- Quale? - mi domandò ella.

- Di farmi operare da un oculista.

La Caporale batté le mani, tutta contenta.

- Ah! Benissimo! Il dottor Ambrosini! Chiami l'Ambrosini: è il più bravo: fece l'operazione della cateratta alla povera mamma mia. Vedi? vedi, Adriana, che lo specchio ha parlato? Che ti dicevo io?

Adriana sorrise, e sorrisi anch'io.

- Non lo specchio, signorina - dissi però. - S'è fatto sentire il bisogno. Da un po' di tempo a questa parte, l'occhio mi fa male: non mi ha servito mai bene; tuttavia non vorrei perderlo.

Non era vero: aveva ragione lei, la signorina Caporale: lo specchio, lo specchio aveva parlato e mi aveva detto che se un'operazione relativamente lieve poteva farmi sparire dal volto quello sconcio connotato così particolare di Mattia Pascal, Adriano Meis avrebbe potuto anche fare a meno degli occhiali azzurri, concedersi un pajo di baffi e accordarsi insomma, alla meglio, corporalmente, con le proprie mutate condizioni di spirito.

Pochi giorni dopo, una scena notturna, a cui assistetti, nascosto dietro la persiana d'una delle mie finestre, venne a frastornarmi all'improvviso.

La scena si svolse nel terrazzino lì accanto, dove mi ero trattenuto fin verso le dieci, in compagnia delle due donne. Ritiratomi in camera, m'ero messo a leggere, distratto, uno dei libri prediletti del signor Anselmo, su la Rincarnazione. Mi parve, a un certo punto, di sentir parlare nel terrazzino: tesi l'orecchio per accertarmi se vi fosse Adriana. No. Due vi parlavan basso, concitatamente: sentivo una voce maschile, che non era quella del Paleari. Ma di uomini in casa non c'eravamo altri che lui e io. Incuriosito, m'appressai alla finestra per guardar dalle spie della persiana. Nel bujo mi parve discernere la signorina Caporale. Ma chi era quell'uomo con cui essa parlava? Che fosse arrivato da Napoli, improvvisamente, Terenzio Papiano?

Da una parola proferita un po' più forte dalla Caporale compresi che parlavano di me. M'accostai di più alla persiana e tesi maggiormente l'orecchio. Quell'uomo si mostrava irritato delle notizie che certo la maestra di pianoforte gli aveva dato di me; ed ecco, ora essa cercava d'attenuar l'impressione che quelle notizie avevan prodotto nell'animo di colui.

- Ricco? - domandò egli, a un certo punto.

E la Caporale:

- Non so. Pare! Certo campa sul suo, senza far nulla...

- Sempre per casa?

- Ma no! E poi domani lo vedrai...

Disse proprio così: vedrai. Dunque gli dava del tu; dunque il Papiano (non c'era più dubbio) era l'amante della signorina Caporale... E come mai, allora, in tutti quei giorni, s'era ella dimostrata così condiscendente con me?

La mia curiosità diventò più che mai viva; ma, quasi a farmelo apposta, quei due si misero a parlare pianissimo. Non potendo più con gli orecchi, cercai d'ajutarmi con gli occhi. Ed ecco, vidi che la Caporale posava una mano su la spalla di Papiano. Questi, poco dopo, la respinse sgarbatamente.

- Ma come potevo io impedirlo? - disse quella, alzando un po' la voce con intensa esasperazione. - Chi sono io? che rappresento io in questa casa?

- Chiamami Adriana! - le ordinò quegli allora, imperioso.

Sentendo proferire il nome di Adriana con quel tono, strinsi le pugna e sentii frizzarmi il sangue per le vene.

- Dorme, - disse la Caporale.

E colui, fosco, minaccioso :

- Va' a svegliarla! subito!

Non so come mi trattenni dallo spalancar di furia la persiana.

Lo sforzo che feci per impormi quel freno, mi richiamò intanto in me stesso per un momento. Le medesime parole, che aveva or ora proferite con tanta esasperazione quella povera donna, mi vennero alle labbra: « Chi sono io? che rappresento io in questa casa? ».

Mi ritrassi dalla finestra. Subito però mi sovvenne la scusa che io ero pure in ballo lì: parlavano di me, quei due, e quell'uomo voleva ancora parlarne con Adriana: dovevo sapere, conoscere i sentimenti di colui a mio riguardo.

La facilità però con cui accolsi questa scusa per la indelicatezza che commettevo spiando e origliando così nascosto, mi fece sentire, intravedere ch'io ponevo innanzi il mio proprio interesse per impedirmi di assumer coscienza di quello ben più vivo che un'altra mi destava in quel momento.

Tornai a guardare attraverso le stecche della persiana.

La Caporale non era più nel terrazzino. L'altro, rimasto solo, s'era messo a guardare il fiume appoggiato con tutti e due i gomiti sul parapetto e la testa tra le mani.

In preda a un'ansia smaniosa, attesi, curvo, stringendomi forte con le mani i ginocchi, che Adriana si facesse al terrazzino. La lunga attesa non mi stancò affatto, anzi mi sollevò man mano, mi procurò una viva e crescente soddisfazione: supposi che Adriana, di là, non volesse arrendersi alla prepotenza di quel villano. Forse la Caporale la pregava a mani giunte. Ed ecco, intanto, colui, là nel terrazzino, si rodeva dal dispetto. Sperai, a un certo punto, che la maestra venisse a dire che Adriana non aveva voluto levarsi. Ma no: eccola!

Papiano le andò subito incontro.

- Lei vada a letto! - intimò alla signorina Caporale. - Mi lasci parlare con mia cognata.

Quella ubbidì, e allora Papiano fece per chiudere le imposte tra la sala da pranzo e il terrazzino.

- Nient'affatto! - disse Adriana, tendendo un braccio contro l'imposta.

- Ma io ho da parlarti! - inveì il cognato, con fosca maniera, sforzandosi di parlar basso.

- Parla così! Che vuoi dirmi? - riprese Adriana. - Avresti potuto aspettare fino a domani.

- No! ora! - ribatté quegli, afferrandole un braccio e attirandola a sé.

- Insomma! - gridò Adriana, svincolandosi fieramente.

Non mi potei più reggere: aprii la persiana.

- Oh! signor Meis! - chiamò ella subito. - Vuol venire un po' qua, se non le dispiace?

- Eccomi, signorina! - m'affrettai a rispondere.

Il cuore mi balzò in petto dalla gioja, dalla riconoscenza: d'un salto, fui nel corridojo: ma lì, presso l'uscio della mia camera, trovai quasi asserpolato su un baule un giovane smilzo, biondissimo, dal volto lungo lungo, diafano, che apriva a malapena un pajo d'occhi azzurri, languidi, attoniti: m'arrestai un momento, sorpreso, a guardarlo; pensai che fosse il fratello di Papiano; corsi al terrazzino.

- Le presento, signor Meis, - disse Adriana, - mio cognato Terenzio Papiano, arrivato or ora da Napoli.

- Felicissimo! Fortunatissimo! - esclamò quegli, scoprendosi, strisciando una riverenza, e stringendomi calorosamente la mano. - Mi dispiace ch'io sia stato tutto questo tempo assente da Roma; ma son sicuro che la mia cognatina avrà saputo provvedere a tutto, è vero? Se le mancasse qualche cosa, dica, dica tutto, sa! Se le bisognasse, per esempio, una scrivania più ampia... o qualche altro oggetto, dica senza cerimonie... A noi piace accontentare gli ospiti che ci onorano.

- Grazie, grazie, - dissi io. - Non mi manca proprio nulla. Grazie.

- Ma dovere, che c'entra! E si avvalga pure di me, sa, in tutte le sue opportunità, per quel poco che posso valere... Adriana, figliuola mia, tu dormivi: ritorna pure a letto, se vuoi...

- Eh, tanto, - fece Adriana, sorridendo mestamente, - ora che mi son levata...

E s'appressò al parapetto, a guardare il fiume.

Sentii ch'ella non voleva lasciarmi solo con colui. Di che temeva? Rimase lì, assorta, mentre l'altro, col cappello ancora in mano, mi parlava di Napoli, dove aveva dovuto trattenersi più tempo che non avesse preveduto, per copiare un gran numero di documenti dell'archivio privato dell'eccellentissima duchessa donna Teresa Ravaschieri Fieschi: Mamma Duchessa, come tutti la chiamavano, Mamma Carità, com'egli avrebbe voluto chiamarla: documenti di straordinario valore, che avrebbero recato nuova luce su la fine del regno delle due Sicilie e segnatamente su la figura di Gaetano Filangieri, principe di Satriano, che il marchese Giglio, don Ignazio Giglio d'Auletta, di cui egli, Papiano, era segretario, intendeva illustrare in una biografia minuta e sincera. Sincera almeno quanto la devozione e la fedeltà ai Borboni avrebbero al signor marchese consentito.

Non la finì più. Godeva certo della propria loquela, dava alla voce, parlando, inflessioni da provetto filodrammatico, e qua appoggiava una risatina e là un gesto espressivo. Ero rimasto intronato, come un ceppo d'incudine, e approvavo di tanto in tanto col capo e di tanto in tanto volgevo uno sguardo ad Adriana, che se ne stava ancora a guardare il fiume.

- Eh, purtroppo! - baritoneggiò, a mo' di conclusione, Papiano. - Borbonico e clericale, il marchese Giglio d'Auletta! E io, io che... (devo guardarmi dal dirlo sottovoce, anche qui, in casa mia) io che ogni mattina, prima d'andar via, saluto con la mano la statua di Garibaldi sul Gianicolo (ha veduto? di qua si scorge benissimo), io che griderei ogni momento: « Viva il XX settembre! », io debbo fargli da segretario! Degnissimo uomo, badiamo! ma borbonico e clericale. Sissignore... Pane! Le giuro che tante volte mi viene da sputarci sopra, perdoni! Mi resta qua in gola, m'affoga... Ma che posso farci? Pane! pane!

Scrollò due volte le spalle, alzò le braccia e si percosse le anche.

- Sù, sù, Adrianuccia! - poi disse, accorrendo a lei e prendendole, lievemente, con ambo le mani la vita : - A letto! E tardi. Il signore avrà sonno.

Innanzi all'uscio della mia camera Adriana mi strinse forte la mano, come finora non aveva mai fatto. Rimasto solo, io tenni a lungo il pugno stretto, come per serbar la pressione della mano di lei. Tutta quella notte rimasi a pensare, dibattendomi tra continue smanie. La cerimoniosa ipocrisia, la servilità insinuante e loquace, il malanimo di quell'uomo mi avrebbero certamente reso intollerabile la permanenza in quella casa, su cui egli - non c'era dubbio - voleva tiranneggiare, approfittando della dabbenaggine del suocero. Chi sa a quali arti sarebbe ricorso! Già me n'aveva dato un saggio, cangiando di punto in bianco, al mio apparire. Ma perché vedeva così di malocchio ch'io alloggiassi in quella casa? perché non ero io per lui un inquilino come un altro? Che gli aveva detto di me la Caporale? poteva egli sul serio esser geloso di costei? o era geloso di un'altra? Quel suo fare arrogante e sospettoso; l'aver cacciato via la Caporale per restar solo con Adriana, alla quale aveva preso a parlare con tanta violenza; la ribellione di Adriana; il non aver ella permesso ch'egli chiudesse le imposte; il turbamento ond'era presa ogni qualvolta s'accennava al cognato assente, tutto, tutto ribadiva in me il sospetto odioso ch'egli avesse qualche mira su lei.

Ebbene e perché me n'arrovellavo tanto? Non potevo alla fin fine andar via da quella casa, se colui anche per poco m'infastidiva? Che mi tratteneva? Niente. Ma con tenerissimo compiacimento ricordavo che ella dal terrazzino m'aveva chiamato, come per esser protetta da me, e che infine m'aveva stretto forte forte la mano...

Avevo lasciato aperta la gelosia, aperti gli scuri. A un certo punto, la luna, declinando, si mostrò nel vano della mia finestra, proprio come se volesse spiarmi, sorprendermi ancora sveglio a letto, per dirmi:

« Ho capito, caro, ho capito! E tu, no? davvero? »

 

 

XII - L'occhio e Papiano    (torna all'indice)

 

- La tragedia d'Oreste in un teatrino di marionette! - venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. - Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.

- La tragedia d'Oreste?

- Già! D'après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l'Elettra. Ora senta un po, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.

- Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle.

- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.

- E perché?

- Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl'impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.

E se ne andò, ciabattando.

Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l'opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa.

L'immagine della marionetta d'Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: « Beate le marionette, » sospirai, « su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.

« E il prototipo di queste marionette, caro signor Anselmo, » seguitai a pensare, « voi l'avete in casa, ed è il vostro indegno genero, Papiano. Chi più di lui pago del cielo di cartapesta, basso basso, che gli sta sopra, comoda e tranquilla dimora di quel Dio proverbiale, di maniche larghe, pronto a chiuder gli occhi e ad alzare in remissione la mano; di quel Dio che ripete sonnacchioso a ogni marachella: - Ajutati, ch'io t'ajuto -? E s'ajuta in tutti i modi il vostro Papiano. La vita per lui è quasi un gioco d'abilità. E come gode a cacciarsi in ogni intrigo: alacre, intraprendente, chiacchierone! »

Aveva circa quarant'anni, Papiano, ed era alto di statura e robusto di membra: un po' calvo, con un grosso pajo di baffi brizzolati appena appena sotto il naso, un bel nasone dalle narici frementi; occhi grigi, acuti e irrequieti come le mani. Vedeva tutto e toccava tutto. Mentre, per esempio, stava a parlar con me, s'accorgeva - non so come - che Adriana, dietro a lui, stentava a pulire e a rimettere a posto qualche oggetto nella camera, e subito, assaettandosi:

- Pardon!

Correva a lei, le toglieva l'oggetto dalle mani:

- No, figliuola mia, guarda: si fa cosi!

E lo ripuliva lui, lo rimetteva a posto lui, e tornava a me. Oppure s'accorgeva che il fratello, il quale soffriva di convulsioni epilettiche, « s'incantava », e correva a dargli schiaffetti su le guance, biscottini sul naso:

- Scipione! Scipione!

O gli soffiava in faccia, fino a farlo rinvenire.

Chi sa quanto mi ci sarei divertito, se non avessi avuto quella maledetta coda di paglia!

Certo egli se ne accorse fin dai primi giorni, o - per lo meno - me la intravide. Cominciò un assedio fitto fitto di cerimonie, ch'eran tutte uncini per tirarmi a parlare. Mi pareva che ogni sua parola, ogni sua domanda, fosse pur la più ovvia, nascondesse un'insidia. Non avrei voluto intanto mostrar diffidenza per non accrescere i suoi sospetti; ma l'irritazione ch'egli mi cagionava con quel suo tratto da vessatore servizievole m'impediva di dissimularla bene.

L'irritazione mi proveniva anche da altre due cause interne e segrete. Una era questa: ch'io, senza aver commesso cattive azioni, senz'aver fatto male a nessuno, dovevo guardarmi così, davanti e dietro, umoroso e sospettoso, come se avessi perduto il diritto d'esser lasciato in pace. L'altra, non avrei voluto confessarla a me stesso, e appunto perciò m'irritava più fortemente, sotto sotto. Avevo un bel dirmi:

« Stupido! vattene via, levati dai piedi codesto seccatore! »

Non me ne andavo: non potevo più andarmene.

La lotta che facevo contro me stesso, per non assumer coscienza di ciò che sentivo per Adriana, m'impediva intanto di riflettere alle conseguenze della mia anormalissima condizione d'esistenza rispetto a questo sentimento. E restavo lì, perplesso, smanioso nella mal contentezza di me, anzi in orgasmo continuo, eppur sorridente di fuori.

Di ciò che m'era occorso di scoprire quella sera, nascosto dietro la persiana, non ero ancor venuto in chiaro. Pareva che la cattiva impressione che Papiano aveva ricevuto di me alle notizie della signorina Caporale, si fosse cancellata subito alla presentazione. Egli mi tormentava, è vero, ma come se non potesse farne a meno; non certo col disegno segreto di farmi andar via; anzi, al contrario! Che macchinava? Adriana, dopo il ritorno di lui, era diventata triste e schiva, come nei primi giorni. La signorina Silvia Caporale dava del lei a Papiano, almeno in presenza degli altri, ma quell'arcifanfano dava del tu a lei, apertamente; arrivava finanche a chiamarla Rea Silvia; e io non sapevo come interpretare queste sue maniere confidenziali e burlesche. Certo quella disgraziata non meritava molto rispetto per il disordine della sua vita, ma neanche d'esser trattata a quel modo da un uomo che non aveva con lei né parentela né affinità.

Una sera (c'era la luna piena, e pareva giorno), dalla mia finestra la vidi, sola e triste, là, nel terrazzino, dove ora ci riunivamo raramente, e non più col piacere di prima, poiché v'interveniva anche Papiano che parlava per tutti. Spinto dalla curiosità, pensai d'andarla a sorprendere in quel momento d'abbandono.

Trovai, al solito, nel corridojo, presso all'uscio della mia camera, asserpolato sul baule, il fratello di Papiano, nello stesso atteggiamento in cui lo avevo veduto la prima volta. Aveva eletto domicilio lassù, o faceva la sentinella a me per ordine del fratello?

La signorina Caporale, nel terrazzino, piangeva. Non volle dirmi nulla, dapprima; si lamentò soltanto d'un fierissimo mal di capo. Poi, come prendendo una risoluzione improvvisa, si voltò a guardarmi in faccia, mi porse una mano e mi domandò:

- E mio amico lei?

- Se vuol concedermi quest'onore... - le risposi, inchinandomi.

- Grazie. Non mi faccia complimenti, per carità! Se sapesse che bisogno ho io d'un amico, d'un vero amico, in questo momento! Lei dovrebbe comprenderlo, lei che è solo al mondo, come me... Ma lei è uomo! Se sapesse... se sapesse...

Addentò il fazzolettino che teneva in mano, per impedirsi di piangere; non riuscendovi, lo strappò a più riprese, rabbiosamente.

- Donna, brutta e vecchia, - esclamò: - tre disgrazie, a cui non c'è rimedio! Perché vivo io?

- Si calmi, via, - la pregai, addolorato. - Perché dice cosi, signorina?

Non mi riuscì dir altro.

- Perché... - proruppe lei, ma s'arrestò d'un tratto.

- Dica, - la incitai. - Se ha bisogno d'un amico...

Ella si portò agli occhi il fazzolettino lacerato, e...

- Io avrei piuttosto bisogno di morire! - gemette con accoramento così profondo e intenso, che mi sentii subito un nodo d'angoscia alla gola.

Non dimenticherò mai più la piega dolorosa di quella bocca appassita e sgraziata nel proferire quelle parole, né il fremito del mento su cui si torcevano alcuni peluzzi neri.

- Ma neanche la morte mi vuole, - riprese. - Niente... scusi, signor Meis! Che ajuto potrebbe darmi lei? Nessuno. Tutt'al più, di parole... si, un po' di compassione. Sono orfana, e debbo star qua, trattata come... forse lei se ne sarà accorto. E non ne avrebbero il diritto, sa! Perché non mi fanno mica l'elemosina...

E qui la signorina Caporale mi parlò delle sei mila lire scroccatele da Papiano, a cui io ho già accennato altrove.

Per quanto il cordoglio di quell'infelice m'interessasse, non era certo quello che volevo saper da lei. Approfittandomi (lo confesso) dell'eccitazione in cui ella si trovava, fors'anche per aver bevuto qualche bicchierino di più, m'arrischiai a domandarle:

- Ma, scusi, signorina, perché lei glielo ha dato, quel danaro?

- Perché? - e strinse le pugna. - Due perfidie, una più nera dell'altra! Gliel'ho dato per dimostrargli che avevo ben compreso che cosa egli volesse da me. Ha capito? Con la moglie ancora in vita, costui...

- Ho capito.

- Si figuri, - riprese con foga. - La povera Rita...

- La moglie?

- Sì Rita, la sorella d'Adriana... Due anni malata, tra la vita e la morte... Si figuri, se io... Ma già, qua lo sanno, com'io mi comportai; lo sa Adriana, e perciò mi vuol bene; lei sì, poverina. Ma come son rimasta io ora? Guardi: per lui, ho dovuto anche dar via il pianoforte, ch'era per me... tutto, capirà! non per la mia professione soltanto: io parlavo col mio pianoforte! Da ragazza, all'Accademia, componevo; ho composto anche dopo, diplomata; poi ho lasciato andare. Ma quando avevo il pianoforte, io componevo ancora, per me sola, all'improvviso; mi sfogavo... m'inebriavo fino a cader per terra, creda, svenuta, in certi momenti. Non so io stessa che cosa m'uscisse dall'anima: diventavo una cosa sola col mio strumento, e le mie dita non vibravano più su una tastiera: io facevo piangere e gridare l'anima mia. Posso dirle questo soltanto, che una sera (stavamo, io e la mamma, in un mezzanino) si raccolse gente, giù in istrada, che m'applaudi alla fine, a lungo. E io ne ebbi quasi paura.

- Scusi, signorina, - le proposi allora, per confortarla in qualche modo. - E non si potrebbe prendere a nolo un pianoforte? Mi piacerebbe tanto, tanto, sentirla sonare; e se lei...

- No, - m'interruppe, - che vuole che suoni io più! E finita per me. Strimpello canzoncine sguajate. Basta. E finita...

- Ma il signor Terenzio Papiano, - m'arrischiai di nuovo a domandare, - le ha promesso forse la restituzione di quel denaro?

- Lui? - fece subito, con un fremito d'ira, la signorina Caporale. - E chi gliel'ha mai chiesto! Ma sì, me lo promette adesso, se io lo ajuto... Già! Vuol essere ajutato da me, proprio da me; ha avuto la sfrontatezza di propormelo, cosi, tranquillamente...

- Ajutarlo? In che cosa?

- In una nuova perfidia! Comprende? Io vedo che lei ha compreso.

- Adri... la... la signorina Adriana? - balbettai.

- Appunto. Dovrei persuaderla io! lo, capisce?

- A sposar lui?

- S'intende. Sa perché? Ha, o piuttosto, dovrebbe avere quattordici o quindici mila lire di dote quella povera disgraziata: la dote della sorella, che egli doveva subito restituire al signor Anselmo, poiché Rita è morta senza lasciar figliuoli. Non so che imbrogli abbia fatto. Ha chiesto un anno di tempo per questa restituzione. Ora spera che... Zitto... ecco Adriana!

Chiusa in sé e più schiva del solito, Adriana s'appressò a noi: cinse con un braccio la vita della signorina Caporale e accennò a me un lieve saluto col capo. Provai, dopo quelle confidenze, una stizza violenta nel vederla così sottomessa e quasi schiava dell'odiosa tirannia di quel cagliostro. Poco dopo però, comparve nel terrazzino, come un'ombra, il fratello di Papiano.

- Eccolo, - disse piano la Caporale ad Adriana.

Questa socchiuse gli occhi, sorrise amaramente, scosse il capo e si ritrasse dal terrazzino, dicendomi:

- Scusi, signor Meis. Buona sera.

- La spia, - mi susurrò la signorina Caporale, ammiccando.

- Ma di che teme la signorina Adriana? - mi scappò detto, nella cresciuta irritazione. - Non capisce che, facendo così, dà più ansa a colui da insuperbire e da far peggio il tiranno? Senta, signorina, io le confesso che provo una grande invidia per tutti coloro che sanno prender gusto e interessarsi alla vita, e li ammiro. Tra chi si rassegna a far la parte della schiava e chi si assume, sia pure con la prepotenza, quella del padrone, la mia simpatia è per quest'ultimo.

La Caporale notò l'animazione con cui avevo parlato e, con aria di sfida, mi disse:

- E perché allora non prova a ribellarsi lei per primo ?

- Io?

- Lei, lei, - affermò ella, guardandomi negli occhi, aizzosa.

- Ma che c'entro io? - risposi. - Io potrei ribellarmi in una sola maniera: andandomene.

- Ebbene, - concluse maliziosamente la signorina Caporale, - forse questo appunto non vuole Adriana.

- Ch'io me ne vada?

Quella fece girar per aria il fazzolettino sbrendolato e poi se lo raccolse intorno a un dito sospirando:

- Chi sa!

Scrollai le spalle.

- A cena! a cena! - esclamai; e la lasciai lì in asso, nel terrazzino.

Per cominciare da quella sera stessa, passando per il corridojo, mi fermai innanzi al baule, su cui Scipione Papiano era tornato ad accoccolarsi, e:

- Scusi, - gli dissi, - non avrebbe altro posto dove star seduto più comodamente? Qua lei m'impiccia.

Quegli mi guardò balordo, con gli occhi languenti, senza scomporsi.

- Ha capito? - incalzai, scotendolo per un braccio.

Ma come se parlassi al muro! Si schiuse allora l'uscio in fondo al corridojo, ed apparve Adriana.

- La prego, signorina, - le dissi, - veda un po' di fare intender lei a questo poveretto che potrebbe andare a sedere altrove.

- E malato, - cercò di scusarlo Adriana.

- E però che è malato! - ribattei io. - Qua non sta bene: gli manca l'aria... e poi, seduto su un baule... Vuole che lo dica io al fratello?

- No no, - s'affrettò a rispondermi lei. - Glielo dirò io, non dubiti.

- Capirà, - soggiunsi. - Non sono ancora re, da avere una sentinella alla porta.

Perdetti, da quella sera in poi, il dominio di me stesso; cominciai a sforzare apertamente la timidezza di Adriana; chiusi gli occhi e m'abbandonai, senza più riflettere, al mio sentimento.

Povera cara mammina! Ella si mostrò dapprincipio come tenuta tra due, tra la paura e la speranza. Non sapeva affidarsi a questa, indovinando che il dispetto mi spingeva; ma sentivo d'altra parte che la paura in lei era pur cagionata dalla speranza fino a quel momento segreta e quasi incosciente di non perdermi; e perciò, dando io ora a questa sua speranza alimento co' miei nuovi modi risoluti, non sapeva neanche cedere del tutto alla paura.

Questa sua delicata perplessità, questo riserbo onesto m'impedirono intanto di trovarmi subito a tu per tu con me stesso e mi fecero impegnare sempre più nella sfida quasi sottintesa con Papiano.

M'aspettavo che questi mi si piantasse di fronte fin dal primo giorno, smettendo i soliti complimenti e le solite cerimonie. Invece, no. Tolse il fratello dal posto di guardia, lì sul baule, come io volevo, e arrivò finanche a celiar su l'aria impacciata e smarrita d'Adriana in mia presenza.

- La compatisca, signor Meis: è vergognosa come una monacella la mia cognatina!

Questa inattesa remissione, tanta disinvoltura m'impensierirono. Dove voleva andar a parare?

Una sera me lo vidi arrivare in casa insieme con un tale che entrò battendo forte il bastone sul pavimento, come se, tenendo i piedi entro un pajo di scarpe di panno che non facevan rumore, volesse sentire così, battendo il bastone, ch'egli camminava.

- Dôva ca l'è stô me car parent? - si mise a gridare con stretto accento torinese, senza togliersi dal capo il cappelluccio dalle tese rialzate, calcato fin su gli occhi a sportello, appannati dal vino, né la pipetta dalla bocca, con cui pareva stesse a cuocersi il naso più rosso di quello della signorina Caporale. - Dôva ca l'è stô me car parent?

- Eccolo, - disse Papiano, indicandomi; poi rivolto a me: - Signor Adriano, una grata sorpresa! Il signor Francesco Meis, di Torino, suo parente.

- Mio parente? - esclamai, trasecolando.

Quegli chiuse gli occhi, alzò come un orso una zampa e la tenne un tratto sospesa, aspettando che io gliela stringessi.

Lo lasciai lì, in quell'atteggiamento, per contemplarlo un pezzo; poi:

- Che farsa è codesta? - domandai.

- No, scusi, perché? - fece Terenzio Papiano. - Il signor Francesco Meis mi ha proprio assicurato che è suo...

- Cusin, - appoggiò quegli, senza aprir gli occhi. - Tut i Meis i sôma parent.

- Ma io non ho il bene di conoscerla! - protestai.

- Oh ma côsta ca l'è bela! - esclamò colui. - L'è propi për lon che mi't son vnù a trôvè.

- Meis? di Torino? - domandai io, fingendo di cercar nella memoria. - Ma io non son di Torino!

- Come! Scusi, - interloquì Papiano. - Non mi ha detto che fino a dieci anni lei stette a Torino?

- Ma si! - riprese quegli allora, seccato che si mettesse in dubbio una cosa per lui certissima. - Cusin, cusin! Questo signore qua... come si chiama?

- Terenzio Papiano, a servirla.

- Terenziano: a l'à dime che to pare a l'è andàit an America: cosa ch'a veul di' lon? a veul di' che ti t' ses fieul 'd barba Antoni ca l'è andàit 'ntla America. E nui sôma cusin.

- Ma se mio padre si chiamava Paolo...

- Antoni!

- Paolo, Paolo, Paolo. Vuol saperlo meglio di me?

Colui si strinse nelle spalle e stirò in sù la bocca:

- A m'smiava Antôni, - disse stropicciandosi il mento ispido d'una barba di quattro giorni almeno, quasi tutta grigia. - 'I veui nen côtradite: sarà prô Paôlo. I ricordo nen ben, perché mi' i l'hai nen conôssulo.

Pover'uomo! Era in grado di saperlo meglio di me come si chiamasse quel suo zio andato in America; eppure si rimise, perché a ogni costo volle esser mio parente. Mi disse che suo padre, il quale si chiamava Francesco come lui, ed era fratello di Antonio... cioè di Paolo, mio padre, era andato via da Torino, quand'egli era ancor masnà, di sette anni, e che - povero impiegato - aveva vissuto sempre lontano dalla famiglia, un po' qua, un po' là. Sapeva poco, dunque, dei parenti, sia paterni, sia materni: tuttavia, era certo, certissimo d'esser mio cugino.

Ma il nonno, almeno, il nonno, lo aveva conosciuto? Volli domandarglielo. Ebbene, sì: lo aveva conosciuto, non ricordava con precisione se a Pavia o a Piacenza.

- Ah si? proprio conosciuto? e com'era?

Era... non se ne ricordava lui, franc nen.

- A son passà trant'ani...

Non pareva affatto in mala fede; pareva piuttosto uno sciagurato che avesse affogato la propria anima nel vino, per non sentir troppo il peso della noja e della miseria. Chinava il capo, con gli occhi chiusi, approvando tutto ciò ch'io dicevo per pigliarmelo a godere; son sicuro che se gli avessi detto che da bambini noi eravamo cresciuti insieme e che parecchie volte io gli avevo strappato i capelli, egli avrebbe approvato allo stesso modo. Non dovevo mettere in dubbio soltanto una cosa, che noi cioè fossimo cugini: su questo non poteva transigere: era ormai stabilito, ci s'era fissato, e dunque basta.

A un certo punto, però, guardando Papiano e vedendolo gongolante, mi passò la voglia di scherzare. Licenziai quel pover'uomo mezzo ubriaco, salutandolo : - Caro parente! - e domandai a Papiano, con gli occhi fissi negli occhi, per fargli intender bene che non ero pane pe' suoi denti:

- Mi dica adesso dov'è andato a scovare quel bel tomo.

- Scusi tanto, signor Adriano ! - premise quell'imbroglione, a cui non posso fare a meno di riconoscere una grande genialità. - Mi accorgo di non essere stato felice...

- Ma lei è felicissimo, sempre! - esclamai io.

- No, intendo: di non averle fatto piacere. Ma creda pure che è stata una combinazione. Ecco qua: son dovuto andare questa mattina all'Agenzia delle imposte, per conto del marchese, mio principale. Mentr'ero là, ho sentito chiamar forte: « Signor Meis! Signor Meis! ». Mi volto subito, credendo che vi sia anche lei, per qualche affare, chi sa avesse, dico, bisogno di me, sempre pronto a servirla. Ma che! chiamavano a questo bel tomo, come lei ha detto giustamente; e allora, così... per curiosità, mi avvicinai e gli domandai se si chiamasse proprio Meis e di che paese fosse, poiché io avevo l'onore e il piacere d'ospitare in casa un signor Meis... Ecco com'è andata! Lui mi ha assicurato che lei doveva essere suo parente, ed è voluto venire a conoscerla...

- All'Agenzia dell'imposte?

- Sissignore, è impiegato là: ajuto-agente.

Dovevo crederci? Volli accertarmene. Ed era vero, sì; ma era vero del pari che Papiano, insospettito, mentre io volevo prenderlo di fronte, là, per contrastare nel presente a' suoi segreti armeggii, mi sfuggiva, mi sfuggiva per ricercare invece nel mio passato e assaltarmi così quasi a le spalle. Conoscendolo bene, avevo pur troppo ragione di temere che egli, con quel fiuto nel naso, fosse bracco da non andare a lungo a vento: guaj se fosse riuscito ad aver sentore della minima traccia: l'avrebbe certo seguitata fino al molino della Stìa.

Figurarsi dunque il mio spavento, quando, ivi a pochi giorni, mentre me ne stavo in camera a leggere, mi giunse dal corridojo, come dall'altro mondo, una voce, una voce ancor viva nella mia memoria.

- Agradecio Dio, ántes che me la son levada de sobre!

Lo Spagnuolo ? quel mio spagnoletto barbuto e atticciato di Montecarlo? colui che voleva giocar con me e col quale m'ero bisticciato a Nizza?... Ah, perdio! Ecco la traccia! Era riuscito a scoprirla Papiano!

Balzai in piedi, reggendomi al tavolino per non cadere, nell'improvviso smarrimento angoscioso: stupefatto, quasi atterrito, tesi l'orecchio, con l'idea di fuggire non appena quei due - Papiano e lo Spagnuolo (era lui, non c'era dubbio: lo avevo veduto nella sua voce) - avessero attraversato il corridojo. Fuggire? E se- Papiano, entrando, aveva domandato alla serva s'io fossi in casa? Che avrebbe pensato della mia fuga? Ma d'altra parte, se già sapeva ch'io non ero Adriano Meis? Piano! Che notizia poteva aver di me quello Spagnuolo? Mi aveva veduto a Montecarlo. Gli avevo io detto, allora, che mi chiamavo Mattia Pascal? Forse! Non ricordavo...

Mi trovai, senza saperlo, davanti allo specchio, come se qualcuno mi ci avesse condotto per mano. Mi guardai. Ah quell'occhio maledetto ! Forse per esso colui mi avrebbe riconosciuto. Ma come mai, come mai Papiano era potuto arrivare fin là, fino alla mia avventura di Montecarlo? Questo più d'ogni altro mi stupiva. Che fare intanto? Niente. Aspettar lì che ciò che doveva avvenire avvenisse.

Non avvenne nulla. E pur non di meno la paura non mi passò, neppure la sera di quello stesso giorno, allorché Papiano, spiegandomi il mistero per me insolubile e terribile di quella visita, mi dimostrò ch'egli non era affatto su la traccia del mio passato, e che solo il caso, di cui da un pezzo godevo i favori, aveva voluto farmene un altro, rimettendomi tra i piedi quello Spagnuolo, che forse non si ricordava più di me né punto né poco.

Secondo le notizie che Papiano mi diede di lui, io, andando a Montecarlo, non potevo non incontrarvelo, poich'egli era un giocatore di professione. Strano era che lo incontrassi ora a Roma, o piuttosto, che io, venendo a Roma, mi fossi intoppato in una casa, ove anch'egli poteva entrare. Certo, s'io non avessi avuto da temere, questo caso non mi sarebbe parso tanto strano: quante volte infatti non ci avviene d'imbatterci inaspettatamente in qualcuno che abbiamo conosciuto altrove per combinazione? Del resto, egli aveva o credeva d'avere le sue buone ragioni per venire a Roma e in casa di Papiano. Il torto era mio, o del caso che mi aveva fatto radere la barba e cangiare il nome.

Circa vent'anni addietro, il marchese Giglio d'Auletta, di cui Papiano era il segretario, aveva sposato l'unica sua figliuola a don Antonio Pantogada, addetto all'Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede. Poco dopo il matrimonio, il Pantogada, scoperto una notte dalla polizia in una bisca insieme con altri dell'aristocrazia romana, era stato richiamato a Madrid. Là aveva fatto il resto, e forse qualcos'altro di peggio, per cui era stato costretto a lasciar la diplomazia. D'allora in poi, il marchese d'Auletta non aveva avuto più pace, forzato continuamente a mandar danaro per pagare i debiti di giuoco del genero incorreggibile. Quattr'anni fa, la moglie del Pantogada era morta, lasciando una giovinetta di circa sedici anni, che il marchese aveva voluto prendere con sé, conoscendo pur troppo in quali mani altrimenti sarebbe rimasta. Il Pantogada non avrebbe voluto lasciarsela scappare; ma poi, costretto da una impellente necessità di denaro, aveva ceduto. Ora egli minacciava senza requie il suocero di riprendersi la figlia, e quel giorno appunto era venuto a Roma con questo intento, per scroccare cioè altro danaro al povero marchese, sapendo bene che questi non avrebbe mai e poi mai abbandonato nelle mani di lui la sua cara nipote Pepita.

Aveva parole di fuoco, lui, Papiano, per bollare questo indegno ricatto del Pantogada. Ed era veramente sincera quella sua collera generosa. E mentre egli parlava, io non potevo fare a meno di ammirare il privilegiato congegno della sua coscienza che, pur potendo indignarsi così, realmente, delle altrui nequizie, gli permetteva poi di farne delle simili o quasi, tranquillissimamente, a danno di quel buon uomo del Paleari, suo suocero.

Intanto il marchese Giglio quella volta voleva tener duro. Ne seguiva che il Pantogada sarebbe rimasto a Roma parecchio tempo e sarebbe certo venuto a trovare in casa Terenzio Papiano, col quale doveva intendersi a meraviglia. Un incontro dunque fra me e quello Spagnuolo sarebbe stato forse inevitabile, da un giorno all'altro. Che fare?

Non potendo con altri, mi consigliai di nuovo con lo specchio. In quella lastra l'immagine del fu Mattia Pascal, venendo a galla come dal fondo della gora, con quell'occhio che solamente m'era rimasto di lui, mi parlò così:

« In che brutto impiccio ti sei cacciato, Adriano Meis! Tu hai paura di Papiano, confessalo! e vorresti dar la colpa a me, ancora a me, solo perché io a Nizza mi bisticciai con lo Spagnuolo. Eppure ne avevo ragione, tu lo sai. Ti pare che possa bastare per il momento il cancellarti dalla faccia l'ultima traccia di me? Ebbene, segui il consiglio della signorina Caporale e chiama il dottor Ambrosini, che ti rimetta l'occhio a posto. Poi... vedrai! »

 

 

XIII - Il lanternino    (torna all'indice)

 

Quaranta giorni al bujo.

Riuscita, oh, riuscita benissimo l'operazione. Solo che l'occhio mi sarebbe forse rimasto un pochino pochino più grosso dell'altro. Pazienza! E intanto, sì, al bujo quaranta giorni, in camera mia.

Potei sperimentare che l'uomo, quando soffre, si fa una particolare idea del bene e del male, e cioè del bene che gli altri dovrebbero fargli e a cui egli pretende, come se dalle proprie sofferenze gli derivasse un diritto al compenso; e del male che egli può fare a gli altri, come se parimenti dalle proprie sofferenze vi fosse abilitato. E se gli altri non gli fanno il bene quasi per dovere, egli li accusa e di tutto il male ch'egli fa quasi per diritto, facilmente si scusa.

Dopo alcuni giorni di quella prigionia cieca, il desiderio, il bisogno d'esser confortato in qualche modo crebbe fino all'esasperazione. Sapevo, si, di trovarmi in una casa estranea; e che perciò dovevo anzi ringraziare i miei ospiti delle cure delicatissime che avevano per me. Ma non mi bastavano più, quelle cure; m'irritavano anzi, come se mi fossero usate per dispetto. Sicuro! Perché indovinavo da chi mi venivano. Adriana mi dimostrava per mezzo di esse, ch'ella era col pensiero quasi tutto il giorno Lì con me, in camera mia; e grazie della consolazione! Che mi valeva, se io intanto, col mio, la inseguivo di qua e di là per casa, tutto il giorno, smaniando? Lei sola poteva confortarmi: doveva; lei che più degli altri era in grado d'intendere come e quanto dovesse pesarmi la noja, rodermi il desiderio di vederla o di sentirmela almeno vicina.

E la smania e la noja erano accresciute anche dalla rabbia che mi aveva suscitato la notizia della subitanea partenza da Roma del Pantogada. Mi sarei forse rintanato lì per quaranta giorni al bujo, se avessi saputo ch'egli doveva andar via cosi presto?

Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento che il bujo era immaginario.

- Immaginario? Questo? - gli gridai.

- Abbia pazienza mi spiego.

E mi svolse (fors'anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia.

Di tratto in tratto, il brav'uomo s'interrompeva per domandarmi:

- Dorme, signor Meis?

E io ero tentato di rispondergli:

- Sì, grazie, dormo, signor Anselmo.

Ma poiché l'intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare.

E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l'albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch'esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.

E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?

- Dorme, signor Meis?

- Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino.

- Ah, bene... Ma poiché lei ha l'occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d'inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l'illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d'un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d'una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe? Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo:

La piccola mia lampa Non, come sol, risplende, Né, come incendio, fuma; Non stride e non consuma, Ma con la cima tende Al ciel che me la diè.

Starà su me, sepolto, Viva; né pioggia o Vento, Né in lei le età potranno; E quei che passeranno Erranti, a lume spento, Lo accenderan da me.

Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l'olio sacro che alimentava quella del Poeta? Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell'alimento necessario le loro lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a cui mentì la vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell'esistenza, con quel loro sentimento acceso come una lampadina votiva, cui con trepida cura riparano dal gelido soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno accesa fin là, fino all'orlo fatale, al quale s'affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e pensando di continuo: « Dio mi vede! » per non udire i clamori della vita intorno, che suonano ai loro orecchi come tante bestemmie. « Dio mi vede... » perché lo vedono loro, non solamente in sé, ma in tutto, anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno un premio, alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione. Ma domando io ora, signor Meis: E se tutto questo bujo, quest'enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all'indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l'estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d'ombra fittizia, oltre il breve àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento d'esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste. Noi, - non so se questo possa farle piacere - noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l'universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell'universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno com'esso è in realtà! Ma nossignore: ce lo colora a modo suo, e ci fa vedere certe cose, che noi dobbiamo veramente lamentare, perbacco, che forse in un'altra forma d'esistenza non avremo più una bocca per poterne fare le matte risate. Risate, signor Meis, di tutte le vane, stupide afflizioni che esso ci ha procurate, di tutte le ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani che ci fece sorgere innanzi e intorno, della paura che c'ispirò!

Oh perché dunque il signor Anselmo Paleari, pur dicendo, e con ragione, tanto male del lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso, ne voleva accendere ora un altro col vetro rosso, là in camera mia, pe' suoi esperimenti spiritici? Non era già di troppo quell'uno?

Volli domandarglielo.

- Correttivo! - mi rispose. - Un lanternino contro l'altro! Del resto a un certo punto questo si spegne, sa!

- E le sembra che sia il miglior mezzo, codesto, per vedere qualche cosa? - m'arrischiai a osservare.

- Ma la così detta luce, scusi, - ribatté pronto il signor Anselmo, - può servire per farci vedere ingannevolmente qua, nella così detta vita; per farci vedere di là da questa, non serve affatto, creda, anzi nuoce. Sono stupide pretensioni di certi scienziati di cuor meschino e di più meschino intelletto, i quali vogliono credere per loro comodità che con questi esperimenti si faccia oltraggio alla scienza o alla natura. Ma nossignore! Noi vogliamo scoprire altre leggi, altre forse, altra vita nella natura, sempre nella natura, perbacco! oltre la scarsissima esperienza normale; noi vogliamo sforzare l'angusta comprensione, che i nostri sensi limitati ce ne dànno abitualmente. Ora, scusi, non pretendono gli scienziati per i primi ambiente e condizioni adatti per la buona riuscita dei loro esperimenti? Si può fare a meno della camera oscura nella fotografia? E dunque? Ci sono poi tanti mezzi di controllo!

Il signor Anselmo però, come potei vedere poche sere dopo, non ne usava alcuno. Ma erano esperimenti in famiglia! Poteva mai sospettare che la signorina Caporale e Papiano si prendessero il gusto d'ingannarlo? e perché, poi? che gusto? Egli era più che convinto e non aveva affatto bisogno di quegli esperimenti per rafforzar la sua fede. Come uomo dabbenissimo che era, non arrivava a supporre che potessero ingannarlo per altro fine. Quanto alla meschinità affliggente e puerile dei resultati, la teosofia s'incaricava di dargliene una spiegazione plausibilissima. Gli esseri superiori del Piano Mentale, o di più sù, non potevano discendere a comunicare con noi per mezzo di un medium bisognava dunque contentarsi delle manifestazioni grossolane di anime di trapassati inferiori, del Piano Astrale, cioè del più prossimo al nostro: ecco.

E chi poteva dirgli di no?*

Io sapevo che Adriana s'era sempre ricusata d'assistere a questi esperimenti. Dacché me ne stavo tappato in camera, al bujo, ella non era entrata se non raramente, e non mai sola, a domandarmi come stessi. Ogni volta quella domanda pareva ed era infatti rivolta per pura convenienza. Lo sapeva, lo sapeva bene come stavo! Mi pareva finanche di sentire un certo sapor d'ironia birichina nella voce di lei, perché già ella ignorava per qual ragione mi fossi così d'un tratto risoluto ad assoggettarmi all'operazione, e doveva perciò ritenere ch'io soffrissi per vanità, per farmi cioè più bello o meno brutto, con l'occhio accomodato secondo il consiglio della Caporale.

- Sto benone, signorina! - le rispondevo. - Non vedo niente...

- Eh, ma vedrà, vedrà meglio poi, - diceva allora Papiano.

Approfittandomi del bujo, alzavo un pugno, come per scaraventarglielo in faccia. Ma lo faceva apposta certamente, perch'io perdessi quel po' di pazienza che mi restava ancora. Non era possibile ch'egli non s'accorgesse del fastidio che mi recava: glielo dimostravo in tutti i modi, sbadigliando, sbuffando; eppure, eccolo là: seguitava a entrare in camera mia quasi ogni sera (ah lui, sì) e vi si tratteneva per ore intere, chiacchierando senza fine. In quel bujo, la sua voce mi toglieva quasi il respiro, mi faceva torcere su la sedia, come su un aculeo, artigliar le dita: avrei voluto strozzarlo in certi momenti. Lo indovinava? lo sentiva? Proprio in quei momenti, ecco, la sua voce diventava più molle, quasi carezzevole.

Noi abbiamo bisogno d'incolpar sempre qualcuno dei nostri danni e delle nostre sciagure. Papiano, in fondo, faceva tutto per spingermi ad andar via da quella casa; e di questo, se la voce della ragione avesse potuto parlare in me, in quei giorni, io avrei dovuto ringraziarlo con tutto il cuore. Ma come potevo ascoltarla, questa benedetta voce della ragione, se essa mi parlava appunto per la bocca di lui, di Papiano, il quale per me aveva torto, torto evidente, torto sfacciato? Non voleva egli mandarmi via, infatti, per frodare il Paleari e rovinare Adriana? Questo soltanto io potevo allora comprendere da tutti que' suoi discorsi. Oh possibile che la voce della ragione dovesse proprio scegliere la bocca di Papiano per farsi udire da me? Ma forse ero io che, per trovarmi una scusa, la mettevo in bocca a lui, perché mi paresse ingiusta, io che mi sentivo già preso nei lacci della vita e smaniavo, non per il bujo propriamente, né per il fastidio che Papiano, parlando, mi cagionava.

Di che mi parlava? Di Pepita Pantogada, sera per sera.

Benché io vivessi modestissimamente, s'era fitto in capo che fossi molto ricco. E ora, per deviare il mio pensiero da Adriana, forse vagheggiava l'idea di farmi innamorare di quella nipote del marchese Giglio d'Auletta, e me la descriveva come una fanciulla saggia e fiera, piena d'ingegno e di volontà, recisa nei modi, franca e vivace; bella, poi; uh, tanto bella! bruna, esile e formosa a un tempo; tutta fuoco, con un pajo d'occhi fulminanti e una bocca che strappava i baci. Non diceva nulla della dote: - Vistosissima! - tutta la sostanza del marchese d'Auletta, nientemeno. Il quale, senza dubbio, sarebbe stato felicissimo di darle presto marito, non solo per liberarsi del Pantogada che lo vessava, ma anche perché non andavano tanto d'accordo nonno e nipote: il marchese era debole di carattere, tutto chiuso in quel suo mondo morto; Pepita invece, forte, vibrante di vita.

Non comprendeva che più egli elogiava questa Pepita, più cresceva in me l'antipatia per lei, prima ancora di conoscerla? La avrei conosciuta - diceva - fra qualche sera, perché egli la avrebbe indotta a intervenire alle prossime sedute spiritiche. Anche il marchese Giglio d'Auletta avrei conosciuto, che lo desiderava tanto per tutto ciò che egli, Papiano, gli aveva detto di me. Ma il marchese non usciva più di casa, e poi non avrebbe mai preso parte a una seduta spiritica, per le sue idee religiose.

- E come? - domandai. - Lui, no; e intanto permette che vi prenda parte la nipote?

- Ma perché sa in quali mani l'affida! - esclamò alteramente Papiano.

Non volli saper altro. Perché Adriana si ricusava d'assistere a quegli esperimenti? Pe' suoi scrupoli religiosi. Ora, se la nipote del marchese Giglio avrebbe preso parte a quelle sedute, col consenso del nonno clericale, non avrebbe potuto anch'ella parteciparvi? Forte di questo argomento, io cercai di persuaderla, la vigilia della prima seduta.

Era entrata in camera mia col padre, il quale udita la mia proposta:

- Ma siamo sempre lì, signor Meis! - sospirò. - La religione, di fronte a questo problema, drizza orecchie d'asino e adombra, come la scienza. Eppure i nostri esperimenti, l'ho già detto e spiegato tante volte a mia figlia, non sono affatto contrarii né all'una né all'altra. Anzi, per la religione segnatamente sono una prova delle verità che essa sostiene.

- E se io avessi paura? - obbiettò Adriana.

- Di che? - ribatté il padre. - Della prova?

- O del bujo? - aggiunsi io. - Siamo tutti qua, con lei, signorina! Vorrà mancare lei sola?

- Ma io... - rispose, impacciata, Adriana, - io non ci credo, ecco... non posso crederci, e... che so!

Non poté aggiunger altro. Dal tono della voce, dall'imbarazzo, io però compresi che non soltanto la religione vietava ad Adriana d'assistere a quegli esperimenti. La paura messa avanti da lei per iscusa poteva avere altre cause, che il signor Anselmo non sospettava. O le doleva forse d'assistere allo spettacolo miserevole del padre puerilmente ingannato da Papiano e dalla signorina Caporale?

Non ebbi animo d'insistere più oltre.

Ma ella, come se mi avesse letto in cuore il dispiacere che il suo rifiuto mi cagionava, si lasciò sfuggire nel bujo un: - Del resto... - ch'io colsi subito a volo:

- Ah brava! L'avremo dunque con noi?

- Per domani sera soltanto, - concesse ella, sorridendo.

Il giorno appresso, sul tardi, Papiano venne a preparare la camera: v'introdusse un tavolino rettangolare, d'abete, senza cassetto, senza vernice, dozzinale; sgombrò un angolo della stanza; vi appese a una funicella un lenzuolo; poi recò una chitarra, un collaretto da cane con molti sonaglioli, e altri oggetti. Questi preparativi furono fatti al lume del famoso lanternino dal vetro rosso. Preparando, non smise - s'intende! - un solo istante di parlare.

- Il lenzuolo serve, sa! serve... non saprei, da... da accumulatore, diciamo, di questa forza misteriosa: lei lo vedrà agitarsi, signor Meis, gonfiarsi come una vela, rischiararsi a volte d'un lume strano, quasi direi siderale. Sissignore! Non siamo ancora riusciti a ottenere « materializzazioni », ma luci sì: ne vedrà, se la signorina Silvia questa sera si troverà in buone disposizioni. Comunica con lo spirito di Un suo antico compagno d'Accademia, morto, Dio ne scampi, di tisi, a diciott'anni. Era di... non so, di Basilea, mi pare: ma stabilito a Roma da un pezzo, con la famiglia. Un genio, sa, per la musica: reciso dalla morte crudele prima che avesse potuto dare i suoi frutti. Così almeno dice la signorina Caporale. Anche prima che ella sapesse d'aver questa facoltà medianica, comunicava con lo spirito di Max. Sissignore: si chiamava così, Max... aspetti, Max Oliz, se non sbaglio. Sissignore! Invasata da questo spirito, improvvisava sul pianoforte, fino a cader per terra, svenuta, in certi momenti. Una sera si raccolse perfino gente, giù in istrada, che poi la applaudì...

- E la signorina Caporale ne ebbe quasi paura, - aggiunsi io, placidamente.

- Ah, lo sa? - fece Papiano, restando.

- Me l'ha detto lei stessa. Sicché dunque applaudirono la musica di Max sonata con le mani della signorina Caporale?

- Già, già! Peccato che non abbiamo in casa un pianoforte. Dobbiamo contentarci di qualche motivetto, di qualche spunto, accennato su la chitarra. Max s'arrabbia, sa! fino a strappar le corde, certe volte... Ma sentirà stasera. Mi pare che sia tutto in ordine, ormai.

- E dica un po', signor Terenzio. Per curiosità, - volli domandargli, prima che andasse via, - lei ci crede? ci crede proprio?

- Ecco, - mi rispose subito, come se avesse preveduto la domanda. - Per dire la verità, non riesco a vederci chiaro.

- Eh sfido!

- Ah, ma non perché gli esperimenti si facciano al bujo, badiamo! I fenomeni, le manifestazioni sono reali, non c'è che dire: innegabili. Noi non possiamo mica diffidare di noi stessi...

- E perché no? Anzi!

- Come? Non capisco!

- C'inganniamo così facilmente! Massime quando ci piaccia di credere in qualche cosa...

- Ma a me, no, sa: non piace! - protestò Papiano. - Mio suocero, che è molto addentro in questi studii, ci crede. Io, fra l'altro, veda, non ho neanche il tempo di pensarci... se pure ne avessi voglia. Ho tanto da fare, tanto, con quei maledetti Borboni del marchese che mi tengono lì a chiodo! Perdo qui qualche serata. Dal canto mio, son d'avviso, che noi, finché per grazia di Dio siamo vivi, non potremo saper nulla della morte; e dunque, non le pare inutile pensarci? Ingegnamoci di vivere alla meglio, piuttosto, santo Dio! Ecco come io la penso, signor Meis. A rivederla, eh? Ora scappo a prendere in via dei Pontefici la signorina Pantogada.

Ritornò dopo circa mezz'ora, molto contrariato: insieme con la Pantogada e la governante era venuto un certo pittore spagnuolo, che mi fu presentato a denti stretti come amico di casa Giglio. Si chiamava Manuel Bernaldez e parlava correttamente l'italiano; non ci fu verso però di fargli pronunciare l'esse del mio cognome: pareva che ogni volta, nell'atto di proferirla, avesse paura che la lingua gliene restasse ferita.

- Adriano Mei, - diceva, come se tutt'a un tratto fossimo diventati amiconi.

- Adriano Tui, - mi veniva quasi di rispondergli.

Entrarono le donne: Pepita, la governante, la signorina Caporale, Adriana.

- Anche tu? Che novità? - le disse Papiano con mal garbo.

Non se l'aspettava quest'altro tiro. Io intanto, dal modo con cui era stato accolto il Bernaldez, avevo capito che il marchese Giglio non doveva saper nulla dell'intervento di lui alla seduta, e che doveva esserci sotto qualche intrighetto con la Pepita.

Ma il gran Terenzio non rinunziò al suo disegno. Disponendo intorno al tavolino la catena medianica, si fece sedere accanto Adriana e pose accanto a me la Pantogada.

Non ero contento? No. E Pepita neppure. Parlando tal quale come il padre, ella si ribellò subito:

- Gracie tanto, asì no puede ser! Ió voglio estar entre el segnor Paleari e la mia governante, caro segnor Terenzio!

La semioscurità rossastra permetteva appena di discernere i contorni; cosicché non potei vedere fino a qual punto rispondesse al vero il ritratto che della signorina Pantogada m'aveva abbozzato Papiano; il tratto però, la voce e quella sùbita ribellione s'accordavano perfettamente all'idea che m'ero fatta di lei, dopo quella descrizione.

Certo, rifiutando cosi sdegnosamente il posto che Papiano le aveva assegnato accanto a me, la signorina Pantogada m'offendeva; ma io non solo non me n'ebbi a male, ma anzi me ne rallegrai.

- Giustissimo! - esclamò Papiano. - E allora, si può far così: accanto al signor Meis segga la signora Candida; poi prenda posto lei, signorina. Mio suocero rimanga dov'è: e noi altri tre pure così, come stiamo. Va bene?

E no! non andava bene neanche così: né per me, né per la signorina Caporale, né per Adriana e né - come si vide poco dopo - per la Pepita, la quale stette molto meglio in una nuova catena disposta proprio dal genialissimo spirito di Max.

Per il momento, io mi vidi accanto quasi un fantasima di donna, con una specie di collinetta in capo (era cappello? era cuffia? parrucca? che diavolo era?). Di sotto quel carico enorme uscivan di tratto in tratto certi sospiri terminati da un breve gemito. Nessuno aveva pensato a presentarmi a quella signora Candida : ora, per far la catena, dovevamo tenerci per mano; e lei sospirava. Non le pareva ben fatto, ecco. Dio, che mano fredda!

Con l'altra mano tenevo la sinistra della signorina Caporale seduta a capo del tavolino, con le spalle contro il lenzuolo appeso all'angolo; Papiano le teneva la destra. Accanto ad Adriana, dall'altra parte, sedeva il pittore; il signor Anselmo stava all'altro capo del tavolino, dirimpetto alla Caporale.

Papiano disse:

- Bisognerebbe spiegare innanzi tutto al signor Meis e alla signorina Pantogada il linguaggio... come si chiama?

- Tiptologico, - suggerì il signor Anselmo.

- Prego, anche a me, - si rinzelò la signora Candida, agitandosi su la seggiola.

- Giustissimo! Anche alla signora Candida, si sa!

- Ecco, - prese a spiegare il signor Anselmo. - Due colpi vogliono dir ...

- Colpi? - interruppe Pepita. - Che colpi?

- Colpi, - rispose Papiano, - o battuti sul tavolino o su le seggiole o altrove o anche fatti percepire per via di toccamenti.

- Ah no-no-no-no-nó!! - esclamò allora quella a precipizio, balzando in piedi. - Ió non ne amo, tocamenti. De chi?

- Ma dello spirito di Max, signorina, - le spiegò Papiano. - Gliel'ho accennato, venendo: non fanno mica male, si rassicuri.

- Tittologichi, - aggiunse con aria di commiserazione, da donna superiore, la signora Candida.

- E dunque, - riprese il signor Anselmo, - due colpi, ; tre colpi, no; quattro, bujo cinque, parlate; sei, luce. Basterà così. E ora concentriamoci, signori miei.

Si fece silenzio. Ci concentrammo.

 

 

XIV - Le prodezze di Max    (torna all'indice)

 

Apprensione? No. Neanche per ombra. Ma una viva curiosità mi teneva e anche un certo timore che Papiano stésse per fare una pessima figura. Avrei dovuto goderne; e, invece, no. Chi non prova pena, o piuttosto, un frigido avvilimento nell'assistere a una commedia mal rappresentata da comici inesperti?

« Tra due sta, » pensavo: « o egli è molto abile, o l'ostinazione di tenersi accanto Adriana non gli fa veder bene dove si mette, lasciando il Bernaldez e Pepita, me e Adriana disillusi e perciò in grado d'accorgerci senza alcun gusto, senz'alcun compenso, della sua frode. Meglio di tutti se n'accorgerà Adriana che gli sta più vicina; ma lei già sospetta la frode e vi è preparata. Non potendo starmi accanto, forse in questo momento ella domanda a se stessa perché rimanga lì ad assistere a una farsa per lei non solamente insulsa, ma anche indegna e sacrilega. E Ia stessa domanda certo, dal canto loro, si rivolgono il Bernaldez e Pepita. Come mai Papiano non se ne rende conto, or che s'è visto fallire il colpo d'allogarmi accanto la Pantogada? Si fida dunque tanto della propria abilità? Stiamo a vedere. »

Facendo queste riflessioni, io non pensavo affatto alla signorina Caporale. A un tratto, questa si mise a parlare, come in un leggero dormiveglia.

- La catena, - disse, - la catena va mutata...

- Abbiamo già Max? - domandò premurosamente quel buon uomo del signor Anselmo.

La risposta della Caporale si fece attendere un bel po'.

- Sì, - poi disse penosamente, quasi con affanno. - Ma siamo in troppi, questa sera...

- E' vero sì! - scattò Papiano. - Mi sembra però, che così stiamo benone.

- Zitto! - ammonì il Paleari. - Sentiamo che dice Max.

- La catena, - riprese la Caporale, - non gli par bene equilibrata. Qua, da questo lato (e sollevò la mia mano), ci sono due donne accanto. Il signor Anselmo farebbe bene a prendere il posto della signorina Pantogada, e viceversa.

- Subito! - esclamò il signor Anselmo, alzandosi. - Ecco, signorina, segga qua!

E Pepita, questa volta, non si ribellò. Era accanto al pittore.

- Poi, - soggiunse la Caporale, - la signora Candida...

Papiano la interruppe:

- Al posto d'Adriana, è vero? Ci avevo pensato. Va benone!

Io strinsi forte, forte, forte, la mano di Adriana fino a farle male, appena ella venne a prender posto accanto a me. Contemporaneamente la signorina Caporale mi stringeva l'altra mano, come per domandarmi: « E' contento così? ». « Ma sì, contentone! » le risposi io con un'altra stretta, che significava anche: « E ora fate pure, fate pure quel che vi piace ! ».

- Silenzio ! - intimò a questo punto il signor Anselmo.

E chi aveva fiatato? Chi? Il tavolino! Quattro colpi: - Bujo!

Giuro di non averli sentiti.

Se non che, appena spento il lanternino, avvenne tal cosa che scompigliò d'un tratto tutte le mie supposizioni. La signorina Caporale cacciò uno strillo acutissimo, che ci fece sobbalzar tutti quanti dalle seggiole.

- Luce! luce!

Che era avvenuto?

Un pugno! La signorina Caporale aveva ricevuto un pugno su la bocca, formidabile: le sanguinavano le gengive.

Pepita e la signora Candida scattarono in piedi, spaventate. Anche Papiano s'alzò per riaccendere il lanternino. Subito Adriana ritrasse dalla mia mano la sua. Il Bernaldez col faccione rosso, perché teneva tra le dita un fiammifero, sorrideva, tra sorpreso e incredulo, mentre il signor Anselmo, costernatissimo, badava a ripetere:

- Un pugno! E come si spiega?

Me lo domandavo anch'io, turbato. Un pugno? Dunque quel cambiamento di posti non era concertato avanti tra i due. Un pugno? Dunque la signorina Caporale s'era ribellata a Papiano. E ora?

Ora, scostando la seggiola e premendosi un fazzoletto su la bocca, la Caporale protestava di non voler più saperne. E Pepita Pantogada strillava:

- Gracie, segnori! gracie! Aqui se dano cachetes!

- Ma no! ma no! - esclamò il Paleari. - Signori miei, questo è un fatto nuovo, stranissimo! Bisogna chiederne spiegazione.

- A Max? - domandai io.

- A Max, già! Che lei, cara Silvia, abbia male interpretato i suggerimenti di lui nella disposizione della catena?

- E probabile! è probabile! - esclamò il Bernaldez, ridendo.

- Lei, signor Meis, che ne pensa? - mi domandò il Paleari, a cui il Bernaldez non andava proprio a genio.

- Eh, di sicuro, questo pare, - dissi io.

Ma la Caporale negò recisamente col capo.

- E allora? - riprese il signor Anselmo. - Come si spiega? Max violento! E quando mai? Che ne dici tu, Terenzio?

Non diceva nulla, Terenzio, protetto dalla semioscurità: alzò le spalle, e basta.

- Via - diss'io allora alla Caporale. - Vogliamo contentare il signor Anselmo, signorina? Domandiamo a Max una spiegazione: che se poi egli si dimostrerà di nuovo spirito... di poco spirito, lasceremo andare. Dico bene, signor Papiano?

- Benissimo! - rispose questi. - Domandiamo, domandiamo pure. Io ci sto.

- Ma non ci sto io, così! - rimbeccò la Caporale, rivolta proprio a lui.

- Lo dice a me? - fece Papiano. - Ma se lei vuol lasciare andare...

- Sì, sarebbe meglio, - arrischiò timidamente Adriana.

Ma subito il signor Anselmo le diede su la voce:

- Ecco la paurosa! Son puerilità, perbacco! Scusi, lo dico anche a lei, Silvia! Lei conosce bene lo spirito che le è familiare, e sa che questa è la prima volta che... Sarebbe un peccato, via! perché - spiacevole quanto si voglia quest'incidente - i fenomeni accennavano questa sera a manifestarsi con insolita energia.

- Troppa! - esclamò il Bernaldez, sghignazzando e promovendo il riso degli altri.

- E io, - aggiunsi, - non vorrei buscarmi un pugno su quest'occhio qui...

- Ni tampoco ió! - aggiunse Pepita.

