Un’unica, lunga catena dell’esistenza

Ci-teh mi fissa con freddezza. Sembra più tu che mai, ma per la prima volta in vita mia la vedo in maniera diversa. «Mi hai sempre sottovalutata», dice. «Anche quando eravamo ragazze, ti comportavi come se fossi più intelligente di me.»

«E tu eri più ricca, ma pensavo fossimo amiche.»

«Tu non sai niente, Li-yan...»

Le urla del sacerdote degli spiriti la interrompono.

«Ci-teh! Li-yan! Tutti! Venite fuori!»

Benché la Legge degli akha non mi avrebbe permesso di affrontare Ci-teh da sola, avevo sperato anche solo in un breve istante di confronto privato con lei. Ci-teh annuisce. Poi infila un impermeabile, esce e apre un ombrello. Io le vado dietro. Fradicia come sono, provo comunque un senso di gratitudine per questa pioggia purificatrice. Accanto a noi, nel fango, ecco il ruma e il nima, la mia a-ma e il mio a-ba, i miei tre fratelli, le loro mogli e i loro figli, oltre a tutti gli altri abitanti del Pozzo della Sorgente. Alcuni sono vestiti con abiti in stile occidentale e, come Ci-teh, hanno un ombrello. Altri – compresi A-ma e A-ba – indossano mantelli fatti di foglie. Benché il ruma abbia portato il suo bastone, né lui né il nima indossano i loro abiti cerimoniali. Rivolgo un’occhiata a mio marito, che non capisce l’akha. Dovrà cercare di seguire interpretando semplicemente il linguaggio del corpo e il tono. Questa constatazione fiacca un po’ della mia forza.

«Qualunque cosa abbiate da dirvi, va detto di fronte a tutti», esordisce il ruma, «perché le vostre azioni hanno squilibrato la foresta e tutti coloro che ci vivono.»

«Non ho fatto niente di male», protesto.

Ci-teh mi punta un dito contro. «Lo ha fatto eccome.»

«Non è...»

Ci-teh m’interrompe. «Ci accuserà di produrre un tè contraffatto. Invece abbiamo semplicemente preparato il tè a fermentazione artificiale come ci ha insegnato tanti anni fa il signor Huang.»

Alzo una mano per impedirle di continuare. «Ti prego, non mettermi in bocca parole che non ho mai pronunciato. Non c’è niente di sbagliato nel far fermentare le foglie fintanto che lo fai correttamente e ottieni un buon prodotto. Questo è quello che facevano a Laobanzhang e quello che eri solita mandarmi. Ma apporre un’etichetta su un tè di qualità inferiore prodotto qui, per fingere che provenga da Laobanzhang e venderlo come un falso a prezzi gonfiati... approfittando della mia assenza. E adesso dai la colpa a me?»

Ci-teh liquida la mia accusa con un gesto. «Lo hanno fatto tutti, non solo il nostro villaggio.»

«Sì, un sacco di villaggi hanno prodotto dei falsi», rispondo, «ma questa non è una giustificazione. Siamo akha. Non inganniamo le persone.»

«Li-yan», dice un uomo a gran voce, «non tutti hanno fatto quello che voleva lei!»

«Anche noi abbiamo respinto la sua richiesta», aggiunge la donna che gli sta di fianco.

«Noi ci siamo rifiutati di venderle il nostro maocha o di affittarle la nostra terra», dice Primo Fratello, e diverse altre teste emergono tra la folla per farmi sapere di aver resistito alle sue proposte.

Sapevo che Ci-teh prendeva in affitto la terra, ma ignoravo fino a che punto la pratica fosse diffusa.

«Se Li-yan non ci avesse chiesto di rifornire il suo negozio con una quantità irragionevole di tè», afferma Ci-teh, «allora non avremmo fatto ciò che invece è stato necessario fare per soddisfare la sua richiesta. A lei interessava soltanto diventare ricca!»

Vorrei che la discussione non fosse arrivata a questo punto, ma colgo qualcosa di nuovo in Ci-teh. È smaliziata ed egoista. Spero ancora di ritrovare dentro di lei la ragazza di un tempo.

«Ci-teh», dico, toccandole il braccio. «Sai che le cose non sono andate in questo modo. Speravo mi avresti aiutata, visto che sei la mia migliore amica da una vita: mi fidavo. Avevamo un bene prezioso da vendere, ma tu l’hai corrotto.»

Lei si scosta proprio mentre qualcuno dalla folla urla: «Chi sei tu per dirci come condurre i nostri affari?»

La gente mormora. Ho paura che non si fidino di me.

«Abbiamo tutti beneficiato della popolarità del Pu’er», dico. «E io ho cercato di condividere la mia fortuna con te...»

«Lei è un’estranea, ormai», dice Ci-teh in tono di sfida.

«Sì, non vivo più qui da tanto, è vero. Ma rispondete a questa domanda: quanto ha pagato il vostro tè a fermentazione artificiale che ha poi impacchettato con una confezione contraffatta, ben sapendo che il prodotto finito non proveniva da Laobanzhang?»

Una voce senza volto rivela: «Duemila yuan al chilo».

«Sono tanti soldi. Ma sapete quanto mi ha detto di aver pagato i coltivatori a Laobanzhang? Tremila yuan. Come minimo, mi ha rubato mille yuan per ogni chilo di finto Pu’er. Adesso che siamo qui riuniti, solo una persona sa quanto ha chiesto ai clienti per lo stesso tè. Dieci, venti, cinquanta volte quello che ha pagato a voi?»

Il mormorio ricomincia, ma questa volta sento che la marea sta cambiando.

«Ci-teh ha fatto un sacco di soldi agendo contro la Legge degli akha», insisto. «Io stessa ne ho guadagnati tanti. E anche le vostre vite sono state rivoluzionate. Case nuove. Elettricità. Motociclette. Ognuno ha le proprie responsabilità. Ma questa contraffazione ha avuto conseguenze su tutti noi. Il prezzo del Pu’er si è dimezzato e continua a calare.»

«Non può essere.»

«Come possiamo fidarci di te?»

«Non potete», dice Ci-teh, cogliendo al volo l’occasione. «Nei nostri capannoni abbiamo una tonnellata o più di tè lasciato a fermentare. Pensateci. Domani lei se ne sarà andata, ma io vi garantisco che ve lo pagherò mille yuan al chilo.»

Benché sia la metà del prezzo fissato in precedenza, è pur sempre l’equivalente, al tasso di cambio attuale, di poco più di 130.000 dollari per la tonnellata di tè conservata nei capannoni del villaggio. Cifra che si traduce in circa 3250 dollari per ciascuna delle quaranta famiglie che vi abitano e che non include il tè ricavato dalle raccolte minori durante l’anno. Ricordo il tempo in cui la mia famiglia era fortunata se racimolava 200 yuan al mese – 300 dollari all’anno – e come ci sentissimo grati, allora, per quella somma.

«Se proprio volete produrre un tè fermentato», dico, «allora facciamolo nella maniera corretta. Vi pagherò bene – forse non mille yuan, in principio –, ma sarà comunque un nuovo inizio. Non proviamo mai più a spacciare il nostro tè per quello che non è...»

«Ho promesso di subaffittare un po’ di terra da ogni famiglia, qui», dice Ci-teh, parlandomi sopra. «Poniamo che quello che vi ha detto sul prezzo del Pu’er sia vero: in tal caso, i vostri alberi di tè e la terra che li sostiene non hanno alcun valore. Io voglio aiutarvi. Non lasciatevi ingannare da una forestiera che si è fatta corrompere dagli spiriti maligni.»

«Vi rendete conto di quello che sta facendo?» chiedo alle famiglie del Pozzo della Sorgente. «Sta cercando di rubarvi la terra!»

«Non rubo niente», risponde lei. «Sto solo prendendo in subaffitto. Molto semplicemente, propongo loro di farmi carico di ogni concessione fino al prossimo rinnovo della politica dei Trent’Anni senza Cambiamenti.»

«Stai tentando di diventare una proprietaria terriera!» È l’accusa peggiore che potessi muoverle.

Cerco Jin con lo sguardo. Lui si limita a farmi un impercettibile cenno del capo. Coraggio, dillo. Sei forte.

«La tua famiglia è sempre stata la più facoltosa del villaggio», proseguo, «ma adesso vuoi anche affittare le concessioni di tutte le famiglie che ci vivono? In un momento in cui il mercato è al minimo? Puntando sul fatto che il prezzo del tè tornerà a salire?»

La sua è una risata beffarda. «Non hai capito niente. Ho deciso di abbattere gli alberi di tè una volta per tutte. Aiuterò la gente a convertire la propria terra alla coltivazione di alberi della gomma e di piante di caffè.»

«Ma siamo a un’altitudine troppo elevata per gli alberi della gomma! E poi, quel tipo di coltivazione distrugge tutto ciò che la circonda. Per quanto riguarda il caffè...»

«Mi hanno già contattato Starbucks e Nestlé», annuncia compiaciuta. «Faremo i soldi, tutti noi, perché la domanda mondiale di caffè...»

«Priveresti le persone dell’unica cosa che hanno: la terra con i nostri alberi speciali?»

«Ma avrete i soldi», dice Ci-teh, di nuovo rivolta agli abitanti del villaggio. «Sarò in grado di darvi più di quanto possiate mai guadagnare dal tè.»

«Avrete soldi per un paio d’anni, ma poi?» chiedo alla folla. «I vostri figli e le vostre figlie saranno costretti ad andarsene come ho dovuto fare io. Adesso potete guardarmi e dire: ’Oh, è una di fuori’. Oppure: ’Oh, ha avuto vita facile, il destino è stato buono con lei’. Ma io so come funziona per gli akha che non hanno né istruzione né opportunità.»

Come posso indurli a ragionare?

«Per noi ci sono cose più importanti dei soldi», dico, «e i nostri alberi di tè hanno un valore che va oltre il profitto. Quel Lignaggio che recitiamo è anche nei nostri alberi. Possiamo ricominciare, ma dovremmo farlo nel modo giusto, facendo tesoro di ciò che per noi è più prezioso. Ogni albero ha un’anima. Ogni chicco di riso. Ogni...»

Ci-teh apre la bocca per obiettare, ma, prima che abbia modo di farlo, A-ba le dice a voce alta: «Ascolta mia figlia. È ancora l’unica persona del nostro villaggio ad aver frequentato la scuola di secondo e di terzo livello. Poi è andata via come il maestro Zhang diceva che avrebbe fatto. Abbiamo bisogno di qualcuno che possa rappresentarci e prendersi cura di noi».

Benché sentirlo parlare così di me mi commuova fino a sopraffarmi, trovo la lucidità per aggiungere: «Ma solo se riusciamo a comportarci come veri akha...»

«Guardatevi intorno», continua A-ba. «Tutto il clan di mia figlia è qui, al completo. Ma dov’è quello di Ci-teh? Dove sono suo marito e le sue figlie? Chi è – che cos’è – un akha senza la sua famiglia?»

Uno di quelli che prima ha preso le difese di Ci-teh fa un passo avanti. «Ha affittato la mia terra tre anni fa. È quella più vicina al villaggio della Foresta di Bambù, da dove proviene suo marito. Ci ha costruito sopra casa sua.»

Sarà probabilmente la mostruosità che io e Jin abbiamo visto venendo qui. Qualunque miglioramento abbia vissuto il Pozzo della Sorgente, non importa quanto spettacolare sia stato, scompare di fronte alle ricchezze che lascia immaginare la casa di Ci-teh. Tutto questo mi fa sentire stupida. Se Ci-teh fosse stata una qualsiasi altra persona, avrei di certo indagato prima di affidarle il negozio: e invece non ho mai guardato oltre la superficie della nostra amicizia. Aveva proprio ragione quando ha detto che l’ho sottovalutata.

Lascio che siano le donne a spiegare cosa ne è stato dei familiari di Ci-teh.

«Suo fratello e la sua famiglia sono a Disneyland, a Hong Kong.»

«Suo marito e le sue figlie sono in Myanmar per comprare rubini.»

«Figlia di un cane!» grida qualcuno. Altri urlano epiteti ancora più pesanti, ma questo non vuol dire che la marea si sia completamente ribaltata. Sono in tanti, qui, quelli a cui Ci-teh dà da mangiare. Se la abbandonano, che ne sarà di loro? La tensione è palpabile. Temo che possa scoppiare una colluttazione.

Il ruma picchia per terra con il bastone, ottenendo il silenzio mentre si consulta con il nima. Dopo un susseguirsi di gesti e sussurri, il primo annuncia: «Terremo una cerimonia nella mia abitazione».

Raggiungiamo in una sorta di cupa processione la casa del ruma, dove questi e il nima indossano i loro mantelli cerimoniali. Gli anziani si siedono in cerchio attorno a noi. Una volta che tutti hanno preso posto, il nima chiama me e Ci-teh, invitandoci a inginocchiarci davanti a lui. Mi sfrega una manciata di fuliggine dalla fronte fino alla punta del naso. Poi ripete il gesto con Ci-teh.

«Ecco: sono queste due – quelle con il segno sul volto – quelle che devi scrutare ed esaminare», dice rivolto ad A-poe-mi-yeh, il nostro dio supremo. Poi lega il mio polso a quello di Ci-teh con una corda. «Che siano unite nel loro viaggio nel mondo degli inferi.» Infine, versa sul pavimento un po’ di alcol che, attraverso il bambù, viene subito assorbito dal terreno sottostante. «Invoco gli antenati perché ci aiutino a trovare la verità. Qual è lo spirito che sembra rodere l’anima di queste donne e soffocare il nostro villaggio?»

Poi rovescia gli occhi finché non rimane visibile solo il bianco. Il tremolio dei suoi arti scuote le monete e le ossa sul suo mantello, facendole tintinnare. Parole indecifrabili sfuggono dalle sue labbra: «Ooh, aww, tsa». La cerimonia prosegue per tre ore, durante le quali finalmente la pioggia cessa. L’assenza del suo costante ticchettio amplifica i gemiti del nima.

Quando quest’ultimo riemerge dalla sua trance, io e Ci-teh veniamo mandate fuori perché possa conferire con il ruma e gli anziani del villaggio. Ogni uomo, donna e bambino del Pozzo della Sorgente attende ancora nella pioviggine brumosa. Le fazioni sono palesi: da una parte il gruppo che ha maggiormente beneficiato degli affari con Ci-teh, dall’altra quello di chi è rimasto più legato alla sua terra e alle sue tradizioni. Io manco ormai da oltre dieci anni, durante i quali lei è stata una presenza costante e influente. E mentre io prometto qualcosa di intangibile che riguarda il futuro, lei ha già cambiato il corso di molte vite. Io faccio appello all’onore; lei garantisce la sopravvivenza.

Il ruma, il nima e gli anziani del villaggio ci raggiungono. Come da tradizione, spetta al ruma proclamare l’esito della consultazione e annunciare le indicazioni del nima.

«Le accuse sono fioccate da una parte all’altra come frecce avvelenate», inizia, «ma noi abbiamo soppesato ogni cosa, compreso ciò che il nima ha visto nel mondo degli inferi.» Quando chiede: «È possibile che Ci-teh sia posseduta da uno spirito?» avverto un filo di ottimismo. «Se il nima mi avesse riferito che il suo spirito ansimava come sul punto di soffocare, allora avrei preso delle foglie di banana piene di cenere, riso integrale e monete e gliele strofinerei sul corpo: ma lei non dimostra questo tipo di afflizione. Se fosse diventata selvaggia, al punto da strapparsi le vesti o ululare come un animale, avrei chiesto a tre donne rispettabili del nostro villaggio di urinare su una scopa, che poi avrei usato per spazzare via i problemi di Ci-teh: ma lei non dimostra questo tipo di afflizione. Se avesse avuto le convulsioni, l’avrei avvolta nel rampicante magico e poi avrei sacrificato una capra, un maiale e due polli: ma, ancora una volta, lei non dimostra questo tipo di afflizione. Ci-teh non soffre di un’afflizione spirituale. Tutto ciò che ha fatto è venuto dalle sue mani, dal suo cuore e dalla sua mente...»

Mentre io mi sento inondare dal sollievo, Ci-teh è furibonda. «Quanto vi ha pagato Li-yan per farvi dire queste cose?»

«Gli sciamani e i sacerdoti degli spiriti non mentono», risponde indignato il ruma. «Non possiamo mentire. Se lo facessimo, gli spiriti ci darebbero il tormento. Ora, per favore, lasciami continuare. Una scintilla accende un fuoco. L’acqua fa germogliare un seme. La Via degli akha ci dice che un singolo istante può cambiare il destino di tante persone. Pertanto, io e il nima siamo andati a ricercare l’istante che ha cambiato ogni abitante del villaggio, e in special modo queste due. Sto parlando dell’occasione in cui gli spiriti maligni hanno portato la nascita di due gemelli tra noi.»

Mentre tutti indietreggiano istintivamente, io mi vedo riportata indietro nel tempo, non già alla nascita dei bambini di Deh-ja ma alla mia cerimonia di purificazione seguita al furto della frittella. Allora avevo pensato che il ruma avesse magicamente compreso tutto quello che era successo, ma ora mi rendo conto che i suoi doni potrebbero avere avuto meno a che fare con la magia che con l’interpretazione in chiave magica del mondo circostante.

«Quanto a Li-yan, l’arrivo dei rifiuti umani l’ha indotta a guardare oltre il portale degli spiriti, verso il mondo esterno», dice, e capisco quanto sia scaltra la manovra di accollarmi una parte della responsabilità. «Quanto a Ci-teh, invece...»

«Abbiamo perso averi, reputazione e persino mio fratello», conclude lei, incupita.

«E questo ha fatto sì che tu lavorassi sodo perché la tua famiglia riguadagnasse il suo benessere e la sua posizione sociale. Sei riuscita anche a riavvicinare tuo fratello, se non proprio a reinserirlo nella vita del villaggio.» Picchia a terra con il bastone. «Ora, tutti insieme come villaggio, scacciamo gli spiriti maligni che hanno perseguitato queste due donne. Lasciatele! Andate via! Via per sempre!» Fa una pausa prima di aggiungere: «Adesso praticheremo l’astinenza cerimoniale».

Un tempo sarebbero potute bastare le procedure ordinarie a mettere a posto le cose, ma questo non è un caso semplice come quando qualcuno tocca inavvertitamente il portale degli spiriti o un cane sale sul tetto di una casa.

Una voce urla: «E la mia terra? Ci-teh me la rivenderà?»

L’ipotesi si fa strada tra la folla.

«Magari andrà bene per te!» grida un altro. «Però io non posso restituire i soldi che ho già speso!»

«Ma Ci-teh non andrebbe bandita?» risponde un terzo, di rimando.

Quindi è uno della fazione di Ci-teh a esternare le proprie opinioni. «Perché dovrebbe andarsene? Le ho affittato la terra. Perché non posso lavorare per lei e coltivare il caffè?»

«Mandate via la straniera! Guardatela! Non è una vera akha!»

Lo schiocco di numerose lingue rivela che l’ultima proposta gode di un certo sostegno.

«Se una donna si sposa con uno di fuori, significa forse che non è più un’akha?» chiede il ruma. «In passato, quando i nostri uomini percorrevano l’Antica via del tè e dei cavalli per mesi o anni, cessavano forse di essere akha? Se Li-yan desidera rimanere tra noi, è la benvenuta. Per quanto riguarda Ci-teh... Non è un rifiuto umano. Non è un’assassina. Non posso bandirla. La sua casa è fuori dalla protezione del nostro portale. Lasciatela vivere lì. Quanti vogliono fare affari con lei sanno che gli spiriti buoni e quelli maligni ci stanno guardando.»

Niente di tutto questo assolve Ci-teh, ed è evidente che lei potrebbe aizzare di nuovo gli animi, se lo volesse. Invece, raddrizza la schiena e inizia a farsi strada tra la folla, fermandosi qua e là per parlare con i suoi sostenitori. Consapevole dell’effetto che la nascita dei gemelli ha avuto su di me, provo empatia verso di lei per le perdite subite dalla sua famiglia. Arrivo persino ad ammirare, pur se a malincuore, il desiderio di aiutare la sua famiglia che si è acceso in lei al tempo in cui eravamo ancora ragazzine. Mentre si allontana, però, so già che non saremo mai più amiche.

Dopo aver denunciato pubblicamente Ci-teh, sento di dover essere più presente nel villaggio. Voglio aiutare la gente del Pozzo della Sorgente a riguadagnare l’orgoglio per i nostri alberi di tè, a ridare nuova vita al commercio del Pu’er, a riportare e a stabilizzare il flusso di soldi su cui tutti erano ormai abituati a contare. Per mia fortuna, Jin è d’accordo. Nelle settimane che seguono, visto che è ancora in corso la stagione dei monsoni e poco si può fare per gli alberi stessi, vado di casa in casa cercando di ristabilire un clima di fiducia, mentre Jin fa telefonate di lavoro dal suo cellulare e di tanto in tanto incontra qualche socio a Menghai o a Jinghong. Di notte dormiamo in una capanna per gli sposi abbandonata. Non è il momento dell’anno per costruire una casa, ma il ruma e Jin iniziano a ragionare su una data adeguata per dare il via ai lavori. Nel giorno stabilito, gli uomini vanno nella foresta per tagliare il bambù. Noi donne raccogliamo paglia e intrecciamo corde di bambù. La nostra nuova dimora, senza i comfort moderni che Jin promette di procurare al più presto, è ultimata all’ora di pranzo. Ci trasferiamo nel pomeriggio. E la notte stessa sogno l’acqua. Due settimane dopo, mi sveglio con la nausea. Sono arrivata al punto.

Jin è al settimo cielo. Quando chiama sua madre, la sento gioire a distanza. Anche A-ma sorride a trentadue denti. Dice: «Ti ci è voluto così tanto tempo per capirlo? Per me e le cognate era evidente già mezzo ciclo fa». Per quanto queste parole sembrino prosaiche, la sua felicità s’irradia come il sole in una mattina di primavera.

È quello che volevo. È ciò che darà completezza alla nostra vita. Tuttavia, le preoccupazioni che suscita la mia condizione sono problematiche. E se avessi una bambina?

«Non ho bisogno di un figlio», mi rassicura Jin. «Non devi farlo per me.»

Ma non capisce che ogni akha desidera prima di tutto un figlio, seguito da una figlia e poi da un altro figlio e un’altra figlia. È così che manteniamo l’equilibrio nel mondo. Ho avuto una bambina; ora devo avere un bambino.

A peggiorare inavvertitamente le mie ansie ci pensa il maestro Zhang quando, insieme a due donne anziane dell’ufficio per la pianificazione familiare del centro di raccolta del tè, si presenta al villaggio per incollare dei manifesti sui lati degli edifici, a sostegno di una nuova campagna mirata ad affrontare «il lato oscuro del miracolo» della politica del Figlio Unico. «In Cina c’è già un eccesso spropositato di uomini rispetto alle donne, ed è un divario che cresce di circa un milione di unità ogni anno», annuncia il maestro Zhang. Ogni manifesto ha uno slogan diverso, ma tutti veicolano lo stesso messaggio fondamentale: Le figlie costituiscono la prossima generazione. Uomini e donne costruiscono insieme una società armoniosa. Spetta alla natura decidere il sesso del neonato. Dare alla luce una bambina significa rispondere al volere della natura. Gli abitanti del villaggio non rimuovono i manifesti, perché tutti gli slogan sono conformi alla Legge degli akha. Quindi le mie tre nipoti di undici anni tornano a casa recitando con una frequenza allarmante gli slogan imparati a memoria.

«Attenzioni per le bambine. Sostegno alla classe femminile.»

«Proteggiamo le bambine. A beneficio dello Stato, del popolo e delle famiglie

«Prendersi cura delle bambine di oggi significa avere a cuore il futuro della Cina.»

Tutto questo dovrebbe farmi desiderare di avere una bambina, ma più mi esortano in tal senso, più entro in apprensione.

Fa’ che sia un maschio.

A ottobre, cinque mesi dopo il confronto con Ci-teh, io e Jin ci sentiamo di poter tornare a Canton perché lui possa prendersi cura dei suoi affari e io possa fare una capatina al mercato del tè per capire cosa comporterebbe l’apertura di un nuovo negozio. Dobbiamo attraversare Menghai per raggiungere l’aeroporto di Jinghong e, dunque, come promesso, facciamo tappa all’Istituto per l’assistenza sociale. Benché la stagione dei monsoni sia ormai alle spalle, oggi ha ripreso a piovere. Una mendicante siede sotto un riparo di fortuna sui gradini dell’orfanotrofio... con questo tempo, nell’indifferenza generale. Mi chiedo se è la stessa persona che ho visto dormire sotto le lenzuola di cartone quando abbiamo attraversato Menghai nel nostro viaggio verso il Pozzo della Sorgente. Jin si stacca da me e lascia cadere qualche moneta nella sua tazza. Poi percorre i gradini due alla volta per raggiungermi mentre entro nell’istituto.

Non appena la porta si chiude alle nostre spalle, sono sopraffatta dall’odore di urina, che sembra esponenzialmente intensificato dal calore e dall’umidità della giornata. Diversi bambini scorrazzano nella stanza con il girello, i trovatelli si dimenano nelle culle di metallo e i bambini più grandi – molti dei quali con disturbi fisici o mentali – indugiano agli angoli. Un bambino – un maschietto – siede accartocciato sopra un sacco contro il muro, le gambe atrofizzate come ramoscelli spezzati sotto di lui. Benché i distici lasciati da Capodanno e altre decorazioni addobbino le pareti, la stanza, pur essendo pulita, è priva di giocattoli e di libri. Tre donne, che indossano camici e fazzoletti rosa abbinati, appendono i pannolini su una corda da bucato assicurata a dei ganci nel soffitto. Quando ci vede arrivare, una delle donne interrompe la propria occupazione. Mentre si asciuga le mani sul grembiule, l’occhio mi cade sul braccialetto della mia a-ma. È la direttrice Zhou. La stanza comincia a ballare.

«Benvenuti all’Istituto per l’assistenza sociale di Menghai. Gradite un tè? Avete già mangiato?» chiede con fare cortese.

Ci accompagna in un salotto con due divani imbottiti rivestiti da un tessuto sbiadito. I braccioli e la superficie riservata alla testa sono coperti da capezziere. Le due collaboratrici portano il tè e un piatto di anguria a fette e litchi. Una volta versato, il tè intensifica il calore e l’umidità della stanza. Dopo averci servito, le due donne si uniscono a noi, pronte a partecipare alla conversazione.

«Siete orientati verso l’adozione di un bambino o di una bambina?» chiede la direttrice Zhou. «Sono tante, adesso, le coppie cinesi che hanno fatto richiesta di adozione, perché non vogliono che i nostri figli lascino il Paese in cui sono nati. La maggior parte di queste coppie vuole un bambino, ma i nostri hanno le loro esigenze speciali. E per questo ci viene detto che rappresentano la ’spazzatura della società’.» Sospira. «Se si può avere soltanto un figlio, naturalmente lo si vuole perfetto. Quello che vale per i genitori naturali vale anche per i genitori adottivi, no? Se optate per una bambina, possiamo offrire una vasta scelta. Preferite una appena nata o una che sia già in grado di sbrigare le faccende e di prendersi cura di sé?»

«Siamo qui per un motivo diverso», dico. Mentre racconto i fatti, la direttrice Zhou annuisce lentamente mostrando di avermi riconosciuta. Benché la scatola di cartone non fosse certo rivelatrice – molti bambini arrivano probabilmente allo stesso modo – la torta di tè lo era. E, cosa ancora più importante, io e San-pa siamo stati gli unici genitori abbastanza coraggiosi – o abbastanza sciocchi – da venire qui per cercare di rintracciare una figlia abbandonata illegalmente.

«Nessuno di noi ha dimenticato quel giorno», ammette la direttrice. «Avrei dovuto chiamare la pubblica sicurezza per farla arrestare. Ma poi mi è svenuta davanti agli occhi. Non sono senza cuore.»

Le due collaboratrici si scambiano occhiate furtive mentre la direttrice spinge in su il braccialetto di A-ma con la mano disadorna. Tuttavia, non è come l’ultima volta. Ho Jin al mio fianco, ed è lui a prendere il controllo della situazione. Certo, le donne si coprono la bocca e inclinano la testa come in profonda contemplazione del dilemma etico, ma il denaro che Jin sta sventolando loro davanti è una tentazione troppo grande.

«Ci hanno detto che è stata mandata a Hao Lai Wu: a Hollywood», dice la più giovane.

Hollywood? Stringo i braccioli del divano.

«Ci siete stati?» domanda.

Annuisco, poco propensa a rivelare altro.

Tutte le donne, inclusa la direttrice Zhou, s’illuminano in viso. È vero che hanno tutti un’automobile? Che tutte le donne si dipingono le unghie? Poi le domande prendono una piega sinistra.

«È vero che gli americani adottano le nostre bambine per allevarle fino a quando non sono cresciute abbastanza da poterne usare gli organi?»

«O che le adottano solo per farci sesso?»

«Questa è propaganda del governo», risponde Jin in tono di rimprovero. «Non dovreste nemmeno dirle, queste cose.»

«Siete sicuri che si trovi a Hollywood?» chiedo.

«Tutti vogliono andare a Hollywood!» esclama la più giovane.

«Cosa volete che ne sappia lei?» dice burbera la direttrice Zhou, richiamando su di sé l’attenzione e la bustarella. Aspetta che Jin conti le banconote e che le disponga in una pila sul tavolo. Quando è soddisfatta, dice: «La volta scorsa le ho detto che la bambina era stata mandata a Kunming e, da lì, a Los Angeles. Da qualche parte nella prefettura di Los Angeles», chiarisce. «Ci piace pensare che fosse Hollywood.»

Los Angeles non è una prefettura, ma la città è davvero enorme, e questo implica che Yan-yeh potrebbe trovarsi in un punto qualsiasi da Venice Beach a San Gabriel, da Woodland Hills a... non lo so. Disneyland?

«Ci mostrerà il fascicolo?» chiede Jin.

La direttrice lo trova senza difficoltà e me lo passa. La cartella contiene la fotografia di una bambina di qualche giorno con la testa avvolta in un berretto indaco decorato con ciondoli d’argento, un’impronta in inchiostro rosso e un unico foglio in cui si riassumono i punti salienti delle condizioni in cui Yan-yeh è arrivata in istituto. Questi tre elementi costituiscono l’unica prova tangibile dell’esistenza di mia figlia.

«Non dovrebbe esserci altro?» chiedo, facendo scorrere un dito sulla fotografia.

La direttrice mi sorride con aria comprensiva. «Una delle foto e il resto dei documenti sono stati spediti insieme a sua figlia all’istituto di Kunming a scopo identificativo, ma sette anni fa un incendio ha distrutto i loro archivi. Potreste visitare la nuova struttura per vedere se qualcuno ricorda qualcosa, ma lì arrivano i bambini da tutta la provincia per l’adozione all’estero. Proprio non so in che modo potrebbero ricordarsi di un singolo caso tra i tanti.»

Quindi nessuna risposta concreta, niente indizi tracciabili. Tuttavia, adesso so dove si trova mia figlia, ammesso che le informazioni siano accurate e che i suoi genitori non si siano trasferiti altrove. Possibile che in tutti gli Stati Uniti mia figlia fosse proprio a Los Angeles e che io non l’abbia mai cercata? Comincio a piangere. Le ragazze sono gentili, mi danno pacche sulle spalle, versando altro tè nella mia tazza. La direttrice si offre persino di restituire i soldi a Jin, dicendo: «Non ci capita spesso di vedere la sofferenza delle madri. Vediamo solo i bambini, qui».

Mi dà la foto e l’impronta; poi, tutt’e tre ci accompagnano alla porta. I neonati si lamentano nelle loro culle. I bambini nel girello vengono verso di noi. Quelli ancora più grandi cercano i nostri occhi ma sono senza speranza, perché sanno benissimo che non siamo venuti qui per loro. La direttrice mi mette una mano sulla spalla, a mo’ di conforto. Sento il braccialetto di A-ma che mi preme sulla carne.

«La aiuterei, se potessi», dice.

Tra le lacrime, domando: «Se non posso riavere mia figlia, c’è almeno qualcosa che posso fare per gli altri bambini?»

«Oh, no. Stiamo bene. Abbiamo tutto ciò che ci serve.»

«Forse...» Cerco di pensare in grande. «Una lavatrice e un’asciugatrice?»

«Non potremmo mai accettare tanta generosità», dice, ma i suoi sono soltanto convenevoli alla maniera cinese.

Dunque, rimanderemo il volo di rientro a Canton di un altro giorno. Apriamo gli ombrelli e usciamo sotto la pioggia. La mendicante, rimasta qui tutto il tempo, fa cenno a Jin di avvicinarsi. Le ha già dato dei soldi, prima, ma infila di nuovo le mani in tasca e inizia a spostarsi lateralmente sui gradini verso di lei. È già abbastanza doloroso vedere mendicanti a Canton e senzatetto a Los Angeles, ma incontrarne una nella mia prefettura? Siamo cresciuti vivendo a contatto con la terra. Se riuscivamo a procurarci del cibo, mangiavamo. Se non avevamo nulla, non mangiavamo nulla. Ma l’idea che uno solo di noi si mettesse a mendicare?

«Signore, per favore, venga un po’ più vicino», lo supplica la donna nel suo mandarino stentato. «Devo farle vedere una cosa. Ho aspettato i giusti acquirenti. Lei e sua moglie sembrate due persone rispettabili. So che altrove ci sono collezionisti che pagherebbero un bel gruzzolo...»

Mi basta sentire le prime parole per riconoscere la sua voce e lasciarmi irretire come in una trappola. È Deh-ja. Il senso di perdita irrevocabile che provo per mia figlia, più questo nuovo incontro fortuito con Deh-ja, è come un’onda di marea che si abbatte su di me per mortificarmi e purificarmi. Per un istante non riesco nemmeno a muovermi, perché è tutto troppo difficile da accettare. Quando l’ho incontrata durante il mio viaggio con San-pa verso la Thailandia, conduceva già una vita di stenti, ma stavolta è diverso. Deh-ja – un’akha – è diventata una mendicante. È qualcosa di inaudito. Respiro a fondo per darmi una calmata e poi raggiungo mio marito proprio mentre Deh-ja – sporca, quasi senza denti, marrone e rugosa come una prugna salata – gli sta allungando il bene più prezioso che le è rimasto: il suo copricapo da sposa.

Non mi riconosce finché non parlo. Ecco fino a che punto sono cambiata.

«Il destino ti ha sospinto verso una direzione», dice, senza mostrare imbarazzo per la sua situazione. «E ha sospinto me da un’altra parte. Ora, ti andrebbe di comprare questo copricapo? Immagino che te lo ricordi.»

«Certo che me lo ricordo, ma non lo comprerò. Verrai con noi.»

Jin inarca le sopracciglia, evidentemente sorpreso.

«Non può esistere storia senza coincidenze», recito prima di spiegargli ogni cosa.

«Un tempo Deh-ja viveva al Pozzo della Sorgente. Abbiamo condiviso i momenti più duri.» Mi fermo e la guardo negli occhi. «E poi ci siamo incontrati nei posti più improbabili. Significherà pur qualcosa, no?»

Le due ore successive dovrebbero essere dedicate alla triste storia di Deh-ja che, dopo diversi anni vissuti come un’eremita nella giungla decide di ripercorrere i sentieri di montagna – in perfetta solitudine – per fare ritorno alla prefettura di Xishuangbanna. Invece, una cacofonia di risate e strilli di sorpresa sfuggono dalla bocca di Deh-ja mentre lei sperimenta la sua prima doccia, il suo primo gabinetto con lo sciacquone, il suo primo pasto al ristorante, il suo primo programma televisivo, il suo primo materasso, il suo primo climatizzatore, la sua prima camicia da notte e il suo primo approccio con la corrente elettrica, ovvero accendere e spegnere ripetutamente la lampada sul comodino.

«Perché stai facendo tutto questo per me?» domanda quando le siedo accanto sul letto per tenerle la mano e cercare di rassicurarla alla vigilia della prima notte in vita sua trascorsa tra quattro pareti solide.

«Forse non è per te. Forse è per me. Domani andiamo a casa...»

«Al villaggio? Non posso tornarci!»

«Andiamo a Canton...»

«Sole e Luna! Non è possibile!»

«In quanto akha, siamo tutti anelli di un’unica, lunga catena dell’esistenza. Credi ancora nella malevolenza degli spiriti e nel fatto che i nostri antenati possano sopraffarla?» le chiedo.

La risposta è affermativa, naturalmente.

«Oggi ci siamo trovate entrambe su quei gradini», continuo. «Non siamo tenute a sapere perché. Tutto ciò che dobbiamo fare è accettare che i nostri antenati spirituali vogliono evidentemente che stiamo insieme. La Legge degli akha ci dice di non ignorare mai prodigi e coincidenze.»

La mattina seguente, Deh-ja fa la sua prima esperienza in macchina quando l’autista ci porta a Jinghong per acquistare gli elettrodomestici. Il terrore è tale da farle sbiancare il volto come un fantasma. Per tutto il tragitto non faccio che ripeterle che possiamo fermarci, se ha la nausea. La lavatrice e l’asciugatrice non costano nemmeno trecento dollari: con quella che per noi è una spesa modesta, potremo migliorare la qualità della vita all’Istituto per l’assistenza sociale. Non volendo correre rischi, seguiamo il camion di nuovo fino a Menghai e controlliamo l’installazione e il collaudo. La direttrice e le due collaboratrici sorridono tra le lacrime. I bambini più grandi si stringono a noi per dare un’occhiata più da vicino. I più piccoli, nei loro girelli, circondano Deh-ja e le sue risate sono lievi e cristalline come l’acqua di un ruscello che viene giù tra le rocce.

Sono quasi le quattro del pomeriggio quando, dopo avergli elargito una mancia, Jin congeda l’installatore. La direttrice Zhou ci offre dell’altro tè e uno spuntino. Avendo appreso che abbiamo adottato una mendicante, si aspetta che prenderemo anche un bambino. Quando le comunico che ne ho già uno in grembo, esclama: «Che notizia meravigliosa! Più avanti, quando vorrete dargli una sorellina, sapete a chi rivolgervi!» Ci accompagna alla porta e, dopo avermi preso la mano, ci mette dentro qualcosa. Il braccialetto con i draghi di A-ma. «Lei è una persona generosa, di gran cuore», mi dice. «Mi dispiace per quello che ha patito e per qualsiasi parte possa avere avuto io in questo dolore, ma il governo ci chiede di fare il nostro lavoro.»

Il peso dell’argento sul mio polso mi rasserena lo spirito, quasi avessi appena messo a posto ogni cosa.

Benché Canton sia incredibilmente enorme sotto ogni punto di vista, Deh-ja è così impegnata a prendersi cura di me da accorgersene a malapena. Per indicare la gravidanza, noi akha diciamo che «una vive sotto l’altro», a significare che una moglie vive sotto il marito e non ha più possibilità di andarsene, di scappare. Di fatto, però, io e Jin viviamo entrambi sotto Deh-ja. Com’è prepotente! Anche se non abbiamo un gatto, non passa giorno che lei non ricordi a Jin di non prenderne a calci uno, altrimenti il nostro bambino, una volta venuto al mondo, si comporterà come un felino. Inoltre, gli proibisce di arrampicarsi sugli alberi, perché questo farebbe tremare e piangere all’infinito il bambino per la paura. (Tutto ciò, pur non essendo così probabile che Jin si arrampichi su un albero, almeno a breve.) Quando raggiungo i cinque mesi di gravidanza, gli proibisce di tagliarsi i capelli. Ma è a me che riserva gli ammonimenti più severi, anche per le piccole cose. «Ti è stato insegnato a camminare con una certa angolazione, quando hai un bambino in grembo», mi dice in tono di rimprovero, «così da rendere il ventre meno prominente.» Io cerco di prestare attenzione, ma è difficile quando così tante future mamme vanno in giro per Canton indossando magliette e pantaloni attillati per annunciare al mondo con orgoglio l’arrivo imminente del loro unico figlio.

Trascrizione della terapia di gruppo per cinesi adottate tenuta dal dottor Arnold Rosen: 1° marzo 2008

* Il corsivo è stato aggiunto per cercare di rendere lo stato d’animo dei partecipanti.

DR. ROSEN: Sono felice che abbiate accettato di vedermi in gruppo. Ovviamente ci siamo già incontrati individualmente: con alcune di voi ci vediamo già da anni, mentre con altre, come Haley, solo da alcune sessioni. Adesso, consentitemi un breve giro di presentazioni. Jessica, tu con i tuoi diciassette anni sei la più grande. Seguono Tiffany e Ariel, che di anni ne hanno sedici. Haley e Heidi, invece, compiranno tredici anni quest’anno. Chi vuole iniziare?

JESSICA: Non capisco perché dovrei condividere le mie cose con delle mocciosette.

TIFFANY: Neanch’io.

DR. ROSEN: Mettendo da parte le differenze di età, voi cinque avete molte cose in comune. Vivete tutte nelle vicinanze: a Pasadena, Arcadia e San Marino...

JESSICA: Fantastico, allora c’incontreremo per strada...

DR. ROSEN: Avete avuto un’istruzione simile. Avete frequentato la Crestview Prep o la Chandler, la Westridge o la Poly.

JESSICA: Mi sento già intimorita.

DR. ROSEN: Siete tutte cinesi...

JESSICA: Ma va?

DR. ROSEN: E siete state adottate dalla Cina.

JESSICA: Non capisco comunque perché debbano essere qui anche loro.

DR. ROSEN: Loro?

JESSICA: Le bambine.

DR. ROSEN: Sono un po’ più giovani di te, ma non hanno paura di dire la loro.

JESSICA: Vuol dire che non hanno paura di dire la loro su di me. Immagino le abbia invitate per imparare dal mio cattivo esempio. Ehi, ho già dimenticato: com’è che vi chiamate?

HALEY: Haley.

HEIDI: Heidi.

JESSICA: Lasciate che vi dia un consiglio e poi tornatevene a casa dalle vostre mammine. Non fate pompini a caso a una festa solo perché qualcuno ve lo chiede. Non bevete il miglior scotch di vostro padre se è il tipo di persona che si accorge che dalla bottiglia manca anche una sola goccia. Ancora meglio, non bevete scotch, punto. Non c’è bisogno che vi curiate da sole. Adesso vedete il dottor Rosen. Lui vi darà le medicine giuste.

DR. ROSEN: Grazie per il tuo contributo, Jessica. Vedo che sei arrabbiata...

JESSICA: Me lo dice sempre.

DR. ROSEN: Riesci a pensare a un’altra ragione per cui Haley e Heidi sono qui?

JESSICA: No.

HALEY: Forse anche voi ragazze più grandi potete imparare da noi.

DR. ROSEN: Che cosa vuoi dire, Haley?

HALEY: La mia mamma e il mio papà mi hanno mandato da lei perché avevo problemi con i miei amici. Avevo anche altri problemi. Cose di cui non mi piace parlare. Forse Jessica, Tiffany e Ariel sentiranno quello che io e Heidi abbiamo da dire e... non lo so. Magari le nostre vite sono come giganteschi puzzle. Trovi il pezzo giusto e all’improvviso l’intera immagine assume un significato.

JESSICA: Wow! Non è lei quella sveglia?

HALEY: Scommetto che ogni persona in questa stanza ha dovuto avere a che fare con questa etichetta.

TIFFANY: Io sì.

HEIDI: Anch’io.

JESSICA: Io odio le etichette. Odio proprio la parola etichetta.

ARIEL: Solo perché siamo cinesi non vuol dire che siamo intelligenti.

JESSICA: Sì, ma l’aspettativa è quella. Le ragazze del liceo sanno di cosa sto parlando. Dio, tutte le ore che ho passato in un centro Kumon, e ora ho un tutor per il test di ammissione all’università. Quest’anno ho raddoppiato le lezioni propedeutiche. Da scuola ha chiamato mia madre per dirle che erano preoccupati per me. «Se frequenta tutte le lezioni preuniversitarie, dove troverà il tempo per le attività extrascolastiche? In che modo stringerà quei legami di amicizia che rendono completa una persona?» Ovviamente i miei genitori si sono messi in ansia, ma è un po’ tardi per quello, non credete? Così, su loro pressione...

TIFFANY: Tu che cosa hai detto loro?

JESSICA: Che cosa potevo dire? «Lavorare sodo mi rende felice, mamma. Mi metto nei guai, papà?» E loro se la sono bevuta, perché siamo dentro a questa cosa fin dal primo giorno. Ora dovrò lavorare duro finché non entrerò al college. Dibattito, tennis, realizzazione di coperte per i senzatetto e stronzate di questo tipo. E sto continuando anche con le lezioni di violoncello. Sono impegnata a promuovere lo stereotipo asiatico!

HALEY: Ma i tuoi genitori sono cinesi?

DR. ROSEN: Curiosamente, siete state tutte adottate da famiglie bianche.

HEIDI: Sono una studentessa super...

JESSICA: Allora vantatene, perché non lo fai?

HALEY: C’è una grande differenza tra il vanto e la verità. Vado benissimo in matematica e in tutte le scienze. Devo suonare uno strumento...

TIFFANY: Anch’io. Che cosa suoni?

HALEY: Pianoforte. I miei genitori vorrebbero che fossi come Lang Lang.

JESSICA: Io violoncello e Yo-Yo Ma.

ARIEL: Violino. Sarah Chang, avete presente, e non è nemmeno cinese! È coreana! Ma devo impegnarmi con il violino perché servirà per la domanda al college. Come ogni altro ragazzino asiatico nel Paese devo prendere il massimo dei voti e suonare anche uno strumento. Non lo so. Forse dovrei lasciar perdere tutte le materie accademiche, concentrarmi sul violino e andare alla Juilliard invece che a Stanford, Harvard o Yale. Cavolo, che umiliazione sarebbe!

DR. ROSEN: E tu, Haley?

HALEY: Ho iniziato le lezioni di violino a sei anni. Anche i miei dicevano che avrei potuto essere come Sarah Chang. Mio padre ha ereditato un ranch vicino ad Aspen...

JESSICA: Fantastico! Cervellona e pure ricca...

DR. ROSEN: Jessica, per favore, lascia che Haley finisca. Vai avanti, Haley.

HALEY: L’estate scorsa eravamo ad Aspen, come al solito. Da quelle parti organizzano un importante festival musicale. Così, siamo in questa tenda ad ascoltare Sarah Chang e mia mamma si avvicina e sussurra: «Un giorno potresti esserci tu su quel palco». Lo fa puntualmente, e ogni volta mi dà fastidio. Ma quel giorno, mentre ascoltavo Sarah suonare il Concerto per violino in re minore di Sibelius, mi sono resa conto che non ci sarei mai potuta essere io, al suo posto. Mai. È da quel giorno che non tocco più il violino.

ARIEL: E ti hanno permesso di mollarlo?

HALEY: Non è che mi hanno «permesso». L’ho mollato e basta.

ARIEL: Non hai avuto paura? Voglio dire, se...

HALEY: Se mi rimandassero indietro?

JESSICA: Io lo farei: ti rimanderei indietro.

TIFFANY: Dai, Jess. Chi di noi non l’ha mai pensata, questa cosa? Quando ero piccola, mia madre e mio padre credevano di aiutarmi dicendomi quanto ero fortunata a essere stata adottata. «I tuoi genitori volevano che tu avessi una vita migliore in America.»

ARIEL: Ho sentito anche questa.

JESSICA: L’abbiamo sentita tutte ma, andiamo, questa non può essere la vera ragione per tutti i nostri genitori biologici.

HALEY: Fortuna. La gente mi dice che ho avuto la fortuna di essere stata adottata. E poi dice ai miei genitori che sono fortunati ad avermi. Ma è una fortuna aver perso i miei genitori biologici e la cultura in cui sono nata? Sì, sono stata adottata da due brave persone, ma posso definirla una fortuna?

JESSICA: Caspita se sei sveglia!

TIFFANY: Mia madre e mio padre sono avvocati. Mi hanno sempre dato troppe informazioni.

DR. ROSEN: Di che genere, Tiffany?

TIFFANY: Ne abbiamo già parlato.

DR. ROSEN: Ma forse puoi condividerle con le altre.

TIFFANY: Cose tipo che da piccolissima dovevo sapere sulla storia dell’eutanasia in Cina...

HEIDI: Uccidono tutte le ragazze, lì.

JESSICA: Pensavo di essere l’unica ad averne sentito parlare.

ARIEL: Mia madre continuava a ripetere che avevo una curiosità morbosa per l’eutanasia. Ma dai! La sera, al solo pensiero, mi veniva da piangere finché non mi addormentavo spossata. Be’, non è che proprio dormissi, poi...

JESSICA: Io sono stata convinta per un sacco di tempo che fosse una roba collegata all’Asia.

HALEY: Anch’io capivo così! L’anno scorso, in quinta elementare, sono finita nei guai quando ho scritto qualcosa del genere nei miei compiti di ortografia. L’insegnante ha chiamato mia madre, che poi se l’è quasi presa con me. Io le ho risposto: «Che differenza fa se ha a che fare o meno con l’Asia? Essere gettata in un fiume, lasciata in balia delle bestie selvatiche o buttata giù da un dirupo? Alla fine, sei comunque M-O-R-T-A».

JESSICA: Proprio non capisco, dottore. Perché i suoi genitori non l’hanno rispedita indietro?

HALEY: Non è divertente.

DR. ROSEN: Forse possiamo lasciare che Tiffany finisca di esprimere il suo pensiero.

TIFFANY: Mamma e papà mi hanno detto anche che i miei genitori biologici hanno dovuto darmi via a causa della politica del Figlio Unico. In Cina la gente vuole che il proprio figlio unico sia un maschio. Direi che è tutto. Ma capita che una donna rimanga incinta più di una volta. Forse è quello che è successo alla mia madre biologica. Se le autorità lo avessero scoperto, le avrebbero comminato una multa pari fino a sei volte il reddito annuale della sua famiglia! L’ho sentito dire! E poi l’avrebbero costretta ad abortire. Lo fanno persino con le donne già avanti nella gravidanza. I miei genitori sono convinti sostenitori del diritto alla vita, perciò dicono che non sarei mai nata e cose come: «Pensaci, Tiffany. Se i tuoi genitori fossero stati scoperti, le autorità cinesi non avrebbero mai permesso che la gravidanza di tua madre arrivasse a termine». Come potete immaginare, neanch’io potevo dormire granché. Ancora non ci riesco...

HEIDI: Tutta questa faccenda del Figlio Unico mi spaventa.

DR. ROSEN: In che senso?

HEIDI: Mi fa sentire preziosa ma in un modo strano. Voglio dire, non ero abbastanza preziosa perché i miei genitori mi tenessero, ma a volte mi sento fin troppo preziosa per la mia mamma e il mio papà. Sono la loro figlia unica.

ARIEL: Heidi ha ragione. Ogni anno, da che ne ho memoria, i miei genitori chiamano un fotografo professionista per farmi delle foto. La loro scusa è che vogliono una bella immagine da usare per la cartolina di Natale.

HEIDI: È la stessa cosa che fanno i miei.

HALEY: Idem a casa mia.

TIFFANY: Probabilmente è così per tutte noi.

JESSICA: Sì, e allora?

DR. ROSEN: Un sacco di famiglie inviano cartoline di Natale con la foto dei propri figli. Cos’è che vi rende diverse?

HEIDI: Scattano foto nella mia stanza, al mio computer o ai miei disegni.

ARIEL: Noi scattiamo le nostre in biblioteca, mentre leggo un libro o qualcosa del genere. Una volta suonavo il violino.

HALEY: Le nostre le scattiamo all’esterno. E io sono sempre l’unica cosa nella foto: niente mamma, niente papà, niente Baffetto, nemmeno gran parte della casa o del giardino.

JESSICA: Ancora non ci arriva, dottore? Il soggetto di tutte queste cose siamo noi in quanto figlie preziose e adorate. Noi in quanto oggetto esclusivo di amore e attenzione. Proprio così: siamo oggetti, okay? Mi viene voglia di vomitare. Ehi, voi, vi ha già parlato della mia bulimia? Qualcuna di voi ne soffre? O magari ha l’anoressia? Odio doverlo dire, Tiffany, ma hai un po’ l’aria di un cadavere...

TIFFANY: Non è vero!

ARIEL: La cosa più rivoltante era il modo in cui mia mamma mi spazzolava i capelli, mi raddrizzava il colletto, mi tirava su l’orlo e...

JESSICA: Come se non mi toccassero mai...

ARIEL: Passavo il pomeriggio intero a sorridere così e cosà, a guardare prima lontano e poi in basso. In posa. Da un lato, i nostri genitori biologici non hanno perso tempo a sbarazzarsi di noi. Dall’altro, ecco che per i genitori adottivi siamo il dono più grande. A volte provo a immaginare come sarebbero state le loro vite se non mi avessero preso. È molto strano, non trovate? In Cina non avevamo alcun valore. Zero, intendo dire. Qui siamo preziosissime, come ha detto Heidi. Ma potremmo vederla anche così: le nostre mamme e i nostri papà sono stati truffati... gli hanno rifilato le mezze cartucce, gli avanzi della cucciolata.

JESSICA: Almeno non ci hanno gettate in un pozzo o in qualche fosso.

DR. ROSEN: Potremmo concentrarci un po’ di più sui genitori?

JESSICA: È il suo gruppo. Dobbiamo fare quello che ci dice di fare, che lo vogliamo o no.

DR. ROSEN: Non la metterei in questo modo. Il mio intento è che ciascuna di voi tragga un beneficio dalle nostre sessioni.

JESSICA: Dottore, non dimentichi che anche i miei genitori sono medici. So come funziona. Lei ci userà per...

DR. ROSEN: Jessica, magari possiamo parlare della tua costante necessità di sfidarmi un’altra volta, in una sessione privata. Ora: possiamo tornare alla mia domanda? Ariel, ci parleresti un po’ dei tuoi genitori?

ARIEL: La mia mamma mi fa uscire completamente di testa. Chiedo scusa. Non so se posso dirlo, qui. Sì? Okay. La amo, ma è talmente mamma! Indossa certe cose assolutamente imbarazzanti.

TIFFANY: Le mamme non possono farne a meno. È così.

ARIEL: Ti capisco perfettamente, Tiffany, ma hai mai sentito tua madre parlare al telefono di te con le sue amiche? L’altra sera la mia mi ha definita un mostro ormonale. Anche quando dice cose carine – ti adoro e quel genere di cose – una parte di me ha comunque la sensazione che stia mentendo. Una volta ho perso completamente il controllo. Le ho urlato: «Vorrei essere in Cina con la mia vera mamma!» Lei è andata su tutte le furie e si è messa a gridare. «Si?» mi ha detto. «Allora corri a cercarla! Vediamo se ti riprende!» Poi è venuta in camera mia per scusarsi. Non potete capire quanto ha pianto. Non la smetteva più. E io tipo: è tutto okay, mamma! Dio!

DR. ROSEN: Sono in molti della vostra età a dire cose così: Vorrei che tu non fossi mia madre o Vorrei avere un altro papà. E forse anche tua madre, da giovane, avrà detto qualcosa del genere ai suoi genitori.

ARIEL: Può darsi. E allora?

DR. ROSEN: Cosa pensi che provasse quando è venuta a chiederti scusa?

ARIEL: Mi sono sentita malissimo...

DR. ROSEN: Questo mi è chiaro, ma cosa pensi che stesse provando lei?

TIFFANY: Forse era sconvolta per averti detto una cosa così inopportuna. Inopportuna: ecco una parola che mi sento dire spesso dai miei genitori.

JESSICA: Avrebbe dovuto sentirsi in colpa per essersi comportata come la peggior mamma di sempre.

ARIEL: Sì, forse. Ma forse ha avuto anche ragione a dire quello che ha detto. Nel senso: riuscirò mai a trovare la mia madre biologica? Ovvio che no. Quindi chi altri ho a parte la mia mamma e il mio papà?

HALEY: La mia mamma e il mio papà dicono sempre che i genitori, qui, e le bambine che adottano alla fine sono felici e che «i buchi nei loro cuori sono colmati dall’amore». Ma cosa succede ai genitori biologici? È una cosa a cui penso quando non riesco a dormire. I miei genitori biologici sono rimasti con dei buchi nel cuore o mi hanno semplicemente dimenticata?

ARIEL: Mi chiedo come ci si senta a essere una figlia biologica. E bianca, magari. Quando ero più piccola non riuscivo ad afferrare l’idea che una donna incinta potesse tenere il suo bambino. Se un giorno ne avrò uno, spero mi assomigli anche se dovessi sposare un bianco o uno di un’altra razza.

HALEY: La gente verrà in ospedale e dirà: «Oh, è identica a te!»

ARIEL: Nessuno mi ha mai detto che assomigliavo a qualcuno della mia famiglia. Quando diventerò mamma, non dovrò mai rispondere a domande di sconosciuti su dove l’ho trovata, se sia mia figlia o...

HALEY: Se viene dalla Mongolia.

ARIEL: E non dovrà mai rispondere a domande su chi siano i suoi veri genitori.

JESSICA: Oh, mio Dio. Odio questa cosa! Voglio dire: che si fottano. E cosa vorrebbe dire veri, tra l’altro? Non è semplicemente quello che ci è capitato?

TIFFANY: Sarò un’ottima mamma. E di sicuro mia figlia mi assomiglierà. Non vestirà mai di stracci e non avrà mai le formiche in faccia, com’è successo a me quando mi hanno preso i miei genitori. Sarà la mia unica parente di sangue che conosco e le vorrò sempre bene.

DR. ROSEN: Non pensi che la tua mamma e il tuo papà ti vorranno bene per sempre?

TIFFANY: Certo che sì. Ma non so se riesco a spiegare questa cosa. Io li adoro e loro mi adorano, ma è come ha detto Ariel. Mi dà noia il fatto di non assomigliare a loro nemmeno un po’. Sono entrambi biondi! E tutti i loro parenti lo sono. Facciamo un sacco di visite ai parenti in Indiana (ne abbiamo tantissimi). Una volta, durante la cena del Ringraziamento, quando avevo, tipo, sei anni, ho chiesto: «Perché sono l’unica abbronzata, qui?» E mio zio Jack ha risposto: «Perché sei il nostro piccolo musetto giallo».

