Scoppiai a ridere d'un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l'ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, Sotto i piedi de' viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.
« E se mi metto a correre, » pensai, « mi seguirà! »
Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma si! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.
Ma aveva un cuore, quell'ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell'ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch'era la testa di un'ombra, e non l'ombra d'una testa. Proprio cosi!
Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de' viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.
Rientrando in casa...
XVI - Il ritratto di Minerva (torna all'indice)
Già prima che mi fosse aperta la porta, indovinai che qualcosa di grave doveva essere accaduto in casa: sentivo gridare Papiano e il Paleari. Mi venne incontro, tutta sconvolta, la Caporale:
- E dunque vero? Dodici mila lire?
M'arrestai, ansante, smarrito. Scipione Papiano, l'epilettico, attraversò in quel momento la saletta d'ingresso, scalzo, con le scarpe in mano, pallidissimo, senza giacca; mentre il fratello strillava di là:
- E ora denunzii! denunzii!
Subito una fiera stizza m'assalì contro Adriana che, non ostante il divieto, non ostante il giuramento, aveva parlato.
- Chi l'ha detto? - gridai alla Caporale. - Non è vero niente: ho ritrovato il denaro!
La Caporale mi guardò stupita:
- Il denaro? Ritrovato? Davvero? Ah, Dio sia lodato! - esclamò, levando le braccia; e corse, seguìta da me, ad annunziare esultante nel salotto da pranzo, dove Papiano e il Paleari gridavano e Adriana piangeva: - Ritrovato! ritrovato! Ecco il signor Meis! Ha ritrovato il denaro!
- Come!
- Ritrovato?
- Possibile?
Restarono trasecolati tutti e tre; ma Adriana e il padre, col volto in fiamme; Papiano, all'incontro, terreo, scontraffatto.
Lo fissai per un istante. Dovevo essere più pallido di lui, e vibravo tutto. Egli abbassò gli occhi, come atterrito, e si lasciò cader dalle mani la giacca del fratello. Gli andai innanzi, quasi a petto, e gli tesi la mano.
- Mi scusi tanto; lei, e tutti... mi scusino, - dissi.
- No! - gridò Adriana, indignata; ma subito si premé il fazzoletto su la bocca.
Papiano la guardò, e non ardì di porgermi la mano. Allora io ripetei:
- Mi scusi... - e protesi ancor più la mano, per sentire la sua, come tremava. Pareva la mano d'un morto, e anche gli occhi, torbidi e quasi spenti, parevano d'un morto.
- Sono proprio dolente, - soggiunsi, - dello scompiglio, del grave dispiacere che, senza volerlo, ho cagionato.
- Ma no... cioè, sì... veramente, - balbettò il Paleari, - ecco, era una cosa che... sì, non poteva essere, perbacco! Felicissimo, signor Meis, sono proprio felicissimo che lei abbia ritrovato codesto denaro, perché...
Papiano sbuffò, si passò ambo le mani su la fronte sudata e sul capo e, voltandoci le spalle, si pose a guardare verso il terrazzino.
- Ho fatto come quel tale... - ripresi, forzandomi a sorridere. - Cercavo l'asino e c'ero sopra. Avevo le dodici mila lire qua, nel portafogli, con me.
Ma Adriana, a questo punto, non poté più reggere:
- Ma se lei, - disse, - ha guardato, me presente, da per tutto, anche nel portafogli; se lì, nello stipetto...
- Sì, signorina, - la interruppi, con fredda e severa fermezza. - Ma ho cercato male, evidentemente, dal punto che le ho ritrovate... Chiedo anzi scusa a lei in special modo, che per la mia storditaggine, ha dovuto soffrire più degli altri. Ma spero che...
- No! no! no! - gridò Adriana, rompendo in singhiozzi e uscendo precipitosamente dalla stanza, seguita dalla Caporale.
- Non capisco... - fece il Paleari, stordito.
Papiano si voltò, irosamente:
- Io me ne vado lo stesso, oggi... Pare che, ormai, non ci sia più bisogno di... di...
S'interruppe, come se si sentisse mancare il fiato; volle volgersi a me, ma non gli bastò l'animo di guardarmi in faccia:
- Io... io non ho potuto, creda, neanche dire di no... quando mi hanno... qua, preso in mezzo... Mi son precipitato su mio fratello che... nella sua incoscienza... malato com'è... irresponsabile, cioè, credo... chi sa! si poteva immaginare, che... L'ho trascinato qua... Una scena selvaggia! Mi son veduto costretto a spogliarlo... a frugargli addosso... da per tutto... negli abiti, fin nelle scarpe... E lui... ah!
Il pianto, a questo punto, gli fece impeto alla gola; gli occhi gli si gonfiarono di lagrime; e, come strozzato dall'angoscia, aggiunse:
- Così hanno veduto che... Ma già, se lei... Dopo questo, io me ne vado!
- Ma no! Nient'affatto! - diss'io allora, - Per causa mia? Lei deve rimanere qua! Me n'andrò io piuttosto!
- Che dice mai, signor Meis? - esclamò dolente, il Paleari.
Anche Papiano, impedito dal pianto che pur voleva soffocare, negò con la mano; poi disse:
- Dovevo... dovevo andarmene; anzi, tutto questo è accaduto perché io... così, innocentemente... annunziai che volevo andarmene, per via di mio fratello che non si può più tenere in casa... Il marchese, anzi, mi ha dato... - l'ho qua - una lettera per il direttore di una casa di salute a Napoli, dove devo recarmi anche per altri documenti che gli bisognano... E mia cognata allora, che ha per lei... meritatamente, tanto... tanto riguardo... è saltata sù a dire che nessuno doveva muoversi di casa... che tutti dovevamo rimanere qua... perché lei... non so... aveva scoperto... A me, questo! al proprio cognato!... l'ha detto proprio a me... forse perché io, miserabile ma onorato, debbo ancora restituire qua, a mio suocero...
- Ma che vai pensando, adesso! - esclamò, interrompendolo, il Paleari.
- No! - raffermò fieramente Papiano. - Io ci penso! ci penso bene, non dubitate! E se me ne vado... Povero, povero, povero Scipione!
Non riuscendo più a frenarsi, scoppiò in dirotto pianto.
- Ebbene, - fece il Paleari, intontito e commosso. - E che c'entra più adesso?
- Povero fratello mio! - seguitò Papiano, con tale schianto di sincerità, che anch'io mi sentii quasi agitare le viscere della misericordia.
Intesi in quello schianto il rimorso, ch'egli doveva provare in quel momento per il fratello, di cui si era servito, a cui avrebbe addossato la colpa del furto, se io lo avessi denunziato, e a cui poc'anzi aveva fatto patir l'affronto di quella perquisizione.
Nessuno meglio di lui sapeva ch'io non potevo, aver ritrovato il danaro ch'egli mi aveva rubato. Quella mia inattesa dichiarazione, che lo salvava proprio nel punto in cui, vedendosi perduto, egli accusava il fratello o almeno lasciava intendere - secondo il disegno che doveva aver prima stabilito - che soltanto questi poteva essere l'autore del furto, lo aveva addirittura schiacciato. Ora piangeva per un bisogno irrefrenabile di dare uno sfogo all'animo così tremendamente percosso, e fors'anche perché sentiva che non poteva stare, se non così, piangente, di fronte a me. Con quel pianto egli mi si prostrava, mi s'inginocchiava quasi ai piedi, ma a patto ch'io mantenessi la mia affermazione, d'aver cioè ritrovato il denaro: che se io mi fossi approfittato di vederlo ora avvilito per tirarmi indietro, mi si sarebbe levato contro, furibondo. Egli - era già inteso - non sapeva e non doveva saper nulla di quel furto, e io, con quella mia affermazione, non salvavo che suo fratello, il quale, in fin de' conti, ov'io l'avessi denunziato, non avrebbe avuto forse a patir nulla, data la sua infermità; dal canto suo, ecco, egli s'impegnava, come già aveva lasciato intravedere, a restituir la dote al Paleari.
Tutto questo mi parve di comprendere da quel suo pianto. Esortato dal signor Anselmo e anche da me, alla fine egli si quietò; disse che sarebbe ritornato presto da Napoli, appena chiuso il fratello nella casa di salute, liquidate le sue competenze in un certo negozio che ultimamente aveva avviato colà in società con un suo amico, e fatte le ricerche dei documenti che bisognavano al marchese.
- Anzi, a proposito, - conchiuse, rivolgendosi a me. - Chi ci pensava più? Il signor marchese mi aveva detto che, se non le dispiace, oggi... insieme con mio suocero e con Adriana...
- Ah, bravo, sì! - esclamò il signor Anselmo, senza lasciarlo finire. - Andremo tutti... benissimo! Mi pare che ci sia ragione di stare allegri, ora, perbacco! Che ne dice, signor Adriano?
- Per me... - feci io, aprendo le braccia.
- E allora, verso le quattro... Va bene? - propose Papiano, asciugandosi definitivamente gli occhi.
Mi ritirai in camera. Il mio pensiero corse subito ad Adriana, che se n'era scappata singhiozzando, dopo quella mia smentita. E se ora fosse venuta a domandarmi una spiegazione? Certo non poteva credere neanche lei, ch'io avessi davvero ritrovato il denaro. Che doveva ella dunque supporre? Ch'io, negando a quel modo il furto, avevo voluto punirla del mancato giuramento. Ma perché? Evidentemente perché dall'avvocato, a cui le avevo detto di voler ricorrere per consiglio prima di denunziare il furto, avevo saputo che anche lei e tutti di casa sarebbero stati chiamati responsabili di esso. Ebbene, e non mi aveva ella detto che volentieri avrebbe affrontato lo scandalo? Sì: ma io - era chiaro - io non avevo voluto: avevo preferito di sacrificar così dodici mila lire... E dunque, doveva ella credere che fosse generosità da parte mia, sacrifizio per amor di lei? Ecco a quale altra menzogna mi costringeva la mia condizione: stomachevole menzogna, che mi faceva bello di una squisita, delicatissima prova d'amore, attribuendomi una generosità tanto più grande, quanto meno da lei richiesta e desiderata.
Ma no! Ma no! Ma no! Che andavo fantasticando? A ben altre conclusioni dovevo arrivare, seguendo la logica di quella mia menzogna necessaria e inevitabile. Che generosità! che sacrifizio! che prova d'amore! Avrei potuto forse lusingare più oltre quella povera fanciulla? Dovevo soffocarla, soffocarla, la mia passione; non rivolgere più ad Adriana né uno sguardo né una parola d'amore. E allora? Come avrebbe potuto ella mettere d'accordo quella mia apparente generosità col contegno che d'ora innanzi dovevo impormi di fronte a lei. Io ero dunque tratto per forza a profittar di quel furto ch'ella aveva svelato contro la mia volontà e che io avevo smentito, per troncare ogni relazione con lei. Ma che logica era questa? delle due l'una: o io avevo patito il furto, e allora per qual ragione, conoscendo il ladro, non lo denunziavo, e ritraevo invece da lei il mio amore, come se anch'ella ne fosse colpevole? o io avevo realmente ritrovato il denaro, e allora perché non seguitavo ad amarla?
Sentii soffocarmi dalla nausea, dall'ira, dall'odio per me stesso. Avessi almeno potuto dirle che non era generosità la mia; che io non potevo, in alcun modo, denunziare il furto... Ma dovevo pur dargliene una ragione... Eran forse denari rubati, i miei? Ella avrebbe potuto supporre anche questo... O dovevo dirle ch'ero un perseguitato, un fuggiasco compromesso, che doveva viver nell'ombra e non poteva legare alla sua sorte quella d'una donna? Altre menzogne alla povera fanciulla... Ma, d'altra parte, la verità ch'ora appariva a me stesso incredibile, una favola assurda, un sogno insensato, Ia verità potevo io dirgliela? Per non mentire anche adesso, dovevo confessarle d'aver mentito sempre? Ecco a che m'avrebbe condotto la rivelazione del mio stato. E a che pro? Non sarebbe stata né una scusa per me, né un rimedio per lei.
Tuttavia, sdegnato, esasperato com'ero in quel momento, avrei forse confessato tutto ad Adriana, se lei, invece di mandare la Caporale, fosse entrata di persona in camera mia a spiegarmi perché era venuta meno al giurarnento.
La ragione m'era già nota: Papiano stesso me l'aveva detta. La Caporale soggiunse che Adriana era inconsolabile.
- E perché? - domandai, con forzata indifferenza.
- Perché non crede, - mi rispose, - che lei abbia davvero ritrovato il danaro.
Mi nacque lì per lì l'idea (che s'accordava, del resto, con le condizioni dell'animo mio, con la nausea che provavo di me stesso) l'idea di far perdere ad Adriana ogni stima di me, perché non mi amasse più dimostrandomele falso, duro, volubile, interessato... Mi sarei punito così del male che le avevo fatto. Sul momento, sì, le avrei cagionato altro male, ma a fin di bene, per guarirla.
- Non crede? Come no? - dissi, con un tristo riso, alla Caporale. - Dodici mila lire, signorina... e che son rena? crede ella che sarei così tranquillo, se davvero me le avessero rubate?
- Ma Adriana mi ha detto... - si provò ad aggiungere quella.
- Sciocchezze! sciocchezze! - troncai io. - E vero, guardi... sospettai per un momento... Ma dissi pure alla signorina Adriana che non credevo possibile il furto... E difatti, via! Che ragione, del resto, avrei io a dire che ho ritrovato il denaro, se non l'avessi davvero ritrovato?
La signorina Caporale si strinse ne le spalle.
- Forse Adriana crede che lei possa avere qualche ragione per...
- Ma no! ma no! - m'affrettai a interromperla. - Si tratta, ripeto, di dodici mila lire, signorina. Fossero state trenta, quaranta lire, eh via!... Non ho di queste idee generose, creda pure... Che diamine! ci vorrebbe un eroe...
