16. “LA LUPA HA BISOGNO DI SOLDI”
Quando ricomparvi sulla soglia della camera, Federigo, mi si gettò addosso e mi abbracciò con forza piangendo a dirotto.
“Evviva! Evviva: c’è l’ha fatta! È vivo!”, ripetè.
Ricambiai l’abbraccio cullandolo adagio, dolcemente: “Sono tutto intero; è tutto passato”.
Poco dopo, sopito l’accesso di pianto che gli scoteva il petto, Federigo allentò la stretta. Tirò su con il naso un paio di volte e andò a sedersi nella poltrona. Ora le sue palpebre perennemente serrate, enormi ai lati del naso piccolo e diritto, e il suo carnato pallido, più slavato e spento del solito, gli trasfiguravano il viso. L’aspetto paffuto, ridicolo su quel suo corpo di una magrezza impressionante, come dissoltosi d’incanto, s’era mutato in un ovale emaciato e deforme. Tremava. Il carico delle emozioni e la stanchezza che aveva accumulato nel corso della nottata, la lunga passeggiata di quella mattina e lo spavento orribile per l’attentato appena subito lo avevano stremato.
“Sdraiati, Federigo. Dormi. Ti sveglierò, se ce ne sarà bisogno”, gli sussurrai, mentre, dopo averlo sollevato sulle braccia, lo trasportavo nella sua stanza.
Lo coricai sul letto e socchiusi la persiana. Non reagì. Vinto dal turbine degli accadimenti, il mio piccolo e fidato amico aveva già ceduto al seducente richiamo di Morfeo.
Rientrato nella mia stanza, chiusi a chiave la porta, recuperai il bastone con il pomello a testa di cavallo e andai a sedermi allo scrittoio. Con calma, caricai la pipa, l’accesi e aspirai una profonda boccata di fumo. Poi, ad uno ad uno, con cura maniacale, deposi sul ripiano dello scrittoio il bastone col pomello di foggia equina, il messaggio di Tonini e la pallottola che avevo appena raccolto in Via della Stufa Secca. Intorno a quei tre oggetti, all’apparenza tanto dissimili tra loro, ruotava il garbuglio di crimini che dovevo dipanare. E il bandolo della matassa andava trovato in fretta. Il tempo stringeva. Ma da dove iniziare?
Vede, mio caro Watson, quando si è riflettuto troppo a lungo su elementi che non sia stato possibile chiarire, è il momento di accantonarli e di investire le proprie energie nell’analisi di quei fattori che non hanno mai occupato i nostri pensieri. Dunque, ignorai il bastone e il messaggio per concentrarmi, in via esclusiva, sul proiettile. Non so dire quale fu la mia sorpresa quando, tenendolo tra l’indice e il pollice della mano destra, lo sollevai fino all’altezza del naso per osservarlo con la lente d’ingrandimento. L’ogiva, contorta e deformata a causa dell’impatto contro il muro, presentava residui di polvere rossa, dello stesso tipo di quella che si sarebbe potuto grattare via dai mattoni con i quali sono costruiti gli edifici di Siena. La cosa più straordinaria, però era la scritta incisa sul metallo di rivestimento del proiettile: Eley n°2. Si trattava dello stesso tipo di cartucce che anche lei, mio caro dottore, ha sempre utilizzato per caricare la sua Webley. Chi aveva tentato di uccidermi, dunque, si era servito di una pistola di fabbricazione inglese, perché solo un’arma britannica poteva funzionare con quel tipo di proiettile. A ben vedere, si trattava di una circostanza stupefacente. In una provincia italiana tanto remota, la presenza di una simile arma, diffusa soltanto in Gran Bretagna e in qualche colonia dell’impero, rappresentava, infatti, un’anomalia bella e buona. Qualcosa, allora, balenò nella mia testa. Rimisi la pallottola sul ripiano dello scrittoio e presi dal portafoglio la banconota da venticinque lire che il mio piccolo e prezioso collaboratore aveva recuperato a Fonte Branda. La palpai in lungo e largo facendola scorrere lungamente tra l’indice e il pollice della mano destra. Infine, depostola sullo scrittoio, la riesaminai millimetro per millimetro aiutandomi con la lente d’ingrandimento. Sì, non c’era il minimo dubbio: la carta usata dalla zecca della Banca Romana era di produzione inglese. Ma perché mai una banca italiana usava carta inglese per la propria zecca? Era un quesito interessante, soprattutto se collegato all’incredibile scoperta di pochi minuti prima circa la nazionalità, anch’essa inglese, della pallottola con la quale avevano attentato alla mia vita. Sì, Watson, si trattava di una circostanza davvero singolare. E ancora: che relazione aveva, quella banconota, con la morte di Sesto Becocci e di Amos Tonini? Misi a fuoco un’idea… Sì, l’architettura reggeva, ma avevo bisogno di verifiche approfondite…
Avevo bisogno di riflettere. Abbandonai tutto sullo scrittoio, andai a sedermi in poltrona e incrociai le gambe alla maniera dei fachiri. Quindi, riaccesa la pipa e aspirata una lunga boccata di fumo, chiusi gli occhi e mi abbandonai al flusso dei miei pensieri.
Stava albeggiando, quando riemersi da quella sorta di trance nella quale ero sprofondato quasi quindici ore prima. Posai la pipa su un bracciolo della poltrona e, inarcando la schiena, mi stirai le braccia, allargandole come avrebbe fatto un’aquila che, aprendo le ali, si prepara a spiccare il volo. Poi, posate le mani sulle ginocchia e appoggiate le spalle contro lo schienale, tirai un sospiro di sollievo. Sebbene non mi fossi concesso nemmeno un minuto di sonno, mi sentivo pieno d’energia. Ero eccitato, Watson, perché d’un tratto, ebbi l’impressione che tutto fosse finalmente chiaro. Afferrai il biglietto sul quale avevo appuntato la decrittazione del messaggio sibillino di Tonini. Cominciai a leggerlo con lentezza, quasi sillabando ogni singola parola. D’un tratto, fui assalito da una strana frenesia. Qualcosa di indecifrabile mi spingeva, ad ogni parola che leggevo, a lasciare da parte il biglietto di Tonini per mettermi a sfogliare il giornale. Decisi di seguire quell’impulso. Mi alzai con l’agilità di un gatto, recuperai la copia della Nazione del giorno prima e presi a scorrere le pagine con foga. Finalmente, giunto alla pagina dove era pubblicata la mia inserzione sul bastone con la testa di cavallo, potei abbandonarmi ad un moto di compiacimento. Non mi ero ingannato: in fondo alla pagina, un piccolo riquadro pubblicitario del Teatro dei Rozzi annunciava la prossima messa in scena dell’Antigone di Sofocle. Sì, adesso ero sicuro di aver afferrato il bandolo della matassa. Il nocciolo della questione, sebbene ancora bisognasse appurare alcuni particolari, era ormai sufficientemente chiaro. Ma, ora più che mai, dovevo agire in fretta. Mi sedetti allo scrittoio e, presa carta e penna, scrissi il seguente messaggio:
Signor Sallustio Ermini
15 Mountague Street, London
Gentile Signor Ermini,
la Lupa ha un pessimo cavallo e ha bisogno di soldi se vuole vincere il Palio. L’ultima donazione è stata assai gradita, ma del tutto insufficiente a soddisfare le necessità di chi ha promesso di aiutarci. Vi prego di voler sollecitamente inviarci altri denari, con le medesime modalità e, possibilmente, nello stesso taglio da 25 lire, assai utile al nostro scopo.
Con i miei ringraziamenti, Vi giunga anche un fraterno abbraccio.
Tito Quaglierini
Rilette con soddisfazione quelle poche righe vergate di getto, piegai il foglio e lo infilai nella tasca interna della giacca. Fu allora che avvertii la presenza di un altro biglietto che avevo dimenticato del tutto. Sorrisi di gusto. E ne avevo più che buoni motivi, Watson, mi creda. Il piccolo esercizio pratico d’osservazione e deduzione al quale mi ero applicato aveva dato risultati eccellenti. Adesso, ne ero sicuro, risalire al nome dell’assassino non sarebbe stato difficile.
Raccolsi gli oggetti che avevo allineato sullo scrittoio e li sistemai in una sacca di tela da marinaio che portavo sempre con le altre cose che costituivano il mio scarso bagaglio. Poi, tornato a sedermi in poltrona, mi gustai, in tutta tranquillità, un'altra presa di tabacco.