11.
Nel 1963, nonna andò con il marito e papà a trovare la sorella e il cognato emigrati a Milano.
Avevano venduto anche la casa di paese per aiutarli e i nonni avevano rinunciato alla loro parte, ma non ce l’avevano fatta lo stesso a vivere in tre famiglie contadine su una proprietà terriera di neppure venti ettari. La riforma agraria era stata timida e il Piano di Rinascita tutto sbagliato, fondato com’era sulle industrie chimiche e siderurgiche che qui da noi non ci facevano niente, come diceva nonno, impiantate da Continentali coi fondi pubblici, perché invece il futuro della Sardegna sarebbe stato nelle industrie manifatturiere che avrebbero tenuto conto delle risorse già esistenti. Alle altre due sorelle, che vivevano della terra, aveva fatto comodo, in fondo, che almeno una fosse partita. Nonna aveva sofferto molto e non era andata neanche a San Gavino a vederli prendere il treno per Porto Torres, la sua sorella più piccola, il cognato e i figli. E anche per la casa aveva sofferto. I nuovi padroni avevano sostituito il portale, sormontato dall’arco, con un cancello di ferro. Sa lolla, abbattuti il muretto basso che la separava dal cortile e i pilastri di legno, era stata chiusa con una vetrata di alluminio. Il piano superiore, molto basso, che si affacciava sul tetto della lolla, dove prima c’era il granaio, era diventato una mansarda di quelle che si vedono nelle cartoline delle Alpi. I ripari dei buoi, la legnaia, trasformati in garage per le auto. Le aiuole ridotte a un sottile perimetro addossato al muro. Il pozzo tappato col cemento. Il tetto di tegole, sopra il granaio adesso mansarda, sostituito con un terrazzo dal parapetto in mattoni forati. Le mattonelle in cotto di colori diversi, che facevano sul pavimento disegni simili a quelli dei caleidoscopi, coperte dal gres. E i mobili erano troppi per lo spazio di una stanza che le sorelle erano andate a occupare nelle case delle famiglie dei mariti e nessuno li voleva, così vecchi e ingombranti, di un tempo da dimenticare. Solo nonna si era portata via la sua camera di sposina, per averla uguale in via Giuseppe Manno.
Quando fecero il viaggio a Milano sapeva che ormai erano diventati ricchi, perché la sorella le scriveva che Milàn l’è il gran Milàn e c’era lavoro per tutti e il sabato facevano la spesa al supermercato e riempivano carrelli di roba da mangiare perfettamente confezionata e quell’idea, che avevano avuto sempre in testa, di fare economia, di tagliare non più di quel numero di fette di pane, di rivoltare i cappotti, le giacche, i tailleur, di disfare i maglioni per recuperare la lana, di far risuolare mille volte le scarpe, tutto finito. A Milano andavano nei grandi magazzini e si vestivano di nuovo. Quello che non le piaceva era il clima, lo smog che anneriva i bordi delle maniche e dei colletti delle camicie e dei grembiulini di scuola dei bambini. Doveva lavare continuamente tutto, ma a Milano c’era tanta acqua e non la davano a giorni alterni come in Sardegna e si poteva lasciare scorrere e scorrere senza la preoccupazione di lavarti prima, poi con l’acqua di rifiuto lavare i panni, poi buttare l’acqua ormai sporca nel cesso. A Milano lavare e lavarsi erano un divertimento. E poi la sorella non aveva granché da fare, dopo i mestieri di casa, che finivano subito perché le case erano piccole, visto che in quello spazio dovevano starci milioni di abitanti, non come in Sardegna, che avevano quelle case enormi che non servivano a niente, perché non c’erano le comodità, insomma i mestieri di casa li finiva subito e poi se ne andava in giro per la metropoli a vedere i negozi e a comprare, comprare.
I nonni non sapevano cosa portare ai parenti ricchi di Milano. In fondo non gli serviva niente. Allora nonna propose un pacco poetico, della nostalgia, perché è vero che mangiavano e si vestivano bene, però la salsiccia sarda e una bella forma di pecorino e l’olio e il vino della Marmilla e una coscia di prosciutto e i cardi sott’olio e i maglioni per i bambini fatti a mano da nonna, insomma avrebbero respirato un po’ di profumo di casa.
Si misero in viaggio senza avvisarli. Sarebbe stata una sorpresa. Nonno fece arrivare una cartina di Milano e studiò bene le strade e gli itinerari per vedere le cose più belle della città.
Si vestirono tutti e tre di nuovo per non sfigurare. Nonna si comprò le creme di Elizabeth Arden, perché ormai era sulla cinquantina e voleva che il Reduce, il cuore le diceva che si sarebbero incontrati, la trovasse ancora bella. Ma non è che fosse molto preoccupata per questo. Tutti erano convinti che un uomo di cinquant’anni non guarderebbe mai una coetanea, però questi erano ragionamenti validi per le cose del mondo. L’amore no. L’amore non bada né all’età né a nient’altro che non sia l’amore. E il Reduce era proprio di quell’amore che l’aveva amata. Chissà se l’avrebbe riconosciuta subito. Che faccia avrebbe fatto. Non si sarebbero abbracciati alla presenza di nonno, di papà, o della moglie, o della figlia del Reduce. Si sarebbero stretti la mano e guardati, guardati, guardati. Da morire. Invece se lei avesse cercato di uscire da sola e da solo lo avesse incontrato, allora sì. E si sarebbero baciati e stretti per recuperare tutti quegli anni. E se lui glielo avesse chiesto, lei non sarebbe tornata a casa mai più. Perché l’amore è più importante di tutte le altre cose.
Nonna non era mai stata in Continente, se non nel paesino delle Terme, e nonostante quello che le aveva scritto la sorella pensava che a Milano ci si incontrasse facilmente come a Cagliari ed era emozionatissima perché credeva di vedere subito per strada il suo Reduce. Però Milano era grandissima, altissima, coi palazzi massicci, decorati in modo sontuoso, bellissima, grigia, nebbiosa, tanto traffico, il cielo a pezzetti fra i rami spogli degli alberi, tante luci di negozi, fari di auto, semafori, sferragliare di tram, la gente fitta con le facce nei baveri dei cappotti dentro un’aria di pioggia. Appena scesa dal treno, alla stazione Centrale, stette attenta a tutti gli uomini per vedere se c’era il suo, alto, magro, il viso dolce, mal rasato, con l’impermeabile che gli pioveva addosso e le stampelle e ce n’erano tanti, uomini, che salivano e scendevano da quei treni che andavano dappertutto, Parigi, Vienna, Roma, Napoli, Venezia, ed era impressionante come il mondo era grande e ricco, ma lui non c’era.
Alla fine trovarono la via e il palazzo della sorella, che loro si aspettavano moderno, una specie di grattacielo, invece era antico. Nonna lo trovò bellissimo anche se la facciata era malandata e agli stucchi attorno alle finestre mancavano le teste dei puttini e i rami dei fiori, alle persiane le stecche e molti pezzi di balaustre, ai balconi, erano stati sostituiti da assi di legno, molti vetri delle finestre da pezzi di cartone. Il portone era pieno di scritte e i foglietti con i cognomi non erano sotto i vetrini, ma appiccicati vicino all’unico campanello. Però erano sicuri di essere arrivati, visto che le lettere venivano e andavano da un anno a quell’indirizzo di Milano. Suonarono e una signora si affacciò dal balcone del piano nobile. Disse che i sardignoli15 a quell’ora non c’erano, ma potevano entrare e salire fin su e chiedere agli altri terùn16 . E loro chi erano? Cercavano una serva? Le sardignole erano le più sicure.
Allora tutti e tre entrarono. C’era buio e un odore di aria chiusa, di gabinetto e di cavolo. La scala doveva essere stata bellissima, perché aveva nel mezzo un vano enorme, ma sicuramente i bombardamenti dell’ultima guerra dovevano averla danneggiata, visto che molti gradini sembravano pericolanti. Nonno volle salire per primo, tenendosi rasente al muro e poi fece salire papà tenendogli stretta la mano e dicendo a nonna di mettere i piedi esattamente lì dove li aveva messi lui. Salirono fin su, fino al tetto. Ma appartamenti non ce n’erano. C’era una porta aperta che dava su un corridoio lunghissimo e buio, tutto attorno alla scala e lì tante altre porte di ripostigli. Però a queste porte di ripostigli erano attaccati i biglietti con i cognomi e in fondo anche quello del loro cognato. Bussarono, ma non venne ad aprire nessuno e invece si affacciarono sul corridoio delle altre persone e quando loro dissero chi cercavano e chi erano gli fecero un sacco di feste e li invitarono a entrare nel loro abbaino e ad aspettare lì. Il cognato era fuori col carretto degli stracci, la sorella a servire, i bambini restavano dalle suore tutto il giorno. Li fecero sedere sul lettone, sotto l’unica finestrella da cui si vedeva un pezzo di cielo grigio e papà voleva andare in bagno, ma nonno gli fece gli occhiacci perché era chiaro che bagno non ce n’era.
Forse dovevano andarsene subito. Potevano portare a quei poveri disgraziati solo un’infinita vergogna. Ma era tardi. Quei vicini affettuosi e gentili, anche loro terroni, li avevano già riempiti di domande e scappare sarebbe stato aggiungere disprezzo a offesa.
Così aspettarono e l’unico davvero triste era nonno. Papà era comunque entusiasta, perché a Milano avrebbe trovato degli spartiti che a Cagliari bisognava ordinare e aspettare per mesi e a nonna non le importava di niente se non di incontrare il Reduce e questo momento lo aspettava da quell’autunno del 1950. Chiese subito a sua sorella dov’erano le case di ringhiera, le disse che era curiosa perché ne aveva sentito parlare e allora ebbe l’indicazione della zona dove ce n’erano di più e lasciò che nonno andasse con papà a vedere la Scala, il Duomo, la Galleria Vittorio Emanuele, il Castello Sforzesco e a comprare gli spartiti che a Cagliari non si trovavano. Si capiva che nonno c’era rimasto male, ma non le aveva detto nulla, come sempre, e non la ostacolò in nessun modo. Anzi la mattina le faceva vedere sulla piantina le strade che doveva fare per vedere quelle zone che la incuriosivano e le diceva che tram doveva prendere e le lasciava sempre i gettoni telefonici e i numeri utili e i soldi se si fosse persa. Bastava che non si agitasse, che chiamasse da una cabina un taxi e sarebbe tornata a casa tranquillamente. Nonna non era insensibile, né stupida o cattiva, e si rendeva conto perfettamente di quello che stava facendo e che stava dando a nonno un dispiacere. Questo lei non lo voleva per nulla al mondo. Per niente al mondo, ma per il suo amore sì. Così, con il cuore in gola se ne andò a cercare la casa del Reduce. Era sicura di trovarla, un palazzo alto massiccio con i balconi in pietra lavorati, all’esterno un grande portone e un tunnel che formavano un’entrata monumentale e davano su un enorme cortile, all’interno, dove si affacciavano piani e piani di balconi stretti a ringhiera. Il Reduce stava a quello rialzato, la porta su una scaletta di tre quattro gradini dove la sua bambina stava ad aspettarlo seduta con qualunque tempo, le finestre con le grate, due grandi stanze dipinte di bianco dove non c’era nulla del passato. Nonna, con il cuore in subbuglio come se fosse una delinquente, entrò in un bar e chiese un elenco telefonico e cercò il cognome del Reduce ma, anche se era genovese, di quel cognome ce n’erano pagine e l’unica speranza era avere fortuna e che la zona fosse quella e la casa fosse quella. Di case di ringhiera ce n’erano per tante strade lunghissime e nonna guardava anche dentro i negozi, che erano ricchi e quelli degli alimentari assomigliavano a Vaghi della via Bayle di Cagliari, però erano tanti, tanti e affollati e forse il Reduce tornando dal lavoro faceva la spesa e magari se lo sarebbe visto davanti, bellissimo con l’impermeabile che gli pioveva addosso, le sorrideva e le diceva che anche lui non l’aveva dimenticata e in cuor suo la aspettava.
Invece papà, i cuginetti e nonno se ne erano andati in centro tenuti per mano nella nebbia sempre più fitta e nonno aveva offerto al figlio e ai nipotini la cioccolata da Motta seduti al tavolino e poi li aveva portati nei migliori negozi di giocattoli dove aveva comprato ai nipotini le costruzioni Lego e gli aero-pianini che si alzavano da terra e persino un calciobalilla da casa e poi erano andati dentro il Duomo e a prendere il cono con la panna in Galleria e mio padre di quel viaggio a Milano ne parla come di una cosa bellissima se non fosse stato che gli mancava il suo pianoforte. Se nonna avesse trovato il Reduce sarebbe scappata con lui, così com’era, portando con sé solo quello che aveva addosso, il cappotto nuovo, i capelli raccolti nel berretto di lana e la borsetta e le scarpe comprate apposta per essere elegante se lo avesse incontrato.