Quando la signorina Caporale andò via, per riferire ad Adriana le mie parole, mi torsi le mani, me le addentai. Dovevo regolarmi proprio così? Approfittarmi di quel furto, come se con quel denaro rubato volessi pagarla, compensarla delle speranze deluse? Ah, era vile questo mio modo d'agire! Avrebbe certo gridato di rabbia, ella, di là, e mi avrebbe disprezzato... senza comprendere che il suo dolore era anche il mio. Ebbene, cosi doveva essere! Ella doveva odiarmi, disprezzarmi, com'io mi odiavo e mi disprezzavo. E anzi per inferocire di più contro me stesso, per far crescere il suo disprezzo, mi sarei mostrato ora tenerissimo verso Papiano, verso il suo nemico, come per compensarlo a gli occhi di lei del sospetto concepito a suo carico. Sì, sì, e avrei stordito così anche il mio ladro, sì, fino a far credere a tutti ch'io fossi pazzo... E ancora più, ancora più: non dovevamo or ora andare in casa del marchese Giglio? ebbene, mi sarei messo, quel giorno stesso, a far la corte alla signorina Pantogada.
- Mi disprezzerai ancor più, cosi, Adriana! gemetti, rovesciandomi sul letto. - Che altro, che altro posso fare per te?
Poco dopo le quattro, venne a picchiare all'uscio della mia camera il signor Anselmo.
- Eccomi, - gli dissi, e mi recai addosso il pastrano. - Son pronto.
- Viene cosi? - mi domandò il Paleari, guardandomi meravigliato.
- Perché? - feci io.
Ma mi accorsi subito che avevo ancora in capo il berrettino da viaggio, che solevo portare per casa. Me lo cacciai in tasca e tolsi dall'attaccapanni il cappello, mentre il signor Anselmo rideva, rideva come se lui...
- Dove va, signor Anselmo?
- Ma guardi un po' come stavo per andare anch'io - rispose tra le risa, additandomi le pantofole ai piedi. - Vada, vada di là; c'è Adriana...
- Viene anche lei? - domandai.
- Non voleva venire, - disse, avviandosi per la sua camera, il Paleari. - Ma l'ho persuasa. Vada: è nel salotto da pranzo, già pronta...
Con che sguardo duro, di rampogna, m'accolse in quella stanza la signorina Caporale! Ella, che aveva tanto sofferto per amore e che s'era sentita tante volte confortare dalla dolce fanciulla ignara, ora che Adriana sapeva, ora che Adriana era ferita, voleva confortarla lei a sua volta, grata, premurosa; e si ribellava contro di me, perché le pareva ingiusto ch'io facessi soffrire una così buona e bella creatura. Lei, sì, lei non era bella e non era buona, e dunque se gli uomini con lei si mostravano cattivi, almeno un'ombra di scusa potevano averla. Ma perché far soffrire cosi Adriana?
Questo mi disse il suo sguardo, e m'invitò a guardar colei ch'io facevo soffrire.
Com'era pallida! Le si vedeva ancora negli occhi che aveva pianto. Chi sa che sforzo, nell'angoscia, le era costato il doversi abbigliare per uscire con me...
Non ostante l'animo con cui mi recai a quella visita, la figura e la casa del marchese Giglio d'Auletta mi destarono una certa curiosità.
Sapevo che egli stava a Roma perché, ormai, per la restaurazione del Regno delle Due Sicilie non vedeva altro espediente se non nella lotta per il trionfo del potere temporale: restituita Roma al Pontefice, l'unità d'Italia si sarebbe sfasciata, e allora... chi sa! Non voleva arrischiar profezie, il marchese. Per il momento, il suo cómpito era ben definito: lotta senza quartiere, là, nel campo clericale. E la sua casa era frequentata dai più intransigenti prelati della Curia, dai paladini più fervidi del partito nero.
Quel giorno, però, nel vasto salone splendidamente arredato non trovammo nessuno. Cioè, no. C'era, nel mezzo, un cavalletto, che reggeva una tela a metà abbozzata, la quale voleva essere il ritratto di Minerva, della cagnetta di Pepita, tutta nera, sdrajata su una poltrona tutta bianca, la testa allungata su le due zampine davanti.
- Opera del pittore Bernaldez, - ci annunziò gravemente Papiano, come se facesse una presentazione, che da parte nostra richiedesse un profondissimo inchino.
Entrarono dapprima Pepita Pantogada e la governante, signora Candida.
Avevo veduto l'una e l'altra nella semioscurità della mia camera: ora, alla luce, la signorina Pantogada mi parve un'altra; non in tutto veramente, ma nel naso... Possibile che avesse quel naso in casa mia? Me l'ero figurata con un nasetto all'insù, ardito, e invece aquilino lo aveva, e robusto. Ma era pur bella così: bruna, sfavillante negli occhi, coi capelli lucidi, nerissimi e ondulati; le labbra fine taglienti, accese. L'abito scuro, punteggiato di bianco, le stava dipinto sul corpo svelto e formoso. La mite bellezza bionda d'Adriana, accanto a lei, impallidiva.
E finalmente potei spiegarmi che cosa avesse in capo la signora Candida! Una magnifica parrucca fulva, riccioluta, e - su la parrucca - un ampio fazzoletto di seta cilestrina, anzi uno scialle, annodato artisticamente sotto il mento. Quanto vivace la cornice, tanto squallida la faccina magra e floscia, tuttoché imbiaccata, lisciata, imbellettata.
Minerva, intanto, la vecchia cagnetta, co' suoi sforzati rochi abbajamenti, non lasciava fare i convenevoli. La povera bestiola però non abbajava a noi; abbajava al cavalletto, abbajava alla poltrona bianca, che dovevano esser per lei arnesi di tortura: protesta e sfogo d'anima esasperata. Quel maledetto ordegno dalle tre lunghe zampe avrebbe voluto farlo fuggire dal salone; ma poiché esso rimaneva lì, immobile e minaccioso, si ritraeva lei, abbajando, e poi gli saltava contro, digrignando i denti, e tornava a ritrarsi, furibonda.
Piccola, tozza, grassa su le quattro zampine troppo esili, Minerva era veramente sgraziata; gli occhi già appannati dalla vecchiaja e i peli della testa incanutiti; sul dorso poi, presso l'attaccatura della coda, era tutta spelata per l'abitudine di grattarsi furiosamente sotto gli scaffali, alle traverse delle seggiole, dovunque e comunque le venisse fatto. Ne sapevo qualche cosa.
Pepita tutt'a un tratto la afferrò pel collo e la gettò in braccio alla signora Candida, gridandole:
- Cito!
Entrò, in quella, di furia don Ignazio Giglio d'Auletta. Curvo, quasi spezzato in due, corse alla sua poltrona presso la finestra, e - appena seduto - ponendosi il bastone tra le gambe, trasse un profondo respiro e sorrise alla sua stanchezza mortale. Il volto estenuato, solcato tutto di rughe verticali, raso, era d'un pallore cadaverico, ma gli occhi, all'incontro, eran vivacissimi, ardenti, quasi giovanili. Gli s'allungavano in guisa strana su le gote, su le tempie, certe grosse ciocche di capelli, che parevan lingue di cenere bagnata.
Ci accolse con molta cordialità, parlando con spiccato accento napoletano; pregò quindi il suo segretario di seguitare a mostrarmi i ricordi di cui era pieno il salone e che attestavano la sua fedeltà alla dinastia dei Borboni. Quando fummo innanzi a un quadretto coperto da un mantino verde, su cui era ricamata in oro questa leggenda: « Non nascondo; riparo; alzami e leggi » egli pregò Papiano di staccar dalla parete il quadretto e di recarglielo. C'era sotto, riparata dal vetro e incorniciata, una lettera di Pietro Ulloa che, nel settembre del 1860, cioè agli ultimi aneliti del regno, invitava il marchese Giglio d'Auletta a far parte del Ministero che non si poté poi costituire: accanto c'era la minuta della lettera d'accettazione del marchese: fiera lettera che bollava tutti coloro che s'erano rifiutati di assumere la responsabilità del potere in quel momento di supremo pericolo e d'angoscioso scompiglio, di fronte al nemico, al filibustiere Garibaldi già quasi alle porte di Napoli.
Leggendo ad alta voce questo documento, il vecchio s'accese e si commosse tanto, che, sebbene ciò ch'ei leggeva fosse affatto contrario al mio sentimento, pure mi destò ammirazione. Era stato anch'egli, dal canto suo, un eroe. N'ebbi un'altra prova, quando egli stesso mi volle narrar la storia di un certo giglio di legno dorato, ch'era pur lì, nel salone. La mattina del 5 settembre 1860 il Re usciva dalla Reggia di Napoli in un legnetto scoperto insieme con la Regina e due gentiluomini di corte: arrivato il legnetto in via di Chiaja dovette fermarsi per un intoppo di carri e di vetture innanzi a una farmacia che aveva su l'insegna i gigli d'oro. Una scala, appoggiata all'insegna, impediva il transito. Alcuni operaj, saliti su quella scala, staccavano dall'insegna i gigli. Il Re se n'accorse e additò con la mano alla Regina quell'atto di vile prudenza del farmacista, che pure in altri tempi aveva sollecitato l'onore di fregiar la sua bottega di quel simbolo regale. Egli, il marchese d'Auletta, si trovava in quel momento a passare di là: indignato, furente, s'era precipitato entro la farmacia, aveva afferrato per il bavero della giacca quel vile, gli aveva mostrato il Re ll fuori, gli aveva poi sputato in faccia e, brandendo uno di quei gigli staccati, s'era messo a gridare tra la ressa: « Viva il Re! ».
Questo giglio di legno gli ricordava ora, lì nel salotto, quella triste mattina di settembre, e una delle ultime passeggiate del suo Sovrano per le vie di Napoli; ed egli se ne gloriava quasi quanto della chiave d'oro di gentiluomo di camera e dell'insegna di cavaliere di San Gennaro e di tant'altre onorificenze che facevano bella mostra di sé nel salone, sotto i due grandi ritratti a olio di Ferdinando e di Francesco II.
Poco dopo, per attuare il mio tristo disegno, io lasciai il marchese col Paleari e Papiano, e m'accostai a Pepita.
M'accorsi subito ch'ella era molto nervosa e impaziente. Volle per prima cosa saper l'ora da me.
- Quattro e meccio? Bene! bene!
Che fossero però le quattro e meccio non aveva certamente dovuto farle piacere: lo argomentai da quel « Bene! bene! » a denti stretti e dal volubile e quasi aggressivo discorso in cui subito dopo si lanciò contro l'Italia e più contro Roma così gonfia di sé per il suo passato. Mi disse, tra l'altro, che anche loro, in Ispagna, avevano tambien un Colosseo come il nostro, della stessa antichità; ma non se ne curavano né punto né poco:
- Piedra muerta!
Valeva senza fine di più, per loro, una Plaza de toros. Sì, e per lei segnatamente, più di tutti i capolavori dell'arte antica, quel ritratto di Minerva del pittore Manuel Bernaldez che tardava a venire. L'impazienza di Pepita non proveniva da altro, ed era già al colmo. Fremeva, parlando; si passava rapidissimamente, di tratto in tratto, un dito sul naso; si mordeva il labbro; apriva e chiudeva le mani, e gli occhi le andavano sempre lì, all'uscio.
Finalmente il Bernaldez fu annunziato dal cameriere, e si presentò accaldato, sudato, come se avesse corso. Subito Pepita gli voltò le spalle e si sforzò d'assumere un contegno freddo e indifferente; ma quando egli, dopo aver salutato il marchese, si avvicinò a noi, o meglio a lei e, parlandole nella sua lingua, chiese scusa del ritardo, ella non seppe contenersi più e gli rispose con vertiginosa rapidità:
- Prima de tuto lei parli taliano, porqué aquì siamo a Roma, dove ci sono aquesti segnori che no comprendono lo espagnolo, e no me par bona crianza che lei parli con migo espagnolo. Poi le digo che me ne importa niente del su' retardo e che podeva pasarse de la escusa.
Quegli, mortificatissimo, sorrise nervosamente e s'inchinò; poi le chiese se poteva riprendere il ritratto, essendoci ancora un po' di luce.
- Ma comodo! - gli rispose lei con la stessa aria e lo stesso tono. - Lei puede pintar senza de mi o tambien borrar lo pintado, come glie par.
Manuel Bernaldez tornò a inchinarsi e si rivolse alla signora Candida che teneva ancora in braccio la cagnetta.
Ricominciò allora per Minerva il supplizio. Ma a un supplizio ben più crudele fu sottoposto il suo carnefice: Pepita, per punirlo del ritardo, prese a sfoggiar con me tanta civetteria, che mi parve anche troppa per lo scopo a cui tendevo. Volgendo di sfuggita qualche sguardo ad Adriana, m'accorgevo di quant'ella soffrisse. Il supplizio non era dunque soltanto per il Bernaldez e per Minerva; era anche per lei e per me. Mi sentivo il volto in fiamme, come se man mano mi ubriacasse il dispetto che sapevo di cagionare a quel povero giovane, il quale tuttavia non m'ispirava pietà: pietà, lì dentro, m'ispirava soltanto Adriana; e, poiché io dovevo farla soffrire, non m'importava che soffrisse anche lui della stessa pena: anzi quanto più lui ne soffriva, tanto meno mi pareva che dovesse soffrirne Adriana. A poco a poco, la violenza che ciascuno di noi faceva a se stesso crebbe e si tese fino a tal punto, che per forza doveva in qualche modo scoppiare.
Ne diede il pretesto Minerva. Non tenuta quel giorno in soggezione dallo sguardo della padroncina, essa, appena il pittore staccava gli occhi da lei per rivolgerli alla tela, zitta zitta, si levava dalla positura voluta, cacciava le zampine e il musetto nell'insenatura tra la spalliera e il piano della poltrona, come se volesse ficcarsi e nascondersi lì, e presentava al pittore il di dietro, bello scoperto, come un o, scotendo quasi a dileggio la coda ritta. Già parecchie volte la signora Candida la aveva rimessa a posto. Aspettando, il Bernaldez sbuffava, coglieva a volo qualche mia parola rivolta a Pepita e la commentava borbottando sotto sotto fra sé. Più d'una volta, essendomene accorto, fui sul punto d'intimargli: « Parli forte! ». Ma egli alla fine non ne poté più, e gridò a Pepita:
- Prego: faccia almeno star ferma la bestia!
- Vestia, vestia, vestia... - scattò Pepita, agitando le mani per aria, eccitatissima. - Sarà vestia, ma non glie se dice!
