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Avviene un fatto imprevisto: un piccolo movimento che conta poche migliaia di aderenti in tutta Italia, con una prontezza e una determinazione che ha quasi dell’incredibile, si mobilita. Inizia una campagna di controinformazione che, se all’inizio vede gli anarchici praticamente soli, nel giro di poche settimane coinvolge settori sempre più ampi della sinistra, fino a contagiare anche persone poco politicizzate. Alla fine del gennaio 1970, decine di migliaia di milanesi scendono in piazza per manifestare contro la repressione seguita alla strage di piazza Fontana. Ma il termine «strage di Stato» non è ancora entrato nel vocabolario della sinistra. Infatti, il 24 marzo 1970, gli anarchici milanesi sono ancora soli quando manifestano all’insegna di quello slogan. Però nei mesi successivi, altre manifestazioni, comizi, dibattiti pubblici, prese di posizione di intellettuali e di uomini di cultura, segnano un cambiamento profondo nell’atteggiamento di molti. Valpreda da colpevole diventa innocente, la «morte accidentale di un anarchico» diventa una farsa di Dario Fo che gira per l’Italia e all’estero mettendo in ridicolo le versioni della polizia, la quasi totalità dei registi italiani firma un documentario sulle varie ipotesi che possono avere causato la morte di Pinelli. Un film che suona come un atto di accusa contro la polizia e soprattutto contro Calabresi. Insomma quella strage comincia a pesare su poliziotti, magistrati e servizi segreti.

Dopo tre anni il parlamento arriva a votare, il 15 dicembre 1972, una legge (la numero 773) che permette di scarcerare Valpreda e che prende proprio il nome di «legge Valpreda». L’articolo 2 prevede la possibilità di concedere «la libertà provvisoria all’imputato che si trova nello stato di custodia preventiva [ … ] anche nei casi di emissione obbligatoria del mandato di cattura». È esattamente la condizione in cui si trovano gli anarchici del Circolo 22 marzo. Il 30 dicembre, con Valpreda, riacquistano la libertà Borghese, Gargamelli e ovviamente anche Merlino. Mentre Mander è già stato liberato da diversi mesi e Di Cola ha da tempo raggiunto la Svezia, dove viene accolto come rifugiato politico.

Il mensile «A-rivista anarchica» (all’epoca vende oltre 10 mila copie), nel gennaio 1973 esce con un editoriale dal titolo Una vittoria nostra: «Valpreda, Gargamelli, Borghese sono liberi! [ … ] Il governo s’è mosso sotto la pressione di ‘autorevoli’ settori di opinione pubblica democratica. Sarebbe stolido trionfalismo ritenere d’averlo mosso noi, gli anarchici, i rivoluzionari. Eppure siamo convinti, senza vanagloria, che si tratti di una vittoria nostra, non dei democratici. In primo luogo perché noi abbiamo smosso questa opinione pubblica democratica dal suo abituale torpore, noi l’abbiamo costretta a scandalizzarsi, a indignarsi. In secondo luogo perché, nonostante tutