Capitolo terzo
Dopo il suo colloquio con il gufo, la lumaca che voleva conoscere i motivi della lentezza tornò lentamente, molto lentamente, alla pianta di calicanto e trovò le altre lumache impegnate in quella che chiamavano «abitudine».
Una volta, ma nessuno ricordava con precisione quando fosse successo, il vento aveva portato nel prato delle foglie colorate, di forma regolare, con margini dritti come non ne avevano mai viste sugli alberi e sulle piante conosciute. Erano arrivate planando, avevano danzato leggere nell’aria e alla fine erano atterrate sull’erba umida. Su quelle foglie si vedevano strani segni neri e degli esseri umani così inerti, così piccoli e così lontani dal rappresentare un pericolo per gli abitanti del prato che tutte le lumache se ne erano stupite.
Lentamente, molto lentamente, le lumache avevano percorso quelle foglie cadute esaminando con attenzione gli esseri umani immobili che facevano la fila davanti a una grande superficie piena di alimenti dall’aria molto saporita, perché alla fine delle foglie li vedevi con le facce allegre e del cibo in mano.
«Qualcuno, non ricordo chi, mi ha detto che gli umani dedicano la loro vita a ripetere cose, gesti e comportamenti che chiamano abitudini» spiegò una vecchia lumaca.
«Non mi sembra male questa abitudine di mangiare in gruppo» dichiarò una seconda lumaca e tutte le altre mossero i cornini per indicare che erano d’accordo, quell’abitudine di mangiare in gruppo era fantastica.
Da quel giorno smisero di mangiare da sole quando capitava, spinte semplicemente dalla fame, e decisero di farlo insieme al tramonto, riunite sotto le fitte foglie del calicanto. Per rendere più piacevole l’abitudine, si alternavano fra chi, sussurrando, faceva delle domande e chi, sempre in un sussurro, dava le risposte.
«Che cosa abbiamo da mangiare?» chiedeva una.
«Dente di leone. Saporite foglie di dente di leone» rispondeva un’altra.
«Vorrei mangiare qualcosa di molto saporito» diceva una.
«Ti consiglio il dente di leone» ribatteva un’altra.
Grazie all’«abitudine» ogni sera le lumache si radunavano a mangiare foglioline di dente di leone sotto i rami del calicanto e sussurrando parlavano dell’infaticabile lavoro delle formiche, dell’alterigia delle cavallette che attraversavano il prato con lunghi balzi senza fermarsi a salutare nessuno, e anche dei pericoli che le minacciavano. Temevano soprattutto i bruchi, capaci di vincere la forza con cui loro si aggrappavano alle foglie del calicanto, e gli scarabei, le cui potenti mandibole erano in grado di rompere il loro guscio. Ma più di tutto temevano gli esseri umani. Quando una lumaca sussurrava «splash!» e poi lo sussurrava un’altra e poi un’altra ancora fino a ripetere tutte quante quel sussurro d’allarme, sapevano che per colpa del modo distratto di muoversi che hanno gli umani, posando dove capita i loro pesanti piedoni, molte di loro non sarebbero arrivate alla piacevole abitudine del tramonto.
La lumaca che voleva conoscere i motivi della lentezza prendeva parte ogni sera all’abitudine di mangiare e di sussurrare gli avvenimenti della giornata sotto il calicanto e non la smetteva di fare domande sul perché della lentezza e sul perché non avevano un nome.
«Vediamo un po’» le rispose una sera una lumaca delle più vecchie che ormai si era un po’ stufata delle sue domande, «siamo lente perché non sappiamo saltare come le cavallette né volare come le farfalle. E quanto ad avere dei nomi, devi sapere che solo gli umani sono capaci di dare un nome alle cose e agli esseri del prato. E ora smettila con queste domande insensate, perché se insisti verrai espulsa dal Paese del Dente di Leone.»
Questa minaccia dispiacque molto alla lumaca che voleva conoscere i motivi della lentezza e avere un nome. E le dispiacque anche che nessuna delle altre lumache la appoggiasse o la difendesse. E le dispiacque ancora di più che qualcuna addirittura sussurrasse: «Sì, sì, è meglio che vada via, vogliamo vivere tranquille».
Allora allungò il più possibile il collo, mosse i cornini con gli occhi per guardarle tutte a una a una e, alzando il volume del sussurro quanto la minuscola bocca le consentiva, disse: «Ah, sì? Allora me ne vado, e tornerò soltanto quando saprò perché siamo così lente, e quando avrò un nome».