- Chi sa che capisce, poverina... - mi venne da osservare a mo' di scusa, rivolto al Bernaldez.
La frase poteva veramente prestarsi a una doppia interpretazione; me ne accorsi dopo averla proferita. Io volevo dire: « Chi sa che cosa immagina che le si faccia ». Ma il Bernaldez prese in altro senso le mie parole, e con estrema violenza, figgendomi gli occhi negli occhi, rimbeccò:
- Ciò che dimostra di non capir lei!
Sotto lo sguardo fermo e provocante di lui, nell'eccitazione in cui mi trovavo anch'io, non potei fare a meno di rispondergli:
- Ma io capisco, signor mio, che lei sarà magari un gran pittore...
- Che cos'è? - domandò il marchese, notando il nostro fare aggressivo.
Il Bernaldez, perdendo ogni dominio su se stesso s'alzò e venne a piantarmisi di faccia:
- Un gran pittore... Finisca!
- Un gran pittore, ecco... ma di poco garbo, mi pare; e fa paura alle cagnette, - gli dissi io allora, risoluto e sprezzante.
- Sta bene, - fece lui. - Vedremo se alle cagnette soltanto!
E si ritirò.
Pepita improvvisamente ruppe in un pianto strano, convulso, e cadde svenuta tra le braccia della signora Candida e di Papiano.
Nella confusione sopravvenuta, mentr'io con gli altri mi facevo a guardar la Pantogada adagiata sul canapè, mi sentii afferrar per un braccio e mi vidi sopra di nuovo il Bernaldez, ch'era tornato indietro. Feci in tempo a ghermirgli la mano levata su me e lo respinsi con forza, ma egli mi si lanciò contro ancora una volta e mi sfiorò appena il viso con la mano. Io mi avventai, furibondo; ma Papiano e il Paleari accorsero a trattenermi, mentre il Bernaldez si ritraeva gridandomi:
- Se l'abbia per dato! Ai suoi ordini!... Qua conoscono il mio indirizzo!
Il marchese s'era levato a metà dalla poltrona, tutto fremente, e gridava contro l'aggressore; io mi dibattevo intanto fra il Paleari e Papiano, che mi impedivano di correre a raggiungere colui. Tentò di calmarmi anche il marchese, dicendomi che, da gentiluomo, io dovevo mandar due amici per dare una buona lezione a quel villano, che aveva osato di mostrar così poco rispetto per la sua casa.
Fremente in tutto il corpo, senza più fiato gli chiesi appena scusa per lo spiacevole incidente e scappai via, seguito dal Paleari e da Papiano. Adriana rimase presso la svenuta, ch'era stata condotta di là.
Mi toccava ora a pregare il mio ladro che mi facesse da testimonio: lui e il Paleari: a chi altri avrei potuto rivolgermi?
- Io? - esclamò, candido e stupito, il signor Anselmo. - Ma che! Nossignore! Dice sul serio? - (e sorrideva). - Non m'intendo di tali faccende, io, signor Meis... Via, via, ragazzate, sciocchezze, scusi...
- Lei lo farà per me, - gli gridai energicamente, non potendo entrare in quel momento in discussione con lui. - Andrà con suo genero a trovare quel signore, e...
- Ma io non vado! Ma che dice! - m'interruppe. - Mi domandi qualunque altro servizio: son pronto a servirla; ma questo, no: non è per me, prima di tutto; e poi, via, glie l'ho detto: ragazzate! Non bisogna dare importanza... Che c'entra...
- Questo, no! questo, no! - interloquì Papiano vedendomi smaniare. - C'entra benissimo! Il signor Meis ha tutto il diritto d'esigere una soddisfazione; direi anzi che è in obbligo, sicuro! deve, deve...
- Andrà dunque lei con un suo amico, - dissi, non aspettandomi anche da lui un rifiuto.
Ma Papiano apri le braccia addoloratissimo.
- Si figuri con che cuore vorrei farlo!
- E non lo fa? - gli gridai forte, in mezzo alla strada.
- Piano, signor Meis, - pregò egli, umile. - Guardi... Senta: mi consideri... consideri la mia infelicissima condizione di subalterno... di miserabile segretario del marchese... servo, servo, servo...
- Che ci ha da vedere? Il marchese stesso... ha sentito?
- Sissignore! Ma domani? Quel clericale... di fronte al partito... col segretario che s'impiccia in questioni cavalleresche... Ah, santo Dio, lei non sa che miserie! E poi, quella fraschetta, ha veduto? è innamorata, come una gatta, del pittore, di quel farabutto... Domani fanno la pace, e allora io, scusi, come mi trovo? Ci vado di mezzo! Abbia pazienza, signor Meis, mi consideri... E proprio così.
- Mi vogliono dunque lasciar solo in questo frangente? - proruppi ancora una volta, esasperato. - Io non conosco nessuno, qua a Roma!
-...Ma c'è il rimedio! C'è il rimedio! - s'affrettò a consigliarmi Papiano. - Glielo volevo dir subito... Tanto io, quanto mio suocero, creda, ci troveremmo imbrogliati; siamo disadatti... Lei ha ragione, lei freme, lo vedo: il sangue non è acqua. Ebbene, si rivolga subito a due ufficiali del regio esercito: non possono negarsi di rappresentare un gentiluomo come lei in una partita d'onore. Lei si presenta, espone loro il caso... Non è la prima volta che càpita loro di rendere questo servizio a un forestiere.
Eravamo arrivati al portone di casa; dissi a Papiano: - Sta bene! - e lo piantai lì, col suocero, avviandomi solo, fosco, senza direzione.
Mi s'era ancora una volta riaffacciato il pensiero schiacciante della mia assoluta impotenza. Potevo fare un duello nella condizione mia? Non volevo ancora capirlo ch'io non potevo far più nulla? Due ufficiali? Sì, Ma avrebbero voluto prima sapere, e con fondamento, ch'io mi fossi. Ah, pure in faccia potevano sputarmi, schiaffeggiarmi, bastonarmi: dovevo pregare che picchiassero sodo, sì, quanto volevano, ma senza gridare, senza far troppo rumore... Due ufficiali! E se per poco avessi loro scoperto il mio vero stato, ma prima di tutto non m'avrebbero creduto, chi sa che avrebbero sospettato; e poi sarebbe stato inutile, come per Adriana: pur credendomi, m'avrebbero consigliato di rifarmi prima vivo, giacché un morto, via, non si trova nelle debite condizioni di fronte al codice cavalleresco...
E dunque dovevo soffrirmi in pace l'affronto, come già il furto? Insultato, quasi schiaffeggiato, sfidato, andarmene via come un vile, sparir così, nel bujo dell'intollerabile sorte che mi attendeva, spregevole, odioso a me stesso?
No, no! E come avrei potuto più vivere? come sopportar la mia vita? No, no, basta! basta! Mi fermai. Mi vidi vacillar tutto all'intorno; sentii mancarmi le gambe al sorgere improvviso d'un sentimento oscuro, che mi comunicò un brivido dal capo alle piante.
« Ma almeno prima, prima... » dissi tra me, vaneggiando, « almeno prima tentare... perché no? se mi venisse fatto... Almeno tentare... per non rimaner di fronte a me stesso così vile... Se mi venisse fatto... avrei meno schifo di me... Tanto, non ho più nulla da perdere... Perché non tentare? »
Ero a due passi dal Caffè Aragno. « Là, là, allo sbaraglio! » E, nel cieco orgasmo che mi spronava, entrai.
Nella prima sala, attorno a un tavolino, c'erano cinque o sei ufficiali d'artiglieria e, come uno d'essi, vedendomi arrestar lì presso torbido, esitante, si voltò a guardarmi, io gli accennai un saluto, e con voce rotta dall'affanno:
- Prego... scusi... - gli dissi. - Potrei dirle una parola?
Era un giovanottino senza baffi, che doveva essere uscito quell'anno stesso dall'Accademia, tenente. Si alzò subito e mi s'appressò, con molta cortesia.
- Dica pure, signore...
- Ecco, mi presento da me: Adriano Meis. Sono forestiere, e non conosco nessuno... Ho avuto una... una lite, sì... Avrei bisogno di due padrini... Non saprei a chi rivolgermi... Se lei con un suo compagno volesse...
Sorpreso, perplesso, quegli stette un po' a squadrarmi, poi si voltò verso i compagni, chiamò:
- Grigliotti!
Questi, ch'era un tenente anziano, con un pajo di baffoni all'insù, la caramella incastrata per forza in un occhio, lisciato, impomatato, si levò, seguitando a parlare coi compagni (pronunziava l'erre alla francese) e ci s'avvicinò, facendomi un lieve, compassato inchino. Vedendolo alzare, fui sul punto di dire al tenentino: « Quello, no, per carità! quello, no! ». Ma certo nessun altro del crocchio, come riconobbi poi, poteva esser più designato di colui alla bisogna. Aveva su la punta delle dita tutti gli articoli del codice cavalleresco.
Non potrei qui riferire per filo e per segno tutto ciò che egli si compiacque di dirmi intorno al mio caso, tutto ciò che pretendeva da me... dovevo telegrafare, non so come, non so a chi, esporre, determinare, andare dal colonnello ça va sans dire... come aveva fatto lui, quando non era ancora sotto le armi, e gli era capitato a Pavia lo stesso mio caso... Perché, in materia cavalleresca... e giù, giù, articoli e precedenti e controversie e giurì d'onore e che so io.
Avevo cominciato a sentirmi tra le spine fin dal primo vederlo: figurarsi ora, sentendolo sproloquiare così! A un certo punto, non ne potei più: tutto il sangue m'era montato alla testa: proruppi:
- Ma sissignore! ma lo so! Sta bene... lei dice bene; ma come vuole ch'io telegrafi, adesso? Io son solo! Io voglio battermi, ecco! battermi subito, domani stesso, se è possibile... senza tante storie! Che vuole ch'io ne sappia? Io mi son rivolto a loro con la speranza che non ci fosse bisogno di tante formalità, di tante inezie, di tante sciocchezze, mi scusi!
Dopo questa sfuriata, la conversazione diventò quasi diverbio e terminò improvvisamente con uno scoppio di risa sguajate di tutti quegli ufficiali. Scappai via, fuori di me, avvampato in volto, come se mi avessero preso a scudisciate. Mi recai le mani alla testa, quasi per arrestar la ragione che mi fuggiva; e, inseguito da quelle risa, m'allontanai di furia, per cacciarmi, per nascondermi in qualche posto... Dove? A casa? Ne provai orrore. E andai, andai all'impazzata; poi, man mano rallentai il passo e alla fine, arrangolato, mi fermai, come se non potessi più trascinar l'anima, frustata da quel dileggio, fremebonda e piena d'una plumbea tetraggine angosciosa. Rimasi un pezzo attonito; poi mi mossi di nuovo, senza più pensare, alleggerito d'un tratto, in modo strano, d'ogni ambascia, quasi istupidito; e ripresi a vagare, non so per quanto tempo, fermandomi qua e là a guardar nelle vetrine delle botteghe, che man mano si serravano, e mi pareva che si serrassero per me, per sempre; e che le vie a poco a poco si spopolassero, perché io restassi solo, nella notte, errabondo, tra case tacite, buje, con tutte le porte, tutte le finestre serrate, serrate per me, per sempre: tutta la vita si rinserrava, si spegneva, ammutoliva con quella notte; e io già la vedevo come da lontano, come se essa non avesse più senso né scopo per me. Ed ecco, alla fine, senza volerlo, quasi guidato dal sentimento oscuro che mi aveva invaso tutto, maturandomisi dentro man mano, mi ritrovai sul Ponte Margherita, appoggiato al parapetto, a guardare con occhi sbarrati il fiume nero nella notte.
« Là? »
Un brivido mi colse, di sgomento, che fece d'un subito insorgere con impeto rabbioso tutte le mie vitali energie armate di un sentimento d'odio feroce contro coloro che, da lontano, m'obbligavano a finire, come avevan voluto, là, nel molino della Stìa. Esse Romilda e la madre, mi avevan gettato in questi frangenti: ah, io non avrei mai pensato di simulare un suicidio per liberarmi di loro. Ed ecco, ora, dopo essermi aggirato due anni, come un'ombra, in quella illusione di vita oltre la morte, mi vedevo costretto, forzato, trascinato pei capelli a eseguire su me la loro condanna. Mi avevano ucciso davvero! Ed esse esse sole si erano liberate di me...
Un fremito di ribellione mi scosse. E non potevo io vendicarmi di loro, invece d'uccidermi? Chi stavo io per uccidere? Un morto... nessuno...
Restai, come abbagliato da una strana luce improvvisa. Vendicarmi! Dunque, ritornar lì, a Miragno? uscire da quella menzogna che mi soffocava divenuta ormai insostenibile; ritornar vivo per loro castigo, col mio vero nome, nelle mie vere condizioni, con le mie vere e proprie infelicità? Ma le presenti? Potevo scuotermele di dosso, così, come un fardello esoso che si possa gettar via? No, no, no! Sentivo di non poterlo fare. E smaniavo lì, sul ponte ancora incerto della mia sorte.
Frattanto, ecco, nella tasca del mio pastrano palpavo, stringevo con le dita irrequiete qualcosa che non riuscivo a capir che fosse. Alla fine, con uno scatto di rabbia, la trassi fuori. Era il mio berrettino da viaggio, quello che, uscendo di casa per far visita al marchese Giglio, m'ero cacciato in tasca, senza badarci. Feci per gittarlo al fiume, ma - sul punto - un'idea mi balenò; una riflessione, fatta durante il viaggio da Alenga a Torino, mi tornò chiara alla memoria.