JESSICA: Stai scherzando! Gesù Cristo! Questo fa veramente schifo.

HALEY: Dev’essere stato davvero brutto. Io mi sarei sentita a pezzi.

TIFFANY: Ma non vi ho ancora detto la parte peggiore. Quell’etichetta – proprio così: un’altra etichetta – è rimasta. Ormai per i parenti dell’Indiana sono Il Nostro Musetto Giallo. La mamma e il papà avranno chiesto loro mille volte di darci un taglio. Niente da fare. Lo trovano carino. Ma il fatto è che non sono scura soltanto per quelli dell’Indiana. Tutti gli amici dei miei genitori sono bianchi. Quasi tutti quelli che frequentano la nostra chiesa sono bianchi. Lo odio. Non passo certo inosservata. È davvero dura, perché mi fa sentire come se non fossi parte di loro.

ARIEL: Mi piacerebbe tanto andare in Cina per trovare la mia madre biologica.

JESSICA: Lascia perdere. Ci vivono un triliardo di persone, laggiù.

DR. ROSEN: Ariel, hai detto che vorresti trovare tua madre. E che mi dici di tuo padre?

ARIEL: Sì, mi sono sempre fatta un sacco di domande su entrambi i miei genitori. Chi sono? Dove si sono incontrati? Ho un fratello o una sorella? Nonni? Zie, zii, cugini? Perché mia madre mi ha dato via? Le capita mai di pensare a me? Mi ha mai cercata?

DR. ROSEN: Ho notato che sei tornata su tua madre. Che spiegazione ti daresti per questa cosa?

JESSICA: Posso rispondere io. Non è difficile, dottore. Siamo cresciute nel ventre delle nostre madri, che poi ci hanno buttato come rifiuti.

ARIEL: Se andassi in Cina, vorrei cercare mia madre, anche se so di non avere speranze. E questo mi distrugge.

JESSICA: Sei sola al mondo, come tutte noi.

HEIDI: Ma adesso ciascuna di noi può contare sulle altre!

JESSICA: Contare sulle altre? Non ti conosco nemmeno! Tu e l’altra – la cervellona – il prossimo autunno andrete in seconda media, dico bene? Sono gli anni più vomitevoli in assoluto.

TIFFANY: Proprio così, stronzette.

ARIEL: Per me fa ancora schifo, e sono già al secondo anno delle superiori. Nella mia scuola ci sono un sacco di asiatici. Chi è che trascorre l’intervallo per il pranzo a studiare in biblioteca, invece che a uscire con le amiche? Chi ha i voti migliori? Chi salta le feste e le altre attività sociali per seguire un corso extracurricolare? Chi entrerà nella migliore università? Non siamo in competizione con tutti gli altri ragazzi per l’ammissione al college. Siamo in competizione solo con gli altri asiatici, perché nei nostri moduli per la domanda dobbiamo selezionare quella particolare casella.

TIFFANY: Almeno i nostri cognomi non sono cinesi. Una ragazza nella mia scuola – cinese, nata qui da genitori immigrati – ha chiesto se poteva cambiare il suo cognome in Smith o qualcosa del genere per distinguersi. L’ho trovata una cosa divertente. La San Marino High è quasi tutta asiatica, ormai. Anch’io sono asiatica, ma faccio parte della minoranza, perché gli studenti asiatici non adottati non mi considerano una di loro per il fatto che sono cresciuta con i bianchi. Per loro, sono sostanzialmente bianca. Hanno il giudizio facile, quei ragazzini.

JESSICA: E i bianchi? Loro sono convinti che la mia razza basti a spiegare i miei buoni voti. Non hanno idea di quanta fatica mi costino.

HALEY: Sono tornata a casa con una a- in un test di storia e mia madre è impazzita. Tutto il tempo a ripetere cose tipo: «Se vuoi accedere a un buon corso universitario devi lavorare di più». «E se non volessi?» «Allora finirai come...» Be’, come una che non conoscete. Comunque, le ho detto: «Mamma, sono in prima media. Ho preso una a-. Tutto qua. Prometto di fare meglio la prossima volta».

DR. ROSEN: Sembra che stiate parlando di due cose diverse. La pressione scolastica...

JESSICA: Ha più a che vedere con le aspettative, come ho detto prima. Sembriamo cinesi, perciò dovremmo essere totalmente ossessionate e farci il culo come quei ragazzini con i genitori cinesi.

DR. ROSEN: Mi correggo, Jessica. L’altro mio punto ha a che fare con la pressione sociale.

JESSICA: Tipo chi ha i genitori più ricchi?

TIFFANY: Un tempo erano le ragazze altolocate di Pasadena, ma adesso sono i figli di milionari e miliardari che arrivano dalla Cina.

JESSICA: Chi prende un’auto appena ha compiuto sedici anni? E quale modello?

TIFFANY: Una BMW o una Volvo o una Nissan?

ARIEL: A me hanno regalato l’auto per i miei sedici anni...

HEIDI: Davvero? E quale...

JESSICA: Chi ha la casa più bella?

TIFFANY: Una residenza sulla Oak Knoll. Uno di quei grossi edifici in muratura. Una cospicua eredità di famiglia.

JESSICA: Vediamo se indovino. È casa di Haley.

HALEY: Poco lontano, su Hummingbird Lane. Mio padre ha ereditato...

DR. ROSEN: Cerchiamo di rimanere focalizzati sulle implicazioni sociali. Sull’effetto che esercitano su ciascuna di voi...

TIFFANY: Okay. Quindi cosa vuoi dire? Che abiti in una casa in cui un gruppo di immigrati cinesi vivono ancora di plastica riciclata o in uno di quei castelli sgargianti acquistati dai miliardari cinesi?

DR. ROSEN: Mmm...

TIFFANY: Mio padre dice che i poveri immigrati cinesi si nutrono dell’ospitalità americana, mentre i ricchi sono probabilmente un branco di criminali, come la mafia cinese o qualcosa del genere.

JESSICA: Che mucchio di stronzate. Da retrogradi, proprio.

TIFFANY: Non ho detto che ci credo anch’io...

HALEY: La mia mamma e il mio papà dicono che, ricchi o poveri, quella gente ha faticato tanto per arrivare qui. Tutti vogliono il Sogno Americano, e lo voleva anche la mia mamma biologica. Ecco perché mi ha dato via.

DR. ROSEN: Ascolto con attenzione tutto quello che state dicendo, ragazze, ma possiamo pensare alla pressione sociale in una maniera un po’ più personale? Jessica, poco fa hai avvertito Haley e Heidi circa qualcosa che le aspetta a breve. Che cosa intendevi, esattamente?

JESSICA: Oh, sì, insomma, le solite cose. Tutto quello che ha a che fare con la popolarità. Tipo, qual è la ragazza più stilosa? E questo cambia di continuo. Vieni da Hong Kong, Shanghai o Singapore? Quelle ragazze? Wow! Ricche e cattive! O sei arrivata qui da West Hills, Chino o, per dire, dalla campagna?

TIFFANY: E chi viene invitata alle feste? Chi viene esclusa?

ARIEL: Chi rimorchia? Jessica, dovresti saperne qualcosa.

HALEY: Ho un’amica che si chiama Gayah. Adesso a scuola i bambini la chiamano Ingoia.

ARIEL: Che cattiveria! E sei soltanto una bambina, ancora.

HALEY: Ho sentito mia madre dire a mio padre che Gayah si è guadagnata il soprannome alla vecchia maniera, qualunque cosa significhi.

JESSICA: Pompini.

ARIEL: Accidenti, Jessica. Non potresti rilassarti un po’? Neppure io ho bisogno di sentire...

TIFFANY: Per le ragazze cinesi che frequentano la mia scuola, nessuna questione è più importante del colore della loro pelle. Chi ha una carnagione pallida come la luna? Una ragazza, una principessa rossa e la pronipote di qualcuno che ha camminato fianco a fianco con Mao durante la Lunga Marcia – Okay, abbiamo capito. Sei un pezzo grosso! – si aggiudica il premio a mani basse. Le madri di molte ragazze che conosco portano le figlie dai dottori per sottoporle a trattamenti per schiarire la pelle.

HALEY: Schiarire la pelle? E come fanno?

TIFFANY: E tutte le ragazze nate in America e in Cina si prendono gioco di noi cinesi adottate, perché la pelle più scura ci contraddistingue come figlie di contadini.

HALEY: La mia pelle è più scura, ma sembro anche diversa dalle altre ragazze: non così cinese, dicono.

DR. ROSEN: Quindi stiamo parlando di percezione...

HALEY: Mi fa andare in bestia. Immagino sia per questo che la mamma e il papà mi hanno mandato qui.

HEIDI: Dottor Rosen, questi non sono stereotipi, vero?

JESSICA: Oh, Dio, un’altra cervellona! Quanti anni hai detto di avere?

DR. ROSEN: Che cosa intendi dire, Heidi?

HEIDI: Be’, i cinesi non godevano di grande considerazione, giusto? Lavoravano alle ferrovie, nelle lavanderie e cose di questo tipo. Ora sono visti come ricchi e ambiziosi. Voglio dire, non c’è in ballo lo stereotipo di minoranza modello? Ho letto un articolo per la scuola che diceva che le persone come noi – non lei, dottor Rosen – adesso sono etichettate come curiose, tenaci e determinate. Dotate di ingegno, forza d’animo e intelligenza.

JESSICA: Gesù, amica! Non hai bisogno di seguire quello stupido corso preparatorio per l’esame di ammissione all’università. Hai già fatto fuori tutti i paroloni.

HEIDI: Tutto quello che sto dicendo è che non bisogna sottovalutare quanto le ragazze possano essere crudeli l’una con l’altra. Ho letto diverse cose in proposito, perché ho paura di... Oh, dottor Rosen, non so se dovrei dirlo.

