5. SUL LUOGO DEL DELITTO

Le fonti pubbliche di Siena, utilizzate per fare scorte d’acqua e per il bucato, sono vere e proprie opere d’arte. Ogni quartiere ne ha una. Quella di Fonte Branda, tutta in mattoni rossi e merlata come gli antichi castelli, ha quasi l’aspetto di una piccola fortezza. Sulla facciata s’aprono tre grandi archi ogivali che funzionano da ingresso al grande e buio vano che ospita la vasca. La fonte s’affaccia su uno spazio aperto, una sorta di piccola piazza triangolare, dalla quale si dipartono quattro strade. Tre di queste vi scendono, ripidissime, dal cuore della città: Via Santa Caterina, Via del Costone e Via di Fontebranda. Quest’ultima, attraversata la piazza parallelamente alla facciata della fonte, prosegue (ed è questa la quarta strada) fino alla cinta muraria che un tempo proteggeva la zona ovest di Siena e da qui, superata l’antica porta di Fontebranda, s’inoltra in aperta campagna. Un luogo davvero ideale per chi voglia tendere un agguato, perché la fonte, il cui interno, come ho detto, è il regno dell’oscurità, è l’ultima costruzione che s’incontra prima d’avviarsi verso la campagna. Il retro della costruzione, invece, è addossato ad una rupe, al culmine della quale s’eleva la Basilica di San Domenico. Di fronte ad essa, sulla collina affollata di case e viuzze che guarda la facciata di Fonte Branda, il Duomo svetta maestoso e imponente in un alternarsi di strisce di marmo bianco e verde.

Alla fonte io vi giunsi, non senza temere di rovinare a terra, percorrendo la scoscesa Via Santa Caterina. Raggiunto il primo gradino della breve scalea, per la quale si raggiunge il bordo della costruzione, mi soffermai un momento. Non si udiva altro rumore che il frinire delle cicale. Tutt’intorno non si muoveva anima viva. Nulla, dunque, m’impediva di iniziare subito il mio sopralluogo, per quanto non mi attendessi di ricavarne granché di utile. Del resto, l’omicidio di Becocci risaliva a due giorni prima e anche se l’assassino aveva lasciato delle tracce, il passaggio dei carabinieri e dei curiosi le avevano senz’altro cancellate.

M’affrettai comunque a scendere i gradini della scalea. Giunto al bordo della vasca, il mio sguardo si trovò immerso nell’oscurità. Sfruttando i deboli fasci di luce che dall’esterno rischiaravano fiocamente piccole porzioni di quel grande vano, e aiutandomi con i fiammiferi per illuminare le zone più buie, osservai la parete di faccia e le due pareti laterali. Poi setacciai il bordo esterno della vasca con estrema cura. Quindi, sdraiatomi a terra, perlustrai, palmo a palmo, il pavimento tra il bordo della fonte e l’ultimo scalino, un lastricato di pietre consunte dal tempo. Purtroppo, come avevo immaginato, fu fatica sprecata. Non trovai il minimo segno che indicava che lì si era consumata una così tragica e recente morte.

Risollevatomi e appoggiatomi ad uno dei sostegni degli archi, rimasi a riflettere sul da farsi per alcuni istanti. Mentre soppesavo la situazione, estrassi dalla tasca la pipa di gesso, la caricai con del tabacco scuro e accesi un fiammifero. Un inatteso e intenso scintillio attirò il mio sguardo nel punto in cui due gradini della scalinata si congiungevano tra loro. Mi gettai disteso sullo scalino, vicino al punto nel quale, per un momento, era divampato l’improvviso bagliore. Accesi un altro fiammifero. Nuovamente, un luccichio, questa volta più intenso e più vicino, ferì le mie pupille. Proveniva da una feritoia che l’usura del tempo aveva prodotto alla congiunzione dei due gradini. Le dimensioni della crepa erano del tutto simile a quelle di un nastro per cappelli, assai lungo in senso orizzontale ma alto poco più di un pollice. A parte il bagliore che aveva attirato la mia attenzione, circoscritto ad una piccola zona, all’interno della cavità dominava il buio più assoluto. Quando si spense il fiammifero, anche il riflesso scomparve d’un tratto. Allora introdussi nella fessura l’indice della mano destra. Riuscivo a muovere il dito con estrema difficoltà. Ad un certo punto, col polpastrello avvertii qualcosa di metallico. Cominciai a muovere il dito, ora a mo’ di leva ora a mo’ d’uncino, per cercare di impadronirmi dell’arcana cosa che avevo appena toccato. Finalmente, dopo alcuni tentativi a vuoto, riuscii ad estrarre da quell’insolito antro l’oggetto misterioso che vi si celava. Mi alzai da terra e esaminai sommariamente il mio tesoro. Si trattava di un elegante bastone da passeggio. Era realizzato con del pregiato legno di castagno e rifinito con un pomello d’argento, ammaccato di recente, raffigurante la testa di un cavallo. Alla base dell’effige, l’anello di giunzione tra il corpo del bastone e il pomello recava incisa le lettere SB, le stesse iniziali del nome della vittima. E a giudicare dall’ammaccatura del pomello, non troppo pronunciata e resa ruvida al tatto da una fitta rete di graffiature, giudicai che l’allevatore doveva aver lasciato cadere il bastone all’improvviso, al momento dell’aggressione. A parte queste scarne informazioni, che del resto balzavano agli occhi da sole, non individuai altri indizi da prendere in esame. Era un magro risultato, perché i dati che avevo acquisito non mi aiutavano affatto a chiarire i contorni della vicenda. I punti oscuri, anzi, erano ancora tutti irrisolti. Le domande che già mi ero posto durante il viaggio in treno di quella stessa mattina restavano tutte senza risposta. Non esisteva un filo da seguire. Al momento potevo battere solo due strade: analizzare il bastone pollice a pollice, operazione per la quale avevo però la necessità di trovarmi in un luogo più appartato, e appurare, se mai fosse stato possibile farlo, se nella vicenda fosse coinvolto Lombardi.

A proposito dei movimenti del colonnello Lombardi sapevo che egli era rientrato alla Locanda della Rosa per l’ora di cena, vale a dire due ore dopo l’omicidio dell’allevatore. Cosa aveva fatto nel frattempo? Sapevo che alla locanda era rientrato con lo stomaco pieno di vino, il che spiegava soltanto che, allontanatosi da Fonte Branda, Lombardi doveva essersi fermato a bere in qualche osteria. Ma a parte ubriacarsi, cos’altro aveva fatto? Aveva incontrato qualcuno?

Decisi di consultare la mappa della città e provai a considerare il problema dal suo punto di vista. Seguendo un banale ragionamento logico stabilii che Lombardi, giunto a Fonte Branda, non poteva aver fatto dietro front. Se avesse dovuto effettivamente incontrare Becocci, sia che lo avesse ucciso lui stesso sia che lo avesse trovato morto, sarebbe stato del tutto irragionevole allontanarsi per la strada fatta all’andata. Ma la stessa identica scelta era obbligata, anche nel caso che Lombardi fosse diretto altrove e, passando di lì, si fosse imbattuto in un qualche contrattempo. Ero certo che egli dovesse aver udito delle grida, o comunque dei rumori da cui tenersi alla larga. E siccome un agente segreto, per quanto in alto nelle gerarchie della struttura, avrebbe preferito non avere a che fare con le complicazioni di cui sono capaci dei semplici agenti investigativi inviati sul luogo di un delitto, Lombardi aveva senz’altro escluso di ripercorrere Via Santa Caterina. Andava escluso anche il tratto superiore di Via di Fontebranda, troppo abitato e frequentato, per chi era in fuga da un luogo diventato scottante o per chi voleva raggiungere in segreto un luogo appartato. Non restavano che il tratto più a valle di Via di Fontebranda, quello che immetteva in aperta campagna, e la ripida Via del Costone. Quest’ultima, per un lungo tratto, è disabitata e protetta da un alto parapetto, che ne cela quasi tutto il camminamento. Al termine del parapetto, poi, la strada sfocia in un dedalo di vie e viuzze. Insomma, la via di fuga ideale per chi abbia la necessità di agire in incognito. E io ne ero più che sicuro: Lombardi aveva senz’altro scelto di risalire Via del Costone. Non mi restava, dunque, che seguire il suo probabile percorso.

Avanzai di qualche passo ma, giunto ai piedi della salita, ebbi un tentennamento. Prendendo origine dalle mani, e risalendo lungo le braccia e il collo, una sorta di scossa elettrica mi aveva colpito violentemente le tempie. Mi arrestai e spostai lo sguardo sulla fonte di quello strano disagio. Sorrisi, perché mi resi conto che un onesto e stimabile giornalista straniero, per quanto bizzarro, non avrebbe potuto passeggiare accompagnandosi con due bastoni senza attirare su di sé lo sguardo di troppi curiosi, se non addirittura i sospetti di qualche solerte poliziotto. Dovendo escludere di abbandonare il bastone trovato sul luogo del delitto, l’unica cosa da fare era liberarmi del mio. Non ebbi il minimo dubbio nello scegliere il nascondiglio. Nessun luogo poteva essere migliore della fessura che fino allora aveva custodito il bastone dell’allevatore.

Risolto il piccolo contrattempo, presi ad arrampicarmi lungo la ripida ascesa di Via del Costone. Nell’ultima parte della strada, su ambo i lati, s’affollava una galleria di case malmesse. Poco oltre, l’imponente bellezza del Battistero, ostruiva l'orizzonte. È una visione capace di togliere il fiato, mi creda, Watson. Sarei rimasto a bearmene per ore. Ma non ero lì per godere le bellezze di Siena. Dunque, sebbene a malincuore, continuai a seguire il tragitto che Lombardi doveva aver percorso per rientrare alla Locanda della Rosa. Seguendo lo snodarsi delle viuzze che s’incuneano a fatica tra file parallele di case e botteghe, incontrai tre osterie, luoghi ideali dove raccogliere informazioni. Siccome a quell'ora erano ancora deserte, decisi di fermarmi per qualche domanda in ciascuna di esse. Potei così constatare l’esattezza delle mie deduzioni. I tre osti, veri prototipi dell’indole latina, solari e scanzonati e, però, al tempo stesso ambigui, avevano notato un uomo la cui figura corrispondeva perfettamente alla descrizione di Lombardi. L’eminenza grigia dei servizi segreti italiani si era fermato in ciascuna delle tre taverne, dove era rimasta seduto in disparte a bere del vino. Nelle prime due osterie si era trattenuto, in entrambi i casi, per circa mezz’ora. Nell’ultima, invece, era stato allontanato dall’oste un quarto d’ora dopo esservi entrato.

“Era ubriaco”, spiegò l’uomo, un mingherlino con le spalle curve e un enorme naso aquilino. “L’alito gli puzzava di vino anche a un metro di distanza”.

“I beoni, però, sono buoni clienti”, replicai.

“Sì, ma non quelli che attaccano briga”, saltò su l’oste.

“Ha provocato qualcuno?”, insistei.

“Ah, io non so come sono andate le cose!”, - s’infervorò l’oste facendo un ampio gesto con la mano, come a scacciare una mosca che gli si voleva posare sul naso. “Ho sentito delle grida, poi delle offese. L’uomo al quale è interessato stava minacciando un altro cliente, che era entrato da poco insieme con un signore distinto”.

“Li conosceva?”.

“Il piccoletto non l’ho mai veduto. È un tipo biondo, con una cicatrice che gli taglia tutta la guancia destra. L’altro che era in sua compagnia, invece, lo conosco bene: è un nobiluomo romano, il conte Poletti. È un importante uomo d’affari che vive a Siena da parecchi anni. Il piccoletto è senz’altro uno dei suoi scagnozzi”.

“E poi che cosa è accaduto?”.

“Mi sono messo in mezzo, e ho trascinato l’ubriacone fuori della porta”.

Lo osservai con un lampo d’ironia. Non riuscivo proprio ad immaginare la scena di un uomo minuto e insignificante che si mette in mezzo a tre litiganti e trascina di peso, fuori del suo locale, un gigante alto più di sei piedi. All’oste il mio sguardo non dovette sfuggire, e non lo gradì.

“Non ho mai avuto paura di nessuno”, mi provocò con voce roca e minacciosa.

Lasciai correre. Mi accomodai ad un tavolo e ordinai un bicchiere di vino. Mentre bevevo, mi convinsi che Lombardi, ubriaco com’era, non poté che attendere l’indomani dell’omicidio, prima di allontanarsi da Siena. Ma questo, in fondo, non aveva un gran significato. Nonostante tutto, infatti, ero ancora al punto di partenza. Era stato Lombardi ad uccidere Becocci?