« Qua, » dissi, quasi inconsciamente, tra me, « su questo parapetto... il cappello... il bastone... Sì! Com'esse là, nella gora del molino, Mattia Pascal; io, qua, ora, Adriano Meis... Una volta per uno! Ritorno vivo; mi vendicherò! »
Un sussulto di gioja, anzi un impeto di pazzia m'investì, mi sollevò. Ma sì! ma sì! Io non dovevo uccider me, un morto, io dovevo uccidere quella folle, assurda finzione che m'aveva torturato, straziato due anni, quell'Adriano Meis, condannato a essere un vile, un bugiardo, un miserabile; quell'Adriano Meis dovevo uccidere, che essendo, com'era, un nome falso, avrebbe dovuto aver pure di stoppa il cervello, di cartapesta il cuore, di gomma le vene, nelle quali un po' d'acqua tinta avrebbe dovuto scorrere, invece di sangue: allora sì! Via, dunque, giù, giù, tristo fantoccio odioso! Annegato, là, come Mattia Pascal Una volta per uno! Quell'ombra di vita, sorta da una menzogna macabra, si sarebbe chiusa degnamente, così, con una menzogna macabra! E riparavo tutto! Che altra soddisfazione avrei potuto dare ad Adriana per il male che le avevo fatto? Ma l'affronto di quel farabutto dovevo tenermelo? Mi aveva investito a tradimento, il vigliacco! Oh, io ero ben sicuro di non aver paura di lui. Non io, non io, ma Adriano Meis aveva ricevuto l'insulto. Ed ora, ecco, Adriano Meis s'uccideva.
Non c'era altra via di scampo per me!
Un tremore, intanto, mi aveva preso, come se io dovessi veramente uccidere qualcuno. Ma il cervello mi s'era d'un tratto snebbiato, il cuore alleggerito, e godevo d'una quasi ilare lucidità di spirito.
Mi guardai attorno. Sospettai che di là, sul Lungotevere, ci potesse essere qualcuno, qualche guardia, che - vedendomi da un pezzo sul ponte - si fosse fermata a spiarmi. Volli accertarmene: andai, guardai prima nella Piazza della Libertà, poi per il Lungotevere dei Mellini. Nessuno! Tornai allora indietro; ma, prima di rifarmi sul ponte, mi fermai tra gli alberi, sotto un fanale: strappai un foglietto dal taccuino e vi scrissi col lapis: Adriano Meis. Che altro? Nulla. L'indirizzo e la data. Bastava così. Era tutto lì, Adriano Meis, in quel cappello, in quel bastone. Avrei lasciato tutto, là, a casa, abiti, libri... Il denaro, dopo il furto, l'avevo con me.
Ritornai sul ponte, cheto, chinato. Mi tremavano le gambe, e il cuore mi tempestava in petto. Scelsi il posto meno illuminato dai fanali, e subito mi tolsi il cappello, infissi nel nastro il biglietto ripiegato, poi lo posai sul parapetto, col bastone accanto; mi cacciai in capo il provvidenziale berrettino da viaggio che m'aveva salvato, e via, cercando l'ombra, come un ladro, senza volgermi addietro.
XVII - Rincarnazione (torna all'indice)
Arrivai alla stazione in tempo per il treno delle dodici e dieci per Pisa.
Preso il biglietto, mi rincantucciai in un vagone di seconda classe, con la visiera del berrettino calcata fin sul naso, non tanto per nascondermi, quanto per non vedere. Ma vedevo lo stesso, col pensiero: avevo l'incubo di quel cappellaccio e di quel bastone, lasciati lì, sul parapetto del ponte. Ecco, forse qualcuno, in quel momento, passando di là, li scorgeva... o forse già qualche guardia notturna era corsa in questura a dar l'avviso... E io ero ancora a Roma! Che s'aspettava? Non tiravo più fiato...
Finalmente il convoglio si scrollò. Per fortuna ero rimasto solo nello scompartimento. Balzai in piedi, levai le braccia, trassi un interminabile respiro di sollievo, come se mi fossi tolto un macigno di sul petto. Ah! tornavo a esser vivo, a esser io, io Mattia Pascal. Lo avrei gridato forte a tutti, ora: « Io, io, Mattia Pascal! Sono io! Non sono morto! Eccomi qua! ». E non dover più mentire, non dover più temere d'essere scoperto! Ancora no, veramente: finché non arrivavo a Miragno... Là, prima, dovevo dichiararmi, farmi riconoscer vivo, rinnestarmi alle mie radici sepolte... Folle! Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici? Eppure, eppure, ecco, ricordavo l'altro viaggio, quello da Alenga a Torino: m'ero stimato felice, allo stesso modo, allora. Folle! La liberazione! dicevo... M'era parsa quella la liberazione! Sì, con la cappa di piombo della menzogna addosso! Una cappa di piombo addosso a un'ombra... Ora avrei avuto di nuovo la moglie addosso, è vero, e quella suocera... Ma non le avevo forse avute addosso anche da morto? Ora almeno ero vivo, e agguerrito. Ah, ce la saremmo veduta!
Mi pareva, a ripensarci, addirittura inverosimile la leggerezza con cui, due anni addietro, m'ero gettato fuori d'ogni legge, alla ventura. E mi rivedevo nei primi giorni, beato nell'incoscienza, o piuttosto nella follia, a Torino, e poi man mano nelle altre città, in pellegrinaggio, muto, solo, chiuso in me, nel sentimento di ciò che mi pareva allora la mia felicità; ed eccomi in Germania, lungo il Reno, su un piroscafo: era un sogno? no, c'ero stato davvero! ah, se avessi potuto durar sempre in quelle condizioni; viaggiare, forestiere della vita... Ma a Milano, poi... quel povero cucciolotto che volevo comperare da un vecchio cerinajo... Cominciavo già ad accorgermi... E poi... ah poi!
Ripiombai col pensiero a Roma; entrai come un'ombra nella casa abbandonata. Dormivano tutti? Adriana, forse, no... m'aspetta ancora, aspetta che io rincasi; le avranno detto che sono andato in cerca di due padrini, per battermi col Bernaldez; non mi sente ancora rincasare, e teme e piange...
Mi premetti forte le mani sul volto, sentendomi stringere il cuore d'angoscia.
- Ma se io per te non potevo esser vivo, Adriana, - gemetti, - meglio che tu ora mi sappia morto! morte le labbra che colsero un bacio dalla tua bocca, povera Adriana... Dimentica! Dimentica!
Ah, che sarebbe avvenuto in quella casa, nella prossima mattina, quando qualcuno della questura si sarebbe presentato a dar l'annunzio? A qual ragione, passato il primo sbalordimento, avrebbero attribuito il mio suicidio? Al duello imminente? Ma no! Sarebbe stato, per lo meno, molto strano che un uomo, il quale non aveva mai dato prova d'essere un codardo, si fosse ucciso per paura di un duello... E allora? Perché non potevo trovar padrini? Futile pretesto! O forse... chi sa! era possibile che ci fosse sotto, in quella mia strana esistenza, qualche mistero...
Oh, sì: l'avrebbero senza dubbio pensato! M'uccidevo così, senz'alcuna ragione apparente, senza averne prima dimostrato in qualche modo l'intenzione. Sì: qualche stranezza, più d'una, l'avevo commessa in quegli ultimi giorni: quel pasticcio del furto, prima sospettato, poi improvvisamente smentito... Oh che forse quei denari non erano miei? dovevo forse restituirli a qualcuno? m'ero indebitamente appropriato d'una parte di essi e avevo tentato di farmi credere vittima d'un furto, poi m'ero pentito, e, in fine, ucciso? Chi sa! Certo ero stato un uomo misteriosissimo: non un amico, non una lettera, mai, da nessuna parte...
Quanto avrei fatto meglio a scrivere qualche cosa in quel bigliettino, oltre il nome, la data e l'indirizzo: una ragione qualunque del suicidio. Ma in quel momento... E poi, che ragione?
« Chi sa come e quanto, » pensai, smaniando, « strilleranno adesso i giornali di questo Adriano Meis misterioso... Salterà certo fuori quel mio famoso cugino, quel tal Francesco Meis torinese, ajuto-agente, a dar le sue informazioni alla questura: si faranno ricerche, su la traccia di queste informazioni, e chi sa che cosa ne verrà fuori. Sì, ma i danari? l'eredità? Adriana li ha veduti, tutti que' miei biglietti di banca... Figuriamoci Papiano! Assalto allo stipetto! Ma lo troverà vuoto... E allora, perduti? in fondo al fiume? Peccato! peccato! Che rabbia non averli rubati tutti a tempo! La questura sequestrerà i miei abiti, i miei libri... A chi andranno? Oh! almeno un ricordo alla povera Adriana! Con che occhi guarderà ella, ormai, quella mia camera deserta? »
Così, domande, supposizioni, pensieri, sentimenti tumultuavano in me, mentre il treno rombava nella notte. Non mi davano requie.
Stimai prudente fermarmi qualche giorno a Pisa per non stabilire una relazione tra la ricomparsa di Mattia Pascal a Miragno e la scomparsa di Adriano Meis a Roma, relazione che avrebbe potuto facilmente saltare a gli occhi, specie se i giornali di Roma avessero troppo parlato di questo suicidio. Avrei aspettato a Pisa i giornali di Roma, quelli de la sera e quelli del mattino; poi, se non si fosse fatto troppo chiasso, prima che a Miragno, mi sarei recato a Oneglia, da mio fratello Roberto, a sperimentare su lui l'impressione che avrebbe fatto la mia resurrezione. Ma dovevo assolutamente vietarmi di fare il minimo accenno alla mia permanenza in Roma, alle avventure, ai casi che m'erano occorsi. Di quei due anni e mesi d'assenza avrei dato fantastiche notizie, di lontani viaggi... Ah, ora, ritornando vivo, avrei potuto anch'io prendermi il gusto di dire bugie, tante, tante, tante, anche della forza di quelle del cavalier Tito Lenzi, e più grosse ancora!
Mi restavano più di cinquantadue mila lire. I creditori, sapendomi morto da due anni, s'erano certo contentati del podere della Stìa col mulino. Venduto l'uno e l'altro, s'erano forse aggiustati alla meglio: non mi avrebbero più molestato. Avrei pensato io, se mai, a non farmi più molestare. Con cinquantadue mila lire, a Miragno, via, non dico grasso, avrei potuto vivere discretamente.
Lasciato il treno a Pisa, prima di tutto mi recai a comperare un cappello, della forma e della dimensione di quelli che Mattia Pascal ai suoi dì soleva portare; subito dopo mi feci tagliar la chioma di quell'imbecille d'Adriano Meis.
- Corti, belli corti, eh? - dissi al barbiere.
M'era già un po' ricresciuta la barba, e ora, coi capelli corti, ecco che cominciai a riprender il mio primo aspetto, ma di molto migliorato, più fino, già... ma sì, ringentilito. L'occhio non era più storto, eh! non era più quello caratteristico di Mattia Pascal.
Ecco, qualche cosa d'Adriano Meis mi sarebbe tuttavia rimasta in faccia. Ma somigliavo pur tanto a Roberto, ora; oh, quanto non avrei mai supposto.
Il guajo fu, quando - dopo essermi liberato di tutti quei capellacci - mi rimisi in capo il cappello comperato poc'anzi: mi sprofondò fin su la nuca! Dovetti rimediare, con l'ajuto del barbiere, ponendo un giro di carta sotto la fodera.
Per non entrare così, con le mani vuote, in un albergo, comperai una valigia: ci avrei messo dentro, per il momento, l'abito che indossavo e il pastrano. Mi toccava rifornirmi di tutto, non potendo sperare che, dopo tanto tempo, là a Miragno, mia moglie avesse conservato qualche mio vestito e la biancheria. Comperai l'abito bell'e fatto, in un negozio, e me lo lasciai addosso; con la valigia nuova, scesi all'Hotel Nettuno.
Ero già stato a Pisa quand'ero Adriano Meis, ed ero sceso allora all'Albergo di Londra. Avevo già ammirato tutte le meraviglie d'arte della città; ora, stremato di forze per le emozioni violente, digiuno dalla mattina del giorno avanti, cascavo di fame e di sonno. Presi qualche cibo, e quindi dormii quasi fino a sera.
Appena sveglio, però, caddi in preda a una fosca smania crescente. Quella giornata quasi non avvertita da me, tra le prime faccende e poi in quel sonno di piombo in cui ero caduto, chi sa intanto com'era passata lì, in casa Paleari! Rimescolìo, sbalordimento, curiosità morbosa di estranei, indagini frettolose, sospetti, strampalate ipotesi, insinuazioni, vane ricerche; e i miei abiti e i miei libri, là, guardati con quella costernazione che ispirano gli oggetti appartenenti a qualcuno tragicamente morto.
E io avevo dormito! E ora, in questa impazienza angosciosa, avrei dovuto aspettare fino alla mattina del giorno seguente, per saper qualche cosa dai giornali di Roma.
Frattanto, non potendo correre a Miragno, o almeno a Oneglia, mi toccava a rimanere in una bella condizione, dentro una specie di parentesi di due, di tre giorni e fors'anche più: morto di là, a Miragno, come Mattia Pascal; morto di qua, a Roma, come Adriano Meis.
Non sapendo che fare, sperando di distrarmi un po' da tante costernazioni, portai questi due morti a spasso per Pisa.
Oh, fu una piacevolissima passeggiata! Adriano Meis, che c'era stato, voleva quasi quasi far da guida e da cicerone a Mattia Pascal; ma questi oppresso da tante cose che andava rivolgendo in mente, si scrollava con fosche maniere, scoteva un braccio come per levarsi di torno quell'ombra esosa, capelluta, in abito lungo, col cappellaccio a larghe tese e con gli occhiali.
« Va' via! va'! Tornatene al fiume, affogato! »
Ma ricordavo che anche Adriano Meis, passeggiando due anni addietro per le vie di Pisa, s'era sentito importunato, infastidito allo stesso modo dall'ombra, ugualmente esosa, di Mattia Pascal, e avrebbe voluto con lo stesso gesto cavarsela dai piedi, ricacciandola nella gora del molino, là, alla Stìa. Il meglio era non dar confidenza a nessuno dei due. O bianco campanile, tu potevi pendere da una parte; io, tra quei due, né di qua né di là.
Come Dio volle, arrivai finalmente a superare quella nuova interminabile nottata d'ambascia e ad avere in mano i giornali di Roma.