- A sedere! - ordinò allora Papiano, risolutamente. - Seguiamo il consiglio del signor Meis. Proviamoci a domandare una spiegazione. Se i fenomeni si rivelano di nuovo con troppa violenza, smetteremo. A sedere!

E soffiò sul lanternino.

Io cercai al bujo la mano di Adriana, ch'era fredda e tremante. Per rispettare il suo timore, non gliela strinsi in prima; pian piano, gradatamente, gliela premetti, come per infonderle calore, e, col calore, la fiducia che tutto adesso sarebbe proceduto tranquillamente. Non poteva esser dubbio, infatti, che Papiano, forse pentito della violenza a cui s'era lasciato andare, aveva cangiato avviso. A ogni modo avremmo certo avuto un momento di tregua; poi forse, io e Adriana, in quel bujo, saremmo stati il bersaglio di Max. « Ebbene, » dissi tra me, « se il giuoco diventerà troppo pesante, lo faremo durar poco. Non permetterò che Adriana sia tormentata. »

Intanto il signor Anselmo s'era messo a parlare con Max, proprio come si parla a qualcuno vero e reale, lì presente.

- Ci sei?

Due colpi, lievi, sul tavolino. C'era!

- E come va, Max, - domandò il Paleari, in tono d'amorevole rimprovero, - che tu, tanto buono tanto gentile, hai trattato così malamente la signorina Silvia? Ce lo vuoi dire?

Questa volta il tavolino si agitò dapprima un poco, quindi tre colpi secchi e sodi risonarono nel mezzo di esso. Tre colpi: dunque, no: non ce lo voleva dire.

- Non insistiamo! - si rimise il signor Anselmo. - Tu sei forse ancora un po' alterato, eh, Max? Lo sento, ti conosco... ti conosco... Vorresti dirci almeno se la catena così disposta ti accontenta?

Non aveva il Paleari finito di far questa domanda, ch'io sentii picchiarmi rapidamente due volte su la fronte, quasi con la punta di un dito.

- Sì! - esclamai subito, denunciando il fenomeno; e strinsi la mano d'Adriana.

Debbo confessare che quel « toccamento » inatteso mi fece pure, lì per li, una strana impressione. Ero sicuro che, se avessi levato a tempo la mano avrei ghermito quella di Papiano, e tuttavia... La delicata leggerezza del tocco e la precisione erano state, a ogni modo, meravigliose. Poi, ripeto, non me l'aspettavo. Ma perché intanto Papiano aveva scelto me per manifestar la sua remissione? Aveva voluto con quel segno tranquillarmi, o era esso all'incontro una sfida e significava: « Adesso vedrai se son contento »?

- Bravo, Max! - esclamò il signor Anselmo.

E io, tra me:

« (Bravo, sì! Che fitta di scapaccioni ti darei!) »

- Ora, se non ti dispiace - riprese il padron di casa, - vorresti darci un segno del tuo buon animo verso di noi?

Cinque colpi sul tavolino intimarono: - Parlate!

- Che significa? - domandò la signora Candida, impaurita.

- Che bisogna parlare, - spiegò Papiano, tranquillamente.

E Pepita :

- A chi?

- Ma a chi vuol lei, signorina! Parli col suo vicino, per esempio.

- Forte?

- Sì, - disse il signor Anselmo. - Questo vuol dire, signor Meis, che Max ci prepara intanto qualche bella manifestazione. Forse una luce... chi sa! Parliamo, parliamo...

E che dire? Io già parlavo da un pezzo con la mano d'Adriana, e non pensavo, ahimè, non pensavo più a nulla! Tenevo a quella manina un lungo discorso intenso, stringente, e pur carezzevole, che essa ascoltava tremante e abbandonata; già! l'avevo costretta a cedermi le dita, a intrecciarle con le mie. Un'ardente ebbrezza mi aveva preso, che godeva dello spasimo che le costava lo sforzo di reprimer la sua foga smaniosa per esprimersi invece con le maniere d'una dolce tenereza, come voleva il candore di quella timida anima soave.

Ora, in tempo che le nostre mani facevano questo discorso fitto fitto, io cominciai ad avvertire come uno strofinio alla traversa, tra le due gambe posteriori della seggiola; e mi turbai. Papiano non poteva col piede arrivare fin là; e, quand'anche, la traversa fra le gambe anteriori gliel'avrebbe impedito. Che si fosse alzato dal tavolino e fosse venuto dietro alla mia seggiola? Ma, in questo caso, la signora Candida, se non era proprio scema, avrebbe dovuto avvertirlo. Prima di comunicare a gli altri il fenomeno, avrei voluto in qualche modo spiegarmelo; ma poi pensai che, avendo ottenuto ciò che mi premeva, ora, quasi per obbligo, mi conveniva secondar la frode, senz'altro indugio, per non irritare maggiormente Papiano. E avviai a dire quel che sentivo.

- Davvero? - esclamò Papiano, dal suo posto, con una meraviglia che mi parve sincera.

Né minor meraviglia dimostrò la signorina Caporale.

Sentii rizzarmi i capelli su la fronte. Dunque, quel fenomeno era vero?

- Strofinìo? - domandò ansiosamente il signor Anselmo. - Come sarebbe? come sarebbe?

- Ma sì! - confermai, quasi stizzito. - E séguita! Come se ci fosse qua dietro un cagnolino... ecco!

Un alto scoppio di risa accolse questa mia spiegazione.

- Ma è Minerva! è Minerva! - gridò Pepita Pantogada.

- Chi è Minerva? - domandai, mortificato.

- Ma la mia cagnetta! - riprese quella, ridendo ancora. - La viechia mia, segnore, che se grata asì soto tute le sedie. Con permisso! con permisso!

Il Bernaldez accese un altro fiammifero, e Pepita s'alzò per prendere quella cagnetta, che si chiamava Minerva, e accucciarsela in grembo.

- Ora mi spiego, - disse contrariato il signor Anselmo, - ora mi spiego la irritazione di Max. C'è poca serietà, questa sera, ecco!

Per il signor Anselmo, forse, sì: ma - a dir vero - non ce ne fu molta di più per noi nelle sere successive, rispetto allo spiritismo, s'intende.

Chi poté più badare alle prodezze di Max nel buio? Il tavolino scricchiolava, si moveva, parlava con picchi sodi o lievi; altri picchi s'udivano su le cartelle delle nostre seggiole e, or qua or là, su i mobili della camera, e raspamenti, strascichii e altri rumori; strane luci fosforiche, come fuochi fatui, si accendevano nell'aria per un tratto, vagolando, e anche il lenzuolo si rischiarava e si gonfiava come una vela; e un tavolinetto porta-sigari si fece parecchie passeggiatine per la camera e una volta finanche balzò sul tavolino intorno al quale sedevamo in catena; e la chitarra come se avesse messo le ali, volò dal cassettone su cui era posata e venne a strimpellar su noi... Mi parve però che Max manifestasse meglio le sue eminenti facoltà musicali coi sonaglioli d'un collaretto da cane che a un certo punto fu messo al collo della signorina Caporale; il che parve al signor Anselmo uno scherzo affettuoso e graziosissimo di Max; ma la signorina Caporale non lo gradì molto.

Era entrato evidentemente in iscena, protetto dal bujo, Scipione, il fratello di Papiano, con istruzioni particolarissime. Costui era davvero epilettico, ma non così idiota come il fratello Terenzio e lui stesso volevano dare a intendere. Con la lunga abitudine dell'oscurità, doveva aver fatto l'occhio a vederci al bujo. In verità, non potrei dire fino a che punto egli si dimostrasse destro in quelle frodi congegnate avanti col fratello e con la Caporale; per noi, cioè per me e per Adriana, per Pepita e il Bernaldez, poteva far quello che gli piaceva e tutto andava bene, comunque lo facesse: lì, egli non doveva contentare che il signor Anselmo e la signora Candida; e pareva vi riuscisse a meraviglia. E vero bensì, che né l'uno né l'altra erano di difficile contentatura. Oh, il signor Anselmo gongolava di gioja; pareva in certi momenti un ragazzetto al teatrino delle marionette; e a certe sue esclamazioni puerili io soffrivo, non solo per l'avvilimento che mi cagionava il vedere un uomo, non certamente sciocco, dimostrarsi tale fino all'inverosimile; ma anche perché Adriana mi faceva comprendere che provava rimorso a godere così, a scapito della serietà del padre, approfittandosi della ridicola dabbenaggine di lui.

Questo solo turbava di tratto in tratto la nostra gioja. Eppure, conoscendo Papiano, avrebbe dovuto nascermi il sospetto che, se egli si rassegnava a lasciarmi accanto Adriana e, contrariamente a' miei timori, non ci faceva mai disturbare dallo spirito di Max, anzi pareva che ci favorisse e ci proteggesse, doveva aver fatto qualche altra pensata. Ma era tale in quei momenti la gioja che mi procurava la libertà indisturbata nel bujo, che questo sospetto non mi s'affacciò affatto.

- No! - strillo a un certo punto la signorina Pantogada.

E subito il signor Anselmo:

- Dica, dica, signorina! che è stato? che ha sentito?

Anche il Bernaldez la spinse a dire, premurosamente; e allora Pepita:

- Aquì, su un lado, una carecia...

- Con la mano? - domandò il Paleari. - Delicata, è vero? Fredda, furtiva e delicata... Oh, Max, se vuole, sa esser gentile con le donne! Vediamo un po', Max, potresti rifar la carezza alla signorina?

- Aquì està! aquì está! - si mise a gridare subito Pepita ridendo.

- Che vuol dire? - domando il signor Anselmo.

- Rifà, rifà... m'acareccia!

- E un bacio, Max? - propose allora il Paleari.

- No! - strillò Pepita, di nuovo.

Ma un bel bacione sonoro le fu scoccato su la guancia.

Quasi involontariamente io mi recai allora la mano di Adriana alla bocca; poi, non contento, mi chinai a cercar la bocca di lei, e così il primo bacio, bacio lungo e muto, fu scambiato fra noi.

Che seguì? ci volle un pezzo, prima ch'io smarrito di confusione e di vergogna, potessi riavermi in quell'improvviso disordine. S'erano accorti di quel nostro bacio? Gridavano. Uno, due fiammiferi, accesi; poi anche la candela, quella stessa che stava entro il lanternino dal vetro rosso. E tutti in piedi! Perché? Perché? Un gran colpo, un colpo formidabile, come vibrato da un pugno di gigante invisibile, tonò sul tavolino, così, in piena luce. Allibimmo tutti e, più di ogni altro, Papiano e la signorina Caporale.

- Scipione! Scipione! - chiamò Terenzio.

L'epilettico era caduto per terra e rantolava stranamente.

- A sedere! - gridò il signor Anselmo. - E caduto in trance anche lui! Ecco, ecco, il tavolino si muove, si solleva, si solleva... La levitazione! Bravo, Max! Evviva !

E davvero il tavolino, senza che nessuno lo toccasse, si levò alto più d'un palmo dal suolo e poi ricadde pesantemente.

La Caporale, livida, tremante, atterrita, venne a nascondere la faccia sul mio petto. La signorina Pantogada e la governante scapparono via dalla camera, mentre il Paleari gridava irritatissimo:

- No, qua, perbacco! Non rompete la catena! Ora viene il meglio! Max! Max!

- Ma che Max! - esclamò Papiano, scrollandosi alla fine dal terrore che lo teneva inchiodato e accorrendo al fratello per scuoterlo e richiamarlo in sé.

Il ricordo del bacio fu per il momento soffocato in me dallo stupore per quella rivelazione veramente strana e inesplicabile, a cui avevo assistito. Se, come sosteneva il Paleari, la forza misteriosa che aveva agito in quel momento, alla luce, sotto gli occhi miei, proveniva da uno spirito invisibile, evidentemente, questo spirito non era quello di Max: bastava guardar Papiano e la signorina Caporale per convincersene. Quel Max, lo avevano inventato loro. Chi dunque aveva agito? chi aveva avventato sul tavolino quel pugno formidabile?

Tante cose lette nei libri del Paleari mi balzarono in tumulto alla mente; e, con un brivido, pensai a quello sconosciuto che s'era annegato nella gora del molino alla Stìa, a cui io avevo tolto il compianto de' suoi e degli estranei.

« Se fosse lui! » dissi tra me. « Se fosse venuto a trovarmi, qua, per vendicarsi, svelando ogni cosa... »

Il Paleari intanto, che - solo - non aveva provato né meraviglia né sgomento, non riusciva ancora a capacitarsi come un fenomeno così semplice e comune, quale la levitazione del tavolino, ci avesse tanto impressionato, dopo quel po' po' di meraviglie a cui avevamo precedentemente assistito. Per lui contava ben poco che il fenomeno si fosse manifestato alla luce. Piuttosto non sapeva spiegarsi come mai Scipione si trovasse là, in camera mia, mentr'egli lo credeva a letto.

- Mi fa specie, - diceva - perché di solito questo poveretto non si cura di nulla. Ma si vede che queste nostre sedute misteriose gli han destato una certa curiosità: sarà venuto a spiare, sarà entrato furtivamente, e allora... pàffete, acchiappato! Perché e innegabile, sa, signor Meis, che i fenomeni straordinarii della medianità traggono in gran parte origine dalla nevrosi epilettica, catalettica e isterica. Max prende da tutti, sottrae anche a noi buona parte d'energia nervosa, e se ne vale per la produzione dei fenomeni. E' accertato! Non si sente anche lei, difatti, come se le avessero sottratto qualche cosa?

- Ancora no, per dire la verità.

Quasi fino all'alba mi rivoltai sul letto, fantasticando di quell'infelice, sepolto nel cimitero di Miragno, sotto il mio nome. Chi era? Donde veniva? Perché si era ucciso? Forse voleva che quella sua triste fine si sapesse: era stata forse riparazione, espiazione... e io me n'ero approfittato! Più d'una volta, al bujo - lo confesso - gelai di paura. Quel pugno, lì, sul tavolino, in camera mia, non lo avevo udito io solo. Lo aveva scagliato lui? E non era egli ancor lì, nel silenzio, presente e invisibile, accanto a me? Stavo in orecchi, se m'avvenisse di cogliere qualche rumore nella camera. Poi m'addormentai e feci sogni paurosi.

Il giorno appresso aprii le finestre alla luce.

 

 

XV - Io e l'ombra mia    (torna all'indice)

 

Mi è avvenuto più volte, svegliandomi nel cuor della notte (la notte, in questo caso, non dimostra veramente d'aver cuore), mi è avvenuto di provare al bujo, nel silenzio, una strana meraviglia, uno strano impaccio al ricordo di qualche cosa fatta durante il giorno, alla luce, senz'abbadarci; e ho domandato allora a me stesso se, a determinar le nostre azioni, non concorrano anche i colori, la vista delle cose circostanti, il vario frastuono della vita. Ma sì, senza dubbio; e chi sa quant'altre cose! Non viviamo noi, secondo il signor Anselmo, in relazione con l'universo? Ora sta a vedere quante sciocchezze questo maledetto universo ci fa commettere, di cui poi chiamiamo responsabile la misera coscienza nostra, tirata da forze esterne, abbagliata da una luce che è fuor di lei. E, all'incontro, quante deliberazioni prese, quanti disegni architettati, quanti espedienti macchinati durante la notte non appajono poi vani e non crollano e non sfumano alla luce del giorno? Com'altro è il giorno, altro la notte, così forse una cosa siamo noi di giorno, altra di notte: miserabilissima cosa, ahimè, così di notte come di giorno.

So che, aprendo dopo quaranta giorni le finestre della mia camera, io non provai alcuna gioja nel riveder la luce. Il ricordo di ciò che avevo fatto in quei giorni al bujo me la offuscò orribilmente. Tutte le ragioni e le scuse e le persuasioni che in quel bujo avevano avuto il loro peso e il loro valore, non ne ebbero più alcuno, appena spalancate le finestre, o ne ebbero un altro al tutto opposto. E invano quel povero me che per tanto tempo se n'era stato con le finestre chiuse e aveva fatto di tutto per alleviarsi la noja smaniosa della prigionia, ora - timido come un cane bastonato - andava appresso a quell'altro me che aveva aperte le finestre e si destava alla luce del giorno, accigliato, severo, impetuoso; invano cercava di stornarlo dai foschi pensieri, inducendolo a compiacersi piuttosto, dinanzi allo specchio, del buon esito dell'operazione e della barba ricresciuta e anche del pallore che in qualche modo m'ingentiliva l'aspetto.

« Imbecille, che hai fatto? che hai fatto? »

Che avevo fatto? Niente, siamo giusti! Avevo fatto all'amore. Al bujo - era colpa mia? - non avevo veduto più ostacoli, e avevo perduto il ritegno che m'ero imposto. Papiano voleva togliermi Adriana; la signorina Caporale me l'aveva data, me l'aveva fatta sedere accanto, e s'era buscato un pugno sulla bocca, poverina; io soffrivo, e - naturalmente - per quelle sofferenze credevo com'ogni altro sciagurato (leggi uomo) d'aver diritto a un compenso, e - poiché l'avevo allato - me l'ero preso; lì si facevano gli esperimenti della morte, e Adriana, accanto a me, era la vita, la vita che aspetta un bacio per schiudersi alla gioja; ora Manuel Bernaldez aveva baciato al bujo la sua Pepita, e allora anch'io...

- Ah!

Mi buttai su la poltrona, con le mani su la faccia. Mi sentivo fremere le labbra al ricordo di quel bacio. Adriana! Adriana! Che speranze le avevo acceso in cuore con quel bacio? Mia sposa, è vero? Aperte le finestre, festa per tutti!

Rimasi, non so per quanto tempo, li su quella poltrona, a pensare, ora con gli occhi sbarrati, ora restringendomi tutto in me, rabbiosamente, come per schermirmi da un fitto spasimo interno. Vedevo finalmente: vedevo in tutta la sua crudezza la frode della mia illusione: che cos'era in fondo ciò che m'era sembrata la più grande delle fortune, nella prima ebbrezza della mia liberazione.

Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m'era parsa senza limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m'ero anche accorto ch'essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, foss'anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s'erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più per me. Ah, ora me n'accorgevo veramente, ora che non potevo più con vani pretesti, con infingimenti quasi puerili, con pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer coscienza del mio sentimento per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, delle mie parole, de' miei atti. Troppe cose, senza parlare, le avevo detto, stringendole la mano, inducendola a intrecciar con le mie le sue dita; e un bacio, un bacio infine aveva suggellato il nostro amore. Ora, come risponder coi fatti alla promessa? Potevo far mia Adriana? Ma nella gora del molino, là alla Stìa, ci avevano buttato me quelle due buone donne, Romilda e la vedova Pescatore,- non ci s'eran mica buttate loro! E libera dunque era rimasta lei, mia moglie; non io, che m'ero acconciato a fare il morto, lusingandomi di poter diventare un altro uomo, vivere un'altra vita. Un altr'uomo, sì ma a patto di non far nulla. E che uomo dunque? Un'ombra d'uomo! E che vita? Finché m'ero contentato di star chiuso in me e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male salvar l'illusione ch'io stessi vivendo un'altra vita; ma ora che a questa m'ero accostato fino a cogliere un bacio da due care labbra, ecco, mi toccava a ritrarmene inorridito, come se avessi baciato Adriana con le labbra d'un morto, d'un morto che non poteva rivivere per lei! Labbra mercenarie, sì, avrei potuto baciarne; ma che sapor di vita in quelle labbra? Oh, se Adriana, conoscendo il mio strano caso... Lei? No... no... che! neanche a pensarci! Lei, così pura, così timida... Ma se pur l'amore fosse stato in lei più forte di tutto, più forte d'ogni riguardo sociale... ah povera Adriana, e come avrei potuto io chiuderla con me nel vuoto della mia sorte, farla compagna d'un uomo che non poteva in alcun modo dichiararsi e provarsi vivo? Che fare? che fare?

Due colpi all'uscio mi fecero balzar dalla poltrona. Era lei, Adriana

Per quanto con uno sforzo violento cercassi di arrestare in me il tumulto dei sentimenti, non potei impedire che non le apparissi almeno turbato. Turbata era anche lei, ma dal pudore, che non le consentiva di mostrarsi lieta, come avrebbe voluto, di rivedermi finalmente guarito, alla luce, e contento... No? Perché no?... Alzò appena gli occhi a guardarmi; arrossì; mi porse una busta:

- Ecco, per lei...

- Una lettera?

- Non credo. Sarà la nota del dottor Ambrosini. Il servo vuol sapere se c'è risposta.

Le tremava la voce. Sorrise.

- Subito, - diss'io; ma un'improvvisa tenerezza mi prese,- comprendendo ch'ella era venuta con la scusa di quella nota per aver da me una parola che la raffermasse nelle sue speranze; un'angosciosa, profonda pietà mi vinse, pietà di lei e di me, pietà crudele, che mi spingeva irresistibilmente a carezzarla, a carezzare in lei il mio dolore, il quale soltanto in lei, che pur ne era la causa, poteva trovar conforto. E pur sapendo che mi sarei compromesso ancor più, non seppi resistere: le porsi ambo le mani. Ella, fiduciosa, ma col volto in fiamme, alzò pian piano sue e le pose sulle mie. Mi attirai allora la sua testina bionda sul petto e le passai una mano su i capelli.

- Povera Adriana!

- Perché? - mi domandò, sotto la carezza. - Non siamo contenti?

- Sì...

- E allora perché povera?

Ebbi in quel momento un impeto di ribellione, fui tentato di svelarle tutto, di risponderle: « Perché? senti io ti amo, e non posso, non debbo amarti! Se tu vuoi però... ». Ma dàlli! Che poteva volere quella mite creatura? Mi premetti forte sul petto la sua testina, e sentii che sarei stato molto più crudele se dalla gioja suprema a cui ella, ignara, si sentiva in quel punto inalzata dall'amore, io l'avessi fatta precipitare nell'abisso della disperazione ch'era in me.

- Perché, - dissi, lasciandola, - perché so tante cose, per cui lei non può esser contenta...

Ebbe come uno smarrimento penosissimo, nel vedersi, cosi d'un tratto, sciolta dalle mie braccia. Si aspettava forse, dopo quelle carezze, che io le dessi del tu? Mi guardò e, notando la mia agitazione, domandò esitante:

- Cose... che sa lei... per sé, o qui... di casa mia?

Le risposi col gesto: « Qui, qui » per togliermi la tentazione che di punto in punto mi vinceva, di parlare, di aprirmi con lei.

L'avessi fatto! Cagionandole subito quell'unico, forte dolore, gliene avrei risparmiato altri, e io non mi sarei cacciato in nuovi e più aspri garbugli. Ma troppo recente era allora la mia triste scoperta, avevo ancor bisogno d'approfondirla bene, e l'amore e la pietà mi toglievano il coraggio d'infrangere così d'un tratto le speranze di lei e la mia vita stessa, cioè quell'ombra d'illusione che di essa, finché tacevo, poteva ancora restarmi. Sentivo poi quanto odiosa sarebbe stata la dichiarazione che avrei dovuto farle, che io, cioè, avevo moglie ancora. Sì! sì! Svelandole che non ero Adriano Meis io tornavo ad essere Mattia Pascal, MORTO E ANCORA AMMOGLIATO! Come si possono dire siffatte cose? Era il colmo, questo, della persecuzione che una moglie possa esercitare sul proprio marito: liberarsene lei, riconoscendolo morto nel cadavere d'un povero annegato, e pesare ancora, dopo la morte. su lui, addosso a lui, così. Io avrei potuto ribellarmi è vero, dichiararmi vivo, allora... Ma chi, al posto mio, non si sarebbe regolato come me? Tutti, tutti, come me, in quel punto, nei panni miei, avrebbero stimato certo una fortuna potersi liberare in un modo così inatteso, insperato, insperabile, della moglie, della suocera, dei debiti, d'un'egra e misera esistenza come quella mia. Potevo mai pensare, allora, che neanche morto mi sarei liberato della moglie? lei, sì, di me, e io no di lei? e che la vita che m'ero veduta dinanzi libera libera libera, non fosse in fondo che una illusione, la quale non poteva ridursi in realtà, se non superficialissimamente, e più schiava che mai, schiava delle finzioni, delle menzogne che con tanto disgusto m'ero veduto costretto a usare, schiava del timore d'essere scoperto, pur senza aver commesso alcun delitto?

Adriana riconobbe che non aveva in casa, veramente, di che esser contenta; ma ora... E con gli occhi e con un mesto sorriso mi domandò se mai per me potesse rappresentare un ostacolo ciò che per lei era cagione di dolore. « No, è vero? » chiedeva quello sguardo e quel mesto sorriso.

- Oh, ma paghiamo il dottor Ambrosini! - esclamai, fingendo di ricordarmi improvvisamente della nota e del servo che attendeva di là. Lacerai la busta e, senza por tempo in mezzo, sforzandomi d'assumere un tono scherzoso: - Seicento lire! dissi. - Guardi un po', Adriana: la Natura fa una delle sue solite stramberie; per tanti anni mi condanna a portare un occhio, diciamo così, disobbediente; io soffro dolori e prigionia per correggere lo sbaglio di lei, e ora per giunta mi tocca a pagare. Le sembra giusto?

Adriana sorrise con pena.

- Forse, - disse, - il dottor Ambrosini non sarebbe contento se lei gli rispondesse di rivolgersi alla Natura per il pagamento. Credo che si aspetti anche d'esser ringraziato, perché l'occhio...

- Le par che stia bene?

Ella si sforzò a guardarmi, e disse piano, riabbassando subito gli occhi:

- Sì... Pare un altro...

- Io o l'occhio?

- Lei.

- Forse con questa barbaccia...

- No... Perché? Le sta bene...

Me lo sarei cavato con un dito, quell'occhio! Che m'importava più d'averlo a posto?

- Eppure, - dissi, - forse esso, per conto suo, era più contento prima. Ora mi dà un certo fastidio... Basta. Passerà!

Mi recai allo stipetto a muro, in cui tenevo il denaro. Allora Adriana accennò di volersene andare; io stupido, la trattenni; ma, già, come potevo prevedere? In tutti gl'impicci miei, grandi e piccini, sono stato, come s'è visto, soccorso sempre dalla fortuna. Ora ecco com'essa, anche questa volta, mi venne in ajuto.

Facendo per aprire lo stipetto, notai che la chiave non girava entro la serratura: spinsi appena appena e, subito, lo sportellino cedette: era aperto!

- Come! - esclamai. - Possibile ch'io l'abbia lasciato così?

Notando il mio improvviso turbamento, Adriana era diventata pallidissima. La guardai, e:

- Ma qui... guardi, signorina, qui qualcuno ha dovuto metter le mani!

C'era dentro lo stipetto un gran disordine: i miei biglietti di banca erano stati tratti dalla busta di cuojo, in cui li tenevo custoditi, ed erano lì sul palchetto sparpagliati. Adriana si nascose il volto con le mani, inorridita. Io raccolsi febbrilmente quei biglietti e mi diedi a contarli.

- Possibile? - esclamai, dopo aver contato, passandomi le mani tremanti su la fronte ghiaccia di sudore.

Adriana fu per mancare, ma si sorresse a un tavolinetto lì presso e domandò con una voce che non mi parve più la sua :

- Hanno rubato?

- Aspetti... aspetti... Com'è possibile? - dissi io.

E mi rimisi a contare, sforzando rabbiosamente le dita e la carta, come se, a furia di stropicciare, potessero da quei biglietti venir fuori gli altri che mancavano.

- Quanto? - mi domandò ella, scontraffatta dall'orrore, dal ribrezzo, appena ebbi finito di contare.

- Dodici... dodici mila lire... - balbettai. - Erano sessantacinque... sono cinquantatré! Conti lei...

Se non avessi fatto a tempo a sorreggerla, la povera Adriana sarebbe caduta per terra, come sotto una mazzata. Tuttavia, con uno sforzo supremo, ella poté riaversi ancora una volta, e singhiozzando, convulsa, cercò di sciogliersi da me che volevo adagiarla su la poltrona e fece per spingersi verso l'uscio:

- Chiamo il babbo! chiamo il babbo!

- No! - le gridai, trattenendola e costringendola a sedere. - Non si agiti così, per carità! Lei mi fa più male... Io non voglio, non voglio! Che c'entra lei? Per carità, si calmi. Mi lasci prima accertare, perché... sì, lo stipetto era aperto, ma io non posso, non voglio credere ancora a un furto così ingente... Stia buona, via!

E daccapo, per un ultimo scrupolo, tornai a contare i biglietti; pur sapendo di certo che tutto il mio denaro stava lì, in quello stipetto, mi diedi a rovistare da per tutto, anche dove non era in alcun modo possibile ch'io avessi lasciato una tal somma, tranne che non fossi stato colto da un momento di pazzia. E per indurmi a quella ricerca che m'appariva a mano a mano sempre più sciocca e vana, mi sforzavo di credere inverosimile l'audacia del ladro. Ma Adriana, quasi farneticando, con le mani sul volto, con la voce rotta dai singhiozzi:

- E inutile! è inutile! - gemeva. - Ladro... ladro... anche ladro!... Tutto congegnato avanti... Ho sentito, nel bujo... m'è nato il sospetto... ma non volli credere ch'egli potesse arrivare fino a tanto...

Papiano, sì: il ladro non poteva esser altri che lui; lui, per mezzo del fratello, durante quelle sedute spiritiche...

- Ma come mai, - gemette ella, angosciata, - come mai teneva lei tanto denaro, cosi, in casa?

Mi voltai a guardarla, inebetito. Che risponderle? Potevo dirle che per forza, nella condizione mia dovevo tener con me il denaro? potevo dirle che mi era interdetto d'investirlo in qualche modo, d'affidarlo a qualcuno? che non avrei potuto neanche lasciarlo in deposito in qualche banca, giacché, se poi per caso fosse sorta qualche difficoltà non improbabile per ritirarlo, non avrei più avuto modo di far riconoscere il mio diritto su esso?

E, per non apparire stupito, fui crudele:

- Potevo mai supporre? - dissi.

Adriana si coprì di nuovo il volto con le mani, gemendo, straziata:

- Dio! Dio! Dio!

Lo sgomento che avrebbe dovuto assalire il ladro nel commettere il furto, invase me, invece, al pensiero di ciò che sarebbe avvenuto. Papiano non poteva certo supporre ch'io incolpassi di quel furto il pittore spagnuolo o il signor Anselmo, la signorina Caporale o la serva di casa o lo spirito di Max: doveva esser certo che avrei incolpato lui, lui e il fratello: eppure, ecco, ci s'era messo, quasi sfidandomi.

E io? che potevo far io? Denunziarlo? E come? Ma niente, niente, niente! io non potevo far niente! ancora una volta, niente! Mi sentii atterrato, annichilito. Era la seconda scoperta, in quel giorno! Conoscevo il ladro, e non potevo denunziarlo. Che diritto avevo io alla protezione della legge? Io ero fuori d'ogni legge. Chi ero io? Nessuno! Non esistevo io, per la legge. E chiunque, ormai, poteva rubarmi; e io, zitto!

Ma, tutto questo, Papiano non poteva saperlo. E dunque?

- Come ha potuto farlo? - dissi quasi tra me. - Da che gli è potuto venire tanto ardire?

Adriana levò il volto dalle mani e mi guardò stupita, come per dire: « E non lo sai? ».

- Ah, già! - feci, comprendendo a un tratto.

- Ma lei lo denunzierà! - esclamò ella, levandosi in piedi. - Mi lasci, la prego, mi lasci chiamare il babbo... Lo denunzierà subito!

Feci in tempo a trattenerla ancora una volta. Non ci mancava altro, che ora, per giunta, Adriana mi costringesse a denunziare il furto! Non bastava che mi avessero rubato, come niente, dodici mila lire? Dovevo anche temere che il furto si conoscesse; pregare, scongiurare Adriana che non lo gridasse forte, non lo dicesse a nessuno, per carità? Ma che! Adriana - e ora lo intendo bene - non poteva assolutamente permettere che io tacessi e obbligassi anche lei al silenzio, non poteva in verun modo accettare quella che pareva una mia generosità, per tante ragioni: prima per il suo amore, poi per l'onorabilità della sua casa, e anche per me e per l'odio ch'ella portava al cognato.

Ma in quel frangente, la sua giusta ribellione mi parve proprio di più: esasperato, le gridai:

- Lei si starà zitta: gliel'impongo! Non dirà nulla a nessuno, ha capito? Vuole uno scandalo?

- No! no! - s'affrettò a protestare, piangendo, la povera Adriana. - Voglio liberar la mia casa dall'ignominia di quell'uomo!

- Ma egli negherà! - incalzai io. - E allora, lei, tutti di casa innanzi al giudice... Non capisce?

- Si, benissimo! - rispose Adriana con fuoco, tutta vibrante di sdegno. - Neghi, neghi pure! Ma noi, per conto nostro, abbiamo altro, creda, da dire contro di lui. Lei lo denunzii, non abbia riguardo, non tema per noi... Ci farà un bene, creda, un gran bene! Vendicherà la povera sorella mia... Dovrebbe intenderlo, signor Meis, che mi offenderebbe, se non lo facesse. Io voglio, voglio che lei lo denunzii. Se non lo fa lei, lo farò io! Come vuole che io rimanga con mio padre sotto quest'onta! No! no! no! E poi...

Me la strinsi fra le braccia: non pensai più al denaro rubato, vedendola soffrire così, smaniare, disperata: e le promisi che avrei fatto com'ella voleva purché si calmasse. No, che onta? non c'era alcuna onta per lei, né per il suo babbo; io sapevo su chi ricadeva la colpa di quel furto; Papiano aveva stimato che il mio amore per lei valesse bene dodicimila lire, e io dovevo dimostrargli di no? Denunziarlo? Ebbene, sì, l'avrei fatto, non per me, ma per liberar la casa di lei da quel miserabile: sì, ma a un patto: che ella prima di tutto si calmasse, non piangesse più così, via! via! e poi, che mi giurasse su quel che aveva di più caro al mondo, che non avrebbe parlato a nessuno, a nessuno, di quel furto, se prima io non consultavo un avvocato per tutte le conseguenze che, in tanta sovreccitazione, né io né lei potevamo prevedere.

- Me lo giura? Su ciò che ha di più caro?

Me lo giurò, e con uno sguardo, tra le lagrime, mi fece intendere su che cosa me lo giurava, che cosa avesse di più caro.

Povera Adriana!

Rimasi lì, solo, in mezzo alla camera, sbalordito, vuoto, annientato, come se tutto il mondo per me si fosse fatto vano. Quanto tempo passò prima ch'io mi riavessi? E come mi riebbi? Scemo... scemo!... Come uno scemo, andai a osservare lo sportello dello stipetto, per vedere se non ci fosse qualche traccia di violenza. No: nessuna traccia: era stato aperto pulitamente, con un grimaldello, mentr'io custodivo con tanta cura in tasca la chiave.

- E non si sente lei, - mi aveva domandato il Paleari alla fine dell'ultima seduta, - non si sente lei come se le avessero sottratto qualche cosa?

Dodici mila lire!

Di nuovo il pensiero della mia assoluta impotenza, della mia nullità, mi assalì, mi schiacciò. Il caso che potessero rubarmi e che io fossi costretto a restar zitto e finanche con la paura che il furto fosse scoperto, come se l'avessi commesso io e non un ladro a mio danno, non mi s'era davvero affacciato alla mente.

Dodici mila lire? Ma poche! poche! Possono rubarmi tutto, levarmi fin la camicia di dosso; e io, zitto! Che diritto ho io di parlare? La prima cosa che mi domanderebbero, sarebbe questa: « E voi chi siete? Donde vi era venuto quel denaro? ». Ma senza denunziarlo... vediamo un po'! se questa sera io lo afferro per il collo e gli grido: « Qua subito il denaro che hai tolto di là, dallo stipetto, pezzo di ladro! ». Egli strilla; nega; può forse dirmi: « Sissignore, eccolo qua, I'ho preso per isbaglio... »? E allora? Ma c'è il caso che mi dia anche querela per diffamazione. Zitto, dunque, zitto! M'è sembrata una fortuna l'esser creduto morto? Ebbene, e sono morto davvero. Morto? Peggio che morto; me l'ha ricordato il signor Anselmo: i morti non debbono più morire, e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? La noja di prima, la solitudine, la compagnia di me stesso?

Mi nascosi il volto con le mani; caddi a sedere su la poltrona.

Ah, fossi stato almeno un mascalzone! avrei potuto forse adattarmi a restar così, sospeso nell'incertezza della sorte, abbandonato al caso, esposto a un rischio continuo, senza base, senza consistenza. Ma io? Io, no. E che fare, dunque? Andarmene via? E dove? E Adriana? Ma che potevo fare per lei? Nulla... nulla... Come andarmene però così, senz'alcuna spiegazione, dopo quanto era accaduto? Ella ne avrebbe cercato la causa in quel furto; avrebbe detto: « E perché ha voluto salvare il reo, e punir me innocente? ». Ah no, no, povera Adriana! Ma, d'altra parte, non potendo far nulla come sperare di rendere men trista la mia parte verso di lei? Per forza dovevo dimostrarmi inconseguente e crudele. L'inconseguenza, la crudeltà erano della mia stessa sorte, e io per il primo ne soffrivo. Fin Papiano, il ladro, commettendo il furto, era stato più conseguente e men crudele di quel che pur troppo avrei dovuto dimostrarmi io.

Egli voleva Adriana, per non restituire al suocero la dote della prima moglie: io avevo voluto togliergli Adriana? e dunque la dote bisognava che la restituissi io, al Paleari.

Per ladro, conseguentissimo!

Ladro? Ma neanche ladro: perché la sottrazione, in fondo, sarebbe stata più apparente che reale: infatti, conoscendo egli l'onestà di Adriana, non poteva pensare ch'io volessi farne la mia amante: volevo certo farla mia moglie: ebbene allora avrei riavuto il mio denaro sotto forma di dote d'Adriana, e per di più avrei avuto una mogliettina saggia e buona: che cercavo di più?

Oh, io ero sicuro che, potendo aspettare, e se Adriana avesse avuto la forza di serbare il segreto, avremmo veduto Papiano attener la promessa di restituire, anche prima dell'anno di comporto, la dote della defunta moglie.

Quel denaro, è vero, non poteva più venire a me, perché Adriana non poteva esser mia: ma sarebbe andato a lei, se ella ora avesse saputo tacere, seguendo il mio consiglio, e se io mi fossi potuto trattenere ancora per qualche po' di tempo lì. Molta arte, molta arte avrei dovuto adoperare, e allora Adriana, se non altro, ci avrebbe forse guadagnato questo: la restituzione della sua dote.

M'acquietai un po', almeno per lei, pensando così. Ah, non per me! Per me rimaneva la crudezza della frode scoperta, quella de la mia illusione, di fronte a cui era nulla il furto delle dodici mila lire, era anzi un bene, se poteva risolversi in un vantaggio per Adriana.

Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con quel lutto nel cuore, con quell'esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora, da quella casa, a cui mi ero già abituato, in cui avevo trovato un po' di requie, in cui mi ero fatto quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza meta, senza scopo, nel vuoto. La paura di ricader nei lacci della vita, mi avrebbe fatto tenere più lontano che mai dagli uomini, solo, solo' affatto solo, diffidente, ombroso; e il supplizio di Tantalo si sarebbe rinnovato per me.

Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s'affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l'ombra mia.

Chi era più ombra di noi due? io o lei?

Due ombre!

Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l'ombra, zitta.

L'ombra d'un morto: ecco la mia vita...

Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro.

- Là, cosi! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, si: alza un'anca! alza un'anca!