Pazienza per papà e per nonno, anche se li amava e le sarebbero mancati da morire. Si consolava all’idea che tanto loro due erano un tutt’uno e parlavano fitto sempre un po’ avanti a lei quando uscivano e a tavola si intrattenevano mentre lei lavava i piatti e da piccolo papà la buonanotte la voleva innanzitutto da suo padre e la storia per dormire e tutte le rassicurazioni che vogliono i bambini prima di andare a letto. Pazienza per Cagliari, per le vie strette e buie di Castello che improvvisamente si aprivano a un mare di luce, pazienza per i fiori, che aveva piantato e che avrebbero inondato di colori il terrazzo della via Manno, pazienza per i panni stesi al vento di maestrale. Pazienza per la spiaggia del Poetto, lungo deserto di dune bianche sull’acqua limpida che camminavi e camminavi e non era mai profonda e i banchi di pesci ti nuotavano fra le gambe. Pazienza per le estati al casotto a righe bianche e celesti, per i piatti di malloreddus con il sugo e la salsiccia dopo il bagno. Pazienza per il suo paese, con l’odore dei camini e dei porchetti e degli agnelli e dell’incenso in chiesa quando andavano dalle sorelle per le feste. Ma poi la nebbia era diventata sempre più fitta e i piani alti dei palazzi sembravano avvolti dalle nuvole e le persone ci dovevi proprio sbattere contro per vederle perché erano solo ombre.
I giorni seguenti, per le vie di Milano ancora avvolta dalla nebbia, il nonno la prendeva a braccetto e dall’altro lato teneva per le spalle papà, che a sua volta dava la mano ai cugini più piccoli, perché così, stretti l’uno all’altro, non si sarebbero persi e avrebbero comunque goduto di tutte le cose vicine e pazienza per quelle che la nebbia rendeva invisibili. Al nonno in quegli ultimi giorni, da quando nonna aveva smesso di cercare le case di ringhiera, era venuta una strana allegria e non faceva altro che dire battute e tutti a tavola ridevano e la soffitta neppure sembrava più così squallida e angusta e anche quando andavano in giro, così allacciati, se nonna non avesse avuto quella nostalgia struggente del Reduce, che quasi le impediva di respirare, si sarebbe divertita anche lei, alle trovate di nonno.
Uno di quei giorni lui si fissò con l’idea che doveva comprarle un vestito, che fosse davvero bello e degno di un viaggio sino a Milano e disse anche una cosa che non aveva mai detto prima: “Voglio che ti compri una cosa bella. Bellissima”.
E così si fermavano a guardare tutte le vetrine più eleganti e papà e i cuginetti brontolavano sempre perché era una grande noia aspettare che nonna si provasse questo e quello allo specchio con quell’aria svogliata.
Ora le possibilità di incontrare il Reduce, in quella Milano immersa nella nebbia, diventavano sempre meno e a nonna del vestito non gliene importava niente, però lo comprarono lo stesso, a disegni cachemire dai colori pastello e nonno volle che nel negozio si sciogliesse la crocchia, per vedere che figura facevano tutte quelle lune e stelle azzurre e rosa del cachemire con la sua nuvola di capelli neri e rimase così contento dell’acquisto che ogni giorno voleva che nonna sotto il cappotto mettesse il vestito nuovo e prima di uscire le faceva fare una giravolta e diceva: “Bellissimo,” ma sembrava volesse dire: “Bellissima”.
E anche questo nonna non se lo perdonò mai. Non aver saputo afferrare quelle parole nell’aria ed esserne felice.
Al momento dei saluti lei singhiozzava con la guancia appoggiata alla valigia e non era per la sorella, il cognato, i nipotini, ma perché se il destino non aveva voluto che incontrasse il Reduce, allora voleva dire che era morto. Si ricordò che in quell’autunno del 1950 aveva creduto di essere nell’Al di là e poi lui era così magro, quel collo sottile, la gamba spezzata, la pelle e le mani da bambino e quella terribile ritirata verso Est e il campo di concentramento e i naufragi e forse un nazista padre della sua bambina, adesso se lo sentiva che era morto. Se non fosse stato così lui l’avrebbe cercata, sapeva dove abitava e Cagliari non è Milano. Davvero il Reduce poteva non esistere più e per questo adesso piangeva. Nonno la sollevò di peso e la fece sedere sull’unico letto sotto la finestrella della soffitta. La consolavano. Le misero in mano un bicchierino per il brindisi di addio e la sorella e il cognato dissero che era per incontrarsi in tempi migliori, ma nonno non volle brindare ai tempi migliori, ma a quel viaggio invece, in cui erano stati tutti insieme e avevano mangiato bene e avevano anche fatto qualche risata.
