Fiori di ciliegio in primavera

«A-ma! A-ma!»

Le urla di nostro figlio ci strappano al sonno.

«Va tutto bene», dico, dando una pacca sul braccio di Jin. «Ci penso io.»

Percorro a piedi nudi il corridoio buio verso la stanza di Paul, che trovo seduto sul letto, scosso dai tremiti, le mani strette al piumone, il viso rigato di lacrime. Il dottor Katz, il nostro pediatra, lo ha definito terrore notturno. E il fatto che nelle due ultime settimane gli incubi siano andati peggiorando è del tutto normale, a suo dire. «Di solito la paura nei bambini si manifesta quando iniziano a frequentare la prima elementare. Quando arrivano in seconda, invece, molti di loro sono terrorizzati da cose come gli alieni. Forse è il nostro caso.» Il ruma, il nima e A-ma vedrebbero le cose diversamente. Direbbero che Jin-ba è perseguitato dagli spiriti maligni. Deh-ja ha preso precauzioni, ma annodare tralci di edera lungo i bordi della stanza pare non abbia sortito effetto. A dire il vero, potrebbe anche aver peggiorato la situazione, perché i bambini che vengono qui a giocare, siano bianchi o han, la vedono come una cosa assolutamente tu.

«Paul, guardami», dico con voce dolce mentre mi siedo sul bordo del letto. «Mi vedi?»

La cosa più triste di questi episodi è che Paul non dorme ma non è neppure sveglio. Mi guarda, ma i suoi occhi spalancati puntano qualcosa che sembra dentro di me. Oltre me. Trema. Urla di nuovo. «A-ma!»

Tendo le mani verso di lui e strofino i pollici contro la punta delle dita nel tradizionale gesto akha per chiamare i bambini a sé. Si arrampica sulle mie ginocchia, ma non posso essere sicura che sia pienamente cosciente finché non mi avrà chiamato mamma. Solo di rado è abbastanza lucido da dirmi che cosa ha sognato, a parte i «mostri». Stanotte, però, mi dice un po’ di quello che ricorda.

«Mi sono perso nella foresta. Gli alberi sembravano piegati, tutti spezzati. Non si sentivano uccelli. Era tutto tranquillo e faceva caldo. Ero così sudato sulle gambe che pensavo di essermela fatta addosso.»

Lo stringo tra le braccia. Negli ultimi tempi, gli è capitato ogni tanto di bagnare il letto. Se lo avessi allevato nel villaggio, il liquido sarebbe semplicemente filtrato tra le stecche del pavimento di bambù. Qui, invece, è «qualcosa di cui dobbiamo preoccuparci», per citare il dottor Katz.

«Poi sono arrivate le piogge», balbetta Paul. «Il monsone, come mi hai spiegato tu. Mi sembrava di annegare. Annegare nella foresta è una morte orrenda, non è così che hai detto, mamma?»

Mamma. Bene.

«Non annegherai in un monsone. Vivi ad Arcadia. Siamo in un posto sec...»

«Ma mamma...»

«Shhh. Chiudi gli occhi. Io sono qui con te.»

Canticchio una nenia finché non sento il suo respiro farsi profondo. Non ho bisogno che A-ma mi aiuti a interpretare il sogno di mio figlio. Ha paura della scuola. Lo capisco. Ma ha raccolto anche alcune delle mie ansie. Devo stare più attenta quando parlo al telefono con i miei fratelli e nelle mie conversazioni con Jin. Negli ultimi due anni, le stagioni secche nelle montagne del tè sono durate più a lungo, mentre i monsoni sono diventati più intensi. Le foglie del nostro tè germogliano prima, e la stagione di raccolta, tradizionalmente di dieci giorni, è stata prolungata. L’aspetto peggiore, comunque, è che questo andamento climatico sta frenando la crescita, proprio come Paul sembra aver notato nel suo sogno. Sento un cambiamento nelle foglie, lo sento nel sapore, ma non sono una scienziata e non so cosa significhi. Tuttavia, non posso nascondere la preoccupazione, e questo mio stato d’animo deve avere invaso il sonno di mio figlio.

Ma non c’è cosa peggiore di veder soffrire il tuo bambino. Ogni mattina gli chiedo che cos’ha sognato. È caduto un albero? C’è stato un incendio, un cane è salito sul tetto o si è rotto un uovo? Queste domande, però, invece di tranquillizzarlo e di aiutarlo a capire il suo posto nel mondo, acuiscono la sua ansia, rendendo i suoi sogni più tormentati. Mi sento malissimo e, in tutta onestà, non so cosa fare.

All’alba scivolo giù dal letto, riscaldo l’acqua per il tè e passo qualche polpetta di riso in un trito di arachidi per Paul. Jin si avvicina, mi bacia, si siede e apre il giornale.

«Posso avere invece un sandwich con burro di arachidi e gelatina?» mi chiede Paul appena entra in cucina e vede che cosa gli ho preparato. «Solo per oggi. Solo stavolta.»

Come se gli avessi mai fatto una cosa del genere.

Davanti al mio silenzio, aggiunge: «La zia Deh-ja me lo preparerebbe».

Glielo preparerebbe di certo, Deh-ja – non fa che viziarlo –, ma adesso è nello Yunnan, in visita ai suoi, come fa ormai ogni anno.

«Mamma», continua Paul, con insistenza. «Che cos’ha di così diverso quello che voglio da una pallina di riso con le arachidi all’esterno? Bianco fuori, marrone dentro. Marrone fuori, bianco dentro. Stessa cosa!»

«È quello che mangiano i bambini han?» gli chiedo, perché se non mangiano cibo cinese a scuola, forse neanche Paul dovrebbe farlo.

«Oh, mamma! Tutti si portano cibo cinese da casa!»

«Allora...»

«A Addison piacciono il burro di arachidi e la gelatina...»

«Addison.» Assaporo queste tre sillabe sulla lingua. Poi mi volto verso Jin, che alza gli occhi dalla sua copia del Chinese Daily News e mi guarda. Addison? Che razza di nome è?

Al mattino, in macchina, io e Paul passiamo a prendere altri due bambini lungo il tragitto verso la scuola. Metto un po’ di musica e i bambini cantano in coro. Poi accosto al marciapiede e premo il pulsante per sbloccare le portiere. Paul è l’ultimo a uscire e, mentre indossa lo zaino, sembra indugiare qualche istante.

«Questa Addison è bianca o han?» gli chiedo.

Ma lui si limita a salutarmi con la mano, sbatte la portiera e si precipita verso un gruppetto di ragazzini che riconosco: tutti nati qui, tutti di etnia han. Non posso trattenermi per guardarlo entrare nell’edificio – ho una fila di auto e minivan dietro di me – ma avverto uno strattone al cuore. Anche senza le cordicelle strette ai polsi, sarò sempre profondamente legata a mio figlio.

Mentre torno a casa, ho tempo di riflettere. Ho trentasette anni, sono nell’estate della mia vita. Mio marito è un imprenditore di successo. Opera ancora nel settore del riciclo, ma non è più la sua attività principale. Nei giorni più bui della recessione, quando le azioni continuavano a crollare e il valore degli immobili franava di conseguenza, ha iniziato a comprare case a poco prezzo, per poi ristrutturarle e rivenderle a uomini che, come lui, volevano un punto d’appoggio in America e un investimento sicuro in cui piazzare i loro soldi. Quando nostro figlio ha compiuto cinque anni, Jin ha subito un’altra trasformazione: è riuscito finalmente ad accantonare il fantasma paterno. «Paul ha la stessa età di quando ho tradito mio padre», mi ha detto. «E adesso che so che amerò sempre mio figlio, capisco che lo avrebbe fatto anche lui, di qualsiasi cosa mi fossi macchiato.»

Liberatosi del fardello di una vita, Jin ha iniziato a costruire spazi abitativi a Walnut, Riverside, Irvine e Las Vegas – per acquirenti di etnia han –, tutti forniti di cucine wok e allestiti seguendo i metodi feng shui. Non ancora soddisfatto, ha aperto uffici immobiliari nelle lobby dell’Hilton e del Crowne Plaza, i migliori hotel della San Gabriel Valley per i turisti cinesi, e ha assunto consulenti finanziari per fornire informazioni su mutui e scuole, assistere i clienti durante la procedura per l’ottenimento del visto EB-5 e vendere proprietà (dalle abitazioni più modeste, per semplice speculazione edilizia, alle dimore più lussuose – da dieci milioni di dollari e oltre – per i figli e le figlie che frequentano la USC o la Occidental).

Anche la mia attività va a gonfie vele. Dal 2008, il prezzo del tè di qualità è aumentato costantemente, finché quest’anno... boom! Le quotazioni del Pu’er sono praticamente schizzate di nuovo alle stelle. La mia società è abbastanza articolata, con sedi nella San Gabriel Valley e a Canton. Vendiamo Pu’er crudo, lavorato e invecchiato: dalle miscele economiche a quelle estremamente rare e costose che vengono donate ai leader più potenti della Cina. Dispongo di ampi capitali e gestisco autonomamente le forniture. Ho stretto accordi con quasi tutti i villaggi sul monte Nannuo. Gli agricoltori vengono da me ogni anno, sapendo che pago bene e con puntualità, per dirmi che hanno scoperto vecchi alberi di tè o giardini abbandonati in cima alla montagna. Spiego loro che il tè deve provenire da alberi di almeno trecento anni, e che i primi a berlo devono essere loro stessi, per accertarsi che gli alberi non siano così selvatici da far ammalare i consumatori. I miei tre fratelli controllano ogni partita di tè. E il coltivatore che dovesse tentare di rifilarmi foglie di scarsa qualità verrebbe estromesso da qualsiasi affare in futuro.

Ho persino uno stabilimento per la fermentazione a Menghai. L’ambiente principale è grande quanto un campo di football americano. Il pavimento è ricoperto da cumuli di tè, ciascuno dei quali in una diversa fase di fermentazione. Ogni cumulo è alto trenta centimetri circa e copre una superficie di dieci metri per quattro, per un peso di quasi cinque tonnellate. L’intero complesso è circondato da un alto muro sormontato da filo spinato. Ricevo molte richieste di tour da parte di intenditori, rivenditori e scienziati internazionali, ma le declino puntualmente. «Se volete conoscere i nostri antichi alberi di tè», spiego loro, «venite sul monte Nannuo.» Ogni tè che produco è artigianale: niente pesticidi, nessun procedimento meccanizzato. E tutto questo può andare avanti senza la mia presenza – se non durante la stagione della raccolta, quando io e Paul torniamo sulla montagna per supervisionare la raccolta, la lavorazione e la fermentazione – perché posso contare sull’aiuto e sul sostegno della mia famiglia.

Le mie tre nipoti hanno ormai diciannove anni. Nonostante il messaggio indirizzato loro dal governo – «Il tuo dovere nei confronti della nazione è quello di avere un figlio di alta qualità» – nessuna delle tre si è sposata. Ignorano tutti quegli impiccioni che ripetono loro che presto saranno perle ingiallite, troppo vecchie per essere amate appieno. Hanno ancora otto anni prima di vedersi appiccicate addosso l’etichetta di shengnu – donne-avanzo –, perciò si fanno grandi risate davanti agli show televisivi in cui le donne cercano disperatamente di conquistare un uomo: Una shengnu è per sempre, Go, go, shengnu e Anche le shengnu perdono la testa. Si prendono in giro a vicenda sui «dodici prodotti per aiutare le shengnu a dimenticare la solitudine» e, per prolungare lo scherzo, se li scambiano come regali di compleanno: un pela aglio, un set di lenzuola color arcobaleno e teiere monodose.

La figlia di Prima Cognata lavora nel mio negozio al mercato del tè di Fangcun. La figlia di Seconda Cognata è rimasta al villaggio ma fa su e giù per tutta la montagna in sella alla sua moto, per controllare che i nostri fornitori raccolgano le foglie migliori. La figlia di Terza Cognata vive nella San Gabriel Valley e gestisce le vendite online per conto mio. Se e quando decideranno di andare-lavorare-mangiare con un uomo, le mie nipoti potranno scegliere tra un sacco di pretendenti, perché in Cina ci sono trenta milioni di giovani in cerca di una compagna che nei numeri non esiste. Ma come convincerle? «Faccio quello che mi pare», mi ha detto la figlia di Prima Cognata l’ultima volta che l’ho vista. «E vado dove voglio.» Comunque sia, so per certo che adesso mia suocera siede sulla sua panchina nei giardini del mausoleo dei Martiri, quando è a Canton, o che gironzola per San Gabriel Square – quella che a volte, per scherzo, chiamiamo il Great Mall of China – quando viene a trovarci per cercare dei mariti idonei (ricchi e belli) per le mie nipoti. Che provino a farla franca!

Io e Ci-teh ci evitiamo ancora, ma sento molto parlare sul suo conto e sono sicura che anche a lei arrivino mie notizie. Ha convertito a piantagioni di caffè gran parte della terra presa in affitto, come ha giurato che avrebbe fatto sette anni fa. Lo Yunnan è persino diventato un’attrazione turistica tra gli han appassionati di caffè, e si dice che entro la fine dell’anno oltre un milione di persone nella nostra provincia troverà impiego nel settore, dal momento che copriamo più del 95 per cento della produzione cinese di caffè. Come valore aggiunto, per il nostro Paese e per quelli vicini – come il Laos –, la coltivazione del caffè è diventata un modo per sostituire le colture di papavero da oppio. Ci-teh vende il caffè dello Yunnan a Starbucks, che lo utilizza nei suoi punti vendita asiatici, e ha aiutato Nestlé a fondare un istituto del caffè a Pu’er City, mentre io ho fatto da intermediaria supportando la cittadina francese di Libourne, patria dei vini Pomerol e Saint-Émilion, nel firmare un accordo commerciale e di marketing con Pu’er City al fine di promuovere il loro vino in Cina e il nostro tè in Francia, dato che entrambi i prodotti contengono quei polifenoli che si dice facciano così bene alla salute.

Entro nel garage e trovo un biglietto di Jin che dice che non sarà a casa prima del tardo pomeriggio. Seduta al bancone della cucina, apro il mio portatile e do una scorsa alle e-mail, cercandone una in particolare. Durante il mio ultimo viaggio dall’aeroporto di Jinghong a Menghai, tra i numerosi cartelloni pubblicitari che adesso fiancheggiano la strada, ne ho adocchiato uno che era stato acquistato da una famiglia. Il primo piano della bambina nell’immagine era talmente ravvicinato da risultare sfocato. La scritta, tuttavia, era assolutamente comprensibile:

Sono stata trovata davanti all’ufficio postale di Jinghong il 21 maggio 1994. Il mio nome americano è Bethany Price. Se sei mia madre, per favore contattami.

A parte il fatto che la data di nascita e gli abiti non coincidevano, anche da neonata, ai miei occhi la bambina sembrava più dai che akha; in ogni caso, la vista di quel cartellone mi ha spinto a inviare una e-mail alla ragazza. Possibile che questa Bethany fosse passata dall’Istituto per l’assistenza sociale di Kunming come mia figlia? Che i suoi genitori abbiano conosciuto i genitori della mia Yan-yeh? Bethany conosce altre ragazze adottate dalla prefettura di Xishuangbanna?

Nessuna risposta al mio messaggio, nemmeno oggi.

Né ho richieste in seguito ai messaggi che ho lasciato su diversi siti web. Un anno fa, dopo essermi imbattuta su più di un post scritto da ragazze adottate in cerca delle proprie madri biologiche o, più raramente, da madri come me in cerca delle loro figlie, ne ho scritto uno anch’io:

Madre biologica dello Yunnan cerca la propria figlia lasciata presso l’Istituto per l’assistenza sociale di Menghai. La bambina è stata affidata ai nuovi genitori dall’Istituto per l’assistenza sociale di Kunming. Mia figlia è nata il 24 novembre 1995, secondo il calendario occidentale. L’ho chiamata Yan-yeh. L’ho messa in una scatola, dov’è stata trovata da due addette alla pulizia delle strade. Le ho spiate di nascosto per essere certa che la consegnassero sana e salva. Ora ho un figlio di sette anni. Mi piacerebbe ritrovare mia figlia. Hai un fratello e una madre che ti amano tanto.

Ho tralasciato di menzionare la torta di tè. In un’indagine per omicidio, come insegnano i programmi televisivi americani, bisogna sempre tenere nascosta la prova più importante. Qualcuno avrebbe abboccato all’amo? Ma le poche e-mail che ho ricevuto pongono tutte la stessa domanda fondamentale: sei mia madre? A cui rispondo con: c’era qualcosa nelle fasce in cui sei stata trovata?

Ma è come cercare di afferrare un pesce a mani nude.

Non ho mai dimenticato quello che A-ma mi ha detto prima che lasciassi il monte Nannuo per dare alla luce mio figlio. Voleva che lo partorissi in America nella speranza che mia figlia potesse intuire di avere un fratello. So che Yan-yeh è qui, da qualche parte. Ho la foto e l’impronta che mi ha dato la direttrice dell’istituto di Menghai. (Sarò per sempre riconoscente per com’è stata accudita lì e per il fatto che non sia stata trattata come una bambina rubata o sottratta ai genitori. Anche il governo cinese stima che, ogni anno, «spariscano» tra i 30.000 e i 60.000 bambini per essere trafficati illegalmente e fatti uscire dal Paese come prodotti di fabbrica. Provo un dolore immenso per quelle madri, in Cina e qui, che non possono smettere di farsi domande...) A ogni modo, non dovrebbe esserci almeno qualche traccia di Yan-yeh? Perciò, setaccio la rete quando Jin è in riunione, nelle notti in cui non riesco a dormire e il mercoledì pomeriggio mentre Paul è alla scuola di calcio.

Mi sono imbattuta in diversi siti che pubblicizzano «tour di ricongiungimento con l’orfanotrofio» in cui le ragazze (e le loro famiglie) possono vedere le culle nelle quali dormivano e incontrare le persone che all’epoca si occupavano di loro. È possibile che mia figlia sia andata in Cina con la Our Chinese Daughters’ Foundation o con la Roots & Shoots Heritage Tours? Anche se ci fosse stata, un tour operator porterebbe una ragazza e la sua famiglia in una città piccola come Menghai? Non è più probabile che possano averle mostrato l’istituto di una città più grande come Kunming, da dove tra l’altro è stata prelevata? E lei o i genitori non avranno voluto vedere il suo fascicolo? Ma tutti i fascicoli sono stati distrutti dall’incendio. Sia quel che sia, una volta alla settimana vado sui siti web di questi tour e studio le foto di genitori bianchi (coppie o madri single) che viaggiano con le figlie cinesi. Le ragazze hanno un’aria perfettamente americana con le loro infradito, i pantaloncini e le T-shirt di Hello Kitty. Yan-yeh assomiglierà a me? A San-pa? Alla mia a-ma? O alla sua? Ma in nessuna di queste foto ho adocchiato una ragazza con le caratteristiche somatiche del popolo akha.

Su una pagina Facebook promossa da un gruppo internazionale di ragazze cinesi adottate, ho visto le foto del giorno in cui sono state trovate e quelle del giorno in cui sono state consegnate ai nuovi genitori. Una bambina era vestita con una tuta da neve lurida e con un cappello di maglia viola. Aveva le guance irritate da un’eruzione cutanea. Un’altra – immersa in un sonno profondo – indossava una camicetta con un colletto morbido a pois. Un’altra ancora – diciotto mesi o giù di lì – aveva il pannolino che penzolava fino ai calzettoni a righe e i piedini infilati in un paio di sandali di plastica rossa. Ho visto foto di bambini con berretti, cappelli e sciarpe tipici di qualche etnica, ma nessuno di questi articoli riconduceva agli akha. Il mio cuore si è riempito di speranza il giorno in cui ho scoperto un sito web a cui era possibile inviare materiale genetico nel tentativo di associare madri e figlie. Pur avendo inviato un campione del mio, però, non ho mai avuto risposta.

Sono andata alla sede di Los Angeles di Families with Children from China per tenere una lezione sulla cultura del tè. (Il gruppo, mi è stato detto, è l’ombra di quello che era un tempo. Quelli che gestiscono le cose adesso – tutti volontari – sono nuovi. Inoltre, a quanto pare, non hanno mai tenuto dei registri in maniera seria.) Ho anche messo a punto dei corsi di degustazione di tè per adulti e bambini presso la Huntington Library. E nei fine settimana giro per i mercatini dell’usato alla ricerca di vecchie torte di tè, nella speranza, magari, che mia figlia o i suoi genitori abbiano deciso che non avesse più senso conservare la torta che ho lasciato con lei.

Nessuna di queste cose mi ha ancora portato fortuna.

Do un’occhiata all’orologio. Sono le 10.00 e le e-mail aziendali cominciano ad arrivare, ma decido di esaminare per prima cosa gli articoli di vita vissuta – in Cina e in America, sui giornali e su alcuni blog di cui ormai mi fido e che seguo perciò con interesse –, alla ricerca di qualcosa che riguardi qualche ragazza cinese adottata che sia riuscita a trovare i propri genitori o i propri fratelli. Queste storie mi aiutano a rimanere ottimista e a chiedermi se anche mia figlia mi sta cercando.

Se mai mia figlia dovesse postare una richiesta, quale sito utilizzerebbe?

Se mai dovesse comprare lo spazio per un cartellone pubblicitario, che posto sceglierebbe?

Se mai volesse provare a scoprire qualcosa sulla sua torta di tè, dove la porterebbe?

Si dice che un grande dolore non sia altro che un riflesso della propria capacità di provare gioia. Io guardo la cosa dalla prospettiva opposta. Sono felice, ma dentro di me c’è uno spazio vuoto che non smetterà mai di soffrire per la perdita di Yan-yeh. Dopo tutti questi anni, è un compagno come l’amico-che-vive-con-il-bambino. Mi ha nutrito e mi ha costretto a respirare quando sarebbe stato facile arrendermi. La sofferenza ha portato chiarezza nella mia vita. Forse le cose che mi sono successe costituiscono la punizione per il male che ho commesso in una vita precedente, forse sono dipese dal fato o dal destino o forse, ancora, sono parte soltanto di un ciclo naturale, come le brevi ma spettacolari vite dei fiori di ciliegio in primavera o delle foglie che cadono in autunno.

Non smetterò mai di cercare Yan-yeh. Ma ora, alle 11, mi costringo a dedicarmi al lavoro.

Corrispondenza via e-mail tra Haley Davis e la professoressa Annabeth Ho, avente per oggetto: tesi di laurea presso la Stanford University. Prima settimana di ottobre 2015

Professoressa Ho,

apprezzo molto il fatto che lei abbia accettato di farmi da relatrice il prossimo anno per la tesi di laurea. Quando sono venuta a trovarla durante l’orario di ricevimento, la settimana scorsa, mi ha chiesto di vedere una bozza del mio progetto di ricerca. Questo è il primo paragrafo:

L’impatto dei cambiamenti climatici sulle qualità organolettiche e medicinali del tè (Camellia sinensis) ricavato dagli alberi del tè nelle regioni tropicali della Cina

La tesi avrà due aree di studio: 1. In che modo i composti responsabili del gusto, del profumo e dell’aspetto del tè – una combinazione di amminoacidi, catechine, teobromina, metilxantina e zuccheri liberi – sono influenzati dai cambiamenti climatici globali? 2. Elevati livelli di biodiversità nella foresta tropicale si rispecchiano in una catena alimentare ricca, che aiuta a ridurre al minimo le infestazioni di insetti e parassiti. Nello specifico, i composti appena elencati costituiscono un bastione difensivo contro gli agenti patogeni, i predatori e lo stress ossidativo emersi tra gli alberi di tè che crescono nel loro habitat biodiverso e sempre più minacciato. In numerosi studi, tali difese naturali sono risultate benefiche anche per l’Homo sapiens. Tra queste sostanze, i composti più salutari del tè sono ritenuti essere le catechine – un gruppo di monomeri polifenolici di flavan-3-olo e i loro derivati del gallato. Il più importante di questi è l’epigallocatechina-3-gallato, che è il più bioattivo e che è ormai entrato nel dominio della «cultura del benessere». Con l’intensificarsi dei monsoni dovuto al cambiamento climatico, molti di questi composti antiossidanti registrano una diminuzione pari anche al 50 per cento, mentre altri composti sembrano aumentare. In che modo, dunque, le difese naturali degli alberi di tè sono influenzate dai cambiamenti climatici globali e quali saranno le conseguenze sui benefici per la salute della foglia di tè? Materiali e metodi utilizzati includono sondaggi e interviste tra i coltivatori e la raccolta e l’esame delle foglie di tè.

La ringrazio per il tempo che mi ha dedicato e spero di conoscere al più presto il suo parere in proposito,

Haley Davis

Haley,

sembra un progetto molto ambizioso, ma cos’altro potevo aspettarmi da una studentessa con due materie principali, biologia e scienze della terra? Il tuo obiettivo non dev’essere solo quello di laurearti con il massimo dei voti, come tutti quelli che scelgono di redigere una tesi di laurea, o semplicemente «con lode» (supponendo che la media dei tuoi voti sia abbastanza alta, cosa di cui sono sicura), ma con il premio Firestone per le scienze sociali e naturali.

Prima di entrare nel cuore della tua tesi, ho alcune domande di carattere pratico:

  1. Mi piacerebbe conoscere i motivi di questo tuo interesse personale per un argomento così arcano. Non fraintendermi. I vincitori del premio Firestone sembrano tutti specializzati in argomenti arcani, cosa che il comitato parrebbe apprezzare. Ti sarà utile sviluppare quest’aspetto.
  2. Presumo che tu abbia intenzione di andare nello Yunnan. Hai fatto domanda per una borsa di studio o per qualche altro tipo di finanziamento? Prenderesti in considerazione la possibilità di uno stage presso uno studio accademico più ampio già in corso? Quello che mi preme capire è come raggiungerai quei coltivatori, dove alloggerai e in che modo comunicherai. A nome dell’università, posso dirti che non vogliamo tu faccia niente che possa metterti in una situazione di pericolo o di disagio.
  3. Sembra uno studio pluriennale. Pensi di proseguire le tue ricerche con una specializzazione?
  4. Per quanto riguarda i «benefici per la salute» a cui fai riferimento: sappiamo che il tè verde contiene alti livelli di polifenoli. Questi antiossidanti contrastano i radicali liberi, che secondo molti scienziati contribuiscono al processo di invecchiamento e provocano danni al DNA, alcuni tipi di cancro, malattie cardiovascolari ecc. Ma a parte lo studio del Medical Center dell’Università del Maryland, potresti segnalarmi ulteriori attestazioni comprovate sui loro effetti benefici? Non sono interessata al marketing, alle prove aneddotiche o alle supposizioni che non siano supportate dai fatti o dalla ragione. Prima di lasciarti procedere, ho bisogno di visionare qualche documento valido.
  5. Presumo che uno dei motivi per cui mi hai chiesto di farti da relatrice è che sono cinese. Proprio in quanto cinese, spero che prenderai in considerazione l’opportunità di aggiungere una terza area alla tua tesi, anche se non rientra nel regno delle «scienze esatte»: come possiamo conciliare la poesia e la filosofia del tè con le pratiche di coltivazione e lavorazione del prodotto? Sono cresciuta con le antiche credenze sul tè dei miei genitori immigrati: Ogni ora trascorsa bevendo tè è un distillato di tutte le ore trascorse a bere tè. E: Puoi davvero trovare l’universale attraverso il particolare del tè. Personalmente, colgo un vero e proprio scollamento tra un sentimento come Il tè è la tazza dell’umanità e la misera vita cui sono costretti i coltivatori di tè. Se tu riuscissi a incorporare questi aspetti umanistici nei tuoi materiali e nei tuoi metodi, credo che la cosa non passerebbe inosservata al comitato e che questo spingerebbe comunque la tua tesi una spanna sopra le altre.

Spero di non averti intimorito,

Annabeth Ho

Professoressa Ho,

grazie per le questioni ponderate e stimolanti che ha sollevato. Ora mi rendo conto che avrei dovuto fornirle un po’ più di contesto. Proverò a farlo, tentando nel frattempo di rispondere alle sue domande.

L’estate scorsa sono andata alla World Tea Expo, che si è tenuta nel Sud della California, dove vivo. Ho provato tè prodotti in Thailandia, Vietnam, India, Sri Lanka, Ghana, Uganda, praticamente in ogni parte del mondo. Un’intera sezione dell’esposizione era dedicata ai tè dello Yunnan, in particolare al Pu’er, che è estremamente raro in Cina e ancora più raro nel mondo. All’expo, la gente puntava forte sul fatto che il tè sarà la grande moda del futuro, qui negli Stati Uniti, dove la vendita di tè sfusi, in bustina e pronti da bere è in costante aumento da due decenni. Quest’anno, il valore all’ingrosso stimato dell’industria del tè negli Stati Uniti è di 11,5 miliardi di dollari. Il fattore decisivo, a mio avviso, è stato l’acquisto di Teavana da parte di Starbucks nel 2012. Inoltre, non bisogna essere un genio per notare le somiglianze tra gli intenditori di tè e di vino; entrambi parlano di annate, stagioni di raccolta, varietà, terroir e degli effetti della luce, del suolo, del clima e, naturalmente, dell’invecchiamento sul gusto. Anche il linguaggio per descrivere il gusto è simile: «acidulo, con note di orchidea e prugna».

All’expo ho incontrato anche un’intera categoria di persone che non mi sarei mai aspettata di vedere: scienziati e medici. Lo Yunnan è noto per essere un hotspot di biodiversità. Si dice che la provincia abbia «la stessa diversità di piante da fiore del resto dell’emisfero settentrionale», e questo le conferisce una rigogliosità che non si trova in nessun’altra parte del mondo. La provincia costituisce solo il 4 per cento della superficie cinese, eppure ospita oltre la metà delle sue specie di mammiferi e uccelli e venticinque delle cinquantacinque minoranze etniche del Paese. Tutto ciò mi ha indotto a riflettere sul riscaldamento globale e sui suoi effetti sulla qualità e l’intensità della luce; caratteristiche che, a loro volta, andranno a modificare il prodotto finale, che si tratti di vino o di tè. Le piante con proprietà medicinali sono ormai sempre più rare nella foresta pluviale amazzonica. Non potrebbe succedere la stessa cosa anche nelle foreste tropicali dello Yunnan? E, proprio come in Amazzonia, le montagne del tè dello Yunnan sono sempre più invase dallo sviluppo e dall’inquinamento, in particolare quello atmosferico, che so essere argomento di particolare interesse per lei.

E poi, sempre all’expo, ho conosciuto un uomo di nome Sean Wong. Quando gli ho mostrato una torta di tè che conservo da sempre, lui mi ha incoraggiato a portare quello che ha definito «un esemplare ideale» nel luogo di origine, come fanno molti intenditori e collezionisti. Non era la prima volta che qualcuno mi suggeriva questa cosa: perciò, quando mi ha detto che avrei potuto andarci con lui, ho pensato di cogliere l’occasione.

Spero che questo le sia di aiuto,

Haley

Haley,

ho bisogno che tu scavi più in profondità e che risponda alle domande molto precise che ti pongo. Sono qui per metterti in discussione, per stimolarti. Spero che tu lo capisca. E per favore: non prenderla nel modo sbagliato, ma devo anche chiederti informazioni sul tipo di relazione che ti lega alla persona che ti ha invitato a viaggiare in sua compagnia. Cosa sai sul suo conto? Ti aiuterà davvero nella tua ricerca? Che motivazione lo spinge a portare una giovane donna in un’area così remota? Sono sicura che capisci dove voglio andare a parare, e mi sento molto a disagio anche solo a sollevare la questione.

Hai una promettente carriera accademica davanti a te. Da ciò derivano grandi opportunità e grandi responsabilità. Ho il sospetto che leggendo queste mie parole tu possa sentirti offesa, ma se in definitiva accetto di farti da relatrice, ho il dovere di saperti al sicuro, e questo non solo per i tuoi genitori e per l’università, ma anche per la mia tranquillità.

Annabeth Ho

Professoressa Ho,

per rispondere alle sue domande:

  1. Il mio interesse per questo argomento è strettamente legato alla mia educazione. Mio padre è un arboricoltore. Da bambina gli ronzavo intorno mentre si occupava di frutteti e cercava di recuperare alberi malati. Mi ha insegnato a mescolare i composti adatti per nutrirli o con cui irrorarli a seconda delle esigenze. Una volta mi ha detto: «A forza di starmi al fianco stai imparando tutto quello che c’è da imparare», ed era proprio così, perché ascoltavo ogni parola che diceva e la assorbivo come gli alberi assorbono le sostanze nutritive dal terreno. Grazie a mio padre, ho potuto osservare in prima persona gli effetti devastanti della siccità che ha colpito la California sui nostri alberi, che, così indeboliti, sono poi stati preda di infestanti e parassiti. A differenza della maggior parte degli studenti di Stanford e, a dirla tutta, della maggior parte degli scienziati, ho assistito alla morte di innumerevoli alberi causata da quello che non può essere altro che il cambiamento climatico globale. Mia madre, Constance Davis, è una biologa. Forse ne ha sentito parlare? Sono il prodotto di entrambi, ed è da qui che proviene il mio interesse per quest’argomento.
  2. Sì, ho in programma di andare nello Yunnan. Non ho bisogno di finanziamenti esterni, provvederà la mia famiglia. Farò il mio primo viaggio durante le vacanze di primavera, in quella che nello Yunnan è la stagione della raccolta del tè. Concordo sull’opportunità di aderire a un altro studio. Il Tufts Institute of the Environment, in collaborazione con il Dipartimento di etnobiologia del ministero della Pubblica Istruzione cinese e con il patrocinio della National Science Foundation, sta attualmente svolgendo uno studio multidisciplinare (il team comprende un ecologo chimico, un antropologo culturale, uno scienziato del suolo e delle colture, un economista agricolo e altre figure) sugli effetti degli eventi climatici estremi sul raccolto del tè coltivato in terrazza e su quello del tè selvatico nello Yunnan. Sono in contatto con la dottoressa Joan Barry, che dirige lo studio e che si è espressa favorevolmente circa una mia partecipazione al progetto, che in larga parte posso espletare sul mio portatile anche nella mia stanza del dormitorio, oltre che analizzando i campioni di tè nel laboratorio del campus. Il mio programma attuale prevede che io vada una settimana nelle montagne del tè per arruolare informatori e raccogliere campioni di tè per il mio progetto. Poi, la seconda settimana, mi unirò al team del Tufts. La dottoressa Barry si dice impaziente di poter vedere i risultati della mia ricerca.
  3. Sì, lo vedo come uno studio pluriennale, che spero di proseguire sia nel caso venissi ammessa al programma post-laurea di Stanford, sia che dovessi trasferirmi in una delle università della East Coast. Per ora, tuttavia, vorrei iniziare le mie ricerche nel modo che ho indicato nella mia precedente e-mail.
  4. Per quanto riguarda la sua domanda sui benefici del tè per la salute, le dico soltanto che al momento in tutto il mondo sono in corso duecento studi sul tema. Mi creda, mi accosterò all’argomento con gli occhi ben aperti e con tutto lo scetticismo e il rigore che la scienza occidentale dovrebbe mettere in campo.
  5. Punto primo: il fatto che io le abbia chiesto di farmi da relatrice non ha nulla a che vedere con la sua razza. Ho pensato, e continuo a crederlo, che il suo lavoro sugli effetti del particolato atmosferico sui bambini che vivono nel delta dello Yangtze avesse attinenza con il mio progetto. Punto due: apprezzo il suggerimento di integrare la poesia e la filosofia cinese nella mia tesi. In effetti, ho già svolto un po’ di ricerche e penso che potrebbe risultare più inclusivo – e provocatorio – allegare anche qualche saggio del pensiero popolare sul tè. Per esempio, uno degli ultimi numeri di Bon Appétit ha dedicato – credo per la prima volta – uno spazio al tè. Nell’articolo in questione, la pioniera della cucina americana Alice Waters riconosce al Pu’er il merito di aver contribuito ad abbassare il suo colesterolo di 100 punti e a risolvere la sua «dipendenza da caffè». Non stiamo parlando di poesia, certo, ma il fatto che una come Alice Waters ammetta pubblicamente una cosa del genere, soprattutto su una rivista culinaria e non scientifica, non accenderà l’interesse per il tè in generale e per il Pu’er in particolare? E questo, a sua volta, non renderà ancora più urgente la questione degli effetti dei cambiamenti climatici sugli alberi di tè?

Infine, devo rispondere alle sue preoccupazioni sul mio compagno di viaggio. Benché nessuno possa comprendere appieno le motivazioni di un’altra persona, dubito che nutra un interesse romantico nei miei confronti. (Suppongo intendesse questo: in caso contrario, sono estremamente imbarazzata.) È un nerd del tè. Non sapevo esistesse gente di questo tipo, ma esiste. Mi sento fortunata a essermi imbattuta in un esperto del settore che può rispondere a molte delle sue preoccupazioni logistiche.

Spero vorrà ancora considerare la possibilità di farmi da relatrice. Cordiali saluti,

Haley Davis

Cara Haley,

certo che conosco tua madre! Tutti nel nostro campo conoscono tua madre per la qualità e l’importanza del suo lavoro. Abbiamo cercato per anni di reclutarla nel nostro dipartimento di biologia, ma ha sempre risposto che non voleva stravolgere la sua famiglia. Avrei dovuto fare due più due. Ti chiedo scusa per non aver abbinato il tuo nome e il tuo talento alla sua faccia.

Chiedo scusa anche per l’altro malinteso. Sarò felice di essere la tua relatrice. Vieni nel mio ufficio martedì prossimo, così ne parliamo di presenza. Tra le altre cose, vorrei sapere, considerata la tua ultima e-mail, se la tua tesi riguarderà il tè in generale o soltanto questo Pu’er di cui parli. Sono dell’idea che restringere il campo da una panoramica enciclopedica a una singola varietà da approfondire potrebbe avere dei vantaggi.

A martedì,

Annabeth Ho

Cara professoressa Ho,

evviva! Mia madre sarà felicissima quando glielo dirò. Non vedo l’ora di lavorare con lei.

Haley