Non dirò che, alla lettura, mi tranquillassi: non potevo. La costernazione che mi teneva, fu però presto ovviata dal vedere che alla notizia del mio suicidio i giornali avevano dato le proporzioni d'uno dei soliti fatti di cronaca. Dicevano tutti, sù per giù, la stessa cosa: del cappello, del bastone trovati sul Ponte Margherita, col laconico bigliettino; ch'ero torinese, uomo alquanto singolare, e che s'ignoravano le ragioni che mi avevano spinto al triste passo. Uno però avanzava la supposizione che ci fosse di mezzo una « ragione intima », fondandosi sul « diverbio con un giovane pittore spagnuolo, in casa di un notissimo personaggio del mondo clericale ».
Un altro diceva « probabilmente per dissesti finanziarii ». Notizie vaghe, insomma, e brevi. Solo un giornale del mattino, solito di narrar diffusamente i fatti del giorno, accennava « alla sorpresa e al dolore della famiglia del cavalier Anselmo Paleari, caposezione al Ministero della pubblica istruzione, ora a riposo, presso cui il Meis abitava, molto stimato per il suo riserbo e pe' suoi modi cortesi ». - Grazie! - Anche questo giornale, riferendo la sfida corsa col pittore spagnuolo M. B., lasciava intendere che la ragione del suicidio dovesse cercarsi in una segreta passione amorosa.
M'ero ucciso per Pepita Pantogada, insomma. Ma, alla fine, meglio così. Il nome d'Adriana non era venuto fuori, né s'era fatto alcun cenno de' miei biglietti di banca. La questura dunque, avrebbe indagato nascostamente. Ma su quali tracce?
Potevo partire per Oneglia.
Trovai Roberto in villa, per la vendemmia. Quel ch'io provassi nel rivedere la mia bella riviera, in cui credevo di non dover più metter piede, sarà facile intendere. Ma la gioja m'era turbata dall'ansia d'arrivare, dall'apprensione d'esser riconosciuto per via da qualche estraneo prima che dai parenti, dall'emozione di punto in punto crescente che mi cagionava il pensiero di ciò che avrebbero essi provato nel rivedermi vivo, d'un tratto, innanzi a loro. Mi s'annebbiava la vista, a pensarci, mi s'oscuravano il cielo e il mare, il sangue mi frizzava per le vene, il cuore mi batteva in tumulto. E mi pareva di non arrivar mai!
Quando, finalmente, il servo venne ad aprire il cancello della graziosa villa, recata in dote a Berto dalla moglie, mi sembrò, attraversando il viale, ch'io tornassi veramente dall'altro mondo.
- Favorisca, - mi disse il servo, cedendomi il passo su l'entrata della villa. - Chi debbo annunziare?
Non mi trovai più in gola la voce per rispondergli. Nascondendo lo sforzo con un sorriso, balbettai:
- Di'... dite... ditegli che... sì, c'è... c'è... un suo amico... intimo, che... che viene da lontano... Così...
Per lo meno quel servo dovette credermi balbuziente. Depose la mia valigia accanto all'attaccapanni e m'invitò a entrare nel salotto lì presso.
Fremevo nell'attesa, ridevo, sbuffavo, mi guardavo attorno, in quel salottino chiaro, ben messo, arredato di mobili nuovi di lacca verdina. Vidi a un tratto, su la soglia dell'uscio per cui ero entrato un bel bimbetto, di circa quattr'anni, con un piccolo annaffiatojo in una mano e un rastrellino nell'altra. Mi guardava con tanto d'occhi.
Provai una tenerezza indicibile: doveva essere un mio nipotino, il figlio maggiore di Berto; mi chinai, gli accennai con la mano di farsi avanti; ma gli feci paura; scappò via.
Sentii in quel punto schiudere l'altro uscio del salotto. Mi rizzai, gli occhi mi s'intorbidarono dalla commozione, una specie di riso convulso mi gorgogliò in gola.
Roberto era rimasto innanzi a me, turbato, quasi stordito.
- Con chi...? - fece.
- Berto! - gli gridai, aprendo le braccia. - Non mi riconosci?
Diventò pallidissimo, al suono della mia voce, si passò rapidamente una mano su la fronte e su gli occhi, vacillò, balbettando:
- Com'è... com'è... com'è?
Ma io fui pronto a sorreggerlo, quantunque egli si traesse indietro, quasi per paura.
- Son io! Mattia! non aver paura! Non sono morto... Mi vedi? Toccami! Sono io, Roberto. Non sono mai stato più vivo d'adesso! Sù, sù, sù...
- Mattia! Mattia! Mattia! - prese a dire il povero Berto, non credendo ancora agli occhi suoi. - Ma com'è? Tu? Oh Dio... com'è? Fratello mio! Caro Mattia!
E m'abbracciò forte, forte, forte. Mi misi a piangere come un bambino.
- Com'è? - riprese a domandar Berto che piangeva anche lui. - Com'è? com'è?
- Eccomi qua... Vedi? Son tornato... non dall'altro mondo, no... sono stato sempre in questo mondaccio... Sù... Ora ti dirò...
Tenendomi forte per le braccia, col volto pieno di lagrime, Roberto mi guardava ancora trasecolato:
- Ma come... se là...?
- Non ero io... Ti dirò. M'hanno scambiato... lo ero lontano da Miragno e ho saputo, come l'hai saputo forse tu, da un giornale, il mio suicidio alla Stìa.
- Non eri dunque tu? - esclamò Berto. - E che hai fatto?
- Il morto. Sta' zitto. Ti racconterò tutto. Per ora non posso. Ti dico questo soltanto, che sono andato di qua e di là, credendomi felice, dapprima, sai?: poi, per... per tante vicissitudini, mi sono accorto che avevo sbagliato, che fare il morto non è una bella professione: ed eccomi qua: mi rifaccio vivo .
- Mattia, l'ho sempre detto io, Mattia, matto... Matto! matto! matto! - esclamò Berto. - Ah che gioja m'hai dato! Chi poteva aspettarsela? Mattia vivo... qua! Ma sai che non ci so credere ancora? Lasciati guardare... Mi sembri un altro!
- Vedi che mi sono aggiustato anche l'occhio?
- Ah già, sì... per questo mi pareva... non so... ti guardavo, ti guardavo... Benone! Sù, andiamo di là, da mia moglie... Oh! Ma aspetta... tu...
Si fermò improvvisamente e mi guardò, sconvolto:
- Tu vuoi tornare a Miragno?
- Certamente, stasera.
- Dunque non sai nulla?
Si coprì il volto con le mani e gemette:
- Disgraziato! Che hai fatto... che hai fatto...? Ma non sai che tua moglie...?
- Morta? - esclamai, restando.
- No! Peggio! Ha... ha ripreso marito!
Trasecolai.
- Marito?
- Sì, Pomino! Ho ricevuto la partecipazione. Sarà più d'un anno.
- Pomino? Pomino, marito di... - balbettai; ma subito un riso amaro, come un rigurgito di bile, mi saltò alla gola, e risi, risi fragorosamente.
Roberto mi guardava sbalordito, forse temendo che fossi levato di cervello.
- Ridi?
- Ma si! ma sì! ma sì! - gli gridai, scotendolo per le braccia. - Tanto meglio! Questo è il colmo della mia fortuna!
- Che dici? - scattò Roberto, quasi rabbiosamente. - Fortuna? Ma se tu ora vai lì...
- Subito ci corro, figùrati!
- Ma non sai dunque che ti tocca a riprendertela?
- Io? Come!
- Ma certo! - raffermò Berto, mentre sbalordito lo guardavo io, ora, a mia volta. - Il secondo matrimonio s'annulla, e tu sei obbligato a riprendertela.
Sentii sconvolgermi tutto.
- Come! Che legge è questa? - gridai. - Mia moglie si rimarita, ed io.. Ma che? Sta' zitto! Non è possibile!
- E io ti dico invece che è proprio così! - sostenne Berto. - Aspetta: c'è di là mio cognato. Te lo spiegherà meglio lui, che è dottore in legge. Vieni... o meglio, no: attendi un po' qua: mia moglie è incinta; non vorrei che, per quanto ti conosca poco, le potesse far male un'impressione troppo forte... Vado a prevenirla... Attendi, eh?
E mi tenne la mano fin sulla soglia dell'uscio, come se temesse ancora, che - lasciandomi per un momento - io potessi sparir di nuovo.
Rimasto solo, mi misi a fare in quel salottino le volte del leone. « Rimaritata! con Pomino! Ma sicuro... Anche la stessa moglie. Lui - eh già! - la aveva amata prima. Non gli sarà parso vero! E anche lei... figuriamoci! Ricca, moglie di Pomino... E mentre lei qua s'era rimaritata, io là a Roma... E ora devo riprendermela! Ma possibile? »
Poco dopo, Roberto venne a chiamarmi tutto esultante. Ero ormai però tanto scombussolato da questa notizia inattesa, che non potei rispondere alla festa che mi fecero mia cognata e la madre e il fratello di lei. Berto se n'accorse, e interpellò subito il cognato su ciò che mi premeva soprattutto di sapere.
- Ma che legge è questa? - proruppi ancora una volta. - Scusi! Questa è legge turca!
Il giovane avvocato sorrise, rassettandosi le lenti sul naso, con aria di superiorità.
- Ma pure è così, - mi rispose. - Roberto ha ragione. Non rammento con precisione l'articolo, ma il caso è previsto dal codice: il secondo matrimonio diventa nullo, alla ricomparsa del primo coniuge.
- E io devo riprendermi, - esclamai irosamente, - una donna che, a saputa di tutti, è stata per un anno intero in funzione di moglie con un altr'uomo, il quale...
- Ma per colpa sua, scusi, caro signor Pascal! - m'interruppe l'avvocatino, sempre sorridente.
- Per colpa mia? Come? - feci io. - Quella buona donna sbaglia, prima di tutto, riconoscendomi nel cadavere d'un disgraziato che s'annega, poi s'affretta a riprender marito, e la colpa è mia? e io devo riprendermela?
- Certo, - replicò quegli, - dal momento che lei, signor Pascal, non volle correggere a tempo, prima cioè del termine prescritto dalla legge per contrarre un secondo matrimonio, lo sbaglio di sua moglie, sbaglio che poté anche - non nego - essere in mala fede. Lei lo accettò, quel falso riconoscimento, e se ne avvalse... Oh, badi: io la lodo di questo: per me ha fatto benissimo. Mi fa specie, anzi, che lei ritorni a ingarbugliarsi nell'intrico di queste nostre stupide leggi sociali. Io, ne' panni suoi, non mi sarei fatto più vivo.
La calma, la saccenteria spavalda di questo giovanottino laureato di fresco m'irritarono.
- Ma perché lei non sa che cosa voglia dire! - gli risposi, scrollando le spalle.
- Come! - riprese lui. - Si può dare maggior fortuna, maggior felicità di questa?
- Sì, la provi! la provi! - esclamai, voltandomi verso Berto, per piantarlo lì, con la sua presunzione.
Ma anche da questo lato trovai spine.
- Oh, a proposito, - mi domandò mio fratello, - e come hai fatto, in tutto questo tempo, per...?
E stropicciò il pollice e l'indice, per significare quattrini.
- Come ho fatto? - gli risposi. - Storia lunga! Non sono adesso in condizione di narrartela. Ma ne ho avuti, sai? quattrini, e ne ho ancora: non credere dunque ch'io ritorni ora a Miragno perché ne sia a corto!
- Ah, ti ostini a tornarci? - insistette Berto, - anche dopo queste notizie?
- Ma si sa che ci torno! - esclamai. - Ti pare che dopo quello che ho sperimentato e sofferto, voglia fare ancora il morto? No, caro mio: là, là; voglio le mie carte in regola, voglio risentirmi vivo, ben vivo, e anche a costo di riprendermi la moglie. Di, un po', è ancora viva la madre... la vedova Pescatore ?
- Oh, non so, - mi rispose Berto. - Comprenderai che, dopo il secondo matrimonio... Ma credo di sì, che sia viva...
- Mi sento meglio! - esclamai. - Ma non importa! Mi vendicherò! Non son più quello di prima, sai? Soltanto mi dispiace che sarà una fortuna per quell'imbecille di Pomino!
Risero tutti. Il servo venne intanto ad annunziare ch'era in tavola. Dovetti fermarmi a desinare; ma fremevo di tanta impazienza, che non m'accorsi nemmeno di mangiare; sentii però infine che avevo divorato. La fiera, in me, s'era rifocillata, per prepararsi all'imminente assalto.
Berto mi propose di trattenermi almeno per quella sera in villa: la mattina seguente saremmo andati insieme a Miragno. Voleva godersi la scena del mio ritorno impreveduto alla vita, quel mio piombar come un nibbio là sul nido di Pomino. Ma io non tenevo più alle mosse, e non volli saperne: lo pregai di lasciarmi andar solo, e quella sera stessa, senz'altro indugio.
Partii col treno delle otto: fra mezz'ora, a Miragno.
XVIII - Il fu Mattia Pascal (torna all'indice)
Tra l'ansia e la rabbia (non sapevo che mi agitasse di più, ma eran forse una cosa sola: ansiosa rabbia, rabbiosa ansia) non mi curai più se altri mi riconoscesse prima di scendere o appena sceso a Miragno.
M'ero cacciato in un vagone di prima classe, per unica precauzione. Era sera; e del resto, l'esperimento fatto su Berto mi rassicurava: radicata com'era in tutti la certezza della mia trista morte, ormai di due anni lontana, nessuno avrebbe più potuto pensare ch'io fossi Mattia Pascal.
Mi provai a sporgere il capo dal finestrino, sperando che la vista dei noti luoghi mi destasse qualche altra emozione meno violenta; ma non valse che a farmi crescer l'ansia e la rabbia. Sotto la luna, intravidi da lontano il clivio della Stìa.
- Assassine! - fischiai tra i denti. - Là... Ma ora...
Quante cose, sbalordito dall'inattesa notizia, mi ero dimenticato di domandare a Roberto! Il podere, il molino erano stati davvero venduti? o eran tuttora, per comune accordo dei creditori, sotto un'amministrazione provvisoria? E Malagna era morto? E zia Scolastica?
Non mi pareva che fossero passati soltanto due anni e mesi; un'eternità mi pareva, e che - come erano accaduti a me casi straordinarii - dovessero parimenti esserne accaduti a Miragno. Eppure niente, forse, vi era accaduto, oltre quel matrimonio di Romilda con Pomino, normalissimo in sé, e che solo adesso, per la mia ricomparsa, sarebbe diventato straordinario.
