Ginni
Fu la Ginni a dire: «Qui a Pralève di uomini belli ci sono soltanto i preti».
Ma quella che confessava una passione per gli uomini belli era la Nene. «Le è costato il marito», dicevano le cugine. Aveva sposato un uomo molto bello, ma povero e non molto intelligente. Per orgoglio lei non ammetteva il suo errore, come pure per orgoglio non passava mai dall’eccitamento ai fatti, con altri uomini. La ammiravano molto per questo. Riferiva, dicevano, al marito le sensazioni che aveva provato accanto ad altri uomini. Mi limitai a osservare che anche questi erano fatti. Non condividevo la loro ammirazione, anche se un certo rispetto me lo suggeriva l’amarezza che sentivo in lei. Lei doveva diffidare di me, avevo l’impressione che mi sfuggisse. Era intelligente e capiva che io le preferivo la più debole ma più profonda Ginni.
Ormai è chiusa da anni la piccola casa bassa dal tetto di grosse pietre, sporgente per un lato dal pendio sotto la strada, col suo uscio quadrato di vecchio legno secco e scabro, e la finestretta molto più piccola dello spessore del muro, come una feritoia.
La casa aveva qualcosa di segreto e di innocente insieme, come lei. Veniva in montagna per i bambini, ma si sarebbe detto che le piaceva essere lì, anche se non si muoveva mai. Usciva la mattina dalla porticina bassa, curvandosi, e dava un’occhiata all’intorno: come ad assicurarsi che ci fosse tutto, il Tournalet e le altre becche; poi stava davanti alla casa come se aspettasse qualcuno o qualcosa. Non leggeva, e tanto meno sferruzzava: quella anzi era una delle cose che più disprezzava nelle signore: «Credono con quello di lavorare».
Di solito la sua baita era ancora chiusa, quando io arrivavo a Pralève. Ma poi una mattina, aperta l’imposta di legno che chiudeva ermeticamente la mia stanza come il coperchio di una scatola, vedevo, nella luce umida e scintillante, che c’era qualcosa di nuovo: la baita era aperta, qualcuno dentro si muoveva. Scendevo e lei mi veniva incontro festosa, correndo, come se fosse la mia nipotina. C’erano poco più di dieci anni, tra noi, ma lei sentiva così e anch’io del resto provavo per lei il desiderio di proteggerla, quasi una pietà.
Ginni mi parlava di sé, con reticenza e insieme con una furia di sincerità. Si presentava ora come una provinciale scontenta, ora come una donna troppo amata, ora come una coscienza in crisi. Tutte queste definizioni di se stessa non erano vanità, ma una specie di gioco a nascondino con se stessa. Sotto c’era qualcosa: una possibilità di appassionarsi che non aveva trovato uscita. Non si vagheggiava, si canzonava. Non le importava della moda, dei vestiti; anzi, non avrebbe mai voluto vestirsi «da donna». Odiava la vita che faceva in città – Novara o Vercelli –, le visite. «Mi sprofondo in una poltrona e non dico una parola».
La volevo aiutare: suo marito, i bambini? Li amava già. Perché non lavorava? Non ne era capace. Non era religiosa? Sì, lo era; ma… Dissi che l’avevo veduta mentre ascoltava, al lume di una candela, la lettura di un prete. Ammise, disse che le era venuto conforto da ciò.
Conobbi due avventure di lei a Pralève. Una un po’ comica e un po’ triste; l’altra piuttosto misteriosa, forse inesistente.
Domenico S. era studente di liceo; le signore lo ribattezzarono subito Niky. Lo trovarono interessante. Aveva letto tutto Proust, che loro si portavano dietro sui prati, in traduzione; aveva letto Mann, Gide e persino Sartre e Camus. A Torino nessuna signora si era ancora accorta di lui; ma le signore di Pralève lo adottarono. La Nene al solito più che altro lo canzonava, Anna era materna con lui come con i suoi figli, ma con la Ginni diventarono inseparabili.
Lui la stava ad ascoltare ed era molto compreso della sua parte. Però non perse affatto la testa. Mangiava con me alla pensione; mi disse: «Sono davvero molto simpatiche quelle signore». Ma era filosofo e una volta fece su di loro questa considerazione: «Il guaio di queste signore è che credono di avere un destino». Pensai che si riferisse soprattutto alla Ginni.
Una volta soltanto ebbi l’impressione che fossero un po’ innamorati: lei lo riaccompagnava all’albergo sotto la pioggia e correvano ridendo, sotto lo stesso impermeabile.