DR. ROSEN: Ti prego, continua. Voglio che tutte voi consideriate questo come un posto sicuro.

HEIDI: Ho paura delle ragazze come... be’... come Jessica. È per questo che i miei genitori mi hanno mandato qui? Per temprarmi? Ma io so essere dura, se voglio. Sul serio. O c’è un altro motivo, dottor Rosen? Me lo direbbe, vero?

DR. ROSEN: Ognuna di voi è qui per un motivo specifico. Quello che mi sento di poter condividere con voi è che i vostri genitori vogliono che siate felici. Adesso... Oggi abbiamo parlato di tantissime cose, in realtà, ma vorrei tornare su alcuni dei temi che sono emersi.

HALEY: Tipo il fatto che nessuna di noi riesce a dormire.

DR. ROSEN: Apprezzo che tu l’abbia notato, Haley.

HALEY: Me ne vado in giro per casa nel cuore della notte – da sempre – ed è così che mi è capitato di sentire i miei genitori discutere di questioni di lavoro, di una donna che è cliente di papà e di cosa fare con me.

ARIEL: Nel mio caso si tratta di stress, ovviamente. A scuola e a casa. È da una vita che dalle due alle sei del mattino me ne sto a fissare la tv spenta, a fare ossessivamente i compiti e a cercare di imparare a lavorare a maglia per «fare qualcosa di produttivo», come diceva mio padre. Una volta per il compleanno mi ha regalato delle lezioni di cucito! Lezioni di cucito! E Jessica non è l’unica che alza il gomito. Mi attacco alla bottiglia per bere un po’ del vino rimasto a cena. I miei genitori sono così stupidi che non se ne accorgono nemmeno. Ho fumato erba nel cortile di casa. Quello che mi seguiva prima di lei, dottor Rosen, mi ha prescritto l’Ambien.

HALEY: Io non riesco a prendere sonno. La mia mamma dice che è perché sono ancora sintonizzata sul fuso orario cinese.

JESSICA: Ah, ah, ah! Che risate.

DR. ROSEN: Cosa succede quando è il momento di dormire?

HALEY: A volte, sento che comincio a svegliarmi proprio appena ho spento la luce. Volo via dalla finestra e attraverso l’oceano verso il mio orfanotrofio in Cina. Vedo file e file di culle e donne cinesi, come cameriere del padiglione dell’imperatrice che camminano su e giù spingendo carrelli di dim sum. Immagino il momento in cui sono stata caricata su un autobus o su un camion per essere portata in hotel. Scommetto che ero spaventata. E che stavo piangendo. La mamma e il papà dicono che è stato un po’ come puf, puf, puf mentre ogni bambino veniva affidato alle braccia di una nuova madre. Sono finita con la mamma e il papà giusti? C’è qualcosa che non va in me, ed è per questo che sembro così diversa dagli altri bambini distribuiti quel giorno, così diversa dalle altre ragazze di Families with Children from China, così diversa dalle mie amiche a scuola? A quel punto devo riaccendere la luce.

ARIEL: Dottor Rosen, non capisco. Conosco un sacco di ragazze dell’Heritage Camp for Adoptive Families che non hanno un solo problema. Sono tutte felici. O almeno così mi sembrano.

HALEY: Ha ragione, sapete? Conosco le ragazze di fcc da quando eravamo bambine. Loro non si lasciano ferire dalle stupidaggini che dice la gente. Ricordo una ragazza. Avevamo otto anni. Uno sconosciuto le ha chiesto se era negli Stati Uniti per un programma di scambio studentesco. È il genere di domanda che m’irrita da morire. Invece sapete come ha risposto lei? «Ti risulta che i programmi di scambio studentesco siano aperti a chi ha otto anni?»

ARIEL: Vi è mai stato chiesto come mai non parlate in inglese con un accento cinese? A me è capitato.

HEIDI: Odio quando le persone mi chiedono se conosco l’inglese o se mi sono già adattata alla vita in America. E dai!

TIFFANY: Nella nostra chiesa, c’è un gruppo speciale per le ragazze come noi, solo che arrivano dalla Russia, dalla Romania e da altri posti del genere. Abbiamo tenuto un incontro in cui dovevano insegnarci a rispondere ai dementi che fanno domande tipo: «Quando hai saputo di essere stata adottata?» La maggior parte delle persone immagina una scena in cui i genitori ti mettono a sedere e finalmente «scopri chi sei». Io non avevo bisogno di quell’incontro per sapere come rispondere, perché nel mio caso tutto quello che dovevo fare era guardarmi allo specchio. Quando qualcuno mi fa questa domanda, dico sempre: «Quand’è che hai scoperto di non essere stato adottato? Come fai a sapere che quella che chiami mamma è la tua madre biologica?»

ARIEL: Sembra un po’ sarcastico. Dico per dire.

HALEY: Potresti provare qualcosa come: «Le differenze fenotipiche tra me e i miei genitori sono sempre state evidenti. Posso soltanto immaginare come sarebbe essere figlia biologica dei miei genitori o essere almeno bianca per assomigliarci».

TIFFANY: Differenze fenotipiche?

HALEY: Ho fatto un progetto sull’argomento per la mostra di scienze della mia scuola. Ho vinto...

DR. ROSEN: Odio doverti interrompere, Haley. Puoi scusarmi? Jessica, ti vedo insolitamente silenziosa. Vuoi condividere quello che ti sta passando per la testa?

JESSICA: Stavo pensando a quello che ha detto Heidi su di me poco fa. Pensate tutte, qui, che io sia una persona cattiva, una che ama bullizzare o...

HALEY: Fai quella tosta, ma scommetto che hai paura come noi.

JESSICA: No che non ho paura. E di cosa, poi?

DR. ROSEN: Qui mi tocca intervenire. Da quello che ho ascoltato oggi, mi pare di capire che nessuna di voi ami le etichette. Neanche a me piacciono particolarmente le etichette, ma la mia professione, come la maggior parte delle professioni, ne fa uso. Quindi prendiamoci un istante per esaminarne una che viene applicata alle ragazze cinesi prese in adozione. A tutte quelle che sono nella vostra situazione, insomma.

JESSICA: Fantastico. Proprio quello di cui ho bisogno. Un’altra etichetta. Che nomignolo pensa di appiopparmi?

DR. ROSEN: L’espressione riconoscente-ma-arrabbiata trova risonanza in qualcuna di voi? È possibile che vi sentiate riconoscenti del fatto di avere una madre e un padre che vi amano e che vi hanno permesso una vita agiata, con privilegi di ogni tipo.

JESSICA: Alcuni più di altri...

DR. ROSEN: Quindi la parte sulla riconoscenza mi sembra abbastanza assodata. E, come ha sottolineato Ariel, ci sono molte ragazze adottate che conducono una vita assolutamente felice...

TIFFANY: Quasi tutte, scommetto.

JESSICA: Probabilmente è perché sono nate senza cervello...

DR. ROSEN: Spesso, però, l’adozione ha a che fare con la perdita: perdita della famiglia di origine, perdita della propria cultura e della propria nazionalità e, naturalmente, perdita di un ipotetico stile di vita. Ed è qui che entra in gioco la parte arrabbiata. Giusto oggi avete condiviso tutta una serie di variazioni sul tema della rabbia e sui motivi per cui potreste essere arrabbiate. La mia professione mi porta a restringere il campo a questo: rabbia per essere state abbandonate dai vostri genitori biologici. Quindi, l’etichetta è riconoscente-ma-arrabbiata; tuttavia, nelle nostre sessioni private mi avete sentito parlare della rabbia in maniera diversa. Haley, ricordi cosa ti ho detto?

HALEY: Ha detto che la rabbia può nascondere qualcosa di più profondo.

DR. ROSEN: Vuoi condividere di cosa si trattava nel tuo caso?

HALEY: Tristezza. Una tristezza nera, perché da qualche parte, nel mondo, avevo una madre e un padre che non mi avevano amato abbastanza per tenermi con loro. Mi avevano dato via. Si erano sbarazzati di me. Non avevano voluto me come loro figlia unica. Non avevo mai avuto modo di elaborare questo lutto. Voglio dire, come posso stare con la mamma e il papà, a cui voglio un sacco di bene, e disperarmi perché non conosco i miei genitori biologici e non posso averli nella mia vita? Al tempo stesso, per quale motivo non andavo abbastanza bene per i miei genitori in Cina? Ora devo faticare tanto – e non soltanto a scuola – per essere una persona di cui sarebbero stati orgogliosi se mi avessero conosciuto. E perché siano orgogliosi anche la mamma e il papà.

JESSICA: State dicendo che sono triste perché alla mia madre biologica importava così poco di me che mi ha lasciato davanti a una stazione ferroviaria... da sola... nel mezzo della notte... in pieno inverno... Per il fatto che non mi abbia mai nemmeno voluto conoscere...

TIFFANY: Chi non sarebbe triste, se la metti così?

JESSICA: Io non sono triste. Io sono incazzata.

ARIEL: Euta-in-Asia.

JESSICA: Ma vaffanculo! Maledizione!

HALEY: Mi dispiace se ti ho fatto piangere.

JESSICA: Va bene. Penso che è quello che ci si aspetta che facciamo, qui. E comunque, Haley, non fare caso a ciò che ho detto prima. Probabilmente farai un sacco delle cose che io faccio adesso – bere e tutto il resto – ma fidati di me, in tutta onestà. Continua a fare i compiti, non dimenticarti delle attività extrascolastiche e non farti beccare. Va bene? Non. Farti. Beccare. E, Heidi, cercherò di essere più gentile con le bambine come te. È solo che faccio un po’ fatica.

DR. ROSEN: Va bene, ragazze. Temo che il nostro tempo sia scaduto. Per essere stata la prima sessione, comunque, mi pare che abbiamo fatto un buon lavoro. Posso contare di riavervi tutte qui la prossima settimana?