Dove mi sarei diretto, appena sceso a Miragno. Dove s'era composto il nido la nuova coppia?
Troppo umile per Pomino, ricco e figlio unico la casa in cui io, poveretto, avevo abitato. E poi Pomino, tenero di cuore, ci si sarebbe trovato certo a disagio, lì, con l'inevitabile ricordo di me. Forse s'era accasato col padre, nel Palazzo. Figurarsi la vedova Pescatore, che arie da matrona, adesso! e quel povero cavalier Pomino, Gerolamo I, delicato, gentile, mansueto, tra le grinfie della megera! Che scene! Né il padre, certo, né il figlio avevano avuto il coraggio di levarsela dai piedi. E ora, ecco - ah che rabbia! - li avrei liberati io...
Sì, là, a casa Pomino, dovevo indirizzarmi: che se anche non ce li avessi trovati, avrei potuto sapere dalla portinaja dove andarli a scovare.
Oh paesello mio addormentato, che scompiglio dimani, alla notizia della mia resurrezione!
C'era la luna, quella sera, e però tutti i lampioncini erano spenti, al solito, per le vie quasi deserte, essendo l'ora della cena pei più.
Avevo quasi perduto, per la estrema eccitazione nervosa, la sensibilità delle gambe: andavo, come se non toccassi terra coi piedi. Non saprei ridire in che animo fossi: ho soltanto l'impressione come d'una enorme, omerica risata che, nell'orgasmo violento, mi sconvolgeva tutte le viscere, senza poter scoppiare: se fosse scoppiata, avrebbe fatto balzar fuori, come denti, i selci della via, e vacillar le case.
Giunsi in un attimo a casa Pomino; ma in quella specie di bacheca che è nell'androne non trovai la vecchia portinaja; fremendo, attendevo da qualche minuto, quando su un battente del portone scorsi una fascia di lutto stinta e polverosa, inchiodata lì, evidentemente, da parecchi mesi. Chi era morto? La vedova Pescatore? Il cavalier Pomino? Uno dei due, certamente. Porse il cavaliere... In questo caso, i miei due colombi, li avrei trovati sù, senz'altro, insediati nel Palazzo. Non potei aspettar più oltre: mi lanciai a balzi sù per la scala. Alla seconda branca, ecco la portinaja.
- Il cavalier Pomino?
Dallo stupore con cui quella vecchia tartaruga mi guardò, compresi che proprio il povero cavaliere doveva esser morto.
- Il figlio! il figlio! - mi corressi subito, riprendendo a salire.
Non so che cosa borbottasse tra sé la vecchia per le scale. A pie' dell'ultima branca dovetti fermarmi: non tiravo più fiato! guardai la porta; pensai: « Forse cenano ancora, tutti e tre a tavola... senz'alcun sospetto. Fra pochi istanti, appena avrò bussato a quella porta, la loro vita sarà sconvolta... Ecco, è in mia mano ancora la sorte che pende loro sul capo ». Salii gli ultimi scalini. Col cordoncino del campanello in mano, mentre il cuore mi balzava in gola, tesi l'orecchio. Nessun rumore. E in quel silenzio ascoltai il tin-tin lento del campanello, tirato appena, pian piano.
Tutto il sangue m'affluì alla testa, e gli orecchi presero a ronzarmi, come se quel lieve tintinno che s'era spento nel silenzio, m'avesse invece squillato dentro furiosamente e intronato.
Poco dopo, riconobbi con un sussulto, di là dalla porta, la voce della vedova Pescatore:
- Chi è?
Non potei, lì per li, rispondere: mi strinsi le pugna al petto, come per impedir che il cuore mi balzasse fuori. Poi, con voce cupa, quasi sillabando, dissi:
- Mattia Pascal.
- Chi?! - strillò la voce di dentro.
- Mattia Pascal, - ripetei, incavernando ancor più la voce.
Sentii scappare la vecchia strega, certo atterrita, e subito immaginai che cosa in quel momento accadeva di là. Sarebbe venuto l'uomo, adesso: Pomino: il coraggioso!
Ma prima bisognò ch'io risonassi, come dianzi, pian piano.
Appena Pomino, spalancata di furia la porta, mi vide - erto - col petto in fuori - innanzi a sé - retrocesse esterrefatto. M'avanzai, gridando:
- Mattia Pascal! Dall'altro mondo.
Pomino cadde a sedere per terra, con un gran tonfo, sulle natiche, le braccia puntate indietro, gli occhi sbarrati:
- Mattia! Tu?!
La vedova Pescatore, accorsa col lume in mano, cacciò uno strillo acutissimo, da partoriente. Io richiusi la porta con una pedata, e d'un balzo le tolsi il lume, che già le cadeva di mano.
- Zitta! - le gridai sul muso. - Mi prendete per un fantasima davvero?
- Vivo?! - fece lei, allibita, con le mani tra i capelli.
- Vivo! vivo! vivo! - seguitai io, con gioja feroce. - Mi riconosceste morto, è vero? affogato là?
- E di dove vieni? - mi chiese con terrore.
- Dal molino, strega! - le urlai. - Tieni qua il lume, guardami bene! Sono io? mi riconosci? o ti sembro ancora quel disgraziato che s'affogò alla Stia?
- Non eri tu?
- Crepa, megera! Io sono qua, vivo! Sù, alzati tu, bel tomo! Dov'è Romilda?
- Per carità... gemette Pomino, levandosi in fretta. - La piccina... ho paura... il latte...
Lo afferrai per un braccio, restando io, ora, a mia volta:
- Che piccina?
- Mia... mia figlia... balbettò Pomino.
- Ah che assassinio! - gridò la Pescatore.
Non potei rispondere ancora sotto l'impressione di questa nuova notizia.
- Tua figlia?... - mormorai. - Una figlia, per giunta?... E questa, ora...
- Mamma, da Romilda, per carità... - scongiurò Pomino.
Ma troppo tardi. Romilda, col busto slacciato, la poppante al seno, tutta in disordine, come se - alle grida - si fosse levata di letto in fretta e in furia, si fece innanzi, m'intravide:
- Mattia! - e cadde tra le braccia di Pomino e della madre, che la trascinarono via, lasciando, nello scompiglio, la piccina in braccio a me accorso con loro.
Restai al bujo, là, nella sala d'ingresso, con quella gracile bimbetta in braccio, che vagiva con la vocina agra di latte. Costernato, sconvolto, sentivo ancora negli orecchi il grido della donna ch'era stata mia, e che ora, ecco, era madre di questa bimba non mia, non mia! mentre la mia, ah, non la aveva amata, lei, allora! E dunque, no, io ora, no, perdio! non dovevo aver pietà di questa, né di loro. S'era rimaritata? E io ora... Ma seguitava a vagire quella piccina, a vagire; e allora... che fare? per quietarla, me l'adagiai sul petto e cominciai a batterle pian pianino una mano su le spallucce e a dondolarla passeggiando. L'odio mi sbollì, l'impeto cedette. E a poco a poco la bimba si tacque.
Pomino chiamò nel bujo con sgomento:
- Mattia!... La piccina!...
- Sta' zitto! L'ho qua, - gli risposi.
- E che fai ?
- Me la mangio... Che faccio!... L'avete buttata in braccio a me... Ora lasciamela stare! S'è quietata. Dov'è Romilda?
Accostandomisi, tutto tremante e sospeso, come una cagna che veda in mano al padrone la sua cucciola:
- Romilda? Perché? - mi domandò.
- Perché voglio parlarle! - gli risposi ruvidamente.
- E svenuta, sai?
- Svenuta? La faremo rinvenire.
Pomino mi si parò davanti, supplichevole:
- Per carità... senti... ho paura... come mai, tu... vivo!... Dove sei stato?... Ah, Dio... Senti... Non potresti parlare con me?
- No! - gli gridai. - Con lei devo parlare. Tu, qua, non rappresenti più nulla.
- Come! io?
- Il tuo matrimonio s'annulla.
- Come... che dici? E la piccina?
- La piccina... la piccina... - masticai. - Svergognati! In due anni, marito e moglie, e una figliuola! Zitta, carina, zitta! Andiamo dalla mamma... Sù, conducimi! Di dove si prende?
Appena entrai nella camera da letto con la bimba in braccio, la vedova Pescatore fece per saltarmi addosso, come una jena.
La respinsi con una furiosa bracciata:
- Andate là, voi! Qua c'è vostro genero: se avete da strillare, strillate con lui. Io non vi conosco!
Mi chinai verso Romilda, che piangeva disperatamente, e le porsi la figliuola:
- Sù, tieni... Piangi? Che piangi? Piangi perché son vivo? Mi volevi morto? Guardami... sù, guardami in faccia! Vivo o morto?
Ella si provò, tra le lagrime, ad alzar gli occhi su me, e con voce rotta dai singhiozzi, balbettò:
- Ma... come... tu? che... che hai fatto?
Io, che ho fatto? - sogghignai. - Lo domandi a me, che ho fatto? Tu hai ripreso marito... quello sciocco là!... tu hai messo al mondo una figliuola, e hai il coraggio di domandare a me che ho fatto?
E ora? - gemette Pomino, coprendosi il volto con le mani.
- Ma tu, tu... dove sei stato? Se ti sei finto morto e te ne sei scappato... - prese a strillar la Pescatore, facendosi avanti con le braccia levate.
Glien'afferrai uno, glielo storsi e le urlai:
- Zitta, vi ripeto! Statevene zitta, voi, perché, se vi sento fiatare, perdo la pietà che m'ispira codesto imbecille di vostro genero e quella creaturina là, e faccio valer la legge! Sapete che dice la legge? Ch'io ora devo riprendermi Romilda...
- Mia figlia? tu? Tu sei pazzo! - inveì, imperterrita, colei.
Ma Pomino, sotto la mia minaccia, le si accostò subito a scongiurarla di tacere, di calmarsi, per amor di Dio.
La megera allora lasciò me, e prese a inveire contro di lui, melenso, sciocco, buono a nulla e che non sapeva far altro che piangere e disperarsi come una femminuccia...
Scoppiai a ridere, fino ad averne male ai fianchi.
- Finitela! - gridai, quando potei frenarmi. - Gliela lascio! la lascio a lui volentieri! Mi credete sul serio così pazzo da ridiventar vostro genero? Ah, povero Pomino! Povero amico mio, scusami, sai? se t'ho detto imbecille; ma hai sentito? te l'ha detto anche lei, tua suocera, e ti posso giurare: che, anche prima, me l'aveva detto Romilda, nostra moglie... sì, proprio lei, che le parevi imbecille, stupido, insipido... e non so che altro. E vero, Romilda? di' la verità... Sù, sù, smetti di piangere, cara: rassèttati: guarda, puoi far male alla tua piccina, così... Io ora sono vivo - vedi? - e voglio stare allegro... Allegro! come diceva un certo ubriaco amico mio... Allegro, Pomino! Ti pare che voglia lasciare una figliuola senza mamma? Ohibò! Ho già un figliuolo senza babbo... Vedi, Romilda? Abbiamo fatto pari e patta: io ho un figlio, che è figlio di Malagna, e tu ormai hai una figlia, che è figlia di Pomino. Se Dio vuole, li mariteremo insieme, un giorno! Ormai quel figliuolo là non ti deve far più dispetto... Parliamo di cose allegre... Ditemi come tu e tua madre avete fatto a riconoscermi morto, là, alla Stìa...
- Ma anch'io! - esclamò Pomino, esasperato. Ma tutto il paese! Non esse sole!
- Bravi! bravi! Tanto dunque mi somigliava?
- La tua stessa statura... la tua barba... vestito come te, di nero... e poi, scomparso da tanti giorni...
- E già, me n'ero scappato, hai sentito? Come se non m'avessero fatto scappar loro... Costei, costei... Eppure stavo per ritornare, sai? Ma sì, carico d'oro! Quando... che è, che non è, morto, affogato, putrefatto. .. e riconosciuto, per giunta! Grazie a Dio. mi sono scialato, due anni; mentre voi, qua: fidanzamento, nozze, luna di miele, feste, gioje, la figliuola... chi muore giace, eh? e chi vive si dà pace...
- E ora? come si fa ora? - ripeté Pomino, gemendo, tra le spine. - Questo dico io!
Romilda s'alzò per adagiar la bimba nella cuna.
- Andiamo, andiamo di là, - diss'io. - La piccina s'è riaddormentata. Discuteremo di là.
Ci recammo nella sala da pranzo, dove, sulla tavola ancora apparecchiata, erano i resti della cena. Tutto tremante, stralunato, scontraffatto nel pallore cadaverico, battendo di continuo le palpebre su gli occhietti diventati scialbi, forati in mezzo da due punti neri, acuti di spasimo, Pomino si grattava la fronte e diceva, quasi vaneggiando:
- Vivo... vivo... Come si fa? come si fa?
- Non mi seccare! - gli gridai. - Adesso vedremo, ti dico.
Romilda, indossata la veste da camera, venne a raggiungerci. Io rimasi a guardarla alla luce, ammirato: era ridivenuta bella come un tempo, anzi più formosa.
- Fammiti vedere... - le dissi. - Permetti, Pomino? Non c'è niente di male: sono marito anch'io, anzi prima e più di te. Non ti vergognare, via, Romilda! Guarda, guarda come si torce Mino! Ma che ti posso fare se non son morto davvero?
- Così non è possibile! - sbuffò Pomino, livido.
- S'inquieta! - feci, ammiccando, a Romilda. - No, via, calmati, Mino... Ti ho detto che te la lascio, e mantengo la parola. Solo, aspetta... con permesso!
Mi accostai a Romilda e le scoccai un bel bacione su la guancia.
- Mattia! - gridò Pomino, fremente.
Scoppiai a ridere di nuovo.
- Geloso? di me? Va' là! Ho il diritto della precedenza. Del resto, sù, Romilda, cancella, cancella... Guarda, venendo, supponevo (scusami, sai, Romilda), supponevo, caro Mino, che t'avrei fatto un gran piacere, a liberartene, e ti confesso che questo pensiero m'affliggeva moltissimo, perché volevo vendicarmi, e vorrei ancora, non credere, togliendoti adesso Romilda, adesso che vedo che le vuoi bene e che lei... sì, mi pare un sogno, mi pare quella di tant'anni fa... ricordi, eh, Romilda?... Non piangere! ti rimetti a piangere? Ah, bei tempi... si, non tornano più!... Via, via: voi ora avete una figliuola, e dunque non se ne parli più! Vi lascio in pace, che diamine!
