Scrittori, Intellettuali, Professori, cit., pp. 325 e 326.

60 M. Recalcati, L’ora di lezione, cit., p. 47.

61 F. Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, in Confessioni e diari, cit., p. 795. «Non esiste né l’insegnante né il discente», e «nemmeno esiste apprendimento e insegnamento», scriveva nella sua radicalità scettica Sesto Empirico (Schizzi Pirroniani III, 265 e 267).