Del resto Niky, pur essendo un ragazzo, non aveva l’aria propriamente giovanile: robusto e non alto, la faccia angolare, pallida, occhi da studioso dietro le lenti e la fronte troppo alta.
Era figlio unico di madre letterata. Scrisse a sua madre a proposito delle signore o, peggio, soltanto della Ginni. La madre venne a prelevarlo.
Come tutte le persone di passaggio, non fu presa in considerazione. Era autorevole: massiccia e aguzza come il figlio, e piuttosto vecchia. Aveva spalle molto larghe e forti, vestiva un tailleur grigio e teneva le mani nelle tasche della giacca. I capelli grigi, tagliati corti, erano crespi; s’intravvedeva una dentiera non ben ferma tra le labbra sottili. Guardò anche me con aria scrutatrice: forse sospettandomi complice.
Ginni ci raccontò la scena la mattina dopo, quando Niky e sua madre erano partiti. Stringendosi nelle spalle al suo solito modo – e questa volta sembrava un bambino picchiato – disse: «Mi ha assalita. Che suo figlio è un ragazzo, che ha da studiare, che devo lasciarlo in pace».
Noi si rise un po’. «E tu?». «Io ero lì». «E Niky?». «Non c’era».
La sua bocca si piegava agli angoli come stesse per piangere.
«Che io sono una persona immorale». «Dai» fece Nene; ma a questo punto si cominciò a star male anche noi. «Che se non sono felice con mio marito non devo cercare di farmi consolare da un ragazzo».
«Accidenti!», fece ancora la Nene. Adesso Ginni rise, nella sua maniera un po’ singhiozzante, ed era come se singhiozzasse davvero.
Questa storia la avvilì; ne riparlava ogni tanto. L’altra storia fu una fuga o scappata o qualcosa di simile. Ginni guardò verso il colle dei Vaux e disse: «Domani vado a St-Rémy».
Non faceva mai gite e per St-Rémy, nella valle parallela a sud, ci volevano più di cinque ore. La domestica Lydia era allarmata ma aveva l’aria raggiante, e siccome lei rispecchiava sempre quello che non si vedeva della sua signora, c’era da supporre che il viaggio fosse gioioso.
«Ma hai davvero un appuntamento?». Lei si stringeva nelle spalle.
«Da te, non può essere che una bambina».
Partì sola, il sacco a spalla; i bambini, affidati alla Lydia, la salutarono dalla soglia orgogliosi, come se partisse per fare una becca.
Tornò la sera del giorno dopo, a buio, dalla parte della nostra valle. Ci raccontò che sul colle dei Vaux un pastore la voleva accompagnare. «Vengo con voi. Vi perderete, da sola». Nene: «E com’era?». «Giovane. Gli ho dato delle sigarette. Ha detto: non voglio niente da voi». «Ti sei fermata?». «Ho bevuto un po’ di latte».
«E a St-Rémy?».
Non rispose. «Ci vuoi far credere che sei andata a St-Rémy per il pastore», concluse Nene.
I bambini di Ginni erano anche loro singolari. Valeria, già grandina, era diversa dagli altri bambini per una sua aria concentrata, un po’ altera e un po’ triste. Pareva stesse sempre pensando cose più grandi di lei. Forse le pensava. Sovente «non aveva voglia di giocare». Aveva la bocca piccola piccola leggermente amara; gli occhi grandi e le palpebre arrossate, così che sovente doveva mettere occhiali scuri, blu, che la facevano sembrare cieca. Adorava sua madre e parlando di Puli diceva sempre «mio fratello».
Di lei Ginni diceva: «Sarà sbagliata come me».
Puli (Paolo) appena si poté reggere sulle gambe ebbe un piglio da uomo. Era di quelli – e non sono i più – che non hanno niente della bambina. Un cipiglio, un’aria decisa e come consapevole; ma anche i tratti, minimi, quasi senza rilievo della testa rotonda, erano energici e virili: il naso corto e diritto, la bocca piccola ma pronta alla collera e al riso, un riso breve e squillante, un po’ feroce sui denti minuti: un riso pieno di sfida, come un esile nitrito.
Al passaggio delle mucche sul sentiero sopra la sua casa, usciva brandendo un rametto e le affrontava bravamente; le scacciava e ai loro balzelloni rispondeva con la sua risata feroce. Quando se ne andava per il prato era più basso dell’erba, e spariva.
Sua madre, guardandolo con la sua aria dubitativa, sorrideva e concludeva: «Lui se la caverà».