- Ma il matrimonio s'annulla? - gridò Pomino.
- E tu lascialo annullare! - gli dissi. - Si annullerà pro forma, se mai: non farò valere i miei diritti e non mi farò neppure riconoscer vivo ufficialmente, se proprio non mi costringono. Mi basta che tutti mi rivedano e mi risappiano vivo di fatto, per uscir da questa morte, che è morte vera, credetelo! Già lo vedi: Romilda, qua, ha potuto divenir tua moglie... il resto non m'importa! Tu hai contratto pubblicamente il matrimonio; è noto a tutti che lei è, da un anno, tua moglie, e tale rimarrà. Chi vuoi che si curi più del valor legale del suo primo matrimonio? Acqua passata... Romilda fu mia moglie: ora, da un anno, è tua, madre d'una tua bambina. Dopo un mese non se ne parlerà più. Dico bene, doppia suocera?
La Pescatore, cupa, aggrondata, approvò col capo. Ma Pomino, nel crescente orgasmo, domandò:
- E tu rimarrai qua, a Miragno?
- Sì, e verrò qualche sera a prendermi in casa tua una tazza di caffè o a bere un bicchier di vino alla vostra salute.
- Questo, no! - scattò la Pescatore, balzando in piedi.
- Ma se scherza!... - osservò Romilda, con gli occhi bassi.
Io m'ero messo a ridere come dianzi.
- Vedi, Romilda? - le dissi. - Hanno paura che riprendiamo a fare all'amore... Sarebbe pur carina! No, no: non tormentiamo Pomino... Vuol dire che se lui non mi vuole più in casa, mi metterò a passeggiare giù per la strada, sotto le tue finestre. Va bene? E ti farò tante belle serenate.
Pomino, pallido, vibrante, passeggiava per la stanza, brontolando:
- Non è possibile... non è possibile...
A un certo punto s'arrestò e disse:
- Sta di fatto che lei... con te, qua, vivo, non sarà più mia moglie...
- E tu fa' conto che io sia morto! - gli risposi tranquillamente.
Riprese a passeggiare:
- Questo conto non posso più farlo!
- E tu non lo fare. Ma, via, credi davvero - soggiunsi, - che vorrò darti fastidio, se Romilda non vuole? deve dirlo lei... Sù, di', Romilda, chi è più bello? io o lui?
- Ma io dico di fronte alla legge! di fronte alla legge! - gridò egli, arrestandosi di nuovo.
Romilda lo guardava, angustiata e sospesa.
- In questo caso, - gli feci osservare, - mi sembra che più di tutti, scusa, dovrei risentirmi io, che vedrò d'ora innanzi la mia bella quondam metà convivere maritalmente con te.
- Ma anche lei, - rimbeccò Pomino, - non essendo più mia moglie...
- Oh, insomma, - sbuffai, - volevo vendicarmi e non mi vendico; ti lascio la moglie, ti lascio in pace, e non ti contenti? Sù, Romilda, alzati! andiamocene via, noi due! Ti propongo un bel viaggetto di nozze... Ci divertiremo! Lascia questo pedante seccatore. Pretende ch'io vada a buttarmi davvero nella gora del molino, alla Stìa.
- Non pretendo questo! - proruppe Pomino al colmo dell'esasperazione. - Ma vattene, almeno! Vattene via, poiché ti piacque di farti creder morto! Vattene subito, lontano, senza farti vedere da nessuno. Perché io qua... con te... vivo...
Mi alzai; gli battei una mano su la spalla per calmarlo e gli risposi, prima di tutto, ch'ero già stato a Oneglia, da mio fratello, e che perciò tutti, là, a quest'ora, mi sapevano vivo, e che domani, inevitabilmente, la notizia sarebbe arrivata a Miragno; poi:
- Morto di nuovo? Lontano da Miragno? Tu scherzi, mio caro! - esclamai. - Va' là: fa' il marito in pace, senza soggezione... Il tuo matrimonio, comunque sia, s'è celebrato. Tutti approveranno, considerando che c'è di mezzo una creaturina. Ti prometto e giuro che non verrò mai a importunarti, neanche per una miserrima tazza di caffè, neanche per godere del dolce, esilarante spettacolo del vostro amore, della vostra concordia, della vostra felicità edificata su la mia morte... Ingrati! Scommetto che nessuno, neanche tu, sviscerato amico, nessuno di voi è andato ad appendere una corona, a lasciare un fiore su la tomba mia, là nel camposanto... Di', è vero? Rispondi! - Ti va di scherzare!... - fece Pomino, scrollandosi.
- Scherzare? Ma nient'affatto! Là c'è davvero il cadavere di un uomo, e non si scherza! Ci sei stato?
- No... non... non ne ho avuto il coraggio borbottò Pomino.
- Ma di prendermi la moglie, sì, birbaccione!
- E tu a me? - diss'egli allora, pronto. - Tu a me non l'avevi tolta, prima, da vivo?
- Io? - esclamai. - E dàlli! Ma se non ti volle lei! Lo vuoi dunque ripetuto che le sembravi proprio uno sciocco? Diglielo tu, Romilda, per favore: vedi, m'accusa di tradimento... Ora, che c'entra! è tuo marito, e non se ne parla più; ma io non ci ho colpa... Sù, sù. Ci andrò io domani da quel povero morto, abbandonato là, senza un fiore, senza una lacrima... Di', c'è almeno una lapide su la fossa?
- Si, - s'affrettò a rispondermi Pomino. - A spese del Municipio... Il povero babbo...
- Mi lesse l'elogio funebre, lo so! Se quel pover'uomo sentiva... Che c'è scritto su la lapide?
- Non so... La dettò Lodoletta.
- Figuriamoci! - sospirai. - Basta. Lasciamo anche questo discorso. Raccontami, raccontami piuttosto come vi siete sposati così presto... Ah, come poco mi piangesti, vedovella mia... Forse niente, eh? di' sù, possibile ch'io non debba sentir la tua voce? Guarda: è già notte avanzata... appena spunterà il giorno, io andrò via, e sarà come non ci avessimo mai conosciuto... Approfittiamoci di queste poche ore. Sù, dimmi...
Romilda si strinse nelle spalle, guardò Pomino, sorrise nervosamente: poi, riabbassando gli occhi e guardandosi le mani:
- Che posso dire? Certo che piansi...
- E non te lo meritavi! - brontolò la Pescatore.
- Grazie! Ma infine, via... fu poco, è vero? - ripresi. - Codesti begli occhi, che pur s'ingannarono così facilmente, non ebbero a sciuparsi molto, di certo.
- Rimanemmo assai male, - disse, a mo' di scusa, Romilda. - E se non fosse stato per lui...
- Bravo Pomino! - esclamai. - Ma quella canaglia di Malagna, niente?
- Niente, - rispose, dura, asciutta, la Pescatore. - Tutto fece lui...
E additò Pomino.
- Cioè... cioè... - corresse questi, - il povero babbo... Sai ch'era al Municipio? Bene, fece prima accordare una pensioncina, data la sciagura... e poi...
- Poi accondiscese alle nozze?
- Felicissimo! E ci volle qua, tutti, con sé... Mah! Da due mesi...
E prese a narrarmi la malattia e la morte del padre; l'amore di lui per Romilda e per la nipotina; il compianto che la sua morte aveva raccolto in tutto il paese. Io domandai allora notizie della zia Scolastica, tanto amica del cavalier Pomino. La vedova Pescatore, che si ricordava ancora del batuffolo di pasta appiastratole in faccia dalla terribile vecchia, si agitò sulla sedia. Pomino mi rispose che non la vedeva più da due anni, ma che era viva; poi, a sua volta, mi domandò che avevo fatto io, dov'ero stato, ecc. Dissi quel tanto che potevo senza far nomi né di luoghi né di persone, per dimostrare che non m'ero affatto spassato in quei due anni. E così, conversando insieme, aspettammo l'alba del giorno in cui doveva pubblicamente affermarsi la mia resurrezione.
Eravamo stanchi della veglia e delle forti emozioni provate; eravamo anche infreddoliti. Per riscaldarci un po', Romilda volle preparare con le sue mani il caffè. Nel porgermi la tazza, mi guardò, con su le labbra un lieve, mesto sorriso, quasi lontano, e disse:
- Tu, al solito, senza zucchero, è vero?
Che lesse in quell'attimo negli occhi miei? Abbassò subito lo sguardo.
In quella livida luce dell'alba, sentii stringermi la gola da un nodo di pianto inatteso, e guardai Pomino odiosamente. Ma il caffè mi fumava sotto il naso, inebriandomi del suo aroma e cominciai a sorbirlo lentamente. Domandai quindi a Pomino il permesso di lasciare a casa sua la valigia, fino a tanto che non avessi trovato un alloggio: avrei poi mandato qualcuno a ritirarla.
- Ma sì! ma sì! - mi rispose egli, premuroso. - Anzi non te ne curare: penserò io a fartela portare...
- Oh, - dissi, - tanto è vuota, sai?... A proposito, Romilda: avresti ancora, per caso, qualcosa di mio... abiti, biancheria?
- No, nulla... - mi rispose, dolente, aprendo le mani. - Capirai... dopo la disgrazia...
- Chi poteva immaginarselo? - esclamò Pomino.
Ma giurerei ch'egli, l'avaro Pomino, aveva al collo un mio antico fazzoletto di seta.
- Basta. Addio, eh! Buona fortuna! - diss'io, salutando, con gli occhi fermi su Romilda, che non volle guardarmi. Ma la mano le tremò, nel ricambiarmi il saluto. - Addio! Addio!
Sceso giù in istrada, mi trovai ancora una volta sperduto, pur qui, nel mio stesso paesello nativo: solo, senza casa, senza mèta.
« E ora? » domandai a me stesso. « Dove vado? »
Mi avviai, guardando la gente che passava. Ma che! Nessuno mi riconosceva? Eppure ero ormai tal quale: tutti, vedendomi, avrebbero potuto almeno pensare: « Ma guarda quel forestiero là, come somiglia al povero Mattia Pascal! Se avesse l'occhio un po' storto, si direbbe proprio lui ». Ma che! Nessuno mi riconosceva, perché nessuno pensava più a me. Non destavo neppure curiosità, la minima sorpresa... E io che m'ero immaginato uno scoppio, uno scompiglio, appena mi fossi mostrato per le vie! Nel disinganno profondo, provai un avvilimento, un dispetto, un'amarezza che non saprei ridire; e il dispetto e l'avvilimento mi trattenevano dallo stuzzicar l'attenzione di coloro che io, dal canto mio, riconoscevo bene: sfido! dopo due anni... Ah, che vuol dir morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito...
Due volte percorsi da un capo all'altro il paese, senza che nessuno mi fermasse. Al colmo dell'irritazione, pensai di ritornar da Pomino, per dichiarargli che i patti non mi convenivano e vendicarmi sopra lui dell'affronto che mi pareva tutto il paese mi facesse non riconoscendomi più. Ma né Romilda con le buone mi avrebbe seguito, né io per il momento avrei saputo dove condurla. Dovevo almeno prima cercarmi una casa. Pensai d'andare al Municipio, all'ufficio dello stato civile, per farmi subito cancellare dal registro dei morti; ma, via facendo, mutai pensiero e mi ridussi invece a questa biblioteca di Santa Maria Liberale, dove trovai al mio posto il reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, il quale non mi riconobbe neanche lui, lì per lì. Don Eligio veramente sostiene che mi riconobbe subito e che soltanto aspettò ch'io pronunziassi il mio nome per buttarmi le braccia al collo, parendogli impossibile che fossi io, e non potendo abbracciar subito uno che gli pareva Mattia Pascal. Sarà pure cosi! Le prime feste me le ebbi da lui, calorosissime; poi egli volle per forza ricondurmi seco in paese per cancellarmi dall'animo la cattiva impressione che la dimenticanza dei miei concittadini mi aveva fatto.
Ma io ora, per ripicco, non voglio descrivere quel che seguì alla farmacia del Brìsigo prima, poi al Caffè dell'Unione, quando don Eligio, ancor tutto esultante, mi presentò redivivo. Si sparse in un baleno la notizia, e tutti accorsero a vedermi e a tempestarmi di domande. Volevano sapere da me chi fosse allora colui che s'era annegato alla Stìa, come se non mi avessero riconosciuto loro: tutti, a uno a uno. E dunque ero io, proprio io: donde tornavo? dall'altro mondo! che avevo fatto? il morto! Presi il partito di non rimuovermi da queste due risposte e lasciar tutti stizziti nell'orgasmo della curiosità, che durò parecchi e parecchi giorni. Né più fortunato degli altri fu l'amico Lodoletta che venne a « intervistarmi » per il Foglietto. Invano, per commuovermi, per tirarmi a parlare mi portò una copia del suo giornale di due anni avanti, con la mia necrologia. Gli dissi che la sapevo a memoria, perché all'Inferno il Foglietto era molto diffuso.
- Eh, altro! Grazie caro! Anche della lapide... Andrò a vederla, sai?
Rinunzio a trascrivere il suo nuovo pezzo forte della domenica seguente che recava a grosse lettere il titolo: MATTIA PASCAL E' VIVO!
Tra i pochi che non vollero farsi vedere, oltre ai miei creditori, fu Batta Malagna, che pure - mi dissero - aveva due anni avanti mostrato una gran pena per il mio barbaro suicidio. Ci credo. Tanta pena allora, sapendomi sparito per sempre, quanto dispiacere adesso, sapendomi ritornato alla vita. Vedo il perché di quella e di questo.
E Oliva? L'ho incontrata per via, qualche domenica, all'uscita della messa, col suo bambino di cinque anni per mano, florido e bello come lei: - mio figlio! Ella mi ha guardato con occhi affettuosi e ridenti, che m'han detto in un baleno tante cose...
Basta. Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica, che mi ha voluto offrir ricetto in casa sua. La mia bislacca avventura m'ha rialzato d'un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in cui morì la povera mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri polverosi.
Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l'avesse saputo sotto il sigillo della confessione.
Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.
- Intanto, questo, - egli mi dice: - che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch'io mi sia.
Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s'uccise alla Stìa, c'è ancora la lapide dettata da Lodoletta:
COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CUOR GENEROSO ANIMA APERTA
QUI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETA' DEI CONCITTADINI
QUESTA LAPIDE POSE
Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s'accompagna con me, sorride, e - considerando la mia condizione - mi domanda:
- Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
- Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal.
AVVERTENZA SUGLI SCRUPOLI DELLA FANTASIA
Il signor Alberto Heintz, di Buffalo negli Stati Uniti, al bivio tra l'amore della moglie e quello d'una signorina ventenne, pensa bene di invitar l'una e l'altra a un convegno per prendere insieme con lui una decisione.
Le due donne e il signor Heintz si trovano puntuali al luogo convenuto; discutono a lungo, e alla fine si mettono d'accordo.
Decidono di darsi la morte tutti e tre.
La signora Heintz ritorna a casa; si tira una revolverata e muore. Il signor Heintz, allora, e la sua innamorata signorina ventenne, visto che con la morte della signora Heintz ogni ostacolo alla loro felice unione è rimosso, riconoscono di non aver più ragione d'uccidersi e risolvono di rimanere in vita e di sposarsi. Diversamente però risolve l'autorità giudiziaria, e li trae in arresto.
Conclusione volgarissima.
(Vedere i giornali di New York del 25 gennajo 1921, edizione del mattino.)
Poniamo che un disgraziato scrittor di commedie abbia la cattiva ispirazione di portare sulla scena un caso simile.
Si può esser sicuri che la sua fantasia si farà scrupolo prima di tutto di sanare con eroici rimedii l'assurdità di quel suicidio della signora Heintz, per renderlo in qualche modo verosimile.
Ma si può essere ugualmente sicuri, che, pur con tutti i rimedii eroici escogitati dallo scrittor di commedie, novantanove critici drammatici su cento giudicheranno assurdo quel suicidio e inverosimile la commedia.
Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l'inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l'arte crede suo dovere obbedire.
Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All'opposto di quelle dell'arte che, per parer vere, hanno bisogno d'esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.
Un caso della vita può essere assurdo; un'opera d'arte, se è opera d'arte, no.
Ne segue che tacciare d'assurdità e d'inverosimiglianza, in nome della vita, un'opera d'arte è balordaggine.
In nome dell'arte, sì; in nome della vita, no.
C'è nella storia naturale un regno studiato dalla zoologia, perché popolato dagli animali.
Tra i tanti animali che lo popolano è compreso anche l'uomo.
E lo zoologo sì, può parlare dell'uomo e dire, per esempio, che non è un quadrupede ma un bipede, e che non ha la coda, vuoi come la scimmia, vuoi come l'asino, vuoi come il pavone.
All'uomo di cui parla lo zoologo non può mai capitar la disgrazia di perdere, poniamo, una gamba e di farsela mettere di legno; di perdere un occhio e di farselo mettere di vetro. L'uomo dello zoologo ha sempre due gambe, di cui nessuna di legno; sempre due occhi, di cui nessuno di vetro.
E contraddire allo zoologo è impossibile. Perché lo zoologo, se gli presentate un tale con una gamba di legno o con un occhio di vetro, vi risponde che egli non lo conosce, perché quello non è l'uomo, ma un uomo.
E' vero però che noi tutti, a nostra volta, possiamo rispondere allo zoologo che l'uomo ch'egli conosce non esiste, e che invece esistono gli uomini, di cui nessuno è uguale all'altro e che possono anche avere per disgrazia una gamba di legno o un occhio di vetro.
Si domanda a questo punto se vogliono esser considerati come zoologi o come critici letterarii quei tali signori che, giudicando un romanzo o una novella o una commedia, condannano questo o quel personaggio, questa o quella rappresentazione di fatti o di sentimenti, non già in nome dell'arte come sarebbe giusto, ma in nome d'una umanità che sembra essi conoscano a perfezione, come se realmente in astratto esistesse, fuori cioè di quell'infinita varietà d'uomini capaci di commettere tutte quelle sullodate assurdità che non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere.
Intanto, per l'esperienza che dal canto mio ho potuto fare d'una tal critica, il bello è questo: che mentre lo zoologo riconosce che l'uomo si distingue dalle altre bestie anche per il fatto che l'uomo ragiona e che le bestie non ragionano; il ragionamento appunto (vale a dire ciò che è più proprio dell'uomo) è apparso tante volte ai signori critici, non come un eccesso se mai, ma anzi come un difetto d'umanità in tanti miei non allegri personaggi. Perché pare che umanità, per loro, sia qualche cosa che più consista nel sentimento che nel ragionamento.
Ma volendo parlare così astrattamente come codesti critici fanno, non è forse vero che mai l'uomo tanto appassionatamente ragiona (o sragiona, che è lo stesso), come quando soffre, perché appunto delle sue sofferenze vuol veder la radice, e chi gliele ha date, e se e quanto sia stato giusto il dargliele; mentre, quando gode, si piglia il godimento e non ragiona, come se il godere fosse suo diritto?
Dovere delle bestie è il soffrire senza ragionare. Chi soffre e ragiona (appunto perché soffre), per quei signori critici non è umano; perché pare che, chi soffra, debba esser soltanto bestia, e che soltanto quando sia bestia, sia per essi umano.
Ma di recente ho pur trovato un critico, a cui son molto grato.
A proposito della mia disumana e, pare, inguaribile « cerebralità » e paradossale inverosimiglianza delle mie favole e dei miei personaggi, egli ha domandato a quegli altri critici donde attingevano il criterio per giudicare siffattamente il mondo della mia arte.
« Dalla cosiddetta vita normale? » ha domandato. « Ma cos'è questa se non un sistema di rapporti, che noi scegliamo nel caos degli eventi quotidiani e che arbitrariamente qualifichiamo normale? » Per concludere che « non si può giudicare il mondo d'un artista con un criterio di giudizio attinto altrove che da questo mondo medesimo ».
Debbo aggiungere, per dar credito a questo critico presso gli altri critici che non ostante questo, anzi proprio per questo, anch'egli poi giudica sfavorevolmente l'opera mia: perché gli pare, cioè, ch'io non sappia dar valore e senso universalmente umano alle mie favole e ai miei personaggi; tanto da lasciar perplesso chi deve giudicarli, se io non abbia inteso piuttosto limitarmi a riprodurre certi curiosi casi, certe particolarissime situazioni psicologiche.
Ma se il valore e il senso universalmente umano di certe mie favole e di certi miei personaggi, nel contrasto com'egli dice, tra realtà e illusione, tra volto individuale ed immagine sociale di esso, consistesse innanzi tutto nel senso e nel valore da dare a quel primo contrasto, il quale per una beffa costante della vita, ci si scopre sempre inconsistente, in quanto che, necessariamente purtroppo, ogni realtà d'oggi è destinata a scoprircisi illusione domani, ma illusione necessaria, se purtroppo fuori di essa non c'è per noi altra realtà? Se consistesse appunto in questo, che un uomo o una donna, messi da altri o da se stessi in una penosa situazione, socialmente anormale, assurda per quanto si voglia, vi durano, la sopportano, la rappresentano davanti agli altri, finché non la vedono, sia pure per la loro cecità o incredibile buonafede; perché appena la vedono come a uno specchio che sia posto loro davanti, non la sopportano più, ne provan tutto l'orrore e la infrangono o, se non possono infrangerla, se ne senton morire? Se consistesse appunto in questo, che una situazione, socialmente anormale, si accetta, anche vedendola a uno specchio, che in questo caso ci para davanti la nostra stessa illusione; e allora la si rappresenta, soffrendone tutto il martirio, finché la rappresentazione di essa sia possibile dentro la maschera soffocante che da noi stessi ci siamo imposta o che da altri o da una crudele necessità ci sia stata imposta, cioè fintanto che sotto questa maschera un sentimento nostro, troppo vivo, non sia ferito così addentro, che la ribellione alla fine prorompa e quella maschera si stracci e si calpesti?
« Allora, di colpo » dice il critico « un fiotto d'umanità invade questi personaggi, le marionette divengono improvvisamente creature di carne e di sangue, e parole che bruciano l'anima e straziano il cuore escono dalle loro labbra »
E sfido! Hanno scoperto il loro nudo volto individuale sotto quella maschera, che li rendeva marionette di se stessi, o in mano agli altri; che li faceva in prima apparir duri, legnosi, angolosi, senza finitezza e senza delicatezza, complicati e strapiombanti, come ogni cosa combinata e messa sù non liberamente ma per necessità, in una situazione anormale, inverosimile, paradossale, tale insomma che essi alla fine non han potuto più sopportarla e l'hanno rotta.
L'arruffìo, se c'è, dunque è voluto; il macchinismo, se c'è, dunque è voluto; ma non da me: bensì dalla favola stessa, dagli stessi personaggi; e si scopre subito, difatti: spesso è concertato apposta e messo sotto gli occhi nell'atto stesso di concertarlo e di combinarlo: è la maschera per una rappresentazione; il giuoco delle parti; quello che vorremmo o dovremmo essere; quello che agli altri pare che siamo; mentre quel che siamo, non lo sappiamo, fino a un certo punto, neanche noi stessi; la goffa incerta metafora di noi; la costruzione, spesso arzigogolata, che facciamo di noi, o che gli altri fanno di noi: dunque, davvero, un macchinismo, sì, in cui ciascuno volutamente, ripeto, è la marionetta di se stesso; e poi, alla fine, il calcio che manda all'aria tutta la baracca.
Credo che non mi resti che di congratularmi con la mia fantasia se, con tutti i suoi scrupoli, ha fatto apparir come difetti reali, quelli ch'eran voluti da lei: difetti di quella fittizia costruzione che i personaggi stessi han messo su di sé e della loro vita, o che altri ha messo sù per loro: i difetti insomma della maschera finché non si scopre nuda.
Ma una consolazione più grande m'è venuta dalla vita, o dalla cronaca quotidiana, a distanza di circa vent'anni dalla prima pubblicazione di questo mio romanzo Il fu Mattia Pascal, che ancora una volta oggi si ristampa.
Neppure ad esso, quando apparve per la prima volta, mancò, pur tra il consenso quasi unanime, chi lo tacciasse d'inverosimiglianza.
Ebbene, la vita ha voluto darmi la prova della verità di esso in una misura veramente eccezionale, fin nella minuzia di certi caratteristici particolari spontaneamente trovati dalla mia fantasia.
Ecco quanto si leggeva nel Corriere della Sera del 27 marzo 1920:
L'OMAGGIO DI UN VIVO ALLA PROPRIA TOMBA
Un singolare caso di bigamia, dovuto all'affermata ma non sussistente morte di un marito, si è rivelato in questi giorni. Risaliamo brevemente all'antefatto. Nel reparto Calvairate il 26 dicembre 1916 alcuni contadini pescavano dalle acque del canale delle « Cinque chiuse » il cadavere di un uomo rivestito di maglia e pantaloni color marrone. Del rinvenimento fu dato avviso ai carabinieri che iniziarono le investigazioni. Poco dopo il cadavere veniva identificato da tale Maria Tedeschi, ancor piacente donna sulla quarantina, e da certi Luigi Longoni e Luigi Majoli, per quello dell'elettricista Ambrogio Casati di Luigi, nato nel 1869 marito della Tedeschi. In realtà l'annegato assomigliava molto al Casati.
Quella testimonianza, a quanto ora è risultato, sarebbe stata alquanto interessata, specie per il Majoli e per la Tedeschi. Il vero Casati era vivo! Era, però, in carcere ancora dal 21 febbraio dell'anno precedente per un reato contro la proprietà e da tempo viveva diviso, sebbene non legalmente, dalla moglie. Dopo sette mesi di gramaglie, la Tedeschi passava a nuove nozze col Majoli, senza urtare contro nessuno scoglio burocratico. Il Casati finì di scontare la pena l'8 marzo del 1917 e solo in questi giorni egli apprese di essere... morto e che sua moglie si era rimaritata ed era scomparsa. Seppe tutto ciò quando si recò all'Ufficio di anagrafe in piazza Missori, avendo bisogno di un documento. L'impiegato, allo sportello, inesorabilmente gli osservò:
- Ma voi siete morto! Il vostro domicilio legale è al cimitero di Musocco, campo comune 44, fossa n. 550...
Ogni protesta di colui che voleva essere dichiarato vivo fu inutile. Il Casati si propone di far riconoscere i suoi diritti alla... resurrezione, e non appena rettificato, per quanto lo riguarda, lo stato civile, la presunta vedova rimaritata vedrà annullato il secondo matrimonio.
Intanto la stranissima avventura non ha punto afflitto il Casati: anzi si direbbe che l'ha messo di buon umore, e, desideroso di nuove emozioni, ha voluto far una capatina alla... propria tomba e come atto di omaggio alla sua memoria, ha deposto sul tumulo un fragrante mazzo di fiori e vi ha acceso un lumino votivo!
Il presunto suicidio in un canale; il cadavere estratto e riconosciuto dalla moglie e da chi poi sarà secondo marito di lei; il ritorno del finto morto e finanche l'omaggio alla propria tomba! Tutti i dati di fatto, naturalmente senza tutto quell'altro che doveva dare al fatto valore e senso, universalmente umano.
Non posso supporre che il signor Ambrogio Casati elettricista, abbia letto il mio romanzo e recato i fiori alla sua tomba per imitazione del fu Mattia Pascal.
La vita, intanto, col suo beatissimo dispregio d'ogni verosimiglianza, poté trovare un prete e un sindaco che unirono in matrimonio il signor Majoli e la signora Tedeschi senza curarsi di conoscere un dato di fatto, di cui pur forse era facilissimo aver notizia, che cioè il marito signor Casati si trovava in carcere e non sottoterra.
La fantasia si sarebbe fatto scrupolo, certamente, di passar sopra a un tal dato di fatto; e ora gode, ripensando alla taccia di inverosimiglianza che anche allora le fu data, di far conoscere di quali reali inverosimiglianze sia capace la vita anche nei romanzi che, senza saperlo, essa copia dall'arte.