Minetto
Arrivando a Pralève dopo due ore di mulattiera, si era ricevuti dalla signorina Denise (o Dionigia), che allora dirigeva l’albergo. In piedi davanti alla cucina o sugli scalini che portano al terrazzo d’ingresso, tendeva la sua mano fredda e ruvida, e prima cosa diceva invariabilmente, anche nel caso che si fosse inzuppati da un temporale:
«Può passare nell’ufficio».
Ma un anno Dionigia, appena mi fui fermata più o meno ansante davanti all’albergo, alla solita formula aggiunse:
«C’è il segretario».
A lei non sfuggiva di consacrare così un mutamento che non poteva non stupire i vecchi clienti, ma rimase impassibile, perché quello era il suo stile.
Percorsi il breve corridoio domandandomi chi avrei trovato.
Un giovane gigante era seduto al tavolo e pareva un prigioniero nella stanza oscura. Si alzò lentamente, tese una mano grande che doveva essere fortissima, ma era inerte e fresca come qualcosa di vegetale. La faccia dai lineamenti fini e quasi minuti, dalle guance lisce, conservava molto del bambino. Era arrossito.
Ora che il giovane ci passava le sue giornate, mi resi conto di quanto fosse triste l’antica stanzetta, con le sue fotografie stinte, gli uccelli impagliati.
Egli aveva sempre in mano o davanti a sé il foglio con la tavola dei numeri a matita delle camere, sgualcito e sporco dalle cancellature e dalle ditate. I clienti non lo consideravano molto, protestavano con lui come non avevano mai osato con Dionigia. C’era chi voleva occupare una certa camera già destinata a qualcuno che sarebbe arrivato nei prossimi giorni: a Pralève vigeva allora l’usanza – anzi l’impegno – di serbare vuote le camere promesse. Lui si arrovellava:
«Non posso, non posso. A me non me ne importa niente, ma è Dionigia che non vuole».
Sospirava; sospettai che quando era solo bestemmiasse.
«Se Dionigia lo sa, mi mangia».
Era ossessionato da lei come da una vecchia parente che l’avesse angariato fin dall’infanzia.
Minetto – se questo fosse il nome o il cognome non ho mai saputo – veniva dal capoluogo; era maestro e faceva l’insegnante di ginnastica. Suo padre, geometra del Comune, era morto in un incidente visitando una miniera; adesso era lui il capo di casa e doveva pensare a sua madre e a quattro fratellini. Diceva «mie sorelle» e «miei fratelli» con inconsapevole tenerezza. Mi pareva di vederli, guardarlo di sotto in su con ammirazione. Aveva vent’anni.
Lo udii rispondere a chi glielo domandava, che aveva accettato quella mansione remunerata solo con l’ospitalità, nella speranza di salire qualche «becca». Aspirava a diventare guida. Ma le becche doveva guardarle dal terrazzino dell’albergo.
Provavo per lui una compassione materna. Minetto non era persona alla quale sapessi parlare; del resto a lui conversare costava fatica, cercava le parole, esitava.
Entravo di rado nell’ufficio, ma se lo trovavo sul terrazzo l’osservavo. Stava in piedi, fermo, guardava in su; lasciava pendere le sue grandi mani che lo impacciavano e non sapeva mai come tenere. Guardava le montagne come santi sugli altari, forse chiedeva a loro comprensione.
A volte si alzava di notte, e per le otto era già di ritorno. L’ho veduto rientrare. Era felice. Non diceva una parola, non mi vedeva neppure. Si cambiava, e perdeva di nuovo la sua sicurezza.
Pralève e l’albergo gli parevano inadeguati e brutti. Supponeva che i clienti fossero malcontenti, e diceva:
«Qui ci vorrebbe una radio. L’ho già detto a Dionigia».
In quel momento si sentiva veramente il Segretario.
Le tre signore molto giovani e belle che villeggiavano «in baita» per via dei bambini, e che di solito si annoiavano, trovarono in Minetto un diversivo.
Erano sempre state di casa all’albergo nonostante che anche loro temessero Dionigia; ricevevano la posta, facevano acquisti, ma scappavano subito. Dopo che ci ebbero trovato Minetto, erano sempre lì: a stuzzicarlo, a confonderlo. E lui:
«Andate via ragazze, che arriva Dionigia e io non ho preparato i conti».
Prima di arrivare a una frase così lunga, c’era stato un periodo di monosillabi, e prima ancora di mugolii e di silenzi.
Le signore lo invitarono, lo trascinarono con loro.
Nene era la più maliziosa, anzi lei sola lo era. Le altre dicevano di lei che le piaceva farsi eccitare, ma non si lasciava toccare da nessuno. Mi divertivo a osservarla; seguivo i suoi movimenti bruschi e languidi insieme, lo sguardo obliquo dei suoi occhi azzurri, ironici. La sua bellezza aveva qualcosa di sottile, quasi di cattivo.
Con Minetto Nene cominciò con quel modo antico di intonare tali cose, che suole predisporle alla catastrofe. Gli dava ordini: «Prendi» – «Dammi». E lui era beato di servirla sotto gli occhi di tutti. Appena poteva lasciare l’ufficio, correva da lei, anzi da loro, e passava le giornate anche lui nel breve spazio davanti alla baita, tra il ceppo e la panca. Una volta vidi una di loro brandire un catino pieno d’acqua e rovesciarglielo addosso.
Pensavo che era la sua estate; ma preferii star lontana.
Prima di partire Nene volle che Minetto la accompagnasse sul ghiacciaio, sopra la Grande Conca, dove si va in sci anche d’estate. O forse fu lui, a proporle questo. Ottenne un giorno di libertà da Dionigia.
Qualcuno li vide quel giorno, sul terrazzo dell’ultima stazione della funivia. Lei allungata sulla sdraio, al sole, con gli occhi chiusi; lui accanto, a guardarla. Non c’era stata maggiore intimità di quella, del resto ciò non significa poi molto: le catastrofi non sono sempre logiche.
Il primo tratto di discesa era sul ghiaccio vivo. Lei lo fece con la funivia; lui partì come un fulmine, al solito. Il sole abbagliava, forse uscì dalla pista; s’impuntò in una ruga del ghiacciaio ed ebbe rotte le sue lunghe gambe.
Tornò dopo molti mesi a camminare, ma non poté più, come aveva sognato, prendere il brevetto di maestro di sci e di guida. Fu assunto al Comune, dove aveva lavorato suo padre.
Seppi tutto questo l’anno seguente: non da Nene, che quell’anno non tornò a Pralève, certamente non a motivo della disgrazia di Minetto. Era andata, mi dissero, più volte a trovarlo all’ospedale.