Allora nonna, con quel bicchierino in mano, pensò che forse il Reduce era vivo, del resto era sopravvissuto a tante brutture, perché non avrebbe dovuto farcela nella vita normale? E pensò anche che c’era ancora un’ora di tempo, tutto il tragitto fino alla stazione in tram e la nebbia stava diradando. Ma arrivati alla stazione Centrale ormai mancava poco alla partenza del treno per Genova, dove avrebbero preso la nave e poi ancora il treno e sarebbe ricominciata quella vita dove la mattina innaffi i fiori sul terrazzo e poi prepari la colazione e poi il pranzo e la cena e tuo marito e tuo figlio se gli chiedi come è andata ti rispondono: “Normale. Tutto normale. Stai tranquilla,” e mai che ti raccontino bene le cose come faceva il Reduce o che tuo marito ti dica che sei l’unica per lui, quella che aveva sempre aspettato e che quel maggio 1943 la sua vita era cambiata, mai nonostante le prestazioni a letto sempre più perfezionate e tutte le notti in cui ci dormi insieme. Allora adesso, se Dio non le voleva far incontrare il Reduce, che la ammazzasse. La stazione era sporca, piena di cartacce per terra e di sputi. Mentre stava seduta ad aspettare che marito e figlio facessero i biglietti, perché mai che papà scegliesse di stare un po’ con lei e quindi aveva preferito fare la fila con nonno, notò una cingomma attaccata al sedile e sentì odore di gabinetto e le venne uno schifo infinito per Milano, che le sembrò brutta, come tutto il mondo.
Segui nonno e papà, che discutevano fra loro, sulla scala mobile che porta ai treni, pensò che se lei fosse tornata indietro non se ne sarebbero neppure accorti. Adesso la nebbia non c’era più. Avrebbe continuato a cercare il Reduce per tutte le strade schifose del mondo, con il gelo dell’inverno che stava arrivando, avrebbe anche chiesto l’elemosina e magari dormito sulle panchine e se fosse morta di polmonite o di fame meglio così.
Allora lasciò andare le valigie e i pacchi e si precipitò giù scontrandosi con tutta la gente che saliva, dicendo: “Scusate! Scusate!” ma proprio alla fine la scala mobile la fece inciampare mangiandole una scarpa e un pezzo del cappotto e le strappò il bellissimo vestito nuovo e le calze e il cappellino di lana che le era caduto e la pelle delle mani e delle gambe e aveva tagli dappertutto. Due braccia la aiutarono a sollevarsi. Nonno le si era precipitato dietro e adesso la teneva e la accarezzava come avrebbe fatto con una bambina: “Non è successo niente,” le diceva, “non è successo niente”.
Tornata a casa si mise a fare il bucato di tutte le cose sporche del viaggio: camicie, vestiti, magliette, calzini, mutande, avevano comprato tutto nuovo per andare a Milano. Adesso stavano bene e nonna aveva la lavatrice Candy con i due programmi per i capi resistenti e per i delicati. Divise tutte le cose: quelle che andavano lavate ad alta temperatura e quelle ad acqua tiepida. Ma forse pensava ad altro, non si sa, e distrusse tutto. Papà mi ha raccontato che li abbracciava, a lui e a nonno, fra le lacrime e i singhiozzi e andava a prendere i coltelli da cucina e glieli metteva in mano perché la ammazzassero e si graffiava la faccia e si sbatteva la testa al muro e si buttava per terra.
