Capitolo terzo
IL GENIO INOPEROSO DUCHAMP E OLTRE
Aggirare i paradossi invece di affrontarli, eludere le aporie invece di percorrerle, è sempre un’operazione pacificante. Iniziamo allora con un interrogativo paradossale: di chi e di che cosa parliamo quando parliamo di Marcel Duchamp? Qual è la natura e lo statuto del quid che affrontiamo? Certo: di dada e di Duchamp hanno scritto critici e storici dell’arte; in ogni manuale vi si trova un ponderoso capitolo; se ne sono organizzate e se ne organizzeranno mostre nei musei di tutto il mondo. Ma questo, in fondo, vuol dire tutto e nulla. O ben poco. E soprattutto non significa che considerare dada solo un movimento “artistico” e Duchamp solo un “artista” in base ad una tradizione “disciplinare”-istituzionale, non si riveli alla fine non un riscontro fattuale di ciò che va da sé, ma già un giudizio. Perché appunto di questo si tratta: non è un dato di fatto come parrebbe (o quantomeno dovremmo disabituarci a ritenerlo tale) ma già una valutazione, già un’interpretazione. Non riusciremo mai a comprendere l’ètimo, lo spirito autentico della figura e del percorso di Duchamp se lo lasciamo o lo affidiamo unicamente al rilievo specialistico e disciplinare dei critici e degli storici dell’arte o all’attenzione gestionale dei curatori. Niente potremo concettualmente afferrare di dada e di Duchamp se li riduciamo agli schemi storicistico-progressivi, all’avvicendarsi delle tecniche artistiche, dei “contenuti” e via banalizzando. Dada non appartiene solo all’arte, appartiene alla storia del pensiero occidentale che, nella sua fase estrema, punta gli strali contro sé stesso. Senza questa prospettiva filosofica, vale ben poco il Duchamp dei critici e degli storici dell’arte.
Associandolo (e la cosa, com’è del tutto evidente, ci riguarda da vicino) a quello che chiama il neokinismo della modernità, Sloterdijk scrive che «nel nocciolo, dada non è un movimento artistico, né antiartistico, ma piuttosto una radicale “offensiva filosofica”»1. Ma già Theo van Doesburg, alla nascita del fenomeno, affermava icasticamente che «dada non è un movimento artistico»2. Precisiamo, però. Ciò accade non solo perché, come pure dichiara lo stesso Duchamp, «dada non aveva niente a che vedere con le arti plastiche»3. Non solo e non tanto, vogliamo dire, perché prendeva definitivo congedo − affidandosi ad una pratica sostanzialmente performativa − dalla pittura e dalla scultura (questo sì è rilievo storicamente e “tecnicamente” connotato, ma perciostesso limitato); e neanche perché non si pone più il problema di che cosa rappresentare ma mette in crisi la rappresentazione stessa, rompe con ogni attività “raffigurativa” (non è, questo, un apporto specifico di dada, e basti qui ricordare il percorso “visionario” di Malevič, ma anche di tanti esiti delle avanguardie storiche). La ragione più intima − e al contempo così evidente − sta nel fatto che dada, assumendo l’arbitrio a paradossale e impossibile norma di vita, de-lira, cioè letteralmente esce dal solco, svia o de-via da qualcosa di preventivamente circoscritto in cui ci sentiamo “a casa”: dal senso, dal ruolo, dalla funzione storicamente assegnati all’attività di una techne chiamata “artistica”, proprio perché questa è negata come fine e “riattrezzata” a mezzo di rifondazione del comportamento soggettivo e sociale. Essa deraglia dunque dai confini tradizionali che ne perimetravano il campo e le prestazioni fino ai limiti (e per certi versi varcandoli) della sua stessa riconoscibilità istituzionale e perfino designativa, nominale4. Siamo di fronte ad un’operazione meta-artistica che modifica e ritrascrive lo statuto stesso di ciò che si definisce come arte, prendendo definitivo congedo da ogni forma di mediazione estetica. Sotto questo profilo, il genio di Duchamp ha rimesso in gioco − e più o meno deliberatamente ne ha fatto una posta − la tassonomia o la classificazione delle attività umane, ha scompaginato la distribuzione storicamente determinata delle loro prestazioni e dei loro confini reciproci: mettendone a nudo il carattere convenzionale e revocabile, come fecero Diogene e Pirrone con le condizioni stesse della comunicazione filosofica. Da questa particolare prospettiva, appare lecito affermare che Duchamp delegittima la distinzione di derivazione platonica delle specie e dei generi associata alla decifrazione-distribuzione per categorie pure, “rivelando” che non esistono accordi preventivi o di principio in base ai quali si devono normativamente produrre e apprezzare le opere d’arte né separarle a priori da altre attività. Soprattutto per questo motivo, non si può affatto ridurre, confinare e quindi in certo modo neutralizzare la figura e la prestazione di Duchamp (com’è ormai invalso non solo nell’uso della communis opinio ma anche negli automatismi degli storici e dei critici) a quella di un genio proverbialmente “provocatore”, “scandaloso”, “ironico”. La grandezza e la genialità di Duchamp stanno nell’aver operato un radicale cambiamento di paradigma, nell’aver rappresentato una matrice aperta a futuri sviluppi, nell’aver inventato un orizzonte prima inesistente. Ove la cultura moderna celebra l’arte pensando l’opera come l’effetto di una creazione e l’artista come il suo creatore, Duchamp rimette in questione o addirittura nega la categoria di produzione individuale. Ove la tecnica celebra sé stessa come fattore di re-incantamento del mondo, la fondamentale a-tecnicità del suo procedere inventivo ne depotenzia la hybris laicizzandone i caratteri nella dimensione dell’inespressività propria al banale e al quotidiano. In questo senso, la de-produzione di Duchamp rappresenta un paradigma trans-storico che si sottrae alla competizione sulla cosiddetta “attualità”. Attraverso il superamento della coscienza estetica, emerge la kenosis dadaista (si potrebbe parlare anche in questo caso di una categoria teologica secolarizzata), cioè l’abbassamento-svuotamento dell’arte per ricongiungerla, fino a illocalizzarne i confini reciproci, all’immediatezza del reale e della vita oltre ogni autonoma apparenza estetica. A venir meno è l’artisticità peculiare del fare artistico (ma non della pratica artistica, anzi questo fare è messo in questione precisamente in una pratica); ed è per questa ragione che cede o si rende evanescente, labile, impercettibile la distinzione di fonte platonica tra apparenza estetica e realtà. Dopo dada e Duchamp, messo definitivamente in crisi lo stadio estetico dell’arte, quella che appunto il lessico occidentale chiama ancora “arte” è diventato un luogo che accoglie pratiche anomale, eteroclite, devianti, offrendo loro una sorta di asilo che non troverebbero altrove. Molti degli attuali indirizzi delle pratiche artistiche contemporanee non fanno altro che confermarlo con un’evidenza che va al di là di ogni possibile dubbio5.
È vero che Duchamp si è spesso dichiarato personalmente estraneo alla “specie” degli artisti, alla retorica creativa e alla ritualità sociale di cui sono più o meno involontarie vittime o involontari protagonisti. Ed è vero − come nota Octavio Paz nel più bel libro che sia stato scritto su di lui − che a ben vedere la «sua unica occupazione permanente», quella che lo ha impegnato lungo tutta la sua vita non è stata l’“arte” ma gli scacchi6. Non è neppure questo il punto, però, anche se la seconda considerazione ha palesemente più di un nesso con la prospettiva che intendiamo qui sviluppare. Certo si potrebbe anche dire che, come Jünger teorizzava la figura dell’an-arca, così per Duchamp potremmo pensare alla figura dell’an-artista, colui che in qualche modo fa epoché, si astiene con un sovrano e pirroniano no comment dal “problema” dell’arte o meglio dall’arte considerata, valutata come un “problema”7. Ma queste sono soltanto definizioni che lasciano (per definizione) molto del tempo che trovano. Come che sia, Duchamp ha preso un congedo così radicale da ogni forma di mediazione estetica, ha operato in termini così forti, evidenti e coerenti un controdiscorso rispetto all’immagine dell’arte e al perimetro del suo “a priori storico” che, se vogliamo davvero trarne le conseguenze, una sua riconsiderazione in chiave più specificamente etico-filosofica (secondo l’accezione sia di ethos sia di “filosofia” che siamo andati fin qui perseguendo nella nostra ricerca) appare quasi obbligata e comunque perfettamente congruente.
«Vincent van Gogh non appartiene alla storia dell’arte», scriveva Georges Bataille in un articolo del 19378. Qualcosa di molto simile potremmo ripetere per Marcel Duchamp. Ma come assumere radicalmente quest’affermazione? Non si tratta di “traslocare”, con una pretesa a sua volta manualistico-disciplinare, Duchamp dall’“arte” alla “filosofia”, come se fossero dominî istituzionalmente in sé conclusi, monadi indipendenti l’una dall’altra, “dottrine” precostituite. Sarebbe letteralmente insensato e ineffettuale. Si tratta invece − mantenendo viva la tensione che non deve cessare di crearsi tra i due poli, e insieme affidandosi all’“infinito intrattenimento” che da sempre li unisce − di mettersi sulla tracce della costellazione filosofica in cui si inserisce l’arte di Marcel Duchamp: per riconfigurarne i punti nodali, le intersezioni che ne disegnano il perimetro mobile. È la strada che qui intendiamo percorrere.
Facciamo un primo passo. In stretta connessione con quanto appena detto (ne rappresenta anzi un aspetto decisivo e forse anche una logica conseguenza) bisogna sottolineare che la “poetica” duchampiana si pone in perfetta e compiuta antitesi rispetto ad ogni principio ispirato all’art pour l’art comunque la si intenda. La techne, la pratica artistica (di cui, come vedremo analiticamente, anche l’apparente inversione costituita dal silenzio e dall’esonero fa parte integrante) vengono considerate come uno strumento, un mezzo-per, come qualcosa che sta al servizio-di. Ad esempio al servizio di una pulizia o una “liberazione” mentale. Completa e definitiva, disincantata, “laica” de-sublimazione e de-ontologizzazione scettica dell’arte: di essa, come di un utensile, si deve fare uso9. Erroneo o addirittura dannoso sarebbe pretendere di asseverarne un “in sé” eroico-mitologizzante teso a raffigurare sensibilmente l’intuizione dell’Idea iperurania. L’arte concettuale che origina da Duchamp è sì un’arte “di idee”, ma nient’affatto in questo senso10. Un quadro non è un oggetto da guardare, non è un obiectum privilegiato su cui si arresta e non procede, oltre cui non va lo sguardo; è piuttosto una superficie attraverso cui guardare (il Grande Vetro, certo; ma non bisognerà forse pensare anche al guardare attraverso della strategia filosofica di Wittgenstein?); ed il quadro Da guardare con un occhio solo, da vicino, per almeno un’ora è il colpo di humour (tema centrale, come noto, in Duchamp) che non fa altro se non denunciare la limitatezza e la “miseria” del pregiudizio retinico per rinviare concettualmente all’occhio mentale (ed in fondo non è forse vero che “ciò che” sappiamo-nominiamo di un quadro, di un’immagine non è “ciò che” vediamo?).
Ma in quale contesto interpretativo e storico-concettuale innestare questo motivo duchampiano? Poco o nulla comprendiamo dell’ètimo stesso delle arti moderno-contemporanee – anche e soprattutto nei loro esiti più recenti, che tanto devono a Duchamp – se continuiamo a ragionare nei termini rigidi e poco maneggevoli di oggetto e di opera. Bisogna ragionare in termini di pratica. Tale la prestazione gnoseologica propria delle arti moderno-contemporanee: esse attestano operativamente, “creativamente”, che non si dà alcun oggetto al di fuori della pratica che lo istituisce, che non ci sono oggetti esterni alle pratiche che li coinvolgono e li lavorano. Certo, il senso comune dice che se non hai mani non afferri, se non hai orecchi non odi. Ma l’elaborazione filosofica rovescia questa ovvietà organicista: senza l’afferrare non ci sono mani, senza l’udire non ci sono orecchi. Noi siamo le pratiche che abitiamo e che esercitiamo. Forse è per questa immediata vicinanza che spesso le ignoriamo, le crediamo prive di conseguenze, le presupponiamo come un che di irriflesso11. Da Duchamp in poi, le arti contemporanee ci aiutano a vedere le pratiche con cui incessantemente rimodelliamo i significati del mondo. Sta qui, se vogliamo, il loro apporto epistemologicamente “costruttivista”; sta qui, certamente, il loro aspetto disvelante, anti-illusionistico, critico-dissolutorio. Si è sostenuto che il gesto inaugurato da Duchamp con il readymade può in certo modo ritenersi la versione artistica dell’imperativo filosofico husserliano del “ritorno alle cosé stesse”, alla loro costituzione sorgiva, precategoriale, anticipatrice di ogni possibile tesi. Si tratta invece dell’opposto, della dimostrazione concreta ed operativa (sulla scia dei presocratici, degli scettici, degli cinici, dei sapienti orientali i quali, già lo sappiamo, mostravano e non “descrivevano”) che la “cosa stessa” non esiste se non nella prassi che la istituisce, così come non esiste un soggetto “nudo” e originario al di fuori di una pratica di pensiero che lo pensa come tale ma che perciostesso, appunto, lo rende inevitabilmente derivato. Nulla si rivela e sta nella presenza, nulla si espone e nulla si mostra se non in virtù di una pratica che lo consente, cioè che istituisce e coordina queste operazioni. Qualcosa come un oggetto, compresa la sua stessa ri-nominazione, consegue ai ritagli e alle figure della prassi. La dislocazione duchampiana dell’oggetto comune, del qualunque cosa come tale − che diventa per tutta l’arte della tarda modernità una sorta di prêt-à-porter filosofico −, la scommessa sugli stessi margini di riconoscibilità dell’operazione artistica, sono a questo proposito di una chiarezza assoluta.
Stabilito questo quadro di massima, dovrà dirsi allora che, se per Duchamp (e certo per gran parte delle avanguardie novecentesche, della prima e della seconda metà del secolo, comprese, lo vedremo, quelle teatrali) l’arte è un veicolo, uno strumento, occorrerà avanzare un’altra riflessione di carattere storico-filosofico più generale (ma nient’affatto “generica”). Perché, nell’abbandono pressoché totale di ogni autonoma apparenza estetica, è come se l’arte, appena raggiunto lo zenith dell’autonomia linguistico-espressiva e della definitiva secolarizzazione, appena affrancata dalle potenze mondane o ultraterrene, laiche o religiose, giungesse o si scoprisse al nadir di una nuova ma nello stesso tempo antica o arcaica eteronomia − epperò stavolta voluta, deliberata, intenzionata −, insomma alla compiuta coscienza storica, filosofica e operativa del suo essere-per-altro. D’altronde, quella che si è recentemente chiamata “arte pubblica” e tutte le correnti più dichiaratamente performative delle pratiche artistiche attuali più o meno ipertecnologicamente assistite, e indirizzate in modo esplicito a connettersi con la dimensione politica e la sfera delle esperienze socialmente condivise, non fanno altro che attestare − testimoniandone in qualche modo l’eredità e l’autorità − che questo motivo dell’arte intesa come strumento e mezzo-per, non è affatto sigillato all’interno di una fase storica ormai perenta.
Bene. L’arte non è più un fine, uno scopo in sé stessa, ma un’attività protrettica, cioè, già lo sappiamo, rivolta-a, indirizzata-verso; è pensata e praticata come un mezzo esemplare per scardinare modi di vita ossificati e rifondare creativamente il comportamento sia individuale sia sociale. Ma se dell’arte bisogna fare uso, se è un veicolo, qual è più precisamente l’uso privilegiato − anche se non l’unico − cui dovrebbe prestarsi, di che cosa sarà veicolo? La risposta può suonare per molti versi eccentrica e paradossale: cosa però che, trattandosi di Duchamp, non dovrebbe sorprendere. Come nelle scuole socratiche dell’ellenismo − ma per la prima volta in Pitagora e nella setta pitagorica − il compito della filosofia viene spesso indicato, già lo sappiamo, con il termine therapeuin, cioè (attraverso la cura sui, la pratica di sé) quello di guarire la psyche dalle malattie che essa, nel tempo in cui il suo luogo è il corpo, inevitabilmente contrae − «chi frequenta un filosofo», scrive ad esempio Seneca a Lucilio, «torni a casa più sano o più sanabile» (108, 4) −, così emerge evidente in Duchamp la funzione “curativa” e terapeutica dell’arte. Questo è l’“uso” che egli, più o meno esplicitamente, ne fa. Sotto questo aspetto, l’operazione di “igiene” cui la delega è quella di sciogliere (ad esempio attraverso i jeux de mots) i crampi del linguaggio ordinario (di nuovo: l’attitudine filosofica di Wittgenstein non ha forse analogo fine?), di purificare e rimettere in moto le strutture congelate dell’esperienza, di fluidificare le contratture mentali e percettive dis-automatizzandole per espellerne le “tossine” retiniche, le calcificazioni monocentriche che inceppano i processi della conoscenza sensibile e intellettiva. In una lettera databile al 1921 indirizzata a Tristan Tzara, espone all’amico un progetto dada («che verosimilmente procurerebbe denaro») la cui realizzazione «proteggerebbe contro certe malattie», aggiungendo a mo’ di chiosa esplicativa: «Lei capisce bene la mia idea: niente di letterario, di “artistico”; pura medicina […] se avete mal di denti andate dal vostro dentista e chiedetegli se è dada»12. Medesimo atteggiamento lo troveremo sessant’anni dopo in Joseph Beuys, artista per tanti versi agli antipodi di Duchamp: il suo, lo dichiara esplicitamente, «lo si potrebbe definire un interesse terapeutico, un interesse medico, chimico, curativo»13. Da questo particolare punto di vista, l’arte di e per Duchamp, proprio come le forme di vita propugnate da Diogene e da Pirrone, non ha nessun “contenuto”, bensì è un rigoroso e conseguente, coerente e logico esercizio di natura scettico-ironica e antidogmatica, un’askesis rivolta alla pulizia intellettuale come contributo all’euzen, alla vita felice14. Un esercizio che comprende appunto anche l’astensione, il non fare, l’inoperosità; tanto che, nella celebre, lunga intervista-conversazione con Pierre Cabanne, Ingegnere del tempo perduto (e mai titolo fu più appropriato), Duchamp dichiara: «il fatto stesso di non aver prodotto nulla da così lungo tempo mi procura un senso di benessere»15. Torneremo diffusamente su questo motivo. Prima è opportuno analizzare un’altra “figura” decisiva all’interno dell’itinerario duchampiano: quella dell’indecidibilità.
Uniti nella convinzione − essa stessa però, come vedremo, da sottoporsi a skepsis − circa l’impossibilità di decidere se una qualsiasi sensazione, opinione, proposizione sia vera o falsa o se un qualunque stato del mondo corrisponda alla reale natura delle cose, ad un nomos che la trascenda, Lao-tse, Pirrone e Duchamp sono gli uomini del no comment. E al Duchamp che con somma eleganza, disinvoltura e charme discret, abolisce le incompatibilità come i taoisti e i pirroniani (omnis determinatio est negatio), esattamente come al grande personaggio di Melville, lo scrivano Bartleby, «nulla risulta più estraneo del pathos eroico della negazione»16. L’astensione e l’indecidibilità diventano allora le figure espressive, i passanti del suo fare non operante, il campo sul quale può rendersi percepibile, il luogo da cui può far segno lo stadio anteriore all’attualizzazione manifesta delle cose.
Per questo, lo stallo è per Duchamp la condizione ottimale, quella che più lo impegna: sempre in modo sobrio e vigilato, lucido e opportunista. Lo stallo toglie «ogni virulenza al negativo, immobilizza le parti in contrasto e rispecchia astrattamente una situazione dopo averla preliminarmente disseccata»17. A Montecarlo tenta di trovare la formula tecnica per non perdere né vincere alla roulette, non per negarne ma per sospenderne l’economia binaria. «Miglioro e spero di tornare a Parigi», scrive nel 1924, «con il sistema assolutamente a punto. È di una monotonia deliziosa. Nessuna sia pur minima emozione. Il problema consiste d’altronde nel trovare la figura rossa e nera da opporre alla roulette. Il sistema non ha importanza. Sono tutti buoni o cattivi […] Non sono né rovinato né miliardario e non sarò mai né questo né quello» (S, 231-2). Né questo né quello: è la formula dei taoisti e degli scettici. Essere questo o quello riduce la potenza di essere; essere né questo né quello o indifferentemente (cioè secondo la contingenza) ambedue, la “trattiene” restituendola alla potenza stessa. «Anche la parola “credo” per me è assurda», dice Duchamp, «come la parola “giudizio”. Sono parole spaventose, su cui il mondo è fondato […] Non credo alla parola “essere”. Il concetto di “essere” è un’invenzione umana» (I, 99; corsivo ns.). Dal momento che ogni opzione, ogni tesi, riduce il Possibile, la saggezza di Duchamp − lungi dal significare l’accomodarsi in una scialba mediocrità − sta nella capacità di conservare un’apertura tendenzialmente assoluta di pensiero e di comportamento che gli consenta di ammettere o coniugare al contempo casi difformi od opposti, di non escluderne uno per l’altro perché il movimento dell’esclusione perde ciò che esclude, ma ciò che viene escluso era intrecciato a ciò che è stato scelto. Ciò che è scelto e ciò che è escluso rimangono vincolati in un inestricabile fascio di relazioni e transizioni.
Ora, la costellazione filosofica in cui questo tipo di saggezza si colloca è appunto quella di ascendenza scettica18. Con Pirrone − socratico autentico e misologo fino al paradosso − si fa avanti una nuova “scienza”: quella del non poter sapere, che lo porta, più che a evitare le affermazioni dogmatiche, a riconoscere semplicemente (ma questa semplicità può rivelarsi abissale) che non c’è nulla − di significativo, di “speciale” − da dire. Anche perché, secondo la tradizione eraclitèa, nell’intervallo di tempo impiegato dal nostro dire, le cose cui questo pretende riferirsi sono già mutate, ricostruendo via via incessantemente quell’equilibrio assoluto di opposti e contrari che “raffigura” il loro inconoscibile, insondabile ordo. Da qui l’aspetto ironico (ma di un’ironia che va davvero fino alla radice di sé stessa) dell’autentico scetticismo, quello che è in costante rapporto con la propria stessa confutazione19. Il mondo di Pirrone e degli scettici è indeterminato e isostenico, un mondo in cui nessuna proairesis, nessuna ‘scelta’ o ‘preferenza’ può darsi perché l’una cosa vale l’altra e la realtà non è afferrabile, penetrabile, deducibile dallo sforzo della ragione20. Non è, dunque, un mondo che induce all’inquietudine inevitabilmente portata dal dubbio, ma un mondo de-fondato, potremmo dire, sull’indifferenza21. Meglio dunque comportarsi come adoxastoi, non ritenendo alcuna opinione, e come aclineis, non mostrando alcuna inclinazione. Fin quasi all’acatalessia o ‘mancanza di comprensione’, la forma filosofica introdotta, riporta Diogene Laerzio, da Pirrone (cfr. Vite, IX, 61). Dunque l’epoche − il restare in sospeso, la sospensione del giudizio − è, come scrive Montaigne, la «parola sacramentale» degli scettici22, quella che descrive l’unico atteggiamento, l’unica pratica “afilosofica” cui attenersi, sostenuta dalla formula tecnica dell’ou mallon, il ‘non piuttosto’: di ogni cosa dicendo ‘è più che non è’, oppure ‘è e non è’, oppure ancora ‘né è né non è’. Da questa posizione (tuttavia non “tetica”, che non pretende cioè, lo vedremo, di valere essa stessa come una tesi) deriva prima l’aphasia − che non significa astenersi dal parlare ma dall’impiegare il linguaggio in modo assertivo limitandosi all’esperire osservando e constatando i phenomena23 −, poi l’ataraxia e l’apathia, cioè, come già sappiamo, l’imperturbabilità e il distacco da ogni affezione, i due stati che conducono il saggio alla vita felice.
Se tali atteggiamenti e risultati discendono dall’epoche, tale derivazione non è però governata interamente dalla necessità, poiché tyche, il caso, dunque la contingenza, sembra svolgervi un ruolo: e ciò, va sottolineato, è oltremodo congruente con la postura scettica. Lo attesta Sesto Empirico, che in un passo molto interessante dei suoi Schizzi pirroniani paragona l’itinerario dei filosofi scettici al celebre episodio che ha per protagonista il pittore Apelle. Questi, non riuscendo a ritrarre con il pennello la schiuma del cavallo che stava dipingendo, còlto dall’ira per non riuscire nel difficile compito, scagliò contro il dipinto la spugna con la quale stava lavorando, e la forma della macchia così prodotta apparve sulla superficie pittorica come la perfetta mimesis della schiuma invano cercata adoperando gli strumenti del mestiere. Allo stesso modo gli scettici speravano inutilmente di giungere all’imperturbabilità tentando di dirimere con il ragionamento la difformità tra i fenomeni e l’intelletto, le cose apparenti e quelle intelligibili, «ma, non potendo riuscirci», scrive Sesto Empirico, «sospesero il giudizio, e a questa sospensione, come per caso, tenne dietro l’imperturbabilità, quale l’ombra al corpo» (I, 28; corsivo ns.). Insomma, la stessa ascesi atarassica, per gli scettici fons et origo della vita felice, è aliena da ogni dogmatico fiat; non può ordinarsi in alcuna connessione destinale, in alcun percorso finalistico; non può nomoteticamente prodursi né logicamente dedursi. Non può erigersi ad oggetto intenzionale né ad obbiettivo di una volizione soggettiva. La saggezza, lo sappiamo − come la charis, la ‘grazia’ − non si può “volere”. E per di più non si può, come vorrebbe Macbeth, “dare ordini al proprio volere”. Il caso, alla fine e in ultimo, governa: la contingenza che d’altronde non cessiamo di esperire nella realtà. Questo atteggiamento non porta, però, verso un freddo disinteresse, un arrogante distacco dal mondo, ma verso un libero, talora gaio disporsi nei suoi confronti. In ontologia, infatti, il contingente è l’essere che può essere e al contempo non essere, per il quale in linea di principio, “alleggerito” dal peso della necessità, tutto è compossibile quindi indiscernibile. Ma se «potere significa: né porre né negare», allora l’epoche scettica «non è semplice indifferenza, ma l’esperienza di una possibilità o di una potenza», non è «l’abisso incolore del nulla, ma lo spiraglio luminoso del possibile»24. Nella costellazione filosofica che stiamo cercando di seguire, il caso e la contingenza − motivi cruciali nelle arti moderno-contemporanee − si connettono al problema della libertà.
Gli scolastici chiamavano liberum arbitrium indifferentiae quello stato puramente mentale o teorico di libertà assoluta ed in perfetto immobile equilibrio − irrealizzabile nella nostra esperienza dell’ordinario mondo fenomenico vincolato al principio di ragion sufficiente e alla legge di causalità − per la quale l’agire si rivela del tutto contingente, in quanto non determinato da alcuna causa che ne prefiguri l’effetto. Il risultato della libertà così puramente concepita è l’inazione, lo stallo, l’assenza di qualunque decisione o risoluzione finale. Se sperimentato empiricamente, tale stato potrebbe avere effetti deleteri se non nefasti. Nella Memoria accademica del 1839 in cui si interroga se esista una libertà del volere, Schopenhauer cita ad emblema del caso i primi versi del Canto IV del Paradiso (1-3): «Intra due cibi, distanti e moventi /d’un modo, prima si morria di fame, /che liber’omo l’un recasse ai denti»25. La situazione è chiaramente quella descritta nel proverbiale apologo sull’asino di Buridano (che però, come noto, non è rintracciabile negli scritti dello scolastico francese), che esemplifica la teoria secondo cui nel caso di una perfetta, simultanea uguaglianza di stati, l’intelletto, non stimolato da alcuna causa efficiens, non può muovere all’atto la volontà, che rimane in tal modo drammaticamente paralizzata. Schopenhauer ammette certo la libertà negativa, intesa come potere di agire in situazione, dal momento che in assenza di ostacoli esterni l’azione non trova alcuna difficoltà a compiersi. Non ammette però, e anzi dichiara inconcepibile, la libertà come potenza, (cioè il liberum arbitrium indifferentiae) poiché se questa non è determinata e causata da alcuna ragione sufficiente, essa − pura ineffettuale velleitas che solo immaginando, solo desiderando, può indifferentemente volere qualsiasi cosa − coincide con il caso, con la contingenza assoluta in cui ci troveremmo se venisse appunto “abolita” le legge del determinismo universale. La libertà del volere è dunque pura illusione, e presupponendola attiva nel mondo empirico, scrive Schopenhauer, «ogni azione umana sarebbe un miracolo inesplicabile»26. La libertà assoluta, la libertà come potenza di volere non ek-siste, non si dà nell’esperienza. Essa non può avere dunque che un carattere trascendentale: si rivela nella pura idealità come cosa in sé, noumeno kantiano, intelligibile platonico. Ne consegue allora che, se la libertà non può ritrovarsi nell’operari, deve risiedere nell’esse; quindi per Schopenhauer si è responsabili non di ciò che si fa ma di ciò che si è, risiede cioè del tutto paradossalmente − perché ciò non fa altro che negare quell’unica libertà possibile appena predicata − nel carattere “noumenico”, innato e immutabile dal singolo e che al singolo è destinato dal fatum27.
Non c’è nessuno, tuttavia, di più lontano quanto Duchamp dal senso fatale del dramma o del tragico. Con la Porta di Rue Larrey 11, Parigi del 1927, Duchamp in certo modo “raffigura” il liberum arbitrium indifferentiae, riconfigura materialmente tale quaestio speculativa allestendo una situazione indecidibile, irrisolta, “inoperosa”. La porta è montata su cardini che si trovano disposti tra due ambienti contigui così che rimane al contempo aperta e chiusa come il proverbiale gatto dell’esperimento di Schrödinger, vivo e morto nello stesso momento28. Dentro e fuori, esterno e interno (familiare ed estraneo, incluso ed escluso) − che sono le nozioni antropologiche basilari istituite da qualcosa come una porta − diventano perfettamente reversibili, destituite del loro senso oppositivo. Non si dà soluzione al sofisma, né intesa in quanto composizione speculativa o concettuale della differenza empirica, né intesa come via verso l’azione che consegue al taglio del nodo gordiano. La decisione è sospesa con un non luogo a procedere o, per dirla con Giorgio Caproni, in un «luogo non giurisdizionale»29. Chiudendola, la porta si apre; aprendola, si chiude. Come se attraverso questa speculare, isostenica reversibilità per cui dimostrazione e confutazione si corrispondono perfettamente annullandosi a vicenda, essa si trattenesse nel Possibile, offrendosi quindi alla pura contingenza. La porta di Rue Larrey è come una «bilancia non carica dei suoi pesi: essa rimane immobile e non abbandonerà il suo stato di equilibrio»30, icona dell’assoluta, libera indifferenza di fare e non fare. Come il Benito Cereno, l’altro grande personaggio melvilliano, nella lettura di Carl Schmitt, anche Duchamp (sempre dubbioso che una decisione esaurisca l’indecidibilità) si lascia paralizzare dal mito delle situazioni irrisolte31. Ma per quanto lo riguarda si tratta di una paralisi totalmente priva di pathos. E forse è anche su questo presupposto che Duchamp può rifiutarsi di dibattere sull’esistenza di Dio e dichiarare: «Per me esiste dell’altro oltre a sì, no, e indifferente, ed è, per esempio, l’assenza di ricerche di tal genere» (S, 200)32. D’altra parte l’anestesia (in senso letterale: l’assenza di aisthesis), quindi l’esonero da ogni scelta o inclinazione estetica, è stata sempre per lui una nozione e una pratica irrinunciabile. «Li ho fatti senza intenzione, senza altra intenzione che quella di sbarazzarmi dei pensieri», dichiara Duchamp parlando dei readymade, «L’indifferenza, l’indifferenza al gusto: né gusto nel senso della rappresentazione fotografica, né gusto nel senso della rappresentazione ben fatta. Il punto comune è l’indifferenza»33. Da qui, l’eccepirsi per quanto possibile (analizzeremo più avanti le ragioni di questa limitazione “strategica”) da ogni principio di intenzionalità soggettiva per “affidarsi” all’adiaphoria e all’astensione. Dada, dice Tzara, «è il punto in cui il sì e il no si incontrano, non solennemente nei castelli delle filosofie umane, ma in tutta semplicità all’angolo della strada, come i cani e le cavallette»34. Come la porta di Rue Larrey 11. Solo così si può davvero essere «serenamente irresponsabili»35. Questa irresponsabilità più o meno serena, ma certo tante volte rivendicata, è parte integrante, elemento strutturale e inespungibile delle arti moderno-contemporanee36.
«Preferisco vivere, respirare, piuttosto che lavorare […] Dunque, se vuole, la mia arte sarebbe quella di vivere ogni istante, ogni respiro; è un’opera che non si può ascrivere a nessun ambito specifico, non è né visiva né cerebrale. È una specie di euforia costante» (I, 78)37. Ci si accorderà facilmente che questa dichiarazione di Duchamp (e la pratica cui si riferisce) riveste per noi, in virtù dell’impostazione e dello spirito della nostra ricerca, un’importanza e una centralità pari almeno a quelle che si assegnano ai suoi celebrati e seminali readymade. Tempo artistico e tempo della vita, più che coincidere, si indeterminano ed illocalizzano vicendevolmente. Duchamp è il primo artista che osa rompere con il mito attivista e con l’impianto altrettanto mitologico della produttività, rivendicando un suo personale droit de paresse38, che si esprime in una sobria e disincantata pratica dell’astensione, in una vita, per così dire, mostrata ma non “eseguita”. Il non agire è «una delle caratteristiche dell’inoperosità», afferma Blanchot39, ed essere a-ergos,‘inoperoso’, significa in fondo praticare la forma nobilmente filosofica della pigrizia.
Lo stesso atteggiamento troviamo in Yves Klein: «In verità, quello che cerco di ottenere, il mio sviluppo futuro, la soluzione del mio problema», dichiara, «è di non fare più niente, ma in tutta coscienza, con circospezione e cautela. Voglio essere “tout court”. Diventerò un “pittore”. Di me diranno: è “il pittore”. Ed io mi sentirò un “pittore”, un autentico pittore appunto perché non dipingerò più, in apparenza. Il fatto che io “esista” come pittore sarà la più sbalorditiva opera pittorica di questo tempo. È esattamente come un poeta che non scrive poesie, che nella poesia è assai più di un poeta che porti a termine tutte le sue opere, nero su bianco»40. Un ozio, una forma artistica di inattività che non si oppone in maniera immediata, dunque, al tempo di lavoro alienato come se, una volta abolito questo, quella potesse felicemente instaurarsi al suo posto quasi fosse il suo semplice rovescio. Piuttosto, il “mestiere” di pittore è disinserito, disattivato, sospeso, reso “immateriale”; e la vita diventa una festa mobile: «in vacanza», esclama Klein, «sempre in vacanza»41. Torneremo su questo punto. Per ora torniamo a Duchamp.
In occasione dell’inaugurazione di una grande scultura equestre di suo fratello Duchamp-Villon, Marcel dichiara: «John Cage si vanta di aver introdotto il silenzio nella musica. Io invece mi vanto di aver celebrato la pigrizia nelle arti. Mi chiedo se la gente continuerà a credermi»42. Durante una serata parigina in onore del suo amico Man Ray, chi presiede la riunione domanda a Duchamp perché ha smesso di dipingere, e lui risponde: «Perché ho smesso di fare ogni cosa»43. Se l’arte è stata per secoli il modello del poiein, il paradigma del fare produttivo, Duchamp − lasciandosi andare ad una feconda inattività − si colloca sulla soglia paradossale e aporetica costituita dall’ultima ed estrema frontiera del fare, di un fare che trattiene presso di sé l’intatta potenza del neutro. Come se si mostrasse potente proprio attraverso la possibilità eminente (e carismatica, vedremo più avanti) di mostrarsi tale, cioè di poter non fare. Come se attraverso quest’arte della disappropriazione e della diserzione da ogni opera, un’arte dell’esodo che tende a coincidere con la vita, emergesse quell’inoperosità che giace nel fondo di ogni opera e che non potrebbe mai essa stessa tradursi in opera senza dileguare, come Euridice dallo sguardo di Orfeo. «Ogni arte sembra comprendersi dalle opere da essa in modo peculiare effettuate», scrive Sesto Empirico, «Ma non v’è nessuna opera peculiare all’arte della vita» (Schizzi pirroniani, III, 243). Duchamp è della stessa natura dei «cavalli degni del mondo» di cui parla Chuang-tzu: «hanno tanto genio che non si lasciano dietro né traccia né polvere»44.
Ora, non vediamo forse qui riproposta una versione dell’apragmosyne scettica, dell’astensione pirroniana dall’agire? Una ricerca dei suoi margini di praticabilità? E non si annuncia, in parallelo, una riconfigurazione dell’antico otium, della schole, dell’abbandono all’inattività come pratica di vita del sophos che sperimenta l’attività dello spirito, unica vera “sede” del filosofare? Di quella inoperosità del theorein che è infinitamente distante (riprenderemo questo punto) da ogni triviale indolenza? «Pratica il non agire», «Occupati del non fare», “comanda” infatti Lao-Tse nel Tao Te King (LXIII; corsivi ns.). Duchamp si distacca e prende le distanze da coloro − ivi compresi gli artisti45 − che vivono en ascholiai, che sempre indaffarati e costretti, attendono, dominati dal principio di prestazione, soltanto alle technai produttive tese al risultato, al successo. Sembra evocata la situazione (e la contrapposizione) di cui si occupa Platone nel Teeteto quando parla di «coloro che fin da giovani bazzicano nei tribunali e in altri luoghi simili» e che rischiano «d’essere allevati come servi di fronte ad uomini liberi» se paragonati a coloro che invece «sono stati allevati nello studio della filosofia», e che per questo «hanno sempre del tempo a loro disposizione, e i loro discorsi li fanno in pace e con agio» (172d, 5)46. Opponendo i due generi di vita − bios politikos, la prassi nella polis, e bios theoretikos, l’esistenza contemplativa − Aristotele, in un passo celebre, descrive la seconda «sciolta da ogni cosa esterna», vale a dire «quella forma di vita contemplativa, che alcuni dicono essere l’unica propria del filosofo» (Politica, 1324a, 33-4). Il theorein, la beata ‘contemplazione’ è l’unica attività degli dèi, quindi quanto più gli uomini si avvicineranno ad essa, tanto più vivranno felici, infatti «quando alla vita si sia sottratto l’agire, e ancora di più il produrre, che cosa rimane se non la contemplazione?» (Etica Nicomachea, 1178b, 20). La schole è allora la dimensione privilegiata ed eminente, libera e disinteressata in cui vive il sophos, poiché «le attività più importanti», scrive Seneca a Lucilio, «le compie chi sembra non far niente» (8, 6), e la fiducia in sé stessi, che è l’unico, autentico bene di cui si possa godere e la condizione essenziale per vivere felici, «non si può ottenere se non si è indifferenti ad ogni attività» (31, 3)47.
È facile intuire che questa pratica dell’inoperosità che si fa opera disinnescandone o sospendendone gli effetti, trova nelle arti orientali una delle sue figure privilegiate. Solo un esempio. Nel teatro Nô sono codificati dei tempi di immobilità (che possono talora identificarsi con l’energia concentrata e apparentemente inerte dell’istante che precede l’azione) in cui l’attore mette a frutto la tecnica del non muoversi, avvicinandosi ad una sorta di virtualità pre-espressiva e anti- o a-rappresentativa. Il secondo attore, chiamato waki, può mettere in scena «il proprio non-esserci, il suo assentarsi dall’azione» attraverso «una complessa tecnica extra-quotidiana che non deve servire a impersonare, ma a far notare la sua capacità di non impersonare»48. Come disattivasse il proprio io: perfetta kenosis dell’ego. L’attore è chiamato a esporre in scena l’energia dell’assenza che si esprime in una immobilità danzante. Lo fa attraverso questa virtù dell’omissione, questa techne che disattiva sé stessa e ogni altro possibile ergon possedendosi integralmente e proprio per questo superandosi, abolendosi. L’arte si mette all’opera nell’opera ma dissociandosi dalla sua economia, destituendo o disinserendo la sua effettività.
È probabile che una delle radici dell’inoperosità duchampiana possa ritrovarsi nel Romanticismo inteso come la ricerca di una particolare, paradossale forma di compimento che non prevede che l’opera si compia assumendo la forma di un oggetto finito, stabile, determinato, ma che faccia invece esodo da sé stessa. Da questo punto inconcluso − ma inconcluso solo nella prospettiva di un’opera tradizionalmente intesa − comincia ad acquisire un pieno conferimento di senso il movimento secondo il quale la vita dell’artista, la sua esistenza e i modi in cui essa si mostra, diventano la manifestazione o l’espressione dell’arte nella sua verità più radicale, non come ergon ormai compiuta ma come dynamis sospesa su sé stessa: la vera vita che mai è “sedata”, come i cinici la intendevano e la praticavano. Non è allora un caso se Camus può affermare che − anche indipendentemente e al di là del fenomeno del dandismo come estetizzazione dell’esistenza in chiave provocatoria − a partire proprio dall’età romantica l’artista si assume il compito non soltanto di creare la bellezza in un’opera compiuta, ma soprattutto e particolarmente di «definire un atteggiamento»; e ciò significa né più né meno che «l’artista diviene allora un modello, si propone ad esempio. L’arte è la sua morale. Con lui comincia l’era dei direttori di coscienza» (corsivo ns.)49. Ma, in tutta evidenza, questo può avvenire unicamente se con Blanchot (che si riferisce soprattutto a Novalis, al giovane Schlegel, al circolo dell’«Athenaeum») leggiamo nel movimento romantico «l’opera dell’assenza d’opera», arte vivente, potremmo dire, che si rivela nella facoltà «non più di rappresentare ma di esistere, di essere tutto ma senza contenuti», come quella potenza «che si esalta mentre sparisce e che non si scredita anche se non lascia tracce»50. Non appena si fa consapevole di doversi collocare all’altezza di questa esigenza imposta non dallo stile letterario ma dal movimento storico, il poeta comprende che «scrivere vuol dire fare opera di parola, ma che quest’opera è un oziare»51.
Questa esigenza, e questa urgenza, arriverà fino al surrealismo, che «non fu né un sistema, né una scuola, né un movimento artistico o letterario, ma una pura pratica d’esistenza» (corsivo ns.)52. Eredi di Lautréamont e di Rimbaud53, i surrealisti − postisi, come scrive Camus, «agli ordini dell’impazienza»54 − rifiutano la nozione di opera sostituendovi − almeno nei propositi e nelle ambizioni, se non sempre e coerentemente nell’effettività − il comportamento poetico come inoperosa esperienza collettiva (o forse, meglio: multipla, plurale) che comprende la pratica del delirio e degli stati sonnambolici e allucinatori, dell’incontro vissuto con il caso, con la follia e con l’inconscio: con tutto ciò che sfugge all’“apparato logico” e alle assertività di una ratio ormai labirinticamente persa in sé stessa. Ciò che cercano è un rapporto privo di intermediari con la “vera esistenza”: che non è mai data, è sempre al di là di sé stessa, è senza posa altrove rispetto allo spaziotempo in cui crediamo di poterla fissare. Liberare il linguaggio significa liberare la vita, non significa renderlo disponibile per un’opera: il surrealismo, più che un movimento letterario o pittorico, vuole essere un atteggiamento esistenziale creativo, inventivo. Vuole essere «l’esperienza dell’esperienza»55 che si prefigge di dissotterrare dalle coltri millenarie del sapere e della cultura la vita immediata, la vita nuda, “pura”. Che proprio per questo, proprio perché ricondotta al suo grado zero, può diventare l’estrema posta in gioco: René Crevel e Jacques Rigaut («Voi siete tutti dei poeti, io sono dalla parte della morte») si suicidano; Arthur Cravan muore per abuso di oppiacei; Jacques Vaché, figura ispiratrice per Breton, sparisce nel Mar dei Caraibi. Il poeta Paul Éluard, più cautamente, scompare da Parigi senza alcun preavviso. Gli amici lo cercano, cominciano a chiedersi se si è di fronte ad un nuovo caso Rimbaud, la stampa se ne interessa. Poi Éluard ricompare: ha creato una situazione: è un’azione surrealista.
Nelle loro primitive intenzioni, il valore indelegabile che i surrealisti mettono al centro delle loro pratiche è il desiderio: la sola spinta che può fondere in un’unica forza barbarica e sovversiva la parola d’ordine di Marx, “cambiare il mondo e non più interpretarlo”, con quella di Rimbaud, “changer la vie”. Non a caso, nel 1924, aprono a Parigi un “Ufficio di Ricerche Surrealiste” (di cui Artaud assumerà per un breve periodo la direzione) al quale tutti i cittadini possono liberamente rivolgersi per proporre modi inediti di «investigazione psichica», narrare «coincidenze sorprendenti», esporre una «libera critica dei costumi», confidare «i loro sogni più strani e ciò che quei sogni suggeriscono loro»56. Certi − come dice Breton con le parole con cui si chiude il primo Manifesto − che «l’esistenza è altrove»57, il loro intento è quello di raccogliere più dati e testimonianze possibili per elaborare, inventare nuovi modi autonomi e creativi di vita, convinti appunto che il surrealismo non si scrive né si dipinge ma si vive. Nietzsche si chiedeva se il filosofo parla ad un uditorio già dato o tutto da costruire. Certamente il surrealismo parlava e agiva in nome di una comunità ancora a venire, che non avrebbe trovato il suo compito nel realizzare qualcosa per poi difenderlo, ma − posto che la realtà dell’essere umano non è mai data ma slitta sempre al di là di sé stessa − nell’esplorare le possibilità, sia del pensiero che delle pratiche di vita, di essere messe in comune attraverso un’inoperosità che «è all’opera ma non produce l’opera» proprio perché «il momento dell’inoperosità sembra detenuto dalla vita»58. Quasi l’“autentico” surrealismo − o la soglia sulla quale esso scopre la sua più intima natura − fosse quello agìto, quello che, acquisendo la potenza e la libertà di non fare, non limita la scrittura allo scritto, ma ne estende l’impellenza alle condotte, agli atti, alle pratiche, facendo del privato una sorta di testualità vissuta e del quotidiano un vero e proprio biotesto.
Il 13 dicembre del 1880 − dopo aver lavorato nei due anni precedenti come sorvegliante in una cava di pietre a Cipro − Rimbaud arriva a Harrar e change sa vie59. Tra la città santa dell’Islam e Aden, inizierà a commerciare in armi e caffè, preso dall’avidità di guadagno e dall’avarizia (porta otto chili d’oro nascosti nella cintura lamentandosi della dissinteria che gli procurano). Negli stessi anni, tra il 1881 ed il 1882, Nietzsche scrive Gaia scienza. Vi troviamo un aforisma dedicato al “Fascino del non finito”. Il poeta esercita «una superiore attrattiva» lasciando la sua opera incompiuta, e maggiore è la sua gloria quanto più gli proviene «dalla sua incapacità nel dare l’ultimo tocco», dal «non essere propriamente arrivato alla meta»: solo in questo modo, solo attratto da questa esigenza egli si spinge davvero non tanto «oltre la sua opera», ma di più: «oltre tutte le “opere”» (af. 79)60. Apparentemente, potremmo applicare queste parole di Nietzsche alla decisione di Rimbaud di rompere in modo definitivo con la letteratura, una decisione che − com’è universalmente noto − ha contribuito a crearne il mito: Rimbaud è «deificato», scrive Camus, «per aver rinunciato a quello che era il suo genio»61. Nel suo caso, però, non si tratta di un’attrazione romantica verso l’incompletezza che lascia margini all’immaginazione del possibile, né di una scelta più o meno cosciente o programmata per il fascino “michelangiolesco” del non finito. Con una risoluzione che non cessa dopo più di un secolo di rappresentare un enigma (epperò Réné Char dirà: «hai fatto bene a partire!»), Rimbaud sceglie, come dichiarò Mallarmé, di «amputarsi da vivo della poesia» e di seppellirne il ricordo nel silenzio impersonale e indaffarato del mercante come una parte di sé che non gli apparteneva più62. Certo colui che Breton chiamava “questo dio della pubertà” non potrebbe nemmeno affermare come Wittgenstein (anche perché si è tolto deliberatamente la possibilità di farlo) che la sua opera è soprattutto in ciò che non ha scritto. Ma d’altra parte − se la poesia serve non a sé stessa o a celebrare il Bello, se la letteratura è lì solo per essere abolita nell’esistenza, se la scrittura è un modo di vivere sottoposto all’ascesi che la trascende: questo il legato dei suoi pochi brucianti anni creativi − metter fine al tempo poetico, “oltrepassare” la letteratura attraverso il suo rifuto, potrebbe ancora farne parte come “in levare”: al modo della sua incombente assenza. Potrebbe significare di aver portato all’estremo − un estremo che coincide con il fallimento − quell’ambiguità che è il movimento essenziale della scrittura poetica verso l’autoabolizione.
Al fondo, però, l’ambiguità rimane, insorpassabile. Non sappiamo o non ci è dato sapere se nel “silenzio di Rimbaud” − che talora si è avuta la tentazione di accostare a quello di Duchamp63 − dobbiamo leggere un rifiuto puro e semplice che, nella sua soffocante contingenza, non lascia alcun margine all’interpretazione, oppure la decisione di spingere la poesia fino al punto cieco, fino a quella soglia estrema in cui la conquista definitiva di sé stessa (se mai ve n’è una) impone a chi ne è abitato di naufragare facendo esperienza del nulla che la abita. L’estremo sacrificio dell’amante non prende le vesti talvolta dell’abbandono dell’oggetto amato perché questo, separato, “liberato”, possa vivere da solo? Quel silenzio, allora, sarebbe la conferma che la poesia, l’arte devono comprendere il proprio fallimento? Che il genio, come scrive Blanchot, «è solo nel moto, nella chiarezza, nel percorso della sparizione»64? E d’altra parte Keats aveva già scritto in una lettera del 27 ottobre del 1818 che «il poeta è la più impoetica delle cose che esistano; perché non ha identità […] Se dunque il poeta non ha un sé, e io sono un poeta, che meraviglia c’è se ho detto che non scriverò più?»65. In questo caso, la sfida potrebbe essere quella − forse difficilmente formulabile all’interno dei protocolli istituzionali della critica e della storia della letteratura − di estendere la nozione di opera a ciò che la disattiva, alle scelte di vita che ne rinnegano l’esigenza o ne rifiutano le modalità di apparizione, la fenomenologia: così che la poesia, l’arte troverebbero la loro gloria maggiore − questo e non altro è d’altronde per tanti versi il Novecento − non certo, come sosteneva Nietzsche, nel non finito, ma nella possibilità della propria dismissione: talvolta ilare, talvolta tragica, spesso tragicomica. Dunque, a ben vedere, dall’arte, dalla poesia − in virtù di tale astuzia dialettica − non si potrebbe più fuggire una volta si siano incontrate sul proprio cammino in qualità di creatori: «il poeta che rinuncia a sé stesso», scrive ancora Blanchot, «è fedele una volta di più all’esigenza poetica, sia pure come traditore»66, se non altro per la ragione che il tradimento rafforza l’importanza, la decisività, perfino l’inaggirabilità di ciò che viene tradito, e chi abbandona l’arte, la poesia, le ritrova come assenti. L’aldilà dell’arte, della poesia, è ancora arte, è ancora poesia?
Rimbaud preferisce il silenzio (“Basta con le parole”, esclama) come rifiuto inappellabile di scrivere se non in quanto scrivente (le lettere alla madre e alla sorella), come la sola decisione che si rivela coerente con il suo “Merde à la poésie”. Preferisce questo silenzio all’altro silenzio, quello che la poesia pretende di esprimere o di indicare, a ciò legittimata dal suo essere linguaggio puro che dice sé stesso, linguaggio diventato soggetto, che ha negato e si è lasciato definitivamente alle spalle la sua condizione servile e strumentale. Da questo punto di vista, Artaud può affermare che «una nozione dinamica della poesia, trasmessa da Rimbaud, libera la poesia dal testo e dalla scrittura e ci ridà un’immagine magica della vita»67. Ma questo rifiuto senza rimorsi apparenti attraverso il quale Rimbaud si consegna non alla felicità (le lettere ai suoi non fanno che confermarlo) ma al desiderio borghese di metter su famiglia, avere un figlio e farne un ingegnere, alla gretta avvedutezza di chi vuole vedere investito il proprio danaro con una rendita regolare, questo rifiuto dunque non può non gettare un sospetto o un dubbio appunto su quella pretesa della poesia di porsi come l’“autentico” silenzio. Per questo, ripetiamo, l’ambiguità rimane. Perché è inseparabile, intrinseca, immanente alla scelta di fare il mercante di caffè, armi e forse uomini tra Aden e Harrar.
È vero che l’inoperosità, nei suoi modi enigmatici e paradossali che andiamo seguendo, appartiene o può appartenere ancora alla creazione. Forse allora Rimbaud − al contrario di Orfeo che voltandosi verso Euridice perde per sempre l’opera − ha trovato pur non cercandolo il modo di salvarla, comprendendo che nulla poteva aggiungerle se non abbandonandola, senza mai più voltarsi, al più profondo oblìo.
Secondo il principio taoista del wei wu wei, l’‘agire-non-agente’, un commentatore moderno di Lao-tse interpreta il non-agire (essere senza desideri, senza volontà appropriatrice, affidarsi al movimento della natura) come lo stato di «suprema verità»: Ed aggiunge: «ma in questo stato c’è anche una sottile e illimitata attività»68. Come già abbiamo visto, il non fare non è in Duchamp − campione dell’agire attraverso l’astensione − semplice, inerziale inattività; meno che mai è lavorare, combattere per differenziarsi dal fare. Fare significa andare al fondo del non fare. «Neppure la contemplazione è senza azione», scrive Seneca nel De otio (5,8). Ma è azione non più agonistica, “inutile”, per-nulla, che ritrova in sé stessa, nel proprio svolgersi “vuoto” l’inattività come “patria” dell’euzen, del ‘ben vivere’, che è per Duchamp il fine − e forse la fine − dell’arte.
La nozione di inframince, ‘infrasottile’, elaborata, ma potremmo dire anche solo pensata da Duchamp − che, dichiara, lo ha «tenuto molto occupato negli ultimi dieci anni»69, e capiremo subito l’ironica paradossalità dell’affermazione − è una figura ipo-operativa dell’inoperosità. Nel numero speciale della rivista nuovaiorchese «View» a lui interamente dedicato nel 1945, ne fornisce un esempio: «Quando il fumo di tabacco sa anche della bocca che lo esala i due odori si accoppiano per infra-sottile» (S, 235). Non se ne può stabilire alcuna teoria; se ne possono fornire solo esempi, casi: «Il rumore o la musica prodotti da un pantalone di velluto a coste, come questo, quando si respira, è dell’ordine dell’infrasottile. L’incavo della carta, tra recto e verso di un foglio sottile… da studiare!»70. Siamo nel bel mezzo dell’intrico oblioso dell’immanenza, nell’insieme distratto e inafferente del flusso quotidiano. L’attenzione di Duchamp è dunque attratta da questo singolare impegnarsi attorno a un nonnulla71, un impegno apparentemente insulso, irriscattabile e un po’ clownesco, che coglie ogni ritmo fibrillare, ogni moto inintenzionale, ogni addensarsi e diradarsi del più futile e minuto palpito del sensibile, che marca “a vuoto” una presenza evanescente in cui il senso, più che prodursi, esala. Siamo di fronte sia alla neutra e indifendibile clandestinità microfisica dell’irrilevante che non può non disperdersi immemorialmente nel flusso continuo di uno sterminato e inavvertito «scialo ontologico»72, sia al piacere − tipico di ogni ozio indaffarato − di catalogarne l’astrusa, stramba e forse anche un po’ inquietante fenomenologia73.
Ma è molto istruttivo sottolineare che Duchamp non è il solo ad interessarsi a questo bizzarro repertorio di scarti e resti impossibili da inserire in una connessione finalistica, che in qualche modo, però, fanno pensare anche a “leibniziane” microenergie. Facciamo alcuni esempi. Troviamo un analogo inventario nei Quaderni di Valéry: «i movimenti di bilanciamento, di tamburellamento, di battito periodico che compaiono nell’attesa corrispondono ad una pressione costante − si producono sempre alle estremità − dita, polpacci, piedi, coda − labbra, fischiettamenti − compensano, sono dissipazione − sono eguaglianza all’atto che non si produce»74. Una quantità di ipofenomeni inducono Valéry ad osservare che «la sostanza del nostro corpo non è alla nostra scala. I fenomeni più importanti per noi, la nostra vita, la nostra sensibilità, il nostro pensiero sono legati intimamente a eventi più piccoli dei più piccoli fenomeni accessibili ai sensi, maneggiabili con i nostri atti. Noi non possiamo intervenire direttamente e vedendo quello che facciamo. La medicina è intervento indiretto − e così pure le altre arti»75.
Anche Musil, e nello stesso torno di anni, è impegnato a registrare questa dimensione pulviscolare e obliosa, questo formicaio brulicante ma inavvertito dell’esistenza, nelle prime pagine de L’uomo senza qualità: «Se si potessero misurare i balzi dell’attenzione, il lavoro dei muscoli oculari, i moti pendolari dell’anima e tutti gli sforzi ai quali un individuo che cammina per la strada deve sottoporsi per non essere travolto, si otterrebbe probabilmente − questo egli [Ulrich, il protagonista] aveva pensato e aveva tentato per giocare di calcolare l’incalcolabile − una quantità in confronto della quale la forza impiegata da Atlante per sostenere il mondo è poca cosa, e si potrebbe giudicare l’immane fatica compiuta oggigiorno anche da un uomo che non fa nulla»76. Ma viene alla mente anche Kleist, quando nello scritto Sulla graduale produzione dei pensieri durante il discorso − che abbiamo già fugacemente richiamato a proposito della balbuzie di Rousseau − riferendosi a un discorso di Mirabeau all’assemblea degli Stati Generali, scrive che «forse in questo modo una contrazione del labbro, o un ambiguo gioco col polsino, provocò in Francia il rovesciamento dell’ordine delle cose»77.
Infine, Benjamin. Anche lui è attratto e affascinato da questa dimensione “realissima” ma per noi inosservata e inosservabile lungo il profilo di una “disattenzione” che però, nello stesso tempo, appare la conditio sine qua non per il corretto e normale procedere della nostra vita quotidiana. È precisamente sotto questa prospettiva che in una lettera a Gershom Scholem del 1938 egli interpreta un brano straordinario del fisico Arthur Eddington: «Sto sulla soglia, in procinto di entrare nella mia stanza: è un’impresa complicata. In primo luogo devo lottare contro l’atmosfera, che preme sul mio corpo con una forza di un chilogrammo per centimetro quadrato. Devo inoltre tentare di atterrare su un’asse che vola attorno al sole alla velocità di trenta chilometri al secondo; una frazione di secondo di ritardo, e l’asse è già a miglia di distanza […] E l’asse non è di una sostanza compatta. È come se il piede poggiasse su uno sciame di mosche. Davvero non cadrò attraverso di esso? No, perché se oso poggiarvi il piede, una delle mosche mi colpisce e mi dà una spinta verso l’alto; cado nuovamente e un’altra mosca mi risospinge verso l’alto, e così via»78. Brano da annoverare forse tra i più “allucinati” della letteratura scientifica moderna, degno di comparire in qualche antologia di testi dada o surrealisti (ve ne sono altri più recenti, ovviamente, soprattutto tratti dalla meccanica quantistica, e ci limitiamo a ricordare solo l’ormai proverbiale gatto di Schrödinger). Ma forse la “fonte” − quantomeno nella modernità − alla quale risalire per comprendere o contestualizzare l’attenzione a questa fibrillare microfisica, si trova nelle mirabili pagine leibniziane della Monadologia e del Proemio ai Nuovi saggi sull’intelletto umano79. Senza dimenticare che ancor prima, e seppure in termini diversi, Montaigne aveva a lungo riflettuto sulla potenza dell’irrilevante, del banale, del trascurabile: si fa il solletico cercando di descrivere la sensazione provata, analizza l’odore del suo farsetto, si sofferma sul prurito che sente all’orecchio.
Ma il raggio d’azione della nozione duchampiana di inframince non si esaurisce qui. C’è di più. Perché è precisamente vòlta al musiliano “calcolare l’incalcolabile” anche l’idea di un “trasformatore” che metta a frutto, riconvertendole al beneficio comune, le miriadi di microeventi e forze infinitesimali che siamo usi sprecare. Quali? Ecco di nuovo l’inusitata “borgesiana” bizzarria repertoriale: «l’eccesso di pressione su di un pulsante elettrico; l’esalazione del fumo di tabacco; la crescita dei capelli, dei peli e delle unghie; la caduta dell’urina e delle feci; i movimenti di paura, di stupore, di noia, di collera; la caduta delle lacrime; i gesti dimostrativi delle mani, dei piedi, i tic; gli sguardi duri; la braccia che penzolano dal corpo; stiracchiarsi, sbadigliare, starnutire; lo sputo normale e di sangue; i vomiti; l’eiaculazione; i capelli ribelli, il ciuffo; il rumore del soffiarsi, il russare; lo svenimento; il fischio, il canto; i sospiri, ecc…». Si potrebbe perfino «calcolare la differenza tra i volumi d’aria spostati da una camicia pulita (stirata e piegata) e la stessa camicia sporca» (S, 233-4)80. Qui − quantomeno secondo il profilo interpretativo che stiamo seguendo − c’è tutto Duchamp, come e forse più che nei readymade. Nell’“antimemoria” che via via incessantemente si accumula a fronte di questa “stasi brulicante”, l’inesausto e inconscio formicolìo del reale si produce indipendentemente da ogni nostro intervento che su di esso possa mai esercitarsi. Ed è precisamente il reale che appare qui per noi impossibile. Sotto questa prospettiva, quella di Duchamp potrebbe dirsi un’«arte di vivere» immaginata come «capacità di tenersi in armonica relazione con ciò che ci sfugge»81.
Apparentemente, però, nell’idea duchampiana del “trasformatore” sembra all’opera la volontà (“patafisica”, se si vuole) di utilizzare lo sterminato continente dell’involontario ad ogni istante dimenticato e immemorialmente perduto, per commutarlo in energia positiva sfruttandone il potenziale economico a scopo produttivo. Ma non è così. Nell’irriconosciuto, microfisico pullulare del sensibile sottratto ad ogni egoica pretesa di intenzionalità apprensiva (che non coincide affatto, però, con il caso di ascendenza surrealista), Duchamp non scorge il materiale, per quanto inusitato, da sottoporre ad un principio di prestazione cui in realtà egli si è sempre mostrato sovranamente indifferente; piuttosto coglie − ed accoglie − l’immanenza reciproca di opera e inoperosità che già conosciamo, come rifluisse all’arche incomposta, alla radice neutra comune del fare e del non fare che transitano l’uno nell’altro, all’in-differenza che li “contiene”. L’unico modo, forse, per assumere o per “rispondere” a quello che Musil chiamerebbe «il soffio accumulato della caducità»82: ma in un movimento altrettanto sovranamente distratto, perché «il buon camminatore non lascia tracce, il buon calcolatore non adopera la calcolatrice, il buon annodatore non adopera corda» (Tao-Te-King, XXVII).
L’intera opera di Kafka − ed in particolare i suoi ultimi racconti − è attraversata da una relazione elettiva con il quasi-niente e con il non fare. Sotto questo profilo, si possono scorgere i suoi sotterranei, deangolati legami, i suoi inattesi, segreti nessi con l’ètimo e il destino stesso delle arti moderno-contemporanee intese come disattivazione dell’opera e della sua economia, movimento non acquisitivo-produttivo ma sottrattivo e in diminutio, creazione de-creativa in base alla quale l’effetto “artistico” coincide con l’interrogativo che esso suscita sulla sua stessa esistenza83. Quello che Deleuze e Guattari sostengono, cioè che «nessuno meglio di Kafka ha saputo definire l’arte o l’espressione senza riferirsi a qualcosa di estetico»84, può ripetersi parola per parola e senza tema di smentite per Duchamp e per molti esiti − probabilmente i più significativi e caratterizzanti − delle pratiche artistiche contemporanee.
Come il canto di Josefine − nascendo dall’atto stesso di non cantare, dunque in costante equilibrio sul suo non-essere-in-opera − è indistinguibile dal normale fischio dei topi al cui popolo appartiene − «Tutti noi fischiamo, ma a nessuno viene in mente di spacciarlo per arte», e proprio per questa ragione resta insondabile «l’enigma del suo grande successo»85 −, così gli spettatori che accorrono a vedere il digiunatore − massimo artista dell’astensione, virtuoso della sottrazione − sedendo «intere giornate davanti alla sua piccola gabbia»86, in realtà non assistono ad alcunché di particolare: non vedono niente se non un uomo dalle costole sporgenti che, sempre più pallido e macilento, se ne sta seduto sulla paglia sprofondato in sé stesso senza neanche occuparsi del tempo che passa, fattore pur essenziale per il raggiungimento dei suoi record. “Niente” accade, se non, come nel readymade di Duchamp, l’accadere stesso87.
Ma ancora più prossimo o affine ai motivi e alla prospettiva che stiamo seguendo appare uno straordinario frammento in cui si narra di un campione di nuoto che, reduce dall’aver stabilito un primato olimpionico, torna in patria − ma una patria di cui non conosce la lingua − e viene festeggiato dalle autorità e dalla popolazione. Presa la parola per il discorso ufficiale, l’atleta ammette sì di aver stabilito un record mondiale, ma dichiara di non saper nuotare: «l’ho sempre voluto imparare, ma non ne ho mai trovato l’occasione»88, proprio come il digiunatore che dichiara espressamente, in punto di morte, di aver digiunato perché non aveva mai trovato il cibo di suo gradimento. Ecco di nuovo il nostro tema: ci confrontiamo ancora una volta con una tensione ab origo asintotica di una prassi che si mantiene in relazione con l’astensione dall’agire, con le forme dell’inoperosità. Ora, qui l’importante non è capire − come fossimo sottoposti ad un aut-aut − se l’acclamato campione di nuoto sappia (sia potente-di) nuotare o meno; l’importante non è − come sempre, d’altronde, in Kafka − risolvere o sciogliere l’ambiguità, comporre l’apparente biforcazione logica; l’importante è, piuttosto, sostenerne, “sopportarne” il carico. Il punto è che nella sua pratica di astensione nuoto e non nuoto sono perfettamente inscindibili e immanenti l’uno all’altro, non sono contrari ma possono, secondo le contingenze − non aveva forse Kafka parlato di occasione? − disattivarsi l’uno l’altro in un nuoto non operante.
Il quadro filosofico per comprendere meglio la questione ce lo fornisce con grande chiarezza Aristotele nella Metafisica. Il termine ‘potenza’, quindi ‘potente’, si usa in molti modi e in diverse accezioni. Secondo una di queste accezioni, anche «la privazione è, in un certo senso, un possesso», quindi si dirà potente una cosa «sia per il fatto che possiede un certo stato e un certo principio, sia perché possiede la privazione di tale stato e di tale principio, se pure si può usare il termine ‘possedere’ quando intendiamo riferirci a una privazione», e in ogni caso, se intendiamo che lo stato di steresis, di ‘privazione’, non possa designarsi come un possesso vero e proprio, il termine ‘potente’ verrà comunque usato «per omonimia» (1019b, 5-10). Ne deriva che «la potenza del patire e quella dell’agire sono, sotto un certo profilo, un’unica potenza» (1046a, 20), tanto che «per ogni potenza si riscontra un’impotenza corrispondente» (1046a, 32)89. L’adynamia, l’impotenza è anch’essa una forma, una “figura” nella quale, precisamente astendendosi, si dà la potenza. Come se restituisse alla potenza la facoltà di non passare all’atto, il nuotatore che non sa nuotare (ed è per questo che non va inteso come un individuo psicologico ma come una figura dell’ethos quale rapporto a sé) fa dell’impotenza la propria potenza attuandone, per così dire, la dimensione privativa e inoperosa: vive la sua enigmatica, sottratta esistenza in quella regione inabitabile e neutra che coappartiene alla potenza e all’impotenza poiché della potenza saggia la possibilità del suo non esercizio. Soltanto in questo modo opera ed inoperosità vengono a indeterminarsi. Troviamo un’analoga dinamica in Duchamp, la cui pratica di astensione e non partecipazione si mostra potente attraverso la possibilità della potenza di non passare all’atto, di restare ineseguibile o conservare l’ineffettività senza trapassare in energeia.
Sia di nuovo l’atteggiamento pirroniano-scettico. Sappiamo che dall’impossibilità di affermare alcunché di cognitivamente e razionalmente fondato − poiché ogni affermazione è suscettibile di una smentita che indurrebbe tarache, un ‘turbamento’ nella psyche, capace di farle smarrire la sua omeostatica atarassia − discende l’afasia, l’astensione dal discorso, che non significa, ripetiamo, scelta per un mutismo incondizionato, ma esprimere ogni volta nel dire l’insufficienza e l’ingiustizia del detto90. Dall’impossibilità di compiere gesti e azioni conformi ad un vero in sé inaccessibile, discende l’apragmosyne, l’astensione − e già sappiamo anche questo − dall’agire. Tanto il primo atteggiamento che il secondo, però, sono in tutta evidenza concretamente impraticabili in toto; quindi il problema che lo scettico si troverà sempre di fronte è quello di come vivere integralmente il proprio scetticismo, dato che un esercizio senza resti dell’aporetica si dimostra pressoché impossibile nelle condizioni più elementari della vita quotidiana. Il compito − per definizione posto al di là di ogni capacità “umana troppo umana” − sarebbe quello di non esercitare né l’intelletto né i sensi, o quantomeno di non tenere in nessun conto la loro fallace testimonianza; si tratterebbe di deporre l’innata debolezza umana e andare incontro ad una spoliazione totale che abolisca ogni distinzione, per installarsi in una semplicità anteriore a tutte le determinazioni. Non a caso Pirrone, consapevole di sfidare un limite antropologico se non fisiologico, ne riconosceva il ponos, lo sforzo letteralmente ascetico, e a chi gli rinfacciava la sua incoerenza per essersi turbato una volta che fu assalito da un cane, rispose che «è difficile spogliare completamente l’uomo, ma che bisogna cercare di combattere contro i fatti per quanto è possibile, altrimenti con il ragionamento» (Vite, IX, 66).
Si fa avanti allora − e la dichiarazione di Pirrone ne è prova evidente − la figura dell’asintoto. La condotta di vita del saggio che pratica la skepsis (ma ciò vale anche, lo sappiamo, per ogni scuola o genere specifico di saggezza) acquista o rivela tutto il suo significato sotto il segno asintotico di una tensione verso determinazioni e comportamenti che si è ben consapevoli non potranno mai venire raggiunti toto caelo, ma che, proprio per questo, sprigionano e mostrano una dynamis, una potenza che va intenzionata attraverso il continuo esercizio, alla quale cioè occorre costantemente avvicinarsi: questo e non altro è il compito ascetico. La saggezza è consapevole di vivere in permanenza nella condizione ottativa di non più che un’aspirazione alla mèta, non nel suo integrale, “sedato” raggiungimento. Così non fosse, essa sarebbe un che di positivamente dato, acquisterebbe una valenza nomotetica che è l’antitesi della scepsi dello zetetikos, cioè di colui che per natura è incline all’investigazione, alla ricerca alimentata da un dubbio gnoseologico che ben presto si rivela essere più radicalmente un dubbio ontologico. La vita del saggio assume dunque le vesti di un incessante esperimento che tende, per così dire, a portarla al di là di sé stessa mettendone alla prova le stesse condizioni empiriche.
È questa grammatica sperimentale e asintotica un altro dei tratti di maggior interesse ed evidenza che ritroviamo nello scetticismo di Duchamp: quest’attitudine che sa non irrigidirsi su sé stessa, questa consapevolezza acuta di non poter mai cogliere e possedere l’intero. Vi riconosciamo questo atteggiamento che non traligna in “ideologia”, in scelta obbligata, in parti pris da seguire sempre e comunque, bensì conosce l’arte di adattarsi − attraverso una strategia sanamente quanto efficacemente opportunistica e talora reticente − alle pieghe screziate del reale cogliendo le occasioni che questo non cessa di offrire. D’altra parte anche le pratiche orientali ricordano che è precisamente deponendo ogni arrogante volontà di conquistare la saggezza, è abbandonandone, depurandone anche l’idea, che il saggio può diventare davvero tale. Per quanto riguarda Duchamp, possiamo fare molti esempi.
Compra delle sculture di Brancusi che poi rivende. Alla domanda che solleva il dubbio se questa attività commerciale non entri in contraddizione con il suo atteggiamento antieconomicista nei confronti dell’arte, Duchamp risponde: «No. Dovevo pur vivere. Lo feci perché non avevo abbastanza denaro. Bisogna pur fare qualcosa per campare» (I, 80), esattamente come Pirrone riconosce che è difficile superare completamente gli ostacoli che pone continuamente la condizione umana. Quando gli si fa notare che ha accettato che le sue opere venissero riunite in un museo, cioè nel luogo concettualmente e istituzionalmente più distante dal senso che esse intendevano liberare, Duchamp risponde che, richiestone, ha acconsentito di farlo «perché ci sono delle cose pratiche nella vita a cui non ci si può sottrarre. Sarebbe stato stupido rifiutare. Avrei potuto squarciarle o romperle, ma anche questo sarebbe stato un gesto idiota» (I, 77; corsivo ns.)91. A ben vedere, e questo è interessante, siamo quindi di fronte a due idiozie: “musealizzare” le proprie opere e/o distruggerle con un atto di esibita ribellione. Vi è però una grande e significativa differenza. Nel secondo caso si tratta di un’azione che, in quanto tale, è soggettivisticamente determinata e volitivamente motivata, e per di più, nella fattispecie, caratterizzata da un palese elemento di egoica spettacolarizzazione. Nel primo caso, invece, si tratta di una re-azione che non lacera, non si impone ma risponde al così-è dell’esistenza, ai suoi abiti e alle sue pratiche comuni assecondandone il verso. L’azione trascende e forza il reale; la re-azione lo assume e vi aderisce. L’azione è puntuale e localizzata; la re-azione è ubiquitaria e illocalizzabile92.
La prima mostra personale a Chicago nel 1937? «Mi chiesero se volevo fare una mostra e io accettai. Ma la cosa non ha avuto per me alcuna importanza, e non andai neppure a vederla» (I, 88). Si prendeva sul serio quando teneva negli Stati Uniti conferenze e lezioni sulla propria opera? «Non mi sono mai preso sul serio, l’ho fatto semplicemente per denaro. O almeno questa era la ragione principale» (I, 99). Non rifiuta più di fare mostre, cosa che un tempo considerava manifestazioni di farsesco istrionismo? «Si cambia. Alla fine si accetta tutto con un sorriso» (I, 101), esattamente come Pirrone, quando i suoi concittadini gli chiedono di diventare sommo sacerdote di Elide, semplicemente accetta. Sarebbe un miope errore stimare queste risposte di disarmante e disillusa semplicità93 come scarsamente significative e ridurle a manifestazioni − peraltro del tutto ammissibili − di opportunismo pratico, archiviandole come contingenze irrilevanti quindi immeritevoli di una considerazione teorica. Ma soprattutto sarebbe un errore se noi, nell’ambito del nostro percorso, le stimassimo tali. Perché certamente dobbiamo metterle in conto alla proverbiale ironia di Duchamp e all’atteggiamento blasé di questo genio dell’indifferenza; ma il fatto è che esse ci mettono sulla strada di un’altra significativa analogia tra la sua figura e quella di Pirrone e il modo di vita scettico in generale. E dunque.
Il tema è quello della possibile liberazione da ogni presupposto dogmatico operata mediante la strategica autosoppressione del discorso filosofico, che in Duchamp prende le vesti di un’affilata e corrosiva meta-ironia. Per cominciare, leggiamo Sesto Empirico: «E invero, per quel che concerne tutte le espressioni scettiche, bisogna tenere a mente questo: che noi non si afferma in modo assoluto ch’esse siano vere, in quanto che diciamo ch’esse si possono annullare da sé stesse, circoscrivendo sé stesse insieme con le cose di cui si dicono; così le medicine purganti, non solo cacciano dal corpo gli umori, ma anche sé stesse espellono con gli umori» (Schizzi Pirroniani, I, 206). L’indeterminatezza delle cose e dei fenomeni si riflette nell’indeterminatezza delle nostre opinioni, e l’indifferenza del saggio consegue all’indifferenza isostenica delle cosé stesse. Così (secondo lo schema che già conosciamo, anzi proprio in virtù di questo) se si afferma che ogni cosa è non più che non è, non è più questo che quello, si può anche concedersi di ritrattare ciò che si è appena affermato. La felicità dell’ascesi che si nutre dell’assenza di tarache, deriva precisamente da questa situazione di stallo in cui vano e folle appare recidere l’equipollenza del reale e prendere una decisione per il sì o per il no, per questo o per quello. L’autoespulsione di cui parla la fonte più importante per la conoscenza dello scetticismo antico, non deve ritenersi assurda sotto alcun profilo perché, aggiunge Sesto Empirico, «anche l’espressione “nulla è vero” non solo annulla ciascun’altra, ma sovverte, anche, a un tempo, sé stessa» (II, 188). Pena l’arretramento di fronte alla radicalità con cui l’autentica skepsis deve perseguirsi, lo stesso ou mallon, dunque, formula decisiva e perno centrale dello scetticismo, viene evacuato mediante la sua rigorosa e conseguente, spietatamente logica autoeliminazione: «gli scettici», scrive dal canto suo Diogene Laerzio, «annullano anche l’espressione “non più”» (Vite, IX, 76); in tal modo la filosofia, o meglio il discorso filosofico rinuncia a sé stesso (non ritroviamo forse qui l’ètimo stesso dell’itinerario percorso anche da Wittgenstein?) esentandosi da ogni scelta o rifiuto riguardo ai propri presupposti94. Proprio come nel pensiero taoista, insomma, assistiamo − attraverso questo definitivo congedo da ogni assunzione tetica o critica (che pone cose o le giudica) − alla «messa al bando che mette al bando sé stessa», proprio perché non v’è alcuna pretesa né intellettualistica né di altro tipo «di accedere a un al di là della contraddizione»95, cioè ad una verità ritenuta superiore. Per questa ragione, neanche la formula dell’ou mallon può diventare un precetto dottrinale, nella misura in cui ciò significherebbe, a sua volta, costrizione a non percorrere un altro odos, un’altra via nell’irrisalibile tessuto di un reale che, per così dire, “comprende” il proprio possest. Quindi perfino l’ou mallon deve venire sottoposto a quella che si potrebbe forse chiamare un’autoskepsis.
Posta la volontà di farlo, come sfuggire a questo labirinto della ragione, a questo inabissarsi del logos in sé stesso? Pirrone − e certo la cosa non sorprende − non teorizza questa difficoltà, non specula positivamente sulla questione: è contemporaneo di Aristotele, ma con lui ha poco o nulla in comune. Sembra piuttosto che il suo consiglio sia di argomentare prendendo man mano le distanze dai propri stessi argomenti e poi, finalmente, lasciar perdere tutto. Precisamente su questa soglia estrema in cui l’aphasia sembra aver conquistato tutto il campo, incontriamo forse il punto cruciale, il plesso decisivo che ci riporta di nuovo (ove mai ce ne fossimo allontanati) alle motivazioni di fondo della nostra ricerca. Perché se la filosofia cura sé stessa eliminandosi (abbiamo già incontrato più di una volta, si ricorderà, questo riferimento terapeutico), che cosa rimane allora? Rimane la vita, o meglio rimane un modo di vita. Non è un caso se Diogene Laerzio ci dà notizia − sulle tracce di Teodosio e dei suoi Capisaldi dello scetticismo, un testo non pervenutoci − che la filosofia scettica «non deve essere chiamata pirroniana; se, infatti, non è possibile cogliere il movimento della ragione degli altri, non potremo conoscere la disposizione mentale di Pirrone; e, non conoscendola, non potremmo essere chiamati nemmeno Pirroniani […] Uno potrebbe essere chiamato Pirroniano per la somiglianza dei suoi modi di vivere con quelli di Pirrone» (Vite, IX, 70). Posto che il pensiero altrui è al fondo inapprensibile, lo sarà anche quello di Pirrone, dunque, non potendolo conoscere, “pirroniano” non sarà chi segue il suo pensiero, ma soltanto colui che segue il suo modo di vita. In ultimo, cioè, è la vita che decide. Ed è per questo che l’elemento cruciale e in ultimo incontestabile dell’insegnamento di Pirrone doveva essere l’esempio. Ci confrontiamo quindi con una liberazione ed un congedo radicale dalla filosofia «cui tengon dietro soltanto un orientamento pratico ed un’ascesi dell’azione»96. L’avvitarsi del logos su sé stesso sfocia, si riversa, sbocca nella vita così com’è: nel suo così, nei modi inaggirabili in cui essa si offre senza che possa darsi o predicarsi un’istanza superiore, una e iperurania, che trascendendoli li diriga, li governi, li coordini verso un fine predeciso. Questo tropos, questa condotta esistenziale, paradossalmente «sarà d’altronde un modo di vita non filosofico», scrive Hadot evocando quella strategia “mimetica” che tra poco analizzeremo: «È la vita stessa, vale a dire la vita di tutti i giorni, la vita che fanno tutti gli uomini […] mangiare quando si ha fame, bere quando si ha sete»97. Questa abissale semplicità, questa zona in cui solo il Neutro regna senza nulla imporre, la si può raggiungere solo una volta liberati da tutte le opinioni, da tutti i dogmi, da tutti i presupposti: e, nel distacco “eckhartiano” più radicale, liberati perfino da questa stessa liberazione.
Ora, non si potrebbe forse caratterizzare con più precisione il modo in cui dada e Duchamp decostruiscono il “discorso” artistico e la sua “filosofia”. Alla distruzione dell’integrità dell’oggetto, nel Montage dada corrisponde punto per punto la disintegrazione dell’unità del soggetto. Per “concludere” il percorso dell’ironia, per renderlo credibile, bisogna dissolvere anche l’Io ironico, bisogna astrarsene, bisogna abolirlo in quanto presupposto. Allo spietato annientamento dell’aura estetica “oggettiva” (e oggettuale) corrisponde, punto per punto, lo spietato, radicale annientamento di ogni ipotesi fondativa, di ogni centralità del logos e della “ben rotonda” parmenidea verità. «Un’altra caratteristica di dada è l’incessante separazione dai nostri amici», dice Tristan Tzara, «Non si fa che dividersi e presentare le proprie dimissioni. Il primo a dare le dimissioni dal movimento dada sono stato io. Lo sanno tutti che dada non è niente. Io mi sono dissociato da dada e da me stesso non appena ho capito l’effettiva portata del niente»98 (il primo corsivo è ns.). Qui, nonostante le apparenze, siamo all’opposto dell’atteggiamento nichilista che è stato sempre addebitato a dada, e che in realtà significa pensare il niente come se fosse niente, niente che dia da pensare. Dada è perpetuamente in via-di; ma questa via non conduce in alcun luogo perché va verso il vuoto − «la forza di vacuità di questo movimento fu molto salutare», dice lo stesso Duchamp (S, 149) − un vuoto che si vorrebbe colmo di possibilità diverse e alternative. L’autentica ascesi di dada è la radicale dipartita da sé stesso99. Ogni esercizio di indifferenza che non si eserciti prima di tutto sul soggetto, sull’io che lo attiva (ma disattivandone le componenti) resta cinismo a buon mercato. Ma se tutto è equivalente-indifferente, se non c’è nulla da redimere o da sperare, se dada non vuole “salvare” niente, tantomeno sé stesso, se ci confrontiamo irrevocabilmente con la perfetta isosthenia che già gli scettici indicavano, allora tanto vale riderne. Il dialogo inscenato da Nietzsche tra il personaggio del Vecchio e Pirrone si conclude esattamente su questo tema a suo modo “definitivo”: «− Pirrone: Dirò agli uomini che devo tacere e che essi devono diffidare del mio silenzio. − Il vecchio: Ti ritiri dunque dalla tua impresa? − Pirrone: Al contrario, mi hai or ora mostrata la porta per la quale devo passare. − Il vecchio: Io non so, ci comprendiamo ancora appieno? − Pirrone: Probabilmente no. − Il vecchio: Purché tu comprenda appieno te stesso! − Pirrone si gira e ride. − Il vecchio: Oh amico! Tacere e ridere, è ora questa tutta la tua filosofia? − Pirrone: Non sarebbe la più cattiva»100. Quello del riso è come noto motivo “kenotico” indissociabile da dada e da Duchamp, in cui tutto si pone come revocabile e reversibile101. Parallelamente, forse la più congrua risposta, la migliore “interpretazione” dello spettatore davanti a quell’oggetto non oggettivo che è dada, è un atto performativo: è quello di riderne. La stessa grande, assidua predilezione di Duchamp per i jeux de mots deriva da questa sorta di impietosa meta-ironia − cioè un’ironia che non tarda a rivolgersi contro sé stessa con ciò riuscendo a trasformarsi disinvoltamente in puro humour102 − poiché con essi «esaltiamo i poteri di significazione del linguaggio solo per abolirli, un istante dopo, più completamente»103: proprio perché non ci sono più “nomi”, o meglio un nome vale l’altro. E in Duchamp il riso nasce precisamente da ciò che aveva già intuito Baudelaire, dal fatto che il tipo dell’artista trascende sé stesso alimentandosi della sua interna dualità, così che egli «non è tale se non a condizione di essere duplice e di non ignorare nessun fenomeno della sua doppia natura»104; natura che appunto in Duchamp prende le vesti di un gioco elusivo e sempre rilanciato di permutazioni ed inversioni, scambi e transizioni (di parole, di situazioni, di attitudini, di oggetti, di generi sessuali) in cui ad un polo non si assegna né più né meno importanza o valore dell’altro.
Duchamp − sempre guidato da una «dose di perverso opportunismo»105 − ha smentito o contraddetto continuamente e talvolta con sarcasmo il suo passato artistico; ha giocato fino all’ultimo con le proprie posizioni, ruotandone, alleggerendone, spostandone il senso: mostrando che un Senso non esiste. Come noto, per venti anni, dal 1946 al 1966, sembra emblematicamente rinunciare ad ogni forma o impegno di espressione artistica. Dopo la sua morte, si scopre che per tutto quel tempo aveva lavorato in segreto a Étant donnés, non soltanto un’opera postuma creata in vita ma un’opera «concepita come donazione testamentaria»106. In questo caso tuttavia (e soprattutto secondo la direzione che sta guidando la nostra ricerca) solo apparentemente siamo in presenza di un atto dissociato e contraddittorio, tantomeno di una smentita o di “tradimento”. Si tratta infatti di una di quelle opere, direbbe Blanchot, che si affermano solo per riconoscersi «sotto l’attrazione dell’inoperosità»107. Il proverbiale silenzio nel quale Duchamp lavora a Étant donnés (un’opera fondamentalmente “retinica”: in effetti Duchamp ha dichiarato varie volte con grande disinvoltura che se avesse avuto un’idea sarebbe tornato a dipingere) fa esso stesso parte del suo Grand Jeu: è, potremmo dire, l’opera non operante che accoglie, trattiene in sé e finalmente “libera” l’opera operante, e che deborda dall’“opera” come convenzionalmente continuiamo a intenderla poiché ne valica disattivandoli i bordi, ne mette in questione i confini prestabiliti, i limiti “estetici” tradizionali108. Proprio per questo − come abbiamo già precisato − il “fare” di Étant donnés non trascende, non smentisce né tradisce il “non fare” degli anni del silenzio, e questo non trascende quello: indivisibili, inopponibili, fanno insieme segno verso una zona di indiscernibilità, un terreno indecidibile, un’archiunità di sovrana indifferenza, di completa, “consumata” adiaphoria.
Ma un altro straordinario caso di autoevacuazione elegantemente snobistica − basata sul motivo dell’indecidibilità che abbiamo già analizzato − è fornito dalle circostanze che si riferiscono al trattato sui finali di partita nel suo prediletto gioco degli scacchi che Duchamp scrisse nel 1932, dal titolo emblematico L’opposition et les cases conjuguées sont réconciliées. Vale la pena lasciare la parola allo stesso Duchamp:«I finali di partita sui quali tutto il libro s’impernia non interessano a nessun giocatore di scacchi, ed è questa la cosa più divertente. Il tutto riguarda solo le pochissime persone al mondo che hanno fatto le stesse ricerche compiute da Halberstadt e da me, perché il libro l’abbiamo scritto insieme. Neppure i campioni di scacchi si sognano di leggerlo, anche perché il problema che affronta può presentarsi al massimo una sola volta nella vita. Si tratta di possibili finali di partita, ma così rari da sembrare inesistenti […] Ancora una volta si trattava di qualcosa di inattuale, di assolutamente inutilizzabile» (S, 85). Siamo di fronte ad un fare che autoironicamente elimina sé stesso, un fare-per-nulla che di nuovo si rende indiscernibile dal suo preteso opposto, come indicando la fonte da cui entrambi provengono, quella “armonica”, sovrana Indifferenza che non appare ma che li apparenta.
Si potrebbe a ragione pensare che tutti questi atteggiamenti, questi abiti di pensiero, queste pratiche eteroclite, implichino una condotta fuori dal comune, uno stile di vita anomalo, segnato da una visibile eccezionalità. Niente di tutto questo. O quantomeno, la cosa si presenta in modo più complesso, più sottile. Partiamo di nuovo dalla lezione dello scetticismo antico. Alcune bizzarrie del suo comportamento che già conosciamo, in cui l’impassibilità e l’indifferenza che lo guidavano si espressero con punte di eccesso, certamente non potevano non venir notate dal volgo. Ma Pirrone − in ciò rappresentando un modello per la condotta di vita del filosofo scettico − proprio perché libero da pregiudizi che avrebbero caricato di un segno negativo o positivo (farebbe lo stesso, come sappiamo, poiché comunque determinato) ciò che lo circondava aspirando ad offrire una giustificazione all’esistente, non mette mai in discussione le tradizioni e le consuetudini, non si ribella mai né alle leggi promulgate dagli uomini né a quelle che regolano tacitamente la vita ordinaria. Probabilmente è anche per questa ragione che egli, ricorda Diogene Laerzio, «fu talmente onorato dalla patria, che i concittadini lo nominarono sommo sacerdote e che in onore suo decretarono l’immunità dalle tasse per tutti i filosofi» (Vite, IX, 64). Nella misura in cui le percezioni e le opinioni, le inclinazioni e le posture che formano gli abiti ai quali ci adattiamo nella vita quotidiana non pretendono di rispecchiare la vera natura dell’essere delle cose, che resta per noi inconoscibile, non v’è alcuna ragione di respingerne la coerenza né di invalidarne con il ragionamento l’efficacia e l’utilità. Stolto e vano sarebbe dunque cercare di vivere diversamente dagli altri. È così che lo scettico, scrive Sesto Empirico negli Schizzi pirroniani, «si attiene, senza preconcetti dogmatici, all’osservanza della vita comune» (III, 235). E risulta istruttivo sottolineare (abbiamo già evocato il passaggio) come proprio da questa premessa egli deduca − nei termini radicali che talvolta gli sono stati riconosciuti − che quella che molti, e prima di ogni altro i filosofi, chiamano l’“arte della vita” non esiste affatto. «Ogni arte sembra comprendersi dalle opere da essa in modo peculiare effettuate», argomenta, «Ma non v’è nessuna opera peculiare dell’arte della vita; poiché quella che uno potrebbe dire peculiare di questa, si scopre essere comune anche al volgo, come onorare i genitori, restituire i depositi» (III, 243). Allora se i filosofi vivono la vita di tutti, significa ipso facto che «non esiste nessun’opera peculiare di coloro di cui si sospetta che posseggano l’arte della vita» (III, 249): e dunque questa, «che i filosofi hanno sempre in bocca, è introvabile» (III, 272).
Come che sia, non è un caso se Diogene Laerzio ci informa − già sappiamo − che Pirrone «viveva piamente insieme con la sorella, che era una ostetrica […] talora egli stesso portava alla piazza e vendeva, secondo le volte, piccoli uccelli e porcellini, e faceva anche le pulizie di casa, con indifferenza. Si dice anche che lavasse un maialino, con indifferenza» (Vite, IX, 66). Identiche attività e identico atteggiamento troviamo in Lie-zi (Lao-tse), così come ci narra Chuang-tzu: «cucinava per sua moglie; badava ai maiali con altrettanta cura che se fossero stati uomini; si disinteressava degli affari del mondo»109. Pirrone dunque conduce una vita umile e ritirata, in stretta osservanza delle pratiche comuni alla vita sociale, come scomparendo nella media. «Fine di ogni attività», dice Aristotele nell’Etica Nicomachea, «è ciò che corrisponde allo stato abituale», alla hexis (1115b, 20-1). Non è forse vero, d’altronde, che quel gruppo di visitatori che si recarono da Eraclito aspettandosi di sorprendere il saggio in atteggiamento posatamente pensoso o comunque insolito, eccezionale, rimase deluso perché lo trovarono invece vicino al fuoco a riscaldarsi come ordinariamente, semplicemente si fa quando si ha freddo?110 Il saggio che si comporta come chiunque non esibisce la sua eccezionalità: egli, scrive Seneca nelle Lettere a Lucilio, «non sconvolgerà i pubblici costumi né con l’eccentricità della sua vita attirerà su di sé gli sguardi della gente» (14, 14). Come si alimentasse della strana, inedita virtù del neutro, il saggio si nasconde nell’evidenza comune, sfugge alla presa perché la posizione che egli assume scivola sulla superficie della vita ordinaria, della vita di tutti. L’immanenza è il suo luogo d’elezione, ma l’immanenza, giustappunto, è intrattenibile, incatturabile, illocalizzabile111.
In un aforisma de Il viandante e la sua ombra, in Umano, troppo umano, Nietzsche spiega a suo modo questa situazione ricorrendo al concetto o al “dispositivo” per lui consueto della maschera, visto qui come elemento strategico. «La mediocrità», scrive, «è la maschera più felice che lo spirito superiore possa portare, poiché essa non fa pensare alla gran massa, cioè ai mediocri, che si tratta di mascheramento: e tuttavia egli la mette proprio per loro, per non irritare loro, anzi non di rado per compassione e bontà» (af. 175). È probabile che in questa considerazione Nietzsche, grande lettore ed estimatore di Montaigne, si sia ispirato ad un passo dei Saggi ove si afferma di Socrate che «la sua grandezza non si esercita nella grandezza, ma nella mediocrità»112.
Come che sia, forse è proprio questa nietzscheana maschera della mediocrità che Marcel Duchamp ha amato indossare per tutta la vita: «Mi muovo nella piattezza», ha occasione di scrivere nel 1924 (S, 232)113. Come un saggio taoista (e come Montaigne), Duchamp «vive a discrezione»114. È un rivoluzionario integrale che non cercava la pubblicità, e Pierre Cabanne, che lo ha intervistato a lungo, sottolinea che Duchamp è «semplice, laconico, “banale”», tanto da «disarmare i “sacerdoti” del suo culto»115. E Denis de Rougemont ha scritto di lui come di qualcuno che è «affascinante e cortese fino all’invisibilità»116. Da questo punto di vista, egli assume un atteggiamento diametralmente opposto a quello caratteristico del dandy, che vuole sorprendere con l’inatteso e lo straordinario: che, come ha scritto Camus, «non si mantiene se non nella sfida», che «non può porsi se non opponendosi»117.
Qualche esempio? Negli anni Quaranta, Duchamp va e viene dagli Stati Uniti parecchie volte «con un lasciapassare di commerciante in formaggi» (I, 87). Interrogato sull’influenza di Cézanne e dei cubisti sul suo stile pittorico, risponde: «il cubismo mi interessò solo per alcuni mesi, verso la fine del 1912 ero già passato ad altro. Fu dunque un’esperienza, più che una convinzione. Dal 1902 al 1912 ho nuotato molto. Ho fatto per otto anni esercizi di nuoto» (I, 25; corsivo ns.). Con uno scatto del suo prediletto humour, freddo e autoironico, repentinamente quanto svagatamente − e qui per noi significativamente − Duchamp cambia discorso, risponde “disattivando” la domanda e la sua pretesa serietà. La vita “inoperosa” si intreccia alla pratica artistica (in questo caso la pittura, poi abbandonata) disponendosi sullo stesso piano, senza che alla seconda venga assegnata una patente di nobiltà o di eccezionalità o un qualche altro valore di più intenso impegno: gli esercizi di nuoto semplicemente sono altrettanto importanti della pittura. Forse è per questo che dichiara: «mi comporto da artista anche se non lo sono»118, tenuto in debito conto il fatto che «l’ambiente dei giocatori di scacchi è molto più simpatico di quello degli artisti» (I, 15). Se è vero, come scriveva Musil, che «per nessuno è difficile come per le anime veramente libere andare contro le usanze»119, allora si potrebbe dedurre che la libertà di spirito e di mente che lo scettico Duchamp non ha mai cessato di mostrare in tutta chiarezza, trova paradossalmente la sua più adeguata espressione: «Faccio, evidentemente, una vita da cameriere» (I, 113).
Anche in Kazimir Malevič − seppure da una prospettiva del tutto diversa da quella che abbiamo visto svilupparsi in Duchamp − è presente con forza il motivo dell’inoperosità e dell’attività non agente. In un breve scritto, quasi un pamphlet, del 1921, intitolato L’inattività come verità effettiva dell’uomo, egli dichiara sin dall’inizio che «il non fare dovrebbe essere lo scopo essenziale dell’uomo. Ma è il contrario che si è prodotto»120, e si propone di cancellare il sigillo d’infamia morale e sociale con il quale l’inattività è stata marchiata. Questo motivo non era nuovo nel suo pensiero. Un anno prima, in uno dei suoi testi filosofici più importanti ed impegnativi − Dio non è stato ancora detronizzato. L’Arte La Chiesa La Fabbrica, dedicato a confutare l’ideologia della produzione materiale che nella nuova Unione Sovietica stava prendendo piede anche tra i poeti e gli artisti − aveva già scritto: «Ma a quale esistenza aspira l’uomo? Egli aspira al riposo, cioè all’inazione, e ciascuna delle sue perfezioni meccaniche parla di questo riposo»121. La struttura sociale e produttiva cerca invece di «impedire ogni manifestazione di riposo, di semplice essere»122; essa è colpevolmente inconsapevole del fatto che il lavoro dovrebbe «liberare l’inazione», e che quest’ultima si identifica né più né meno con «la pace»123, cioè con la fine di ogni opera. Qui, massimo exemplum è l’inoperosità divina, e l’uomo può raggiungere la perfezione soltanto se «si abbandona nello stesso tempo al riposo, cioè all’assoluto», come Dio «libero da ogni azione»124.
La natura di Malevič è quella di un mistico, e la sua arte prende vita − dal Quadrato nero in poi, dello stesso anno del primo readymade di Duchamp, e con la formulazione del suprematismo − da un’effusione mistica che lo inserisce nella grande tradizione della spiritualità russa. Una delle fonti più pure di questo motivo dell’inoperosità la troviamo, ad esempio, in Meister Eckhart. Le opere che l’anima compie, le compie attraverso il medium delle sue potenze, cioè l’intelletto, la memoria e la volontà. «Nell’essere, però, non v’è alcuna opera […] ed in questo fondo tace il medium: qui domina solo la quiete e la festa»125. La via del distacco è dunque quella che dobbiamo intraprendere: essa lascia andare tutte le opere, non importa se “buone” o “cattive”, perché l’uomo sta di fronte all’essere kennelos, minnelos, werklos, geistlos, spoglio di conoscenza, di amore, di opere, di spirito126. «L’intelletto essenziale di Dio», dunque, essendo senza operazione, essendo insondabile riposo in sé stesso, si definisce come «pura e semplice potenza»127: per questo − scrive Eckhart con una formula paradossale tipica della sua lingua teologica che prepara e introduce il pensiero al silenzio − egli è «un modo senza modo»128.
La perfezione assoluta cui l’uomo non può non attendere è allora quella del «settimo giorno», scrive Malevič, il giorno a partire dal quale «Dio non crea più, si riposa sul trono dell’inattività e contempla la propria saggezza»129. Per l’uomo, però, si tratterebbe in realtà di un ritorno, poiché se l’ozio è il paradiso perduto come status mentale-divino, se è l’impensabile-inoggettivabile origine, abolita perché l’umanità nascesse e si specificasse in quanto tale, cioè in-opera, allora «l’avvento di una nuova inattività, questa volta divina, sarà un non-stato nel quale l’uomo sparirà, entrando nella suprema immagine della determinazione perfetta»130. Ma si tratta di un’immagine senza immagine: quella della iconologia dell’ascesi131 che caratterizza l’opera di Malevič come eredità e testimonianza pittorica e di pensiero della grande mistica occidentale. Non è un caso se − dal momento che per un pittore l’“azione” consiste nel dipingere un’opera − la forma che le riflessioni sull’inazione assumono all’interno del suo itinerario creativo, è quella di considerare conclusa, tra il 1918 e il 1919 (dopo il Quadrato bianco), la sua esperienza pittorica (salvo riprenderla più tardi in parallelo) per passare alla speculazione puramente teorico-filosofica, che accompagna l’intensa attività didattica svolta a Vitebsk presso l’UNOVIS (acronimo russo per “Affermazione delle nuove forme dell’arte”)132. D’altra parte, nell’opera di Malevič viene in chiaro con particolare evidenza che l’attività artistica in quanto tale non cessa di astrarsi dal proprio prodotto, è in costitutiva eccedenza e in costante aferesi rispetto all’opera. Questa non esaurisce l’arte; ma ciò significa che l’arte si “ritira” nell’opera e che non si mette all’opera nell’opera se non a questa rifiutandosi. Possiamo esporre il punto in un altro modo. «L’inazione è il principio di ogni lavoro», scrive Malevič, e proprio attraverso «la maledizione» del lavoro, il «nuovo paradiso» del non fare «dovrà re-instaurarsi»133. Ma se l’inattività, l’inoperosità è la fonte, l’apriori del lavoro in quanto tale, ciò non significa però che, terminato il tempo-lavoro, possiamo “finalmente” godere del meritato ozio, non significa che questo è raggiunto “dopo” il lavoro o attraverso il lavoro in qualità di premio alla fatica sostenuta. Significa invece che l’inoperosità è l’arche dell’opera, la sua ombra interna: l’aleph ove esse diventano indistinguibili l’una dall’altra.
Dobbiamo a questo punto affrontare e mettere in chiaro un passaggio fondamentale, che abbiamo comunque già visto profilarsi nelle considerazioni precedenti. È necessario pensare, valutare, determinare la dimensione del non fare e dell’inattività nel suo intrinseco riferimento alla dimensione del fare e dell’attività134. I due poli non sono affatto astrattamente contrapposti l’uno all’altro, il non fare non indica né presuppone una “liberazione” dal fare. Anzi l’otium, lo starsene in pace è il fine stesso delle forme e delle technai del fare, ma a queste immanente e da queste inseparabile: come se nel fare, nel nec-otium si liberasse quella dimensione che non si esaurisce, che non si compie con la sua effettuazione. Su questo passaggio Aristotele è chiarissimo. E sono passi celeberrimi. Il legislatore deve preoccuparsi «di ordinare la legislazione riguardante le cose militari e gli altri settori in vista dello stare in ozio e della pace», dal momento che «la pace è il fine della guerra, l’ozio dell’attività» (Politica, 15, 1334a; cfr. anche Etica Nicomachea, 1177b, 5). Il nobile non fare, la sovrana inattività è «il principio unico di ogni azione […] e se entrambe le cose sono necessarie, ed è preferibile l’ozio all’azione, anzi ne è il fine», continua Aristotele nella Politica, «bisogna cercare di stare in ozio facendo quel che si deve» (3, 1338a; corsivo ns.). Ne deriva che l’euzen, il vivere felice e soddisfatto di sé stesso non si riferisce tanto alla vita attiva caratterizzata, determinata «in vista di risultati concreti» e che dunque possiede un fine esterno al proprio consistere, ma è piuttosto quella che segue e coltiva «quei ragionamenti e quei pensieri che hanno in sé stessi il loro fine e perciò una certa forma di attività» (3, 1325b; corsivo ns.; cfr. anche Etica Nicomachea, 1177b, 15-25). Già lo sappiamo: pure la forma di vita teoretica è attiva, e da questo punto di vista potrebbe anch’essa dirsi una forma performativa di vita. Plotino, seguendo qui Aristotele, scrive nell’Ottavo Trattato della Terza Enneade (1, 15) che «ogni azione tende alla contemplazione». “Buona” è dunque solo quell’opera che (si) libera dall’opera. Come dire che il fine immanente all’opera è la sua disattivazione, perché l’assenza d’opera, scrive Blanchot, ha sì «bisogno di opere», ma «suppone le opere per lasciare che si scrivano sotto l’attrazione dell’inoperosità»135. Proprio tale lavoro inoperoso dell’opera è un modo dell’agire e del vivere che si configura come sospensione o secessione da ogni operare.
Potremmo anche riformulare il passaggio lungo il profilo di una corretta assunzione del pensiero taoista. Il saggio «non agisce e compie» ricorda il Tao Te King (XLVII); egli «fa il non fare ed allora non c’è cosa che non si governi» (III); e «quando non agisce nulla, nulla v’è che non sia fatto» (XLVIII). Ciò significa essenzialmente disinserire ogni ordine finalistico e abbandonare ogni prospettiva soggettivo-intenzionale, ogni volontà egoica ed oggettivizzante nei riguardi del mondo. L’attività resta, ma il suo oggetto è sottratto, o meglio si va sottraendo secondo un agire inoggettivabile e per questo “eckhartianamente”, “cusanianamente” purificato da ogni passione appropriatrice. Nella locuzione “non fare”, «la negazione non riguarda il verbo ma il suo complemento oggetto interno: l’agire è mantenuto (nella sua prospettiva di effettività), solo il suo oggetto è ritirato», e in questo modo (inusitato, eccentrico per la filosofia della prassi occidentale, ma non contraddittorio alla luce della fonte aristotelica prima richiamata) «l’attività è portata al suo pieno regime»136, cioè viene elevata alla sua perfetta attualità, viene conservata sì ma indeterminata rispetto al suo oggetto, del quale non subisce più la pressione e l’ansia “produttiva”. «Elimina ogni cosa», raccomanda Plotino (Enneadi V 3, 17, 35).
Ora, come si configura in Duchamp questa reciproca immanenza e inseparabilità tra fare e non fare? Si badi: non si tratta affatto di “applicare” più o meno meccanicamente dall’esterno le considerazioni appena svolte, perché, al contrario, ne ritroviamo l’intrinseca ratio, l’intima natura già nello stesso Duchamp: ovviamente − e non si potrebbe pensare o pretendere altrimenti − riconfigurate en artiste. Non è forse possibile interpretare il suo abbandono della techne riproduttiva della pittura come un fare che “scopre” in sé il suo fine nel non fare? Come se l’inattività che ad esso è seguita fosse non astrattamente, separatamente “altro” ma appunto lo scopo immanente, il telos inseparabile dalla sua attività pittorica? «Colui che persegue il tao», recita il Tao Te King, «viene di giorno in giorno diminuito e diminuisce ripetutamente finché giunge al non agire» (XLVIII).Questa profonda co-implicazione tra opera e inoperosità ci dice essenzialmente che l’assenza d’opera in Duchamp «non coincide affatto col rifiuto del linguaggio; attesta invece che le prerogative del segno sono state ad un tempo trasferite e conferite al gesto e alla risoluzione di tacere», stabilendo così strategicamente una non facile ma alla fine «perfetta coerenza, con al suo interno un gioco di richiami, in modo che la privazione ed il silenzio rimandino all’opera già compiuta, e che la compiutezza dell’opera rimandi alla reticenza futura, come a sua volta l’ostinato mutismo una portata retrospettiva»137. Duchamp preferisce vivere piuttosto che lavorare; ma è come se dicesse, sulla scorta di Montaigne, che vivere è ora il suo lavoro. Un lavoro che non si “aggiunge” alla vita per nutrirla, riprodurla o giustificarla, ma che vi si identifica disattivandosi come lavoro “separato”. Un agire mantenuto, trattenuto nel non-agire; e viceversa. A ben vedere è proprio questo il significato della domanda apparentemente stravagante che Duchamp si pone in una nota della Scatola bianca: «si può fare un’opera senza fare arte?»138, cioè un’opera resa inoperosa, desouvré come dicono i francesi, poiché vengono resi inattivi, “epochizzati” i legami, gli scopi, le ragioni contestuali e istituzionali che la definivano differenziandola e determinandola come tale. L’inoperosità non è quindi semplice, “immediata” inerzia o triviale abulìa.
Denis de Rougemont racconta di un gioco di domande e risposte in stile surrealista da lui fatto con Duchamp. Alla domanda “Che cos’è il genio?”, Duchamp risponde − da «terminologista» (S, 212) e appassionato jongleur de mots qual era − “L’impossibilità del ferro”, sfruttando l’omofonia tra fer-‘ferro’ e faire-‘fare’139. Esattamente come lo Chuang-tzu dice che «il genio è senza opera»140, così Duchamp dice che il genio è l’impossibilità di fare. Ma lo afferma attraverso un gioco di parole, attraverso un fare. L’attività stessa manifestata dalla performance verbale smentisce il suo proprio contenuto. Come coloro che filosofano assorbiti nella contemplazione fanno, “compongono” i loro discorsi, agiscono il theorein. E come un saggio taoista o un antico scettico, Duchamp agisce il non agire, fa il non fare. Verifica, ma potremmo ben aggiungere vive la loro adiaphoria, la loro in-differenza. Fino a proiettarsi in qualche modo oltre la vita.
«La tomba pose fine alla scepsi», si legge nell’Antologia palatina (VII 576). Se è vero che l’epitaffio sulla tomba di Duchamp, composto da lui stesso, recita: «D’altronde sono sempre gli altri che muoiono», allora la scepsi è come se vivesse retroattivamente di vita postuma. Grazie ad un ultimo guizzo di humour, nel caso di Duchamp la scepsi gli è sopravvissuta.
Uno dei tratti più evidenti che nelle arti moderno-contemporanee ci mostrano la persistenza di una fenomenologia auratica è l’elemento carismatico personale. In esso l’aura trova una sorta di Nachleben, di ‘vita postuma’141. Spesso le avanguardie radicali non richiedono allo spettatore, al pubblico, a chi vi si avvicina, una comprensione intellettuale, un’elaborazione razionale sia pur mediata dal sentimento o dalla sensibilità. Chiedono la fede, chiedono di credere: l’opera, il gesto, l’azione − attraverso un autoconferimento auratico − pretendono di essere “giustificati mediante la fede”. In assenza di un paradigma estetico normativo, di standard riconoscibili di accettazione socio-culturale, di parametri oggettivi e affidabili di giudizio, la fede − che non è, appunto, un’opera ma un’esperienza − trova il suo fondamento e il suo supporto magico nella persona stessa dell’artista, nel suo corpo medianico, attorno al quale si sviluppa un culto di ascendenza carismatico-sacrale. Marcel Duchamp, Piero Manzoni, Yves Klein, Joseph Beuys, Andy Warhol, Marina Abramovič (ma secondo altri percorsi certo anche Pablo Picasso) sono gli sciamani che danno vita ad una mitologia personalistica che ne alimenta il carattere settario-iniziatico e che in prima istanza appare relativamente indipendente dalla popolarità acquisita. Non sono più le opere la fonte del carisma, ma l’elemento personale. Non più la creatività poietica, ma l’esemplarità comportamentale. Questi artisti hanno il carisma proprio degli ethopoioi, dei forgiatori, degli inventori di ethai, di modi d’esistenza. «Il readymade non è un’opera ma un gesto», scrive Octavio Paz, «che può realizzare solamente un artista e non un artista qualsiasi bensì, appunto, Marcel Duchamp», e dal momento che esso non può né vuole essere di per sé un oggetto che susciti ammirazione o contemplazione estetica, «il passaggio dall’adorazione dell’oggetto a quella dell’autore del gesto è insensibile e istantaneo: il cerchio si chiude»142. Siamo dunque di fronte ad un investimento carismatico della figura, anzi del corpo “inviolabile” dell’artista, che acquista così una sorta di extra-territorialità all’interno della quale sembrano sospendersi le norme correnti e comunemente accettate (ed è appunto per questo che talvolta le azioni degli artisti contemporanei sono state oggetto di denunce, contenziosi giuridici e cause penali). Alla desublimazione dell’oggetto corrisponde la sublimazione del soggetto.
Ora, il luogo privilegiato anche se non unico in cui prende vita e si sviluppa il fenomeno del dominio carismatico è la dimensione religioso-spirituale. È quindi questa dimensione che dovremo attraversare. Per di più, potremo farlo confortati e per così dire “legittimati” da alcune dichiarazioni dello stesso Duchamp. Ad esempio quelle in cui sostiene, nel 1960, che l’artista deve opporsi al culto onnipervadente del mero benessere materiale ed economico «attraverso il canale del culto dell’io in una cornice di valori spirituali»: il suo compito dovrebbe essere proprio quello di «mantenere vive le grandi tradizioni spirituali con cui la religione sembra aver perso il contatto» (S, 202). E in una conversazione con la storica dell’arte Dore Ashton di sei anni dopo, afferma che «in un certo senso l’artista non è più un artista, è una specie di missionario. L’arte ha sostituito la religione e la gente prova per l’arte lo stesso rispetto che un tempo nutriva per la religione»143. In certo modo autorizzati da queste dichiarazioni (il cui tenore generale avremmo potuto trovare espresso anche dagli altri artisti prima citati) cominciamo allora a domandarci che cos’è il carisma.
Il carisma è ciò che manifesta la potenza operante dello Spirito Santo, poiché è un dono da questo largito con un atto assolutamente gratuito ad un credente ma a vantaggio dell’intera comunità alla quale appartiene. I carismi personali − grazie (charis, appunto), favori che si traducono o si manifestano in attitudini particolari o straordinarie come la profezia, la glossolalia, l’imposizione risanatrice delle mani− sono doni di Dio, scrive Paolo, «senza pentimento» (Romani 11, 29) cioè irrevocabili, che lo Spirito Santo ripartisce «come vuole» (Atti 12, 11), secondo la sua insondabile libertà, assegnandoli sì a singoli individui, ma sempre in relazione alla loro pubblica utilità per i fedeli o gli accoliti. Già nell’Antico Testamento, lo spirito divino manifesta ierofanicamente la sua opera attraverso grazie straordinarie connesse strettamente alle aspettative escatologiche: la chiaroveggenza profetica, le estasi mistiche di Ezechiele (Ezechiele 3, 12; 36, 26), i rapimenti misteriosi di Elia (1 Re 18, 12), l’effusione dello spirito (Gioele 2, 28-32). L’elenco più completo dei carismi neotestamentari lo troviamo in 1 Corinzi, 12. Essi sono accordati in primo luogo agli apostoli (in realtà proprio l’apostolato è il primo dei carismi) e a persone che rivestono funzioni ufficiali nell’ambito della chiesa nascente, cui vengono trasmessi − assumendo allora la veste di “carismi di governo”− dai presbiteri con l’imposizione delle mani (1 Timoteo 4, 14). Allo stesso Paolo vengono concessi doni miracolosi, come testimonia in 1 Corinzi 2, 4: «la mia parola, come pure la mia predicazione, non si basarono su argomenti persuasivi di sapienza, ma sulla dimostrazione di spirito e di potenza». Il carisma paolino, dunque, non si rivela in un’abilità oratoria che miri alla convinzione intellettuale o nel virtuosismo logico-speculativo dell’argomentazione, ma nel possesso personale di particolari grazie spirituali viventi e operanti, sebbene Paolo stesso, gracile d’aspetto, si mostri consapevole di non avere una particolare “presenza”. Dopo questo sintetico excursus, possiamo procedere nel nostro ragionamento aprendo una prospettiva complementare ma assolutamente decisiva.
Nel voluminoso manoscritto incompleto dal titolo Dominio, al quale Max Weber lavorò negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale − pubblicato postumo come quarta sezione di Economia e società − le riflessioni attorno al concetto e al fenomeno storico del carismatismo, della sua trasformazione e della sua conservazione allorché il primo portatore personale è scomparso, hanno una parte preponderante. Ci sembra di particolare interesse stabilire con cautela ma insieme con convinzione, attraverso alcuni esempi testuali, non un puntuale parallelismo né, ovviamente, un riscontro storico-fattuale, ma un collegamento di intento esclusivamente interpretativo e che potremmo definire “sottotraccia”, tra alcune delle riflessioni weberiane ed il motivo del soggettivismo carismatico che stiamo sviluppando sul terreno delle pratiche artistiche moderno-contemporanee.
Quando Weber scrive che il carisma (dell’eroe di guerra, del profeta, del grande demagogo) «è una potenza (Macht) anzi la potenza dell’antieconomicità»144, non facciamo fatica ad esempio a scorgere un tratto del tutto caratteristico e ampiamente riconosciuto di tutta l’opera “de-produttiva” di Duchamp, al cui interno acquista particolare rilevanza la torsione o la sospensione − nel senso proprio dell’epoché − che subisce l’oggetto utile o funzionale, dunque investito di un valore economico, ma decontestualizzato in readymade, cioè nel massimamente inutilizzabile, nel paradigma stesso dell’antieconomicità. Ma ciò può meglio comprendersi proseguendo e articolando l’inedito confronto tra le pagine weberiane e la pratica duchampiana.
Il dominio carismatico ha profondamente a che fare con «ciò che è straordinario e inaudito, estraneo a tutte le regole e le tradizioni […] esso si atteggia pertanto a rivoluzionario, tutto trasvalutando (Umwertend) e rompendo sovranamente con ogni norma tradizionale o razionale» (D, 480); per questo Weber, con evidente parafrasi paolina, aggiunge che il carisma «vive in questo mondo ma non di questo mondo» (D, 476). Weber insiste molto e a più riprese sulla potenza rivoluzionaria e anti-istituzionale del carisma “puro” − quello manifestato in prima persona dal suo portatore, l’individuo vivente che lo ha ricevuto e che ne esercita le prerogative − le cui forme fenomeniche (tra le quali lo stesso Weber, e ciò è molto importante qui per noi, evoca anche quelle artistiche145) infrangono e sovvertono regole, norme, tradizioni, creando «ciò che ancora non c’è stato» (D, 503). Netta ha modo di profilarsi qui la figura di Duchamp come colui che con «il gesto e l’esempio» (D, 830) quindi anche con «la condotta di vita» (D, 552) come strumenti carismatici, ha operato quella totale e definitiva «metanoia» (D, 503), quella sorta di “viraggio ontologico” delle pratiche artistiche moderno-contemporanee in cui siamo ancora − gli esiti attuali non fanno altro che dimostrarlo − profondamente coinvolti. La radicale Umwertung dei valori e dei costumi, delle leggi e degli apparati normativi tradizionali, trova per Weber una perfetta sintesi in un’altra evidente parafrasi, stavolta da Matteo 5, 21-2: «sta scritto, ma io vi dico» (D, 830). Ed è precisamente questa, senza alcun dubbio, l’egida sotto cui può porsi l’operazione di Duchamp. “Sta scritto”, nella tradizione storicamente accettata, che un’opera d’arte deve essere un manufatto risultato dell’applicazione di regulae condivise che sovrintendono ad un sapere razionale e manuale depositato nella techne artigiana e trasmesso attraverso i secoli; “ma io vi dico” che anche (ad esempio nel caso del readymade; ma non è forse segno di elezione carismatica anche la sua tonsura a forma di stella?) qualunque cosa come tale può ascriversi al registro artistico attraverso procedure sia mentali sia operative di deviazione e decontestualizzazione, mettendo così al contempo radicalmente in questione e in qualche modo forzando, già lo abbiamo visto, gli stessi codici di riconoscibilità di ciò che viene in virtù della tradizione sussunto al campo delle opere d’arte, con ciò svelando, di quei codici, la natura pattizia, la convenzionalità, dunque la storicità. Ciò non significa affatto sottovalutare l’importanza dirimente del riconoscimento del carisma (momento centrale nell’analisi weberiana146): il readymade resta indissolubilmente connesso al fatto che lo spazio, il luogo in cui viene collocato ha la possibilità (non la necessità) istituzionale di farlo socialmente, pubblicamente riconoscerlo come “opera d’arte”, cioè, direbbe Derrida, di controfirmarlo. «Senza questa controfirma politica e sociale, non sarebbe un’opera d’arte, non vi sarebbe firma», e questa controfirma «dipende dalla società, dalle convenzioni, dalle istituzioni, dai processi di legittimazione […] ciò vale anche per i capolavori più straordinari, Michelangelo per esempio. Niente firma senza controfirma. Ciò significa che la controfirma precede la firma […] Si inizia dunque», prosegue Derrida, «con la controfirma, con il “ricevente” […] L’origine dell’opera risiede in ultima analisi presso il destinatario, che non esiste ancora, ma è lì che inizia la firma», una firma che «è già prodotta dal futuro anteriore della controfirma, che sarà venuto a firmare questa firma»147. Il che in fondo è un altro modo per dire ciò che proprio Duchamp (non citato però da Derrida) aveva, come noto, già detto molto tempo addietro, e cioè che l’opera d’arte la fa chi guarda (cfr. S, 161-3).
Ma un altro aspetto − che per certi versi potrebbe risultare ancor più afferente e probatorio all’interno della lettura parallela che andiamo svolgendo − può rivelare la singolarità, la specificità indelegabile rivestita dal carisma duchampiano. Del tutto evidente è che la fenomenica e il factum stesso del gesto o del comportamento carismatico hanno luogo e acquistano il loro senso più proprio nella dimensione dell’extra-quotidiano. Il termine non compare nel testo incompiuto di Carismatismo. Compare invece in una lettera risalente agli anni della sua redazione nella quale Weber sviluppa il tema della non-quotidianeità del dominio e delle strutture in cui si attua nel tempo, mediante la sua trasmissione regolata, la trasformazione-oggettivazione del carisma (la comunità eucaristica, il monastero, la setta). Nonostante la sua assenza letterale, però, la descrizione storico-analitica del fenomeno cui tale concetto rinvia attraversa diagonalmente tutte le pagine del testo che avrebbe dovuto comparire nella versione definitiva di Economia e società. È indubitabile che le caratteristiche rivoluzionarie e disgregatrici di ogni status storico-tradizionale sulle quali l’annuncio carismatico − perfetto contrario del dominio patriarcale e di quello burocratico − fonda, soprattutto nella sua fase iniziale, la sua legittimità e di questa il necessario riconoscimento, sono caratteristiche toto caelo avulse dalla sfera del quotidiano e, scrive Weber nella lettera cui facevamo riferimento, dalla «forma della normalità»148. Bene: proprio su questa soglia incontriamo di nuovo il colpo di genio di Duchamp. «Ogni avvenimento che esca dal binario del quotidiano può scatenare forze carismatiche», scrive Weber (D, 532). Duchamp, mediante il rovesciamento spaesante del readymade, traguarda sì la dimensione dell’extra-quotidiano, dell’extra-feriale, ma lo fa collocandosi − e qui sta il suo tratto eminentemente, potentemente ironico − nella dimensione diametralmente opposta, attingendo appunto dal qualunque cosa come tale, eleggendo a protagonista del suo gesto proprio l’oggetto quotidiano, il più prosaico e banale, mero exemplum di una serie di identici industrialmente ri-prodotti. L’extra-quotidiano si spalanca e prende forza carismatica in Duchamp attraverso la “messa in opera” del suo contrario, ed è precisamente all’interno di questo movimento oppositivo e al contempo neutralizzante in cui i due poli si sospendono vicendevolmente, che può, proprio nella più prosaica quotidianeità, manifestarsi, aprirsi o inscriversi la dimensione del sublime, come già altrove abbiamo argomentato149.
Ma il testo weberiano che stiamo esaminando − secondo una prospettiva, non abbiamo alcuna difficoltà ad ammetterlo, piuttosto eterodossa − può aiutarci anche a chiarire un altro punto che, sebbene in riferimento alle arti moderno-contemporanee rappresenti una vexata quaestio, non per questo risulta meno rilevante e delicato. Sia per l’impossibilità di realizzarlo nelle condizioni sociali ed economiche storicamente date, sia perché è stato sottostimato il potere di recupero neutralizzante da parte del totalitarismo mediatico-spettacolare, il progetto di riconvertire l’arte in prassi vivente è definitivamente mancato. Il dispositivo museale − che coincide con l’epoca della storia dell’arte intesa come disciplina − fagocita e archivia l’opera o il gesto dissenziente, anomalo, eversivo, alienandolo, assorbendolo e congelandolo formalisticamente in oggetto o documento destinato alla sola contemplazione disinteressata, cioè proprio quell’atteggiamento, quella categoria estetica contro cui le avanguardie storiche erano insorte150. Tale meccanismo è universalmente noto e scontato da tempo, tanto da essere diventato uno dei punti forti nel cahier de doléances della critica culturale del nostro tempo, così com’è noto e scontato che il dominio dell’estetizzazione mediatico-spettacolare di massa non è altro che la realizzazione rovesciata e perversa, ironica e derisoria delle aspirazioni delle avanguardie di unire arte e vita emancipandone le potenzialità liberatorie a partire dalla loro indistinzione. Eppure, proprio la prevedibile ciclicità di questo meccanismo storico-sociale può del tutto paradossalmente aprire la strada ad un altro genere − meno scontato e meno frequentato − di considerazioni, spostando o riallineando tratti e caratteristiche dello status quaestionis per disporli sotto una diversa inedita prospettiva. Se torniamo a Weber, il punto parallelo che possiamo recuperare a quest’altezza del problema è quello inerente al trasformarsi del dominio carismatico personale a causa della sua oggettivazione via trasmissione. Scrive dunque Weber: «Sia che dal seguito carismatico di un eroe guerriero nasca uno Stato, sia che dalla comunità carismatica di un profeta, un artista, un filosofo, un innovatore etico o scientifico nasca una chiesa, una setta, un’accademia, una scuola […] la forma d’esistenza del carisma è sempre restituita alle condizioni della vita quotidiana e ai poteri che la dominano, soprattutto gli interessi economici» (D, 510-11; corsivi ns.). L’essenza del carisma, pura nel suo statu nascendi, viene dunque fatalmente perduta e abbandonata, soprattutto «nella misura in cui se ne considera il carattere eminentemente rivoluzionario» (D, 512). Allorché scompare il portatore primo e originario del dono carismatico, e di conseguenza si apre il problema della sua successione − in qualunque modo e attraverso qualsiasi procedura burocratico-istituzionalizzante la si voglia intendere −, «l’annuncio carismatico […] diviene inevitabilmente, a seconda dei casi, dogma, dottrina, teoria oppure regolamento, statuto giuridico» (D, 511; corsivo ns.), così che il compenetrarsi dei due poteri diametralmente opposti, carisma puro e tradizione, «è un fenomeno normale» (Ibidem) e «per lo più inevitabile» (D, 512; corsivo ns.)151.
L’analogia con il tema che qui stiamo seguendo appare trasparente, e quest’analogia ci permette di avanzare una deduzione interpretativa. Bisogna partire dal carattere di inevitabilità del processo di oggettivazione del carisma ribadito più volte da Weber. È indubbio che nel momento in cui la contestazione o il rifiuto del dispositivo istituzionale vengono distorti e neutralizzati, classificati e musealizzati come “opera” − ricostituendo quell’aura che, se non altro appunto sul piano dell’opera, si intendeva demolire − essi cadono nell’inautenticità o in quel velleitarismo avanguardistico che in molti casi già in origine li contraddistinguevano. Ma precisamente qui sta il punto. Se questo processo di recupero neutralizzante è, come dice a chiare note Weber, inevitabile, se è un fenomeno normale, allora ha poco senso continuare a farne il perno del ragionamento, e la cristallizzazione istituzionale del carisma artistico − accompagnata dalla contestuale considerazione negativa circa le avanguardie che non sono riuscite a realizzare le proprie aspirazioni − hanno tutto l’agio di disporsi sotto un’altra luce. Esattamente la prevedibilità, la fatalità del fenomeno permette di spostarne, di trasferirne l’interpretazione su un altro piano. È necessario insomma mettere in campo un’argomentazione più sottile e meno prevedibile.
In primo luogo, v’è da dire che, se far carico al dispositivo museale della fagocitazione istituzionalizzante è motivo inconfutabile, nondimeno ciò rivela in filigrana il presupposto più o meno sottaciuto, del tutto astratto e, questo sì, insostenibile sul piano storico concreto, in base al quale se non esistesse quel dispositivo, allora − quasi con la consequenzialità di un sillogismo − arte e prassi vivente potrebbero finalmente liberarsi a vicenda e la destituzione dell’opera, non più catturata dal dispositivo museale, consumarsi fino in fondo senza trovare ostacoli. A fronte di questa posizione tutto sommato idealistica in base alla quale si immagina il verificarsi di una situazione storicamente impossibile o impraticabile per poi imputarne la mancata realizzazione agli attori in campo, si potrebbe anzi sostenere che proprio il fallimento diventa paradossalmente la figura essenziale e decisiva dell’operatività artistica moderno-contemporanea, attraverso cui essa si assicura del suo carattere utopistico-immaginario (altra qualità non può avere, ad esempio, l’insistenza sull’assunzione del caso con la conseguente “irresponsabilità” autorale) e del suo rifiuto del principio di prestazione in favore di pratiche votate a quel “dispendio sovrano” alieno da ogni logica compensatoria (questo e non altro è il suo nucleo etico) che essa ha sempre − più o meno consapevolmente − teorizzato, praticato e rivendicato. Un’utopia realizzata non è più un’utopia; tale deve rimanere per non perdere quel segno forte di trascinante virtualità, di entusiasmante e per definizione illocalizzabile potenzialità. Proprio quest’ultima osservazione ci permette di proseguire il nostro ragionamento.
In secondo luogo, infatti, se è inevitabile che − al pari dell’indebolirsi e della progressiva socializzazione dell’originario evento carismatico − l’inoperosità venga catturata e ricompresa nel dispositivo museale, se ciò è davvero imposto da fattori impossibili da correggere o limitare, allora ciò significa che, proprio in virtù di quella inevitabilità o irreparabilità, diventa lecito accreditare al tentativo di stringere nel fare inoperoso arte e prassi vivente una riserva di senso che non si esaurisce, non si consuma con l’inevitabile-irreparabile in cui pure è necessariamente coinvolto sul piano storico-fattuale. Come se tale riserva di senso fosse in qualche modo paradossalmente garantita da quell’inevitabile-irreparabile che deve, appunto, comunque accadere, che non può non prodursi, che è − così abbiamo visto esprimersi Weber − un «fenomeno normale»; come se l’essenza dell’inoperosità (se ne ha una) risiedesse altrove e si “salvasse” rispetto al suo destino storico-evenemenziale; come se la sua attuazione non esaurisse, non dissipasse tutte le possibilità dell’evento che essa incarna. Per chiarire questo ultimo punto, vale provare a rileggere secondo la nostra particolare prospettiva, dopo quello di Weber, alcuni passaggi di un altro testo che forse possiamo utilizzare di nuovo in chiave analogica lato sensu.
Prendiamo la seconda parte del Conflitto delle facoltà dal titolo Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, che Kant scrisse nel 1798. Si tratta di pagine “preromantiche” in cui il perno principale dell’argomentazione ruota attorno ai concetti-guida di passione e affetto, spontaneità ed entusiasmo, ed è per questo che gli specialisti non hanno mancato di notarne il carattere anomalo e in controtendenza rispetto a quello conservatore e “sovranista”, statalista e implicitamente autoritario della filosofia politica kantiana. Riferendosi alla Rivoluzione francese allora di stretta attualità, Kant scrive: «La rivoluzione di un popolo di ricca spiritualità, quale noi abbiamo veduto effettuarsi ai nostri giorni, può riuscire o fallire […] questa rivoluzione, io dico, trova però negli spiriti di tutti gli spettatori […] una partecipazione d’aspirazioni che rasenta l’entusiasmo»152. Dopo aver stabilito che «è solo in sé giuridicamente e moralmente buona quella costituzione che per sua natura è in grado di evitare per principio la guerra offensiva […] cioè che pone la condizione per cui la guerra (fonte di ogni male e di ogni corruzione dei costumi) sia evitata e sia quindi garantito negativamente alla specie umana, malgrado tutta la sua fragilità, il progresso verso il meglio»153, Kant presagisce, «in base agli elementi e ai segni precorritori dell’età nostra», il raggiungimento di questo fine (cioè la costituzione repubblicana, alla quale esplicitamente si riferisce), che rappresenta un fenomeno nella storia dell’umanità così significativo che «non si dimentica più, poiché ha rivelato nella natura umana una disposizione e un potere per il meglio tale che nessun uomo politico ha potuto fino ad oggi estirparlo dal corso delle cose»154. E conclude: «Pure, anche se il fine intravisto in questo avvenimento oggi non è stato ancora raggiunto, anche se la rivoluzione o la riforma della costituzione di un popolo dovesse da ultimo fallire, oppure se, dopo qualche tempo, tutto ricadesse nell’antico corso […] non perderebbe per nulla della sua forza quella predizione filosofica» (corsivo ns.)155.
Ci si accorderà che il paradigma argomentativo kantiano risulta straordinariamente significativo in ordine al ragionamento che andiamo sviluppando. Il tema vero non è la cattura, che per l’appunto si è riconosciuta inevitabile, delle istanze etico-politiche dell’avanguardia più radicale da parte del dispositivo museale, il tema sul quale puntare l’attenzione non è che queste vengano cannibalizzate dal mercato. Il tema vero e più profondo è l’entusiasmo, come dice Kant, che esse hanno potuto suscitare, l’energia e la «partecipazione d’aspirazioni» che hanno saputo sprigionare, i germi che hanno prodotto e che sono entrati in circolo nelle pratiche artistiche, nella lotta culturale e nei modi di vita personali anche se quelle istanze di liberazione avessero o hanno dovuto «da ultimo fallire»; un entusiasmo, una passione che «non si dimentica più», e che nella sua essenza non perde «nulla della sua forza» poiché non può ridursi né completamente spegnersi con la fagocitazione museale o la realizzazione perversa che le fanno ricadere «nell’antico corso». Giustamente Foucault − commentando nel suo corso del 1982-1983 al Collège de France il breve testo kantiano che ha attirato la nostra attenzione − scrive: «Ciò che è significativo è la maniera in cui la Rivoluzione fa spettacolo; è la maniera in cui essa è accolta, tutt’intorno, da spettatori che non vi partecipano, ma che la guardano, che vi assistono e che, nel migliore o nel peggiore dei casi, si lasciano trascinare da essa […] Ciò che dunque è importante nella Rivoluzione non è la Rivoluzione stessa […] ma ciò che accade nella testa di coloro che non la fanno […]»156.
Queste riflessioni confermano, ci sembra, la credibilità del parallelismo che stiamo seguendo. Non importa che le rivoluzioni falliscano; falliscono sempre, in quanto tali. Importa la potenza che liberano, l’energia che sprigionano. A meno di credere in modo del tutto improprio e incongruo che, ad esempio, incontrare lo Scolabottiglie di Duchamp nella sala di un museo rappresenti davvero la smentita o la sconfessione, il disconoscimento o la revoca del fatto che già abbiamo abbondantemente messo in chiaro, e cioè che egli si è servito dell’arte come di un modus vivendi, vale a dire che ha cercato di fare della propria stessa vita un’opera d’arte. Anzi si potrebbe aggiungere che (paradossalmente ma non troppo) proprio il fatto di produrre − inevitabilmente, fatalmente, ripetiamo − una sorta di “scoria museale” trasformata o ridotta in forma di “opera”, lascia quelle istanze libere di generare una virtualità permanente, una tensione, un’esuberanza a spirale inconclusa, un potere di aferesi che mostra la potenza inoperosa che ancora in esse è presente, da cui altre pratiche potranno in seguito ripartire, e che forse risponde alla stessa radicale, fondativa e irriducibile apertura dell’essere. «Gli n tendono agli n +uno», scriveva Gadda nella sua Meditazione milanese, «ma non sanno a cosa tendono, che, se lo sapessero, gli n +uno esisterebbero già»157.
Assieme a Duchamp, Joseph Beuys ha incarnato indubbiamente uno tra i maggiori fenomeni carismatici dell’arte contemporanea. Per certi versi si può affermare che, più che un artista nel senso classico-tradizionale del termine, Beuys è stato una figura di culto e una persona (cioè etimologicamente una maschera) in cui arte e vita tendono a indistinguersi in un unico compito e in un unico dispositivo di esistenza. Il suo celebre cappello di feltro come segno iniziatico-affabulatorio, il bastone pastorale, il giubbotto da cacciatore o pescatore che rinvia alla figura di Socrate oppure a quella di Cristo e degli apostoli che dietro suo mandato “pescano” anime, stanno in fondo a dimostrare come l’artista non produce immagini nel senso estetico del termine perché lui stesso è diventato un’immagine. Torna qui − ma ci si accorderà facilmente che non l’abbiamo in effetti mai abbandonato − il motivo su cui già ci siamo soffermati a proposito della filosofia antica come prassi vivente e volontà performativa. Il motivo cioè della prevalenza nell’azione del chi sul che cosa. Quando Hannah Arendt riflette sul fatto che nel caso del genio e, conformemente al nostro argomentare, del soggetto carismatico, «chi si è» trascende e va oltre «in grandezza e in importanza qualsiasi cosa si possa fare e produrre»; quando afferma che «la grazia che salva i talenti veramente grandi si esprime nel fatto che le persone così dotate restano superiori a ciò che fanno, almeno finché è viva la fonte della creatività; infatti tale fonte scaturisce da chi essi sono e rimane esterna all’effettivo processo creativo, così come è indipendente da ciò che possono realizzare»158, ebbene appaiono in filigrana ma perfettamente ritagliate le figure di Duchamp, di Beuys e di altri artisti carismatici della contemporaneità con il loro ascendente di natura sostanzialmente magico-sacrale.
Attraverso la sua idea utopica di una “scultura sociale” in base alla quale ogni essere umano è un “artista” nel senso che deve diventare demiurgo della propria esistenza e, potremmo dire plotinianamente, “scolpire sé stesso”, il Beuys “sciamano” e “antropo-artista”, erede (talora letterale) di Schiller, di Tieck, di Schleiermacher, di Schlegel, di Novalis, intende indicare il compito creativo e umanistico, ludico e liberatorio del vivere incarnato in un’economia comportamentale carismaticamente esemplare. Ben più del disincantato Duchamp, il romantico Beuys, con la sua aura numinosa ed il suo ascetismo ecologico, si presenta come un modello sociale, politico ed estetico per il futuro, quasi fosse un’esortazione vivente alla vita “liberata”. Nel 1971, nell’aula 20 della Kunstakademie di Düsseldorf dove insegnava (e dalla quale verrà licenziato a causa della sua anomalia rispetto all’impostazione didattica istituzionale) fa la lavanda dei piedi agli studenti; azione ripetuta a Basilea su sette spettatori, seguita dall’immersione nell’acqua battesimale. Ben si comprende quanto nell’edificazione della sua mitologia personale conti l’elemento simbolico-religioso (qui citato, anzi re-citato à la lettre), “eucaristico”, testimoniale. Qui l’arte come veicolo e strumento che rifiuta la separatezza e l’alienazione ideologica cui l’ha condannata la società borghese, sembra tendere a soddisfare o sostituire esigenze spirituali alle quali la pietrificazione della religione ufficiale, istituzionalizzata e dottrinalmente codificata, non riesce più a rispondere. Ed in effetti le azioni rituali − efficaci per il solo fatto di essere celebrate − che tanta parte svolgono all’interno della dimensione più esplicitamente performativa delle avanguardie artistiche, possono venir considerate anche come una ripresa del paradigma liturgico, in cui l’azione non è l’imitazione o la rammemorazione simbolica dell’evento salvifico ma è essa stessa l’evento, ed il sacramento effettua imediate ciò che significa159.
Ma precisamente in quanto l’arte (estendendo o forzando i propri confini tradizionali e dunque intraprendendo un itinerario di dis-identificazione) è pensata e praticata come strumento e veicolo attivo di redenzione sia personale-individuale sia sociale, e nella misura in cui l’opera recede e si de-loca rispetto alla praxis, Beuys è stato protagonista − in particolar modo a partire dal 1967 − anche di un profondo coinvolgimento di natura politica attraverso la creazione di varie organizzazioni e movimenti di segno antistatale e antiplutocratico, tutti sorretti dall’idea della democrazia diretta praticata in prima persona e senza deleghe di sorta (e non v’è bisogno di sottolineare quanto sia diffusa questa idea nella prassi politica attuale). Nel manifesto della FIU (Free International University) fondata con Heinrich Böll, si dichiara che uno dei compiti dell’organizzazione è quello di istituire un «seminario permanente sul comportamento sociale»160. In effetti, l’elemento politico diventa inscindibile da quello artistico, e per una parte molto consistente del suo itinerario artistico-pedagogico, l’impegno di Beuys non è stato quello della produzione di “opere” ma quello dell’attivazione dialogica di rapporti umani in discussioni, confronti e dibattiti, tanto che, ad esempio, nel 1972 la sua partecipazione a Documenta V consistette in cento giorni di incontri con il pubblico su temi ecologici e più ampiamente politico-sociali. Il corpo dell’artista, il suo investimento carismatico diventano in Beuys il prodotto della sua stessa creatività esemplarmente autopoietica, nel tentativo di fare dell’arte nuovamente un’esperienza di verità operando strategicamente sul coefficiente auratico della propria persona-maschera. L’arte è un mezzo che viene sperimentato nella sua capacità di modificare gli assetti congelati del reale al di là delle leggi che regolano il valore di scambio imposte dall’imperium economico. Nel passaggio dall’estetico all’etico (proprio anche del movimento fluxus cui lo stesso Beuys aderì), nel proporre non più opere ma stili esistenziali creativi e modelli alternativi di comportamento, l’arte trasforma radicalmente i suoi connotati storico-tradizionali e diventa − esattamente come nei filosofi performer “artisti” della vita − esercizio esemplare, invenzione di possibilità nell’ambito della costruzione del sé, dispositivo autopoietico. Possiamo anche dire che la figura dell’artista carismatico − munito di una personalità unica e inarrivabile, dotato di una sorta di auratica intoccabilità e irresponsabilità malgrado o nonostante la sua programmatica apertura alla partecipazione sociale − sostituisce con il proprio comportamento quella tradizionale dell’artista come colui che eleva e modellizza al massimo grado, producendone gli exempla tramite le opere, quelle capacità tecnico-operative che ogni essere umano di per sé possiede nel suo corredo antropologico, e che appunto Beuys − con il suo celebre slogan secondo il quale tutti sono artisti − riconosce ad ogni uomo.
Ora, sul piano socioculturale, è del tutto ovvio che Beuys − sempre in bilico tra esoterismo e spettacolarizzazione, autopromozione e ritualità iniziatica − si sia spesso e da più parti attirato (proprio come successe a Diogene e ai cinici, e a larga parte dell’avanguardia artistica moderno-contemporanea) accuse di scaltra cialtroneria e fasullo imbonimento: di recitare insomma furbescamente la parte di un fumoso predicatore. Qui non importa che tali accuse provengano da posizioni culturalmente conservatrici se non reazionarie. A parte il fatto che l’unicità di tale provenienza non è del tutto scontata, il punto − meno marginale o inafferente di quanto si potrebbe pensare − merita un approfondimento che può svilupparsi lungo le direttrici di una duplice riflessione.
La prima. Secondo un’impostazione scientificamente e metodologicamente corretta dell’analisi sociologica, Weber precisa che il termine “carisma” «viene utilizzato in un senso affatto neutro sul piano valoriale» (D, 832). Così, eventi miracolistici, profezie fasulle, talenti che si sono espressi unicamente nel puro e semplice esercizio demagogico, rappresentano per l’indagine sociologica casi o episodi carismatici nella stessa misura di grandi figure della storia quali Gesù, Pericle o Napoleone: «infatti qui a noi interessa soltanto», prosegue Weber, «se essi erano considerati e funzionavano come carisma, ossia trovavano riconoscimento» (Ibidem). Allo stesso modo dovremmo considerare il caso − qui assunto in via esemplare − di Joseph Beuys. Il punto dirimente è quello dell’efficacia pragmatica. Secondo un’attitudine sobriamente, “weberianamente” avalutativa, è opportuno considerare il riconoscimento pubblico del suo soggettivismo carismatico (che si è esteso anche al di là del ristretto orizzonte del mondo o del sistema dell’arte) secondo una prospettiva puramente funzionale, in maniera indipendente dai “contenuti” da quello promossi. Ciò d’altra parte appare già implicito, a ben vedere, nel factum stesso di cui si è finora parlato, vale a dire nella identificazione pressoché totale dell’opera con la persona, con il “portatore materiale” del carisma, come si esprimerebbe Weber. E si ricorderà che una considerazione analoga già l’abbiamo svolta anche a proposito dei filosofi performer.
La seconda riflessione. A fronte del totale, filisteo e reazionario fraintendimento che continua a imperversare nella pubblicistica e che vede nell’arte contemporanea soltanto una congiura di cinica furbizia, soltanto un monumentale imbroglio, soltanto una cospirazione mercantile di dimensioni planetarie, appare indispensabile e intellettualmente corretto riconoscere che un aspetto di clownesca bizzarria, di astuta bêtise, di strategica buffoneria fa parte integrante delle arti moderno-contempornaee. Questa dimensione comica non va né sottaciuta né tantomeno faziosamente difesa, ma assunta, piaccia o no, come elemento costitutivo e strutturale delle pratiche artistiche almeno a partire dalle avanguardie storiche in poi, in special modo per quanto riguarda la loro dimensione più dichiaratamente “spettacolare”-performativa, dimensione che tale elemento hanno apertamente teorizzato, attuato e rivendicato. E che, secondo la nostra prospettiva, non può non rammentare le istrioniche e carnevalesche buffonerie del cinismo antico. D’altra parte, dobbiamo riconoscere che si tratta di vecchi discorsi. Della ciarlatanesca clownerie intrinseca all’arte moderna se ne era già accorto, come noto, Nietzsche, che non soltanto finì per preferire (con il puntiglio del risentito) Bizet a Wagner, ma che in un frammento della Volontà di potenza scriveva: «Se per il genio di un artista s’intende la più alta libertà di cui si può godere sottoponendosi alla legge, una divina leggerezza e facilità nelle cose più difficili, allora Offenbach ha più diritto al nome di “genio” di Wagner. Wagner è pesante, goffo: nulla gli è più estraneo dei momenti di spavalda perfezione come quelli che Offenbach, questo pagliaccio, raggiunge cinque, sei volte quasi in ciascuna delle sue bouffoneries»161.
Qui i sospetti circa una personale malafede o un deliberato intento ingannatore del singolo artista possono anche essere in qualche caso sollevati, ma − anche in ordine al criterio pragmatico-funzionale che abbiamo visto adottare da Weber − contano poco o nulla, e soprattutto risultano del tutto al di sotto della questione posta. D’altronde, anche il carisma sacerdotale e l’effettualità delle azioni liturgiche che ne discendono, sono in linea di principio indipendenti dalla condotta morale e dalla qualità etica del soggetto officiante. Qui, di nuovo, vale soltanto il sobrio e realistico disincanto che riesce ad analizzare l’oggetto in modo avalutativo, ad esempio lasciandone emergere il nesso (come già abbiamo fatto altrove) con quello strato pre-artistico di cui parla Adorno in pagine mirabili della Teoria estetica162. Pagine che sicuramente trovano la loro fonte nell’aforisma 361 di Gaia scienza dedicato al “problema del commediante”, dove Nietzsche scrive che «il buffone, il cantafavole, lo zanni, il giullare, il clown» sono tipi in cui si ravvede «la preistoria dell’arte e abbastanza spesso perfino quella del genio». Dice Tristan Tzara nella sua conferenza su dada che «gli atti della vita non hanno principio né fine. Tutto avviene in modo molto stupido»163. E non ci ricorda forse lo Chuang-tzu che «lo stato di stupidità provoca l’esperienza del tao?»164.
E dunque. Nell’antica Grecia (per limitarci all’Occidente, ma abbiamo visto in controcanto come il fenomeno sia intrinseco anche e per molti aspetti soprattutto alla tradizione orientale) i “maestri di verità” esibivano la pratica di sé, l’esistenza concreta, il proprio modus vivendi come forma visibile della loro filosofia. Discorso e vita sono inseparabili. Si pensa con il corpo e con l’atteggiamento comportamentale, perché il gesto stesso è pensante, la comprensione risulta inscindibile dalla prassi, la conoscenza si vuole modo di essere. Si “scrive” con le azioni, con gli atti; è il pragma la scrittura dei filosofi antichi, soprattutto in epoca ellenistica: filosofia vivente e pantomimica è quella dei presocratici e poi dei cinici, degli scettici, degli stoici, eredi diretti dell’esempio socratico. «Siate lettere viventi», raccomanderà più tardi − certo in tutt’altro contesto − Paolo ai Corinzi (II, 3, 2-3). Abbiamo percorso questi motivi cercando di analizzarne modalità, ragioni e limiti.
Già nel I secolo d.C. la filosofia e il suo insegnamento, come ampiamente noto, tendono a separarsi dalla pratica di vita, a farsi impersonali professionalizzandosi e a consacrarsi soprattutto alla lettura e all’esegesi dei testi canonici, Platone o Epicuro, Crisippo o Aristotele. Filosofare senza aver studiato la letteratura filosofica comincia ad apparire un’assurdità o una stramberia. L’accesso al vero sembra garantito solo dal progressivo accumulo di nozioni astratte e conoscenze teoriche, e non implica né richiede più le arti e le tecniche della trasformazione personale e dell’epistrophe come conversione del soggetto in questione. Il cristianesimo nascente compirà storicamente l’opera. Che esso sia un modo di vita (epperò basato sulla rinuncia e l’obbedienza e non, come l’antico, sul conferimento libero e creativo di uno stile al proprio bios) non è certo in discussione, e la tradizione monastica in primis, assorbendo le tecniche del sé di derivazione stoica nei propri esercizi spirituali, non cessa di attestarlo con dovizia. Ma è altrettanto indubbio che la religione e la cultura cristiana “colonizzano” e fanno propri adattandoli a sé l’etopoiesi e l’antropotecnica greco-antiche, lasciando in carico alla filosofia − diventata ancilla theologiae nelle Università dell’Europa medievale − la speculazione puramente razionale-astratta e lo studium teoretico-dottrinale.
Il divorzio tra modo di vita e discorso filosofico, tra etica e conoscenza o conoscibilità del mondo, si approfondisce nell’epoca moderna, che lascia inevaso il tema dell’arte di vivere. Benché le sue Meditazioni appaiano ancora sostanzialmente un esercizio, Descartes sostituisce il soggetto che sa-conosce al soggetto che pratica-sperimenta sé, il metodo intellettuale all’ascetico-spirituale. Rimanere presso sé stessi per lavorare su di sé ed elaborare forme di vita non è più la posta in gioco della modernità. Anzi, in alcuni suoi distretti, quelli ad esempio in cui più evidente appare l’istanza scientifica, essa si dà il compito opposto a quello dell’epoca antica: discorso e vita devono separarsi. Paradossalmente, proprio quell’attitudine sperimentale che per tanti e molteplici aspetti segna il Moderno, viene da questo abbandonata una volta che debba essere rivolta verso l’autopoiesi del soggetto, la cura di sé, la pratica tentativa di saggiare possibilità di vita per modellarla attraverso forme creative autonome e per diventare in tal modo, come diceva Montaigne, «opera di sé stessi»165. E proprio Montaigne, e poi Rousseau, Schopenhauer, Nietzsche, Wittgenstein − ognuno secondo le proprie, singole modalità − vanno annoverati tra le eccezioni che, nell’arco del lungo tragitto che conduce alla modernità, mantengono viva la tradizione “fontale” di una filosofia che non sia soltanto mathesis ma anche askesis166.
La nostra tesi di fondo (lo si sarà già ben compreso) è che il testimone di una filosofia vivente come esemplificazione dell’esperienza e prassi visibile, come arte del vivere, lasciato in eredità dalla filosofia antica ma sostanzialmente inevaso dall’intellettualismo letterario e impersonale della filosofia moderna, è stato in realtà raccolto da quelle arti contemporanee impegnate nella diserzione dalle opere per ridefinirsi − o s-definirsi − come comportamento de-produttivo e disappropriante, come tecnologia del sé, modo e stile inoperoso di abitare il mondo. Come ethos. Dunque, di conseguenza, segnate da un’afferenza politica.
È qui d’obbligo aggiungere un corollario. Ma un corollario importante. Se tutto ciò è vero, se questo passaggio del testimone rispecchia storicamente, come noi crediamo, la sostanza della situazione reale, le forze in campo e le loro dinamiche attuali, allora la produzione di immagini (più o meno “figurative”) non è più il compito delle arti moderno-contemporanee nell’accezione qui sviluppata. Ancora più chiaramente: l’immagine non è più la posta in gioco. Ora, è precisamente questo punto che le considerazioni sul “superamento” ipertecnologico dell’arte − nella misura in cui presuppongono che il suo compito sia quello di generare immagini − non riescono o fanno fatica a comprendere, mostrando paradossalmente (proprio loro) una visione arretrata e pregressa dell’attività artistica presente: combattendo insomma una battaglia di retroguardia. Che l’arte tradizionalmente concepita come vertice storico, antropologico e fabbrile della produzione di immagini abbia perduto, all’impatto con le tecnologie avanzate della visione, il suo valore esemplare lo aveva già detto Argan sulla scia di Hegel più di cinquant’anni fa. Ma quando ad esempio si sostiene che la distinzione tra arte e vita vacilla non per le ragioni e attraverso le fenomenologie che qui abbiamo analizzato, ma perché la nostra semiosfera quotidiana è così satura di immagini mediatiche tanto che l’arte non può più distinguersi in quanto sfera separata, autonoma e modellizzante; quando, altro esempio, la capacità degli apparati mediali non riproduttivi ma generativi di dar luogo a immagini prive di referente esterno, viene interpretata come “prova provata” del fatto che l’arte non è più in grado di “esprimere il proprio tempo” perché sfavorita nella competizione, allora è evidente che tali posizioni si fondano su un presupposto non più perspicuo logicamente e invalidato storicamente, attardandosi su di un terreno che le arti moderno-contemporanee hanno ormai abbandonato. Il tempo dell’immagine non è più quello in cui si esprime la loro essenza.
Le arti moderne, infatti, non possono in nessun caso astringersi alla creazione dell’opera come oggetto esterno, manufatto tangibile. Se la praxis allude ad un’istanza performativa che realizza in presenza ciò che significa e per questo diversa dalla poiesis perché, non espropriandosi-alienandosi come questa nel prodotto, ha il fine in sé stessa, allora potremmo concludere che l’opera perfetta è senza-opera. E se non v’è alcun oggetto messo in opera da un fare produttivo, allora l’essere in opera o l’essere in atto si conserva o si riconduce al soggetto in esercizio di sé stesso (cfr. Aristotele, Metafisica, 1050a, 22-35). È precisamente qui, in un’attività senza opera, nella piena presenzialità di una prassi priva di opera “operante”, che ritroviamo motivi, esiti, declinazioni che appartengono, da Duchamp in poi, alla radice di quelle arti moderno-contemporanee che prendono congedo dal paradigma (ri)produttivo-rappresentativo: comportamenti e gesti esemplari inscritti nel flusso vitale dell’esperienza quotidiana, pratiche situazionali e inventive dell’esistenza che spesso non arretrano di fronte allo “scandalo della verità”, creazione innovativa di uno stile o di una stilistica del tempo vissuto irriducibile ad ogni “monumentalizzazione”. «È inammissibile che l’uomo lasci una traccia del suo passato», diceva Breton167. L’arte non “significa” più i suoi significati, ma deve esserli, incorporarli. L’attitudine performativa che tende a farsi officium, liturgia, fa della vita dell’artista in esonero dall’opera un modello di esercizio autoplastico, una vita che aspira ad essere inseparabile dalla sua forma. Come se la vita senza opere fosse trasformata, per questo, in opera come disattivazione delle “opere”. Questo è l’ètimo profondo e caratterizzante delle arti moderno-contemporanee168.
Allinearsi su tale punto prospettico ci permette anche di chiarire uno snodo decisivo. Foucault non ha mai inteso quella che chiama “estetica dell’esistenza” − cioè, come già sappiamo, il tentativo di fare del bios, attraverso particolari tecniche del sé e l’invenzione di pratiche di vita, il materiale per un’“opera d’arte” − in termini estetizzanti, con i conseguenti rischi di farne una rinnovata teoria del dandismo, come invece ha creduto di potergli rimproverare Pierre Hadot169. Foucault ha sempre mantenuto e sviluppato i temi della cura di sé e dell’arte di vivere (formulazione che in verità non usa spesso) propri dell’Antichità sul piano dell’edificazione di una morale non normativa: l’autoesperienza e la pratica “atletica” della psyche non derivano da precetti che le trascendono, non sono applicazioni di un codice di regole a priori come accadde nelle religioni rivelate. Ora, appare del tutto evidente che se c’è un’epoca culturale in cui la concezione dell’estetica e del fare artistico come produzione di un Bello ideale e regolativo, di un Bello oggettivato nell’opera concreta, viene abbandonata e desublimata, violentemente contestata e negata, è proprio la modernità artistica. La nostra ipotesi di collegarne la difforme fenomenologia all’estetica dell’esistenza come la intende Foucault, non ha quindi alcun bisogno di controbattere in anticipo ad un’eventuale confutazione basata sul rischio o sul pericolo di forzare il tema della vita come opera d’arte verso una deriva estetistica.
Si dischiude da qui, però, un altro e complementare orizzonte. «Essere radicato nell’assenza di luogo», scrive Simone Weil a proposito del soggetto o dell’anima alla ricerca di Dio170. Sarebbe, anzi senza dubbio è una descrizione perfetta, sebbene ovviamente involontaria, dello spirito e dello spazio etico (e non estetico) aperto dalle arti moderne, che costantemente spezzano l’identità di sé a sé, manifestando un “essere altrimenti” che, per parafrasare Lévinas, diventa un “altrimenti che essere”. Questa dinamica, però, non ha nulla di astrattamente, velleitariamente avanguardistico; anzi è qualcosa di perfettamente logico. Contrariamente a ciò che un certo senso condiviso lascerebbe credere, l’arte − in particolar modo nelle sue istanze moderno-contemporanee, segnate da una sorta di stasi frenetica − non ha (precisamente, si ricordi, come la figura stessa del poeta in Keats) alcuna identità specifica e precostituita o sostanza presupposta da difendere, proteggere, salvaguardare. Non è un idolo da tutelare in un luogo sicuro, non possiede alcun fondamentum inconcussum. Nella permanente negoziazione dei suoi labili, porosi, precari confini con la vita, l’arte, abolendo l’opera, si strappa continuamente, “elettivamente” dalla propria radice, ma la sua radice è questo stesso strappo, è l’esodo da un’identità che non esiste perché si mostra soltanto nel suo perenne dileguarsi, nel suo infinito riassestamento lungo una faglia sismica che la impegna in una serie di esoneri da sé stessa. Può ben riconoscersi l’artista moderno in quel kataskopos che Epitteto vede nel filosofo cinico, cioè colui che antevede, l’esploratore in avanscoperta, «l’uomo dell’erranza», l’uomo «della fuga in avanti dell’umanità» di cui parla lo stesso Foucault a proposito di Diogene171. Aristotele definisce la vita del filosofo bios xenikos (Politica, 1324a, 2, 15), una vita ‘straniera’ o ‘da straniero’ perché è costantemente e per statuto tesa verso l’ideale della perfezione: egli è dunque atopos, privo di un luogo che ne certifichi, ne definisca una volta per tutte l’identità. In qualche modo, anche l’artista è atopos. L’assenza di “località” delle arti moderne (da cui deriva la dialettica aperta con la loro museificazione), la loro incoercibile transizione-ad-altro non rimanda, però, ad una dimensione estetica né ad una “estetica senza oggetto”, ma apre ad un’esperienza eminentemente etica. Un’esperienza, certo, arrischiata e in fragile equilibrio, che si espone ad ogni passo − com’è evidente in tanti artisti − al pericolo di non riuscire ad andare fino in fondo a sé stessa né a venire a capo dei propri intenti, sempre in bilico sull’orlo del fallimento. Ex-per-ientia: la cellula interna della parola, per, è la radice indo-europea che ritroviamo nel greco peiro, peras, empereia: dice di un trapassare, di un andare-attraverso, di un cammino interstiziale. Nulla nell’experientia ci parla di un punto d’approdo, di un luogo al quale essa finalmente dovrebbe giungere e sedarsi, che esaurirebbe ed esaudirebbe l’itinerario ma proprio perciò non ne farebbe parte. Dunque il rischio e il fallimento ne fanno parte integrante, ne costituiscono anzi la spinta propulsiva, l’elemento paradossalmente necessario, perché lo scacco stesso misura il senso irrinunciabile dell’impresa. Altrimenti non sarebbe, per definizione, un’autentica esperienza.
Andy Warhol è l’eroe estremo, gelido e distaccato della moderna apatheia, che − costantemente a rischio di incantarsi del proprio disincanto − introietta la dimensione affaristica dell’arte (la business art) e il macchinico (il suo “voglio essere una macchina”)172, che allestisce le condizioni della tecnicizzazione o automazione integrale dei processi di riproduzione iterativa di un’immagine il cui originale non è mai esistito perché il prototipo si è perso nella replica infinita dei suoi simulacri dimentichi perfino di aver dimenticato la differenza tra illusione e realtà. Per questa ragione, non ha molto senso (pur se è stato storicamente giustificato e culturalmente plausibile) continuare a chiedersi se la sua opera e il suo stile di vita, prede volontarie e consapevoli dell’alienazione mercificante, siano più o meno complici dello strapotere mediatico che ne garantisce la circolazione diffusa, oppure assumano il valore critico di una denuncia condotta in termini artistico-estetici. Warhol è riuscito a fare della tecnica impersonale, più che una forma d’arte, una forma di vita, ad inglobarla in un movimento che la supera, dal momento che un ethos, un comportamento, un’esistenza completamente tecnicizzati si proiettano al di là della tecnica stessa eccedendone i contenuti e collocandosi su un altro terreno, in un’altra dimensione etica ed estetica. Con questo atteggiamento, a ben vedere, Warhol si dimostra un antesignano e un modello per molti degli esiti artistici successivi forse in misura maggiore e più profonda, più filosoficamente significativa, di quanto già non lo sia la sua celeberrima pratica di appropriazione delle immagini pubblicitarie e dell’oggettistica di largo consumo: più plateale, questa, più corriva, facilmente imitabile.
Tenuto conto del profilo interpretativo che andiamo seguendo, la parabola warholiana può rileggersi anche alla luce delle pratiche di vita del cinismo antico173. Pratiche che coltivano l’arte paradossale di schierarsi a favore della propria stessa spoliazione, di affrontare ciò che una certa sensibilità dichiara o percepisce come intollerabile affermandone paradossalmente l’effettività e l’inaggirabilità, di appropriarsi di una coercizione proveniente dall’esterno e così rovesciarne i presupposti. Il compiacimento che il cinico prova nell’adottare la politica del peggio rivendicando come sua propria strategia omeopatica precisamente ciò che gli viene rimproverato o che, con violenza indiretta, gli viene imposto, indica la speranza, come dice Jankélévich, di «far esplodere l’ingiustizia»174 incarnandone l’eccesso. Assumere dosi di veleno significa per il cinico rendersene immune e metterne in questione perciostesso l’efficacia letale. E qui risulta scarsamente importante che Warhol non consideri affatto un veleno (anzi, è palesemente il contrario) ciò che assume. È l’atto stesso che conta, e che questo atto si inscriva in una pratica di vita. Che cosa attestava Diogene quando afferrò gli ossi che dalla mensa gli venivano gettati e «mentre se ne andava vi orinò sopra, come un cane» (Vite, VI, 61)? Oppure quando, catturato come schiavo, il padrone gli proibisce di sedersi e lui pronto risponde che «non fa nessuna differenza: anche i pesci, in qualsiasi posizione stiano, vengono venduti» (Vite, VI, 29)? Afferma che l’applicazione letterale sconvolge la regola − una strategia che il buon soldato Sc’veìk conosceva bene175 − e, attraverso le prove che ciò comporta, stabilisce e riafferma, anche nell’occasione meno propizia, la propria scandalosa sovranità sugli altri e l’autarkeia, la padronanza che sa esercitare su sé stesso. Per il cinico, accettare, ed anzi cercare con i propri comportamenti l’adoxia, cioè la riprovazione pubblica, la cattiva reputazione, perfino il disonore, significa mettere in questione i criteri in base ai quali quelle qualifiche morali vengono nel tempo a costituirsi per poi venire assegnate. Mentre stava pranzando in piazza, i passanti si fermavano e lo chiamavano ripetutamente “cane!”; ed egli ribatté: «Siete voi ad essere dei cani, che mi state guardando lì tutti in piedi tutt’intorno mentre sto pranzando» (Vite, VI, 61). Diogene rovescia la situazione spingendola all’eccesso. Come farà in Diderot il nipote di Rameau: «Mi hanno voluto ridicolo e lo sono diventato». È certamente vero, ripetiamo, che in Warhol vi è l’esplicita, dichiarata ricerca non già dell’adoxia ma del suo contrario: del successo mondano e dell’affermazione pubblicitaria che valica i confini ristretti del jet-set e del mondo dell’arte (della gallery art) per conquistare mitologicamente i favori della doxa globale. Qui sta, naturalmente, la differenza tra cinismo antico e neocinismo. Ma il risultato in fondo è lo stesso, poiché in entrambi i casi (indipendentemente dall’intenzione o dalla propensione soggettiva) la strategia consistente nello spingere fino all’eccesso ciò che non possiamo né governare né controllare per appropriarsene rivendicandone la potenza, indica in ogni caso il tentativo di rovesciare esemplarmente, “carismaticamente” la situazione e uscirne comunque vincitori. Indica avere potere sul potere.
Ma potremmo portare molti altri esempi, sebbene declinati secondo aspetti ed esiti diversi, in cui le pratiche artistiche contemporanee si rivelano «il veicolo del cinismo», come − vedremo tra un momento − dice lo stesso Foucault. Ne facciamo un breve elenco limitato alle occorrenze più evidenti e antesignane, esso stesso consapevolmente insufficiente. Günther Brus che beve la propria urina, che nel 1962 passeggia nudo per le strade di Vienna ricoperto di vernice bianca e viene arrestato. Carolee Schneemann, pioniera e precorritrice della performance femminile, che in Meat Joy, del 1964, si rotola nuda tra cadaveri di animali. Gina Pane che mangia carne cruda (Diogene «provò a mangiare carne cruda ma non vi riuscì», Vite, VI, 34). Vito Acconci che alla galleria Sonnabend di New York, nel 1972, si masturba appena nascosto agli spettatori irrorando di sperma il pavimento. Oleg Kulik, arrivato dalla Russia a New York nudo e a quattro zampe in una cassa per animali, che mangia da una ciotola e defeca in pubblico per due settimane nel 1997 (la performance, dal titolo I bite America and America bites me, è un’esplicita citazione di quella famosa di Joseph Beuys che celebrò nel 1974 il suo arrivo negli Stati Uniti, dal titolo I like America and America likes me). Oppure, nella loro diversità operativa, le performances urbane di Adrian Piper (le serie Mythic Being e Catalysis), di Roman Ondák o di Cezary Bodzianowski in cui situazioni effimere, dettagli impercepiti, posture inavvertite, comportamenti stereotipati della vita quotidiana vengono portati all’eccesso per rivelarne il doppio fondo di assurdità, il risvolto che nasconde appena l’inquietante estraneità dell’ordinario urbano. Tutti questi episodi vanno ascritti, spesso letteralmente, a quella che potremmo chiamare la “posterità artistica” di Diogene e al paradigma del kynizein, della conduzione di una vita cinica totalmente eccentrica e dissenziente nelle sue manifestazioni più plateali e teatraleggianti.
Forse per disattenzione, legittima mancanza di curiosità o di interesse specifico, o più prosaicamente (capita anche ai grandi) per semplice ignoranza, lo stesso Foucault, tuttavia, manca completamente e più volte, quando invece ne avrebbe avuto ampia occasione, il riferimento alle arti moderno-contemporanee.
In una lezione del suo ultimo corso tenuto nel 1984 al Collège de France, preoccupandosi di rintracciare il percorso della posterità del cinismo antico come aleturgia, come edificazione e testimonianza personale della verità che ha luogo in una specifica forma di vita, Foucault seleziona l’ascetismo cristiano delle origini, le pratiche politiche rivoluzionarie e insurrezionali (il nichilismo russo, l’anarchismo, il terrorismo, il gauchisme) e l’arte moderna, «che è stata veramente il veicolo del cinismo»176. Riferendosi soprattutto a quest’ultima e concludendo la lezione, ammette di non aver proposto altro se non «annotazioni per un lavoro possibile», e aggiunge curiosamente: «la prossima volta torneremo a cose più serie, al cinismo antico»177. Bene, vediamo la status quaestionis.
Sappiamo dunque che Foucault auspica che l’individuo moderno apprenda a dar forma a sé stesso facendosi carico della propria autonomia etica. L’obbiettivo è quello di potersi edificare come soggetto non in rapporto alla conoscenza intellettuale ma in relazione ad un’autopoiesi: la verità non più come un oggetto da conquistare, ma come una sfida che individua nella pratica cui il soggetto sottopone sé stesso la chiave di volta per trasformarsi, modificarsi. In un testo dello stesso anno dal titolo Che cos’è l’Illuminismo?, che commenta l’omonimo celebre articolo di Kant, Foucault − leggendo nella modernità non un preciso periodo ma un vero e proprio ethos, un atteggiamento, un modo di agire e di comportarsi per così dire trans-storico − vede in Baudelaire colui che promuove il luogo, lo spazio “altro” dell’arte come l’unico in cui l’uomo moderno (il dandy, il poeta, il pittore) può inventare sé stesso e tentare di mettere in campo una «elaborazione ascetica di sé»178. Nella lezione citata, Foucault individua un’oggettiva ripresa dello schema del bios cinico e della sua messa a nudo dell’esistenza nel rilievo che durante l’Ottocento (in pratica con il Romanticismo, ma Foucault non lo precisa) assume la “vita d’artista”, che deve condursi in maniera irriducibile e incommensurabile rispetto alle norme ordinarie comunemente accettate. Ma c’è di più. Nell’età moderna, la vita dell’artista, con il modo tutto speciale e particolare in cui il soggetto si sperimenta e si plasma, diventa «opera d’arte essa stessa»179, testimonianza legittimante e pretesa inoppugnabile dell’arte nella sua verità, che appunto si rivela capace di imprimere, sulle tracce del cinismo antico, la forma della vera vita, la “vita altra”.
Quali sono i rilievi critici che − in linea con il vertice ottico che qui abbiamo adottato − ci sembra pertinente muovere alle considerazioni appena riportate, e che restano valide, riteniamo, nonostante il fatto che, come abbiamo visto, siano apprezzati dal suo stesso autore come semplici «annotazioni» prima di passare «a cose più serie»? Foucault sostanzialmente confina il tema della vita d’artista al XIX secolo. Menziona sì, di sfuggita, Francis Bacon, Samuel Beckett e William Burroughs. Tuttavia, se leggiamo attentamente, lo fa solo dopo aver spostato l’obbiettivo da quel tema a quello dell’eredità cinica reperita nella «riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza», alla funzione anticulturale o meglio di una «cultura che si rivolta contro sé stessa»180, e che emerge dall’opera pittorica o letteraria di quegli autori. Se però c’è un luogo o un’epoca in cui arte e vita tendono ad indifferenziarsi reciprocamente (pur, ovviamente, con esiti alterni), quello è appunto il Novecento, che certo porta a maturazione avamposti ottocenteschi, ma con modalità molto specifiche, dirompenti e indelegabili. Foucault non fa alcun riferimento a Duchamp né ad Artaud. Non vengono citate le avanguardie storiche come il dadaismo e il surrealismo né le pratiche artistiche che, sulle premesse di quelle, hanno disertato l’opera e hanno sviluppato proprio il tema della illocalizzabilità del confine tra arte e vita. Non vi si nomina il situazionismo come invenzione quotidiana di modi di vita collettivi, di pratiche clandestine e festive che tentano, nei propositi, di spingersi al di là dell’“arte”. Non vengono menzionate le ricerche teatrali degli anni Sessanta-Settanta (sulle quali tra poco ci soffermeremo a lungo) in cui la praxis attoriale viene condotta al limite estremo di sé stessa fino ad indistinguersi dalle tecniche autopoietiche tese a dar luogo a particolari forme di vita e sperimentazione di sé. Viene lasciato completamente inevaso il tema dell’otium laborioso, della feconda inattività e dell’inoperosità come disattivazione dell’opera, che resta, da Duchamp in poi, una delle figure o dei passaggi fondamentali della “vita d’artista” (stiamo alla locuzione dello stesso Foucault) intesa come forma utonoma, anomala e dissidente di una possibile esistenza “altra”.
D’altra parte quando Foucault − ed è solo uno tra i numerosi esempi che potremmo addurre − in un’intervista del 1982 sui temi del sesso, del potere e delle politiche dell’identità, afferma con forza che i rapporti che abbiamo il compito di sviluppare con noi stessi non devono essere di natura identitaria ma «di differenziazione, di creazione, di innovazione»181, viene spontaneo pensare all’etica creativa e processuale, all’economia comportamentale, ai modelli di autosperimentazione espressi dalla performance contemporanea, dalla body art, da fluxus, dall’Aktionismus viennese. Vi è tutto un orizzonte oltremodo afferente alle sue considerazioni, che però non viene da Foucault nemmeno lontanamente evocato.
In un’altra intervista − quella a Dreyfus e Rabinow, del 1983, densa e importante quanto un suo testo − Foucault dichiara che «L’idée du bios comme matériau d’une oeuvre d’art esthétique est quelque chose qui me fascine»182. Poco più avanti aggiunge: «ce qui m’étonne, c’est le fait que dans notre société l’art est devenue quelque chose qui n’est en rapport qu’avec les objets et non pas avec les individus ou avec la vie; et aussi que l’art est un domaine spécialisé fait par des experts qui sont des artistes. Mais la vie de tout individu ne pourrait-elle pas être une oeuvre d’art? Pourquoi une lampe ou une maison sont-ils des objets d’art et non pas notre vie?»183. Siamo noi, a nostra volta, étonnés, stupiti. Come si può affermare che al presente l’arte è diventata qualcosa che ha che fare unicamente con la produzione di oggetti e non con la vita degli individui? Sorprende, poi, che Foucault non veda o non tenga a mostrarsi consapevole almeno con un accenno fugace se non con un riferimento più articolato (che qui però sarebbe da ritenersi, crediamo, imprescindibile) del fatto che precisamente l’arte come dominio separato e specialistico, appannaggio esclusivo degli artisti, è stato il punto d’attacco polemico, l’oggetto di una insistita, permanente contestazione vissuta in prima persona da parte delle avanguardie storiche prima e poi, di nuovo, da parte di fluxus, del situazionismo, di Beuys, di John Cage, di tante declinazione dell’arte concettuale. Tutti artisti e correnti ai quali se quantomeno c’è una cosa che dobbiamo, è proprio l’idea che non solo una lampada o una casa sono opere d’arte, ma che la vita stessa come esercizio permanente e pratica di soggettivazione, terreno di inedite relazioni conviviali e di collegamento tra elementi prima separati, possa essere plasmata creativamente come tale.
Foucault insomma − questo è in sintesi il rilievo critico che crediamo potergli muovere − appresta la congiuntura ermeneutica favorevole ma la lascia completamente disattesa, non mostra contezza di tutto questo difforme panorama sebbene (è appena il caso di dirlo) lo avesse sotto gli occhi; pone le basi più pertinenti e metodologicamente avanzate per un’interpretazione filosofica di ampio respiro delle arti contemporanee impegnate in una produzione di esperienza che opera il passaggio dall’estetica all’etica ma poi ne nega implicitamente l’esistenza; affila gli strumenti concettuali e gli scenari storico-teorici per leggere adeguatamente gli esiti di molteplici settori delle pratiche artistiche attuali, ma poi ne manca toto caelo anche il minimo riferimento opportuno, appropriato e perspicuo184.
Qualcosa del genere accade anche con Peter Sloterdijk. Ma soltanto in parte, come vedremo, e ciò farà la differenza.
Nella sua imponente ricerca sull’elemento antropotecnico nella storia della cultura, in cui il lavoro su sé stessi, l’ascesi permanente, l’esercizio “atletico” e “acrobatico” (per usare le metafore dell’autore stesso) plasmano, modellano e trasformano la vita umana, Sloterdijk incontra sul suo cammino esemplificativo anche le pratiche artistiche. Nel Moderno, egli nota giustamente in Devi cambiare la tua vita − l’opera cui ci riferiamo − esse si emancipano dalla prevalente eredità di natura produttivo-fabbrile a favore dell’elemento performativo dell’esercizio continuo e dell’autoelaborazione. Ma poi, da questa promettente premessa, l’unico deludente esempio che se ne fa discendere è quello di Rodin, la cui attività appare «incessantemente votata all’esercizio»185. L’autopoiesi rimane ancorata alla produzione dell’oggetto materiale, dell’opera, quando invece la sua condizione o espressione più pura e adeguata essa la raggiunge quando la sua intrinseca dinamicità non si spegne, non si cristallizza nel prodotto. Non compare alcun riferimento più attuale, e soprattutto più pertinente, alla body art o alla performance e più in generale al coinvolgimento del corpo dell’autore, alla danza contemporanea o al teatro d’avanguardia, e ciò significa sostanzialmente ignorare quanto avvenuto nelle arti del Novecento per quanto riguarda gli sviluppi più significativi aderenti al tema antropotecnico dell’esercizio. Più avanti, Sloterdijk riscontra nella pittura delle icone il «culmine ascetico» delle pratiche artistiche, dopo il quale la storia dell’arte europea viene interpretata dall’autore in termini sorprendentemente conservatori, ristretti, riduttivi e toto caelo in contraddizione con la reale parabola storica, come un progressivo «indebolimento e dissoluzione delle pratiche ascetiche che rendevano possibile l’arte»186.
Il tema è ripreso ne varietur in Stato di morte apparente, dove Sloterdijk − tornando sulle pagine del precedente lavoro cercando di puntualizzarne l’intento − afferma che la disciplina della storia dell’arte può riformularsi come un vero e proprio esercizio disteso diacronicamente, che prende la forma di un insieme di pratiche ascetiche produttive di immagini. Ed infatti ripropone l’esempio della pittura delle icone nell’epoca fiorente del cristianesimo ellenizzato in quanto forma di ascesi autopoietica di carattere artistico-religioso, vista di nuovo − con accenti quasi organicisti − come vetta «degli esercizi di abilità» dopo la quale, nell’età moderna, «si arriva alla cesura che genera, nelle arti figurative, la decadenza della coscienza dell’esercizio» (corsivo ns.)187. Che è esattamente il contrario di quanto stiamo cercando di mostrare, e che in ogni caso − anche indipendentemente dal nostro profilo interpretativo − ci sembra oggettivamente almeno curioso sostenere. È d’obbligo aggiungere inoltre che il riferimento alla grande pittura iconica religiosa intesa come pratica ascetica sviluppatasi nei monasteri dell’Oriente cristiano-ortodosso, è talmente autoevidente nei suoi stessi dichiarati presupposti teologici da rimanere sul piano di un mero riscontro fattuale, risultando così pressoché privo di qualsiasi tenore interpretativo. Se davvero Sloterdijk pensa che «una filosofia non subalterna è possibile ormai soltanto grazie a una sua alleanza con le arti»188, allora avrebbe dovuto attrezzarsi per aggiornare e mutare radicalmente il panorama dei suoi riferimenti.
Ora, la cosa curiosa è che Sloterdijk in realtà lo aveva già fatto, quantomeno nella misura in cui è legittimo richiederlo o aspettarselo da un filosofo e non da critico o da uno storico dell’arte. In un testo precedente di una ventina di anni, contenuto ne L’imperativo estetico, dal titolo L’arte si ripiega in sé, scritto nel 1989, Sloterdijk aveva assunto in effetti una posizione diversa, molto più perspicua e aderente alla situazione artistica attuale. Chiosando implicitamente il Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, egli assegna al valore d’esposizione, alla visibilità “istituzionale” propria degli spazi deputati − la galleria, il museo, ma anche, pare di capire, a quelli esterni, concettualmente ridefiniti e “incorniciati” come contenitori dialogici di eventi artistici − e alla circolazione mediatica dell’opera, il fattore decisivo in assenza del quale «l’autorivelazione della forza creatrice non può giungere a compimento»189. In un’epoca in cui il valore estetico è fonte diretta per l’innesco del valore di scambio, all’esponibilità autolegittimante non solo dell’opera ma anche delle sue condizioni produttive e fruitive, consegue la sua convertibilità immediata in valore economico-finanziario, un valore creato dalla stessa soggettività artistica nella fase che potremmo chiamare auratico-numinosa (il fenomeno del carisma personale che abbiamo già analizzato): «Re Mida è ovunque. Se fosse stato giuridicamente possibile, Andy Warhol avrebbe venduto a qualche facoltoso collezionista tutti i percorsi stradali newyorkesi che aveva trasformato in opere d’arte per il solo fatto di averci passeggiato»190. L’inflazione espositiva, o più precisamente l’unicità indiscussa del carattere espositivo assunto dall’arte in concomitanza all’ampliamento del suo concetto e della casistica ad esso inerente, porta come conseguenza che «l’intera struttura della società tende al museo»191.
Dopo queste considerazioni abbastanza prevedibili e sulle quali è facile concordare, qui per noi è interessante, però, che la disamina di Sloterdijk non si arresta a questo traguardo, ma sembra aprire un orizzonte percorribile con il passaggio − pur giustamente ipotetico − ad una pars construens192. L’arte attuale, fagocitata dal suo stesso valore di esponibilità, sta sì vivendo da tempo una sorta di agonia autoreferenziale, eppure essa «possiede più di quanto possa essere mostrato. E dunque può solo mostrare che c’è un’eccedenza che non si mostra»193. Rimane insomma, pare di capire, uno scarto, uno spazio di manovra, il cui punto qualificante (qui per noi, ci si accorderà facilmente, molto significativo e finalmente perspicuo) potrebbe riconoscersi in «una rinuncia alla realizzazione»194, che spinge i destini dell’arte a «uscire dalle forme dell’opera, del valore, del bianco contenitore espositivo»195. Beuys, prosegue Sloterdijk, aveva a suo tempo ben compreso (ma in questo, aggiungiamo noi, sulla scia di Duchamp) che «c’è qualcosa di più universale e, al tempo stesso, di più intenso dell’arte artistica»196. Cioè dell’arte delle “opere”. Pur in estrema sintesi, non si potrebbe forse dir meglio. Necessario si rivela allora una sorta di spostamento laterale, deangolato e interstiziale: una pratica dell’indugio197 per iniziare quell’avventura inedita e imprevista che consisterebbe nel «rimanere inattivi e aspettare […] L’arte se ne sta a maggese»198. Ecco allora “conquistato” il nostro punto decisivo, perché questa mossa acrobatica da fermo è possibile solo nella misura in cui la pratica artistica diventa pratica aergos, senza-opera: «È il carattere in-operoso della felicità creativa a indicare all’arte una via per spostarsi ai margini» (corsivo ns.)199. Non è forse come dire che unicamente «l’esemplarità dell’esercizio pratico»200 (e non più, come abbiamo visto, quella dell’immagine) è in grado di mantenere aperto e praticabile una spazio che le arti − a patto di dichiararsi tuttora disponibili a vedervi elaborato qualcosa di decisivo in cui ne va del nostro stesso essere − potrebbero creativamente, inventivamente, costruttivamente occupare? E non è forse ciò che stiamo cercando di mostrare possibile lungo tutta la nostra ricerca?
Non sappiamo se consapevole o meno di parafrasare la domanda che si pose Duchamp nel 1913 e che già conosciamo circa la possibilità di fare opere che non siano “d’arte”, Sloterdijk si chiede: «Possono gli artisti dimettersi dall’arte senza esibire a loro volta queste dimissioni come opera d’arte?»201. L’importante non è rispondere alla domanda − Duchamp lo sapeva benissimo − perché ciò abolirebbe la sua fruttuosa forza interrogativa. E non bisogna interpretare il paradosso cui allude come se esso esprimesse un aut-aut, allo scopo di mettere l’arte contemporanea con le spalle al muro inchiodandola alla tautologia di un falso movimento o nel cul de sac della sua talora snervante deriva autoreferenziale. L’importante è farsi carico dell’aporia che la domanda contiene, è saper praticare il campo apparentemente impraticabile di tensioni irrisolte, di relazioni inconcluse ma proprio per questo transitabili che essa sa suggerire: mantenendone aperta la potenza interrogante.
Da ultimo, due citazioni. A loro modo e secondo il nostro itinerario, “risolutive”. In uno dei suoi passi visionari e profetici, Nietzsche, nel frammento 548 di Aurora, parla di «quella forza che un genio non impiega nelle opere, ma su se medesimo in quanto opera». Le arti moderne hanno lavorato in presenza su questo motivo, si sono date espressamente questo compito, che ha come scopo immanente − non “ultimo”, non enfaticamente escatologico − la liberazione dell’esistenza, perché il fine testimoniale dell’attività artistica non è l’estetica dell’opera ma l’etica dell’euzen, della vita felice.
In uno dei suoi esperimenti mentali dalla consueta e quasi inquietante lucidità anticipatrice, Paul Valéry scrive: «On peut concevoir une “époque” ou les arts spécialisés et faits exprés seraient abolis et remplacés par l’art des activités ordinaires. Et en somme par l’art de vivre: Ce serait vraiment la Civilisation, et peut-être tout s’oriente (difficilement, comme il faut) vers lui. Nos arts spéciaux seraient des étapes»202. Questo e non altro è il legato che le arti del XXI secolo devono saper raccogliere dalle arti del XX.
1 P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, cit., p. 339.
2 T. van Doesburg, Che cos’è dada?, in Almanacco dada, a cura di A. Schwarz, Feltrinelli, Milano 1976, p. 131. «Dada non vuole produrre opere d’arte», sostiene Argan per l’appunto nel suo ormai classico manuale di storia dell’arte, «ma prodursi in interventi a catena», in Storia dell’arte 1770/1970, Sansoni, Firenze 1970, p. 433. Una delle migliori “introduzioni” a dada − e in ogni caso quella forse più prossima alla nostra prospettiva − resta quella di V. Magrelli, Profilo del dada, Laterza, Roma-Bari 2006.
3 M. Duchamp, Marchand du sel (1958); trad. it. Rumma, Salerno 1969, p. 142.
4 A questo motivo della radicale s-definizione dell’arte nell’epoca moderno-contemporanea (con particolare riferimento alle figure di Duchamp e John Cage) abbiamo dedicato sia il cap. “Crocevia” di Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del presente, Castelvecchi, Roma 1999, sia la terza parte di La mosca di Dreyer, Jaca Book, Milano 2007.
5 Cfr. ad esempio N. Bourriaud, Formes de vie. L’art moderne et l’invention de soi, Denoël, Paris 1999.
6 O. Paz, Apparenza nuda. L’opera di Marcel Duchamp (1966; 1972; 1976); trad. it. SE, Milano 1990, p. 75.
7 Proprio Ernst Jünger ci fornisce una perfetta definizione involontaria della figura di Duchamp quando descrive l’esperimento come il «punto d’incontro del determinato e dell’indeterminato − dell’azzardo e della precisione»: e questo è «lo stile» che nel Moderno caratterizza «non solo la pittura, non solo la scienza, ma l’esistenza stessa del singolo individuo» (corsivo ns.), in E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, trad. it. Adelphi, Milano 1989, p. 102 (il volume a cura di F. Volpi riunisce per la prima volta i testi che i due autori dedicarono l’uno all’altro in occasione del loro rispettivo sessantesimo compleanno, nel 1949 quello di Heidegger, nel 1955 quello di Jünger). Aggiungiamo che lo stesso Duchamp ha dichiarato che «i readymade sono an-arte», in Marcel Duchamp, sezione “Effemeridi”, 18 ottobre 1965, senza pagina, Bompiani, Milano 1993.
8 G. Bataille, Van Gogh Prometeo, in L’arte, esercizio di crudeltà. Da Goya a Masson, trad. it. graphos, Genova 2000, p. 54. Ci si potrebbe chiedere perché Bataille non ha mai scritto, perlomeno a nostra conoscenza, una sola riga su Marcel Duchamp: né mai menzionato, né mai citato.
9 Analoga posizione la troviamo espressa da Joseph Beuys: «Considero queste operazioni un mezzo in vista del fine. Quindi con l’arte non perseguo assolutamente qualcosa che resti nell’ambito di quest’arte, ma qualcosa che vada oltre, altrove. E non deve affatto essere parte dell’arte in senso stretto», in J. Beuys, M. Ende, Arte e politica. Una discussione (1989); trad. it. Guanda, Milano 1994, p. 103. È d’altronde evidente che quando Beuys si riferisce al lavoro del dentista come a «un campo straordinario, un’arte grandissima» (op. cit., p. 78), richiama la concezione greco-antica della techne precedente alla sua interna separazione che ha dato luogo all’arte “bella”.
10 «Ho avuto trentatré idee, ho fatto trentatré quadri», dice con il suo proverbiale ironico disincanto Duchamp, cfr. D. de Rougemont, Marcel Duchamp come se niente fosse, in «Riga», 5 (1993), p. 71 (l’intero fascicolo, a cura di E. Grazioli, è dedicato a Duchamp).
11 Intorno al concetto di pratica così concepito è incessantemente tornato il lavoro filosofico di Carlo Sini.
12 M. Duchamp, Scritti (1975; 1994); trad. it. Abscondita, Milano 2005, p. 226. Da ora in poi nel testo S seguito dall’indicazione della pagina. Anche in Artaud è costantemente presente questo tema dell’arte come via di “guarigione”: «il teatro smette di essere un gioco, lo svago di una serata effimera […] per diventare una specie di atto utile, e assumere il valore di una vera e propria terapeutica», in Il teatro e il suo doppio (1964); trad. it. Einaudi, Torino 1972, p. 119.
13 J. Beuys, Cos’è l’arte? (2011); trad. it. Castelvecchi, Roma 2015, p. 32.
14 Anche per questa ragione, la lettura in chiave alchemica della sua opera − tema comune e punto d’incontro delle interpretazioni di molta parte della critica e della filologia duchampiana − può risultare interessante ma alla fine insoddisfacente, specie ove pretenda − e spesso proprio questo accade − di totalizzarne monotematicamente il significato e la portata.
15 M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto (1967); trad. it. Abscondita, Milano 2009, p. 89. Da ora in poi nel testo I seguito dalla pagina. «La grandezza consiste nell’astensione», scrive Jankélévitch ne L’ironia, cit., p. 169.
16 G. Agamben, Bartleby o della contingenza, in G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993, p. 63.
17 A. Boatto, Duchamp: il segno, in M. Duchamp, Marchand du sel, cit., p. 21.
18 Sembra che Duchamp, quando nel 1913 era bibliotecario a Sainte-Geneviève, si sia interessato a Pirrone. Non sappiamo se si tratta di un caso, fatto sta che il 1913 è l’anno del primo readymade, con il quale Duchamp abbandona la pittura e l’arte “retinica”. Dovremmo dedurre qualcosa dall’astrale coincidenza che anche Pirrone «dapprima fu un pittore», e nella sua città, a Elide, «si conservano dei portatori di fiaccole da lui dipinti di discreta fattura» (Vite, IX, 61 e 62)? Certo no, ma il fatto resta. Del periodo passato alla Sainte Genéviève, Duchamp dice: «Era un impiego notevole nel senso che mi lasciava numerose ore di ozio» (Marchand du sel, cit., p. 139). Vedremo tra breve quanto l’otium sia assolutamente cruciale nella “poetica” duchampiana. Ed anche in quella keatoniana: «Quel che mi diverte fare adesso», dichiara Buster Keaton, «è la pubblicità. È un lavoro facile, puoi farlo in fretta e poi tornare a casa a goderti la vita», cit. in K. Brownlow, Alla ricerca di Buster Keaton, trad. it. Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009, p. 225.
19 «Lo scetticismo è il ritorno di ciò che è stato confutato», scrive Blanchot con parole che senza dubbio potremmo riferire anche a Duchamp, «è ciò che irrompe anarchicamente, capricciosamente, irregolarmente, ogni volta (e nello stesso tempo non ogni volta) che l’autorità, la sovranità della ragione, ossia della sragione, ci impongono il loro ordine o si organizzano definitivamente in sistema. Lo scetticismo non distrugge il sistema, non distrugge nulla, è una sorta di gaiezza senza riso, e comunque senza scherzo, che d’improvviso ci rende indifferenti all’affermazione, alla negazione: neutro, quindi, come ogni linguaggio», in La scrittura del disastro (1980); trad. it. SE, Milano 1990, p. 94.
20 Una delle migliori introduzioni teoretiche alla filosofia scettica resta tuttora il libro del 1926 di Giuseppe Rensi, Apologia dello scetticismo (La Vita Felice, Milano 2011); cfr. anche l’insostituibile studio risalente al 1950 di Mario Dal Pra, Lo scetticismo greco (Laterza, Bari 1975). Al capitolo II (L’antinomia della ragion pura) del Libro Secondo della Dialettica trascendentale, Kant parla dell’Antitetica come di quel «conflitto di conoscenze secondo l’apparenza dommatiche (thesis cum antithesis), senza che si annetta all’una piuttosto che all’altra uno speciale diritto all’assenso»; questo, dice Kant, è il metodo scettico (che può servire ad esempio per distinguere se l’oggetto delle affermazioni opposte sia reale o illusorio), da distinguersi toto caelo dallo scetticismo, il quale è invece ben più radicalmente «principio di una inscienza secondo arte e scienza, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza», in Critica della Ragion Pura (1781, 1787); trad. it. Laterza, Roma-Bari 1977, p. 350 e 352.
21 «Il punto di vista del dubbio è l’antitesi dello scetticismo», scrive Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia, cit., p. 356.
22 Montaigne, Saggi, cit., p. 661. Come noto, la scritta epoche in caratteri greci era apposta su una delle travi della biblioteca di Montaigne, insieme ad altri aforismi tratti da Sesto Empirico.
23 «Lo scettico non si limita a opporre l’afasia alla phasis, il silenzio al discorso», scrive Agamben, «ma sposta il linguaggio dal registro della proposizione, che predica qualcosa di qualcosa (legein ti kata tinos), a quello dell’annuncio, che non predica alcunché di nulla. Mantenendosi nell’epoche del ‘non piuttosto’ il linguaggio si fa angelo del fenomeno, puro annuncio della sua passione», in Bartleby o della contingenza, cit., p. 64.
24 Op. cit., p. 65.
25 A. Schopenhauer, Etica. Sulla libertà del volere. Sul fondamento della morale, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1961, p. 129.
26 Op. cit., p. 114.
27 Da qui, la violenta critica di Nietzsche a Schopenhauer, cfr. l’af. 39 di Umano, troppo umano I intitolato appunto La favola della libertà intelligibile.
28 «Grazie all’utilizzazione letterale e paradossale dell’idea di cardine», scrive Paz in L’apparenza nuda, «le porte e le idee di Duchamp si aprono senza smettere di essere chiuse e viceversa», cit., p. 83.
29 «Per andare al cinema è necessario prendere una decisione», dice Duchamp in Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 117.
30 A. Schopenhauer, Etica. Sulla libertà del volere. Sul fondamento della morale, cit., p. 143.
31 Cfr. C. Schmitt, Un giurista davanti a sé stesso. Saggi e interviste, trad. it. Neri Pozza, Venezia 2012, pp. 182-3.
32 «Circa queste questioni la verità non è afferrabile […] non già perché ci sia, ma resti eternamente velata all’insufficienza della nostra mente», scrive Rensi, «bensì proprio perché non c’è […] Tutte queste questioni sono insolubili, ossia solubili con uguale validità», in Apologia dello scetticismo, cit., pp. 42-3. Non conosciamo nessun altro migliore “commento involontario” alle parole di Duchamp.
33 Conversazione con Otto Hahn, in «Riga», cit., p. 60.
34 T. Tzara, Conferenza su dada, in Manifesti del dadaismo e lampisterie, trad. it. Einaudi, Torino 1975, pp. 84-5.
35 A.B. Oliva, Il mercante del silenzio, in M. Duchamp, Scritti, cit., p. 13.
36 Dovremmo essere «alleviati quanto è possibile dalle idee di responsabilità», scrive Breton nel Secondo Manifesto, «sempre pronte ad agire come freno», in Manifesti del Surrealismo; trad. it. Einaudi, Torino 1966, pp. 95-6.
37 La parole di Duchamp richiamano irresistibilmente un celebre passaggio dei Saggi di Montaigne: «“Non ho fatto niente oggi”. Come? Non avete vissuto? È non solo la vostra occupazione fondamentale, ma la più insigne» (Op. cit., p. 1485).
38 Cfr. R. Barthes, Osons être paresseux, in Le grain de la voix. Entretiens 1962-1980, Seuil, Paris 1981.
39 M. Blanchot, La comunità inconfessabile, cit., p. 40. Ben prima di Jean-Luc Nancy, Maurice Blanchot è stato il primo grande pensatore dell’inoperosità, almeno a partire da Lo spazio letterario (1955), ma quasi mai il debito con questo autore è esplicitamente riconosciuto.
40 Y. Klein, L’avventura monocroma, in Yves Klein. La Vita, la vita stessa che è l’arte assoluta, Museo Pecci, Prato 2000, pp. 78-9. La vera vita filosofica, scrive Hadot, «non può che essere vissuta nell’abbandono dell’inattività», in Che cos’è la filosofia antica?, cit., p. 78.
41 Op. cit., p. 37.
42 Cfr. Marcel Duchamp, Sezione “Effemeridi”, cit., 22 giugno 1966. Straordinaria, inarrivabile e mirabilmente “istruttiva” l’ironica autoconsapevolezza espressa nella frase che chiude la dichiarazione.
43 Op. cit., 10 maggio 1967. «Di cose ne ho fatte il meno possibile» dice Duchamp (Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 105); e poi l’altra dichiarazione già citata: «Il fatto di non aver prodotto nulla da così lungo tempo mi procura un senso di benessere». Non è un caso che Lacan colleghi l’ozio filosofico al principio del piacere: «Nella morale antica il piacere, che consiste nel fare precisamente il meno possibile, otium cum dignitate, è un’ascesi» che «confinava con la saggezza dell’animale», in Il mio insegnamento e Io parlo ai muri (2005, 2011); trad. it. Astrolabio, Roma 2014, p. 109.
44 Zhuang-zi [Chuang-tzu], cit., p. 220.
45 «Non attribuisco all’artista quella specie di ruolo sociale in base al quale si sente costretto a fare qualcosa, a dare qualcosa al pubblico», dice Duchamp, «Ho orrore di tutto questo» (Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 89).
46 «Chi è veramente libero non agisce», Zhuang-zi [Chuang-tzu], cit., p. 131. Dal canto suo Sloterdijk (raccogliendo evidentissime suggestioni taoiste curiosamente, però, non esplicitate dall’autore) sostiene che «nella sua cecità, la ragion pratica non ha compreso che il concetto sommo di comportamento è non già il ‘fare’ (Tun), ma il ‘lasciar-stare’ (Lassen); essa, insomma, non ha capito che avrebbe raggiunto il proprio vertice non già ricostruendo le strutture del nostro ‘fare’, ma solo penetrando le relazioni intercorrenti tra il ‘fare’ e il ‘lasciar stare’» (Critica della ragion cinica, cit., p. 417).
47 «Il male consiste in azioni», scrive Simone Weil, «il bene in non azioni, in azioni non agenti» (non è forse, letteralmente, il weiwuwei taoista?), e non a caso la preghiera è «l’azione non agente» che si compie «nell’anima», in L’ombra e la grazia (1948); trad. it. Rusconi, Milano 1985, pp. 81 e 126, cfr. anche p. 56.
48 E. Barba, La canoa di carta. Trattato di Antropologia Teatrale, il Mulino, Bologna 1993, p. 32. Probabilmente è all’idea di questa “tecnica senza tecnica” che si è ispirato Merce Cunningham in molte delle sue coreografie, ad esempio in Field Dances del 1963, cfr. il ns. La mosca di Dreyer, cit., pp. 178-88.
49 A. Camus, L’uomo in rivolta (1951); trad. it. Bompiani, Milano 2008, p. 63. Anche per Kierkegaard l’estetica è più che altro un atteggiamento esistenziale ed il poeta è l’individuo teso a “vivere poeticamente”, a dar forma con il suo modo di vita alla propria esistenza.
50 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento (1969); trad. it. Einaudi, Torino 1977, p. 469.
51 Op. cit., p. 475.
52 Op. cit., p. 541. Per l’interpretazione blanchotiana del surrealismo cfr. anche Réflexions sur le surréalisme, in La part du feu, Gallimard, Paris 1949. Lo stesso Duchamp definisce il surrealismo come «una questione di comportamento», in Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 84.
53 «Rimbaud è surrealista nella pratica della vita e altrove», scrive Breton nel primo Manifesto (Manifesti del Surrealismo, cit., p. 31).
54 A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 105. Per questo, aggiunge Camus, il surrealismo è «l’ascesi messa al servizio della rivolta» (p. 104) che, rendendola esemplare, trasforma la poesia «in esperimento e in mezzo d’azione», per indicarci «il cammino che porta dal sembrare al fare» (pp. 93-4).
55 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit., p. 560. Ma questa esperienza «è il pericolo stesso» (p. 555).
56 M. Nadeau, Storia e antologia del surrealismo (1964); trad. it. Mondadori, Milano 1972, p. 201.
57 A. Breton, Manifesti del Surrealismo, cit., p. 49.
58 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit., p. 556.
59 La “parola d’ordine” di Rimbaud diventa à la lettre, in un appunto del 1946, anche l’auspicio di Wittgenstein: «Si dovrebbe cambiare la vita», insieme a quello circa il «mutamento più importante ed efficace, quello del nostro comportamento», in Pensieri diversi, cit., p. 104.
60 Le parole di Nietzsche, d’altra parte, non fanno altro che riprendere un locus classicus circa il maggiore piacere che ci deriva dall’attività produttiva rispetto a quello derivante dal prodotto finito. Cfr. ad esempio Seneca: «Il filosofo Attalo soleva dire che procurarsi un amico è più piacevole che averlo, “così come per un artista è più piacevole dipingere che aver dipinto”. La tensione dell’animo di chi si trova occupato nel proprio lavoro offre un motivo di grande diletto nell’esecuzione stessa del lavoro. Non prova esattamente lo stesso piacere l’artista che leva la mano da un’opera finita, perché egli già gode del frutto della sua arte, mentre, quando dipingeva, godeva dell’arte stessa» (Lettere a Lucilio, 9, 7). Le parole di Nietzsche, inoltre, riecheggiano in quelle di Yves Klein che abbiamo già evocato circa il poeta che non porta a termine le sue opere.
61 A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 101.
62 Paradosso beffardo, per tutta la vita Rimbaud ha espresso orrore del lavoro insieme ad un bisogno invincibile di sonno e di riposo, cfr. M. Blanchot, Le sommeil de Rimbaud, in La part du feu, cit.
63 A. Boatto, Duchamp: il segno, cit., pp. 9-10.
64 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit., p. 386.
65 J. Keats, Lettere sulla poesia, trad. it. Feltrinelli, Milano 1992, p. 127.
66 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit., p. 381.
67 La frase di Artaud si trova in una lettera a Jean Paulhan, cfr. A. Artaud, Messaggi rivoluzionari (1971 e 1980); trad. it. a cura di M. Gallucci, Monteleone, Vibo Valentia 1994, p. 20.
68 Lao-tse, Tao Te King, trad. it. Laterza, Bari 1982, p. 110.
69 D. de Rougemont, Marcel Duchamp come se niente fosse, cit., p. 73.
70 Ibidem.
71 Secondo le categorie con cui Hegel distingue l’ironia dal comico, è a quest’ultimo che dovremmo associare l’inframince: ciò che esso pure dissolve, infatti, è già «in sé stesso un nulla», nulla di sostanziale, di essenziale, così che la soggettività comica «dissolve da sé stessa il suo agire», in Estetica, cit., p. 79 e p. 1363.
72 G. Agamben, Profanazioni, nottetempo, Roma 2005, p. 38. Sulla dimensione genuinamente teologica dello «scialo quotidiano dei piccoli gesti» e del «caos informe e sterminato di ciò che va perduto», cfr. ancora di G. Agamben, Nudità, nottetempo, Roma 2009, pp. 7-18.
73 Siamo molto prossimi a ciò che Adorno indicava con il termine dialettale viennese bandeln, un’attività distrattamente intrapresa «per passare il tempo, o per perderlo, che è priva di un evidente scopo razionale, ma che al contempo è assurdamente pratica», in Immagini dialettiche. Scritti musicali (1955-1965), (1978); trad. it. Einaudi, Torino 2004, p. 12.
74 P. Valéry, Quaderni (1973); trad. it. Adelphi, Milano 1988, III, p. 388. E a p. 430 Valéry parla di «infra-mondo»!
75 Op. cit., p. 376.
76 R. Musil, L’uomo senza qualità, trad. it. Einaudi, Torino 1972, I, p. 8. Analoga osservazione la troviamo ancora in Valéry: «noi siamo costruiti in modo da non percepire la forza centrifuga terrestre / i movimenti, / né tante altre azioni», in Quaderni, cit., p. 376.
77 H. von Kleist, Opere, cit., p. 877.
78 W. Benjamin, Lettere 1913-1940 (1966); trad. it. Einaudi, Torino 1978, p. 345. La lettera in cui Benjamin cita il brano di Eddington inizia con una stroncatura della biografia di Kafka scritta dall’amico Max Brod, per proseguire con un’acutissima (e celebre) analisi dell’opera dello scrittore da accostarsi al saggio pubblicato in Angelus novus. «In letteratura», scrive Benjamin, «non conosco nulla che abbia un gesto altrettanto kafkiano. Quasi ogni passo di quest’aporia fisica potrebbe essere corredato da brani di prosa kafkiana, e c’è da ritenere che molti dei “più incomprensibili” vi troverebbero posto», p. 346.
79 «Ciascun frammento di materia può essere raffigurato come un giardino pieno di piante, o come uno stagno pieno di pesci. Ma ciascun ramo di una pianta, ciascun membro di un animale, ogni goccia dei suoi umori è ancora esso un simile giardino, un simile stagno […] Così non v’è nulla d’incolto, di sterile, di morto nell’universo […]», in Monadologia (1714); trad. it. Laterza, Roma-Bari 1986, p. 50. «Al fine di chiarire ancora meglio questa materia delle piccole percezioni che non sapremmo distinguere nel loro complesso, son solito servirmi dell’esempio del muggito o rumore del mare che udiamo stando sulla riva. Per percepire questo rumore come lo si percepisce è ben necessario si odano le parti che ne formano il complesso, cioè a dire il rumore di ogni onda, benché ciascuno di questi piccoli rumori non si faccia sentire che nell’insieme confuso di tutti gli altri, e sarebbe inafferrabile se l’onda che lo produce fosse sola […] Queste piccole percezioni sono dunque di più grande virtù che non si creda […] Queste percezioni insensibili caratterizzano e costituiscono lo stesso individuo […]», in Nuovi saggi sull’intelletto umano (1703); trad. it. Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 9-11. Pagine leibniziane queste che, con tutta probabilità, hanno rappresentato una fonte anche per il Nietzsche che in un frammento delle primavera del 1888 scrive di «un mondo per il quale ci manca ogni organo più sottile, sicché percepiamo come unità anche una multiforme complessità», in Frammenti Postumi 1888-1889, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1974, af. 14 [45].
80 C’è indubbiamente qualcosa, in quest’idea duchampiana, che ci ricorda gli esperimenti (mentali e non) apparentemente bizzarri e certamente controintuitivi della fisica moderna. Per di più, quasi a conferma della communis opinio circa la capacità “preveggente” degli artisti di anticipare i tempi, sarà interessante ricordare che molti settori dell’attuale ingegneria ecologica si stanno impegnando proprio sul terreno dell’inframince: ad esempio partendo dal dato sperimentale secondo cui ogni individuo emette circa 100 watt di calore in surplus, si ritiene che il corpo umano possa rivelarsi l’ultima frontiera delle energie rinnovabili. L’acqua calda che attualmente rifornisce un edifico di tredici piani vicino alla stazione centrale di Stoccolma proviene dall’utilizzazione, mediante evidentemente un “trasformatore”, del calore emesso dai 250mila viaggiatori che giornalmente vi transitano.
81 G. Agamben, Nudità, cit., p. 162.
82 R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 289.
83 Abbiamo analizzato a lungo queste nascoste ed inaspettate “parentele” o “arie di famiglia” in La mosca di Dreyer, cit., cfr. pp. 111-24.
84 G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore (1975); trad. it. Feltrinelli, Milano 1975, p. 110.
85 F. Kafka, Giuseppina la cantante ovvero Il popolo dei topi, in Racconti, trad. it. Mondadori, Milano 1970, p. 579.
86 F. Kafka, Un digiunatore, in op. cit., p. 565. Ein Hungerkünstler è il titolo originale di Kafka, letteralmente ‘Artista del digiuno’. In qualche modo, che l’esercizio ascetico del digiunatore, anzi che la sua arte sia per-nulla od originata da un “nonnulla” lo conferma la sua stessa straordinaria, vertiginosa confessione finale nella quale dichiara che si è trovato costretto a digiunare “semplicemente” perché non è mai riuscito a trovare il cibo che gli piacesse. Cfr. su questo racconto P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., pp. 84-9.
87 Rimandiamo per questo punto al ns. Il sublime è Ora, Castelvecchi, Roma 1993, cfr. in part. pp. 48-71.
88 F. Kafka, Confessioni e diari, trad. it. Mondadori, Milano 1972, p. 911.
89 Questi decisivi passi aristotelici sono stati al centro delle riflessioni che Giorgio Agamben ha sviluppato in una quantità di lavori.
90 Cfr. J. Brunschwig, L’aphasie pyrrhonienne, in Dire l’evidence, a cura di C. Lévy e L. Pernot, L’Harmattan, Paris-Montréal 1997.
91 Vale qui ricordare che analogo atteggiamento segna lo scetticismo che ha sempre accompagnato Montaigne. «Di mio proposito», scrive parlando del suo matrimonio, «io avrei evitato di sposare la saggezza medesima. Ma abbiamo un bel dire, il costume e la pratica della vita comune ci trascinano […] io non m’indussi al matrimonio, vi fui condotto, e vi fui portato da circostanze esterne. Di fatto, non soltanto le cose fastidiose, ma non ve ne sono di tanto brutte e viziose e da evitarsi che non possano divenire accettabili per qualche condizione o circostanza» (Saggi, cit., p. 1131).
92 Cfr. F. Jullien, Trattato dell’efficacia (1996); trad. it. Einaudi, Torino 1998, in part. pp. 113-5.
93 Diogene il Cane, afferma Sloterdijk, voleva instillare nelle menti «l’indicibilmente semplice» (Critica della ragion cinica, cit., p. 181).
94 Cfr. P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, cit., pp. 139-42. «Non soltanto è esclusa la conoscenza che fa riferimento a qualcosa di reale», scrive Dal Pra, «ma è anche esclusa la conoscenza che fa riferimento alla nostra stessa conoscenza»; da qui, «il carattere autocontraddittorio dello scetticismo» che gli impedisce di formularsi compiutamente come dottrina positiva ed essoterica», in Lo scetticismo greco, cit., p. 53.
95 F. Jullien, Il saggio è senza idee, cit., p. 125. Cfr. anche pp. 167-78 per un possibile parallelo tra pirronismo e pensiero antico cinese.
96 M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, cit., p. 81.
97 P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, cit., p. 141. Si noti che qui l’analogia con il taoismo e con l’insegnamento dei maestri zen è addirittura letterale: si potrebbero portare ad esempio una quantità di mon-do e di koan.
98 T. Tzara, Conferenza su dada, in Manifesti del dadaismo e lampisterie, cit., p. 79. In effetti, quello cui allude qui Tzara appare un itinerario del tutto logico: se l’intento delle avanguardie è quello di separarsi in una continua, inarrestabile secessione dalla tradizione, si separeranno inevitabilmente anche da sé stesse (e non soltanto perché la dinamica storica le trasforma man mano in un passato da cui prendere a loro volta congedo).
99 In una inaspettata menzione del dadaismo nell’Epistola ai Romani, Karl Barth gli riconosce invece soltanto una «negazione relativa», poiché la sua «aggressione» rimane ancora «impigliata nella critica» e non si estende «fino alla negazione radicale», in K. Barth, Epistola ai Romani (1922); trad. it. Feltrinelli, Milano 1962, p. 174. Ricordiamo qui il famoso giudizio di Kafka: «Il dadaismo è… un difetto fisico. La spina dorsale dello spirito è troncata. La fede è infranta» (G. Janouch, Colloqui con Kafka, in F. Kafka, Confessioni e diari, cit., p. 1129).
100 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1965, af. 213. Da notare che nell’ultima battuta questo Pirrone nietzscheano, nelle ferrea coerenza del suo prototipico scetticismo, non afferma né nega nulla in modo assertivo, limitandosi ad una forma condizionale dubitativa e al tempo stesso ottativa anche riguardo all’estrema risorsa del riso.
101 Scrive Cacciari che «le possibilità del comico […] vengono teorizzate soltanto con Duchamp», ed è con lui che davvero si “immagina” «la morte di ogni presupporre» (Da Hegel a Duchamp, in AA.VV., Duchamp dopo Duchamp, Tema Celeste, Siracusa 1993, pp. 41 e 43).
102 Esclama Duchamp: «Era solo humour. Semplicemente humour, humour», in Conversazione con Otto Hahn, in «Riga», cit., p. 59. E ancora: «Nella mia vita l’umorismo ha una parte molto importante. Anzi, per me è l’unica ragione di vita», in Conversazione con Jeanne Siegel, in «Riga», cit., p. 50. Riconosciamo la mobilità duchampiana nelle parole di Vladimir Jankélévitch: «lo humour, che mette tutto in movimento, non conosce quindi né domicilio sedentario né localizzazione definitiva», in L’ironia, cit., p. 174. Sappiamo bene, d’altra parte, che già l’impassibilità e l’atarassia pirroniane potevano essere fonte di humour.
103 O. Paz, Apparenza nuda, cit., p. 18. Nelle pagine iniziali del suo saggio, Octavio Paz, accogliendo un esplicito suggerimento dello stesso artista, accosta Duchamp a Mallarmé in base alla simile concezione esoterica del linguaggio.
104 C. Baudelaire, Dell’essenza del riso, in Opere, cit., p. 1106 e 1121.
105 A.B. Oliva, Il mercante del silenzio, in M. Duchamp, Scritti, cit., p. 9.
106 G. Franck, Prospettive rovesciate. Ironia e affermazione in Marcel Duchamp, in «Riga», cit., p. 213. «Rinunziare ad essere il contemporaneo del trionfo della propria opera vuol dire intravedere questo trionfo in un tempo senza di me», scrive Lévinas in pagine molto intense dedicate alla testimonialità etica dell’opera, «guardare a questo nostro mondo senza di me, guardare a un tempo al di là dell’orizzonte del mio tempo», in Umanesimo dell’altro uomo (1972); trad. it. il melangolo, Genova 1998, p. 68.
107 M. Blanchot, La comunità incoffessabile, cit., p. 36.
108 Il luogo comune del “silenzio” di Duchamp presuppone, scrive Bonito Oliva, «una mentalità produttivistica che riconosce la creatività soltanto quando questa dà luogo a un prodotto tangibile, oggetto o azione effimera, fruibile nei luoghi deputati dell’arte» (Il mercante del silenzio, in M. Duchamp, Scritti, cit., p. 9).
109 Zhuang-zi [Chuang-tzu], cit., p. 74. Cfr. P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica, cit., p. 109, e Studi di filosofia antica (2010); trad. it. ETS, Pisa 2014, p. 227.
110 Come noto questo aneddoto riportato da Aristotele nella Riproduzione degli animali viene commentato da Heidegger nella Lettera sull’“umanismo” secondo una prospettiva che vi mette in luce l’essenza ed il significato antico dell’ethos, cfr. in Segnavia (1976); trad. it. Adelphi, Milano 1987, pp. 305-7.
111 Cfr. F. Jullien, Il saggio è senza idee, cit., pp. 50-2.
112 Montaigne, Saggi, cit., p. 1074.
113 «La saggezza è irrimediabilmente piatta perché, per sua stessa ammissione», afferma Jullien, «consiste nel tenere tutto sullo stesso piano», in Il saggio è senza idee, cit., p. 10.
114 Op. cit., p. 171.
115 P. Cabanne, Postfazione, in M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 147.
116 D. de Rougemont, Marcel Duchamp come se niente fosse, in «Riga», cit., p. 69.
117 A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 61. Baudelaire, ne Il pittore della vita moderna, aveva comunque accostato il dandy allo stoico, cfr. Opere, cit., p. 1303. Sulla figura del dandy, cfr. P. D’Angelo, Estetismo, il Mulino, Bologna 2003, pp. 85-109.
118 Conversazione con Jeanne Siegel, in «Riga», cit., p. 53.
119 R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 498.
120 K. Malevič, L’inattività come verità effettiva dell’uomo, trad. it. Asterios, Trieste 2012, p. 14.
121 K. Malevič, Scritti, a cura di A.B. Nakov (1975); trad. it. Feltrinelli, Milano 1977, p. 295. Il punto d’attacco di Malevič è lo stesso descritto da Nietzsche nell’aforisma 173 di Aurora, “Gli apologeti del lavoro”, e nell’aforisma 329 di Gaia scienza, “Agi e ozio”.
122 K. Malevič, L’inattività come verità effettiva dell’uomo, cit., p. 34.
123 Op. cit., p. 38.
124 K. Malevič, Scritti, cit., p. 295.
125 M. Eckhart, Sermoni tedeschi, trad. it. Adelphi, Milano 1985, p. 141.
126 Cfr. A. Neher, L’essenza del profetismo (1972; 1983); trad. it. Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 67-9ss. È il distacco, scrive Marco Vannini, «il vero operare dello spirito. Perché il suo vero operare è un non-operare, il suo profondo impegno è un non-operare, l’agire senza perché», in L’esperienza dello spirito, Augustinus, Palermo 1991, p. 89, ma cfr. pp. 15-73. Vannini è il massimo interprete italiano di Eckhart, vedi anche Dialettica della fede, Marietti, Casale Monferrato 1983, in part. pp. 13-46 e Meister Eckhart e il fondo dell’anima, Città Nuova, Roma 1991. Il motivo del distacco dall’oggetto che irrigidisce e cristallizza è costantemente presente “secolarizzato” nelle filosofie della vita tra Otto e Novecento. «Di fronte alla vita dell’anima che vibra senza posa sviluppandosi nell’infinito e che è in un certo senso creatrice», scrive ad esempio Georg Simmel, «sta il suo prodotto solido, idealmente inamovibile, che ha l’effetto retroattivo di fissare, anzi di irrigidire, quella vitalità: spesso, è come se la dinamicità creatrice dell’anima morisse nel suo prodotto», in Concetto e tragedia della cultura (1911); trad. it. in La moda e altri saggi di cultura filosofica, Longanesi, Milano 1985, p. 193. Potremmo trovare molti brani analoghi a questo in Henri Bergson.
127 M. Eckhart, Sermoni tedeschi, cit., p. 174.
128 Op. cit., p. 171.
129 K. Malevič, L’inattività come verità effettiva dell’uomo, cit., p. 30.
130 Op. cit., p. 27.
131 Cfr. il ns. Nicola Cusano e Kazìmir Malevič. Iconologia dell’ascesi, in «Almanacchi nuovi», 2 (1998-99), numero interamente dedicato al tema “Eros e filosofia”.
132 «Questo è il mio lavoro principale», scrive Malevič nel 1920, «non già di pennello, ma di penna. Risulta che col pennello non si ottiene quello che può la penna. L’uno è arruffatto e non può estrarre dalle anse del cervello quel che riesce alla penna, più aguzza» (Introduzione all’album di litografie “Suprematismo – 34 disegni”, in Scritti, cit., p. 198.)
133 K. Malevič, L’inattività come verità effettiva dell’uomo, cit., p. 38.
134 «È della natura stessa del fare il non fare», afferma Cacciari, quindi «fare e non-fare non si contraddicono come semplici parti, ma come due aspetti dello stesso» (Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 429 e p. 430; ma cfr. l’intera argomentazione, pp. 428-33 e pp. 450-1).
135 M. Blanchot, La comunità inconfessabile, cit., p. 36.
136 F. Jullien, Trattato dell’efficacia, cit., p. 104.
137 A. Boatto, Duchamp: il segno, cit., pp. 10-1. «Questa negazione della pittura […] fu l’inizio della sua vera opera», scrive Paz, «Un’opera senza opere», in Apparenza nuda, cit., p. 16.
138 L’eco rovesciata e complementare di questo interrogativo che per tanti versi apre l’arte contemporanea, viene da Adorno: «Le sole opere che oggi contano sono quelle che non sono più “opere”», in Filosofia della musica moderna (1948); trad. it. Einaudi, Torino 1959, p. 38.
139 Cfr. D. de Rougemont, Marcel Duchamp come se niente fosse, in «Riga», cit., p. 71.
140 Zhuang-zi [Chuang-tzu], cit., p. 15.
141 Cfr. il ns. Peregrinazioni dell’aura. Tre forme di vita postuma, in «Rivista di estetica», 52, 2013.
142 O. Paz, Apparenza nuda, cit., p. 30.
143 Conversazione con Dore Ashton, in «Riga», cit., p. 47.
144 M. Weber, Economia e società. Dominio (2005); trad. it. Donzelli, Roma 2012, p. 477. Da ora in poi nel testo D seguito dall’indicazione della pagina. Weber parla del fenomeno carismatico anche nella celebre conferenza del 1919 su La politica come professione, trad. it. Mondadori, Milano 2006, cfr. in part. pp. 6-8.
145 Cfr. Op. cit., p. 478 («la condotta di vita artistica», corsivo ns.), p. 501, p. 502, p. 510.
146 Cfr. ad esempio Op. cit., pp. 475-6.
147 J. Derrida, Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile (2013); trad. it. Jaca Book, Milano 2016, pp. 52-3. Dovremo inoltre tener conto del fatto che la stagione pittorica di Duchamp, immediatamente precedente a quella dei readymade, lo aveva già istituzionalmente legittimato come artista secondo quei paradigmi tradizionali di riconoscimento che lui stesso avrebbe sconvolto.
148 Cit. in Nota Editoriale a Carismatismo, in op. cit., p. 468. Ovviamente ciò è legato al fatto che il portatore del carisma «è ritenuto personalmente da altri uomini un capo per intima “vocazione” e che questi gli obbediscono non in virtù del costume o di una norma, bensì perché credono in lui» in La politica come professione, cit., p. 7.
149 Cfr. il ns. Il Sublime è Ora, cit., in part. pp. 48-86.
150 È questo ad esempio il destino attuale quanto ampiamente prevedibile della cosiddetta street art, ormai oggetto degli articoli sull’urban fashion nei settimanali patinati.
151 Ecco la ragione per la quale la “duplicità in uno” del Centauro è la figura che simboleggia il politico weberiano: vocazione e professionismo, autorità infondata e capacità burocratica, grazia e calcolo tecnico del rapporto tra mezzi e scopi. Si tratta ancora, sostanzialmente, della dialettica immanente cui già abbiamo accennato tra la radicale novitas carismatica e il suo riconoscimento. È un fenomeno che abbiamo sempre più costantemente davanti agli occhi: la secolarizzazione, scrive Cacciari, «non può annullare la dimensione ‘religiosa’ dell’autorità del demagogo», che però non può effettualmente dispiegarsi «senza la ‘macchina’ dei funzionari e dei loro apparati», in L’Arcipelago, cit., p. 110.
152 I. Kant, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Antologia di scritti politici, a cura di G. Sasso, il Mulino, Bologna 1977, p. 167.
153 Op. cit., pp. 167-8.
154 Op. cit., p. 170.
155 Ibidem.
156 M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., pp. 27-8. Foucault fa analoghe considerazioni in un testo sul quale torneremo, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., cfr. in part. pp. 257-9.
157 C.E. Gadda, Maditazione milanese, Einaudi, Torino 1974, p. 54.
158 H. Arendt, Vita activa, cit., p. 156.
159 Sull’azione liturgica il cui senso coincide con la propria stessa effettuazione, cfr. G. Agamben, Opus dei. Archeologia dell’ufficio, cit.
160 Cit. in L. De Domizio Durini, Il cappello di feltro. Joseph Beuys, Charta, Milano 1998, p. 47. Su Joseph Beuys, cfr. G. Adriani, W. Konnertz, K.T. Thomas, Joseph Beuys. Life and works, New York 1979; C. Tisdall, Joseph Beuys, Solomon Guggenheim Museum, New York 1979; B. Buchloh, Beuys: the Twilight of the Idol. Preliminary Notes for a Critique, in «Artforum», January 1980, pp. 35-43.
161 F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., fr. 834.
162 Cfr. il ns. La mosca di Dreyer, cit., pp. 154-9.
163 T. Tzara, Conferenza su dada, in Manifesti del dadaismo e lampisterie, cit., p. 83.
164 Zhuang-zi [Chuang-tzu], cit., p. 128. D’altronde dice Tzara nella stessa conferenza che «Chuang-tzu era dada come noi» (T. Tzara, Conferenza su dada, cit.)!
165 Montaigne, Saggi, cit., p. 287.
166 In fondo, è solo perché la filosofia è diventata solo pensiero, solo funzionariato, è perché per statuto storicamente acquisito non coinvolge più la vita del soggetto filosofico, che si è potuto aprire lo spazio teorico per dibattere sulla possibilità di distinguere l’opera e il pensiero di Heidegger dalle sue scelte politiche e dal suo silenzio sulla shoah.
167 Sulle cruciali conseguenze della tendenziale scomparsa dell’opera e di tracce museabilizzabili per l’archivio, la tutela e l’azione di restauro del contemporaneo, cfr. la ns. Introduzione ad AA.VV., Tra memoria e oblio. Percorsi nella conservazione dell’arte contemporanea, a cura di P. Martore, Castelvecchi, Roma 2014.
168 Agamben nega invece all’arte contemporanea la capacità di venire a capo della propria inoperosità e di portarla genuinamente all’espressione, la capacità insomma di «pensare la forma di vita dell’artista in sé stessa», per cui pratica artistica e pratica di vita continuerebbero instancabilmente a «inseguirsi a vicenda in una fuga senza fine» (L’uso dei corpi, cit., p. 313 e p. 312); cfr. anche Profanazioni, cit., pp. 11-2 e Il fuoco e il racconto, nottetempo, Roma 2014, pp. 122-3.
169 Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali, cit., pp. 169-76 e Filosofia come modo di vivere, cit., p. 199. Sui termini di questa polemica e sul significato più ampio che essa riveste in quanto ad una diversa idea del soggetto e del processo di soggettivazione in Hadot e Foucault, cfr. anche G. Agamben, L’uso dei corpi, cit., pp. 133-48.
170 S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 51; «ma sradicandosi si cerca più realtà», aggiunge. Bisogna desiderare senza oggetto, dice ancora Weil, bisogna «scendere alla sorgente dei desideri per strappare l’energia al suo proprio oggetto. Là i desideri sono veri in quanto energia; quel che è falso, è l’oggetto», p. 34. Non avrebbe forse potuto scriverlo Malevič? Certo che sì!
171 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 165.
172 È interessante ricordare che, nel 1976, un’inserzione pubblicitaria della macchina fotografica Minolta SLR da 35 mm recitava: «È difficile dire a quale punto tu smetti e comincia la macchina. Tu sei la macchina e la macchina è te».
173 Ricordiamo che nella sua Critica della ragion cinica, che abbiamo più volte citato, Sloterdijk si è applicato ad analizzare il neocinismo moderno (che a differenza di quello antico aspira al potere e al successo) come chiave di volta e strumento di decifrazione del “tramonto dell’Occidente” nel movimento dada e nel pensiero filsofico, nei costumi sociali e nelle ideologie imperanti dall’Ottocento ad oggi; cfr. anche la Presentazione di M. Perniola nell’edizione italiana.
174 V. Jankélévitch, L’ironia, cit., p. 110.
175 Cfr. il ns. Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Castelvecchi, Roma 2009, pp. 48-52.
176 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 184.
177 Op. cit., p. 185.
178 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., p. 225.
179 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 184.
180 Ibidem.
181 M. Foucault, Archivio Foucault 3, cit., p. 299.
182 Dits et écrits (1954-1988), IV, 1980-1988, Gallimard, Paris 1994, p. 390.
183 Op. cit., p. 392.
184 Il medesimo mancato rapporto si ripropone nei riferimenti artistici di Pierre Hadot (cfr. Esercizi spirituali, cit., pp. 184-6 e La filosofia come modo di vivere, cit., pp. 207-8). Anche negli studi post-foucaultiani di W. Schmid, cfr. L’arte di vivere (1998); trad. it. Fazi, Roma 2014, pp. 81-91, o, sul côté italiano della filosofia della prassi − cfr. ad esempio R. Màdera, L.V. Tarca, La filosofia come stile di vita, B. Mondadori, Milano 2003, M. Montanari, Vivere la filosofia, Mursia, Milano 2013 − il riferimento congruo ed aggiornato alle pratiche artistiche è del tutto assente. All’“invisibilità” delle arti moderno-contemporanee allo sguardo della filosofia novecentesca e all’attenzione solo intermittente e non sempre congrua che questa ha loro rivolto (ma selezionando le eccezioni di Deleuze-Guattari, Gadamer, Gehlen e Merlau-Ponty) abbiamo interamente dedicato il ns. Non vedi niente lì?, cit.
185 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 260.
186 Op. cit., p. 446.
187 P. Sloterdijk, Stato di morte apparente, cit., p. 40.
188 Op. cit., p. 93.
189 P. Sloterdijk, L’imperativo estetico. Scritti sull’arte (2014); trad. it. Cortina, Milano 2017, p. 108.
190 Op. cit., p. 110. Dall’inizio del 2010, ventiquattr’ore su ventiquattro, tutti i giorni e fino al termine della sua esistenza, quattro telecamere sono installate nell’atelier di Christian Boltansky. In base all’accordo siglato con l’acquirente di quella che in mancanza di un termine più congruo continuiamo a chiamare “opera”, le immagini in diretta vengono trasmesse in Australia, dove il collezionista può averle costantemente sott’occhio.
191 Op. cit., p. 109.
192 Lo sottolinea anche Pietro Montani nella sua Prefazione all’edizione italiana del libro di Sloterdijk da lui curata, cfr. XIV-XVII.
193 P. Sloterdijk, L’imperativo estetico, cit., p. 116. Si potrebbe osservare che questa “presentazione dell’impresentabile” suggerita da Sloterdijk è analoga alle formulazioni di Jean-François Lyotard nelle sue analisi intorno alla figura e al ruolo del sublime nelle arti moderne.
194 Op. cit., p. 117.
195 Op. cit., p. 118.
196 Ibidem.
197 Cfr. su questo motivo il ns. Non vedi niente lì?, cit., pp. 118-23.
198 Op. cit., pp. 118-9.
199 Op. cit., p. 119.
200 P. Montani, Prefazione, cit., p. XVII.
201 P. Sloterdijk, L’imperativo estetico, cit., p. 118.
202 P. Valéry, Cahiers, a cura di N. Celeyette-Petri e J. Robinson-Valéry, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1988, vol. II, t. II, p. 938.