Mio padre poi sentì che nonno telefonava alle zie e diceva che lei, a Milano, non aveva retto vedendo la sua sorella più giovane e coccolata ridotta così, perché qui in Sardegna i piccoli proprietari terrieri erano modesti ma dignitosi e vivevano rispettati da tutti e invece la mancata riforma agraria li aveva rovinati e avevano dovuto emigrare, le donne a fare le serve, che per un marito è l’umiliazione peggiore, gli uomini a respirare i veleni delle industrie, senza tutela e soprattutto senza nessun rispetto e i figli si vergognavano, a scuola, dei loro cognomi sardi con tutte quelle u. Lui questo non lo aveva sospettato, scrivevano che stavano bene e loro avevano pensato di fargli una sorpresa andando a trovarli e invece li avevano soltanto fatti vergognare. I ragazzini si erano buttati sulle salsicce e il prosciutto come se non mangiassero da chissà quanto, suo cognato, quando aveva tagliato il formaggio e aperto la bottiglia di mirto, si era commosso e gli aveva detto che lui non poteva dimenticare che al momento della divisione dei beni nonno la parte di nonna non l’aveva voluta, ma purtroppo non era servito a nulla e su quelle terre a loro era sembrato che non ci si potesse vivere e invece avevano avuto ragione quelli che erano rimasti. A questo nonna, fatta a modo suo come le sorelle ben sapevano, non aveva retto e poi aveva anche saputo che oggi era stato ucciso a Dallas il presidente Kennedy e aveva distrutto uno stipendio di bucato. A lui non importava, che i soldi vanno e vengono, ma non c’era verso di calmarla e il figlio era scioccato. Che venissero a Cagliari, per favore, subito, con la prima corriera.
Invece poi, per i miei prozii e i miei cugini, le cose andarono sempre meglio. Dalla soffitta si trasferirono a Cinisello Balsamo e mio padre, che andava sempre a trovarli nei suoi giri di musicista, raccontava che vivevano in un palazzone altissimo pieno di emigrati, in un alveare di palazzoni per tanti altri emigrati, ma c’erano il bagno e la cucina e l’ascensore e di emigrati a un certo punto non si poteva parlare più, perché ormai si consideravano Milanesi e nessuno più li chiamava terùn, perché adesso la lotta era fra i rossi e i neri di San Babila, dove i cugini pestavano ed erano pestati mentre papà andava al Giuseppe Verdi con le borse piene di spartiti e di politica non si interessava. Papà mi racconta che si scatenavano certi litigi fra lui e i cugini. Per la politica e per la Sardegna. Perché loro facevano domande cretine tipo: “Ma questo maglione è di orbace?” per un maglione ruvido e bellissimo che gli aveva fatto nonna. Oppure: “Ma con che mezzi di trasporto vi spostate laggiù?” Oppure: “Ce l’avete il bidet? Le galline le tenete in balcone?”
Allora papà prima la prendeva a ridere e poi si incazzava e li mandava affanculo con tutto che era un pianista educato e tranquillo. È che loro non gli perdonavano il suo disinteresse per la politica, il fatto che non odiasse abbastanza i borghesi, che non avesse mai picchiato un fascista e mai fosse stato picchiato. Loro, che ancora ragazzini seguivano i comizi di Capanna, che avevano sfilato in corteo a Milano nel maggio del 1969, che avevano occupato la Statale nel 1971. Però si volevano bene e facevano sempre la pace. Avevano fraternizzato quel famoso novembre 1963, nella soffitta, quando giravano per i tetti uscendo dalla finestrella, di nascosto ai genitori, lo zio di Milano a vendere stracci e lo zio di Cagliari dietro ad aiutarlo, la zia di Milano dai padroni a servire e la zia di Cagliari, tutta matta, a studiare l’architettura delle case di ringhiera, con quell’indimenticabile berrettino di lana tenuto su dagli chignon di trecce alla sarda.
Nonna mi raccontava che poi la sorella le telefonava da Milano e le diceva che era preoccupata per papà, un ragazzo fuori dal mondo, tutto musica. Niente ragazze, mentre i suoi figli, più piccoli, erano già fidanzati. Il fatto è che papà non era alla moda, aveva i capelli corti quando tutti erano capelloni tranne i fascisti e lui poveretto non era certo fascista, è che non voleva che i capelli gli andassero sugli occhi mentre suonava. Le faceva pena, senza una ragazza, solo solo con i suoi spartiti. Allora nonna, quando riattaccava, si metteva a piangere per la paura di aver trasmesso al figlio quel genere di pazzia che fa scappare l’amore. Era stato un bambino sempre solo che nessuno invitava mai da nessuna parte, un bambino selvatico a volte maldestramente affettuoso di cui nessuno cercava la compagnia. Alle superiori era andata meglio, ma mica tanto. Lei ci provava a dire a papà che esistevano anche le altre cose del mondo e anche nonno, che però ci rideva su, e non potevano dimenticare la notte del 21 luglio 1969, quando mentre Armstrong scendeva sulla Luna il loro figlio non aveva smesso di provare “Paganini Variationen Opera 35 Heft I” di Brahms per il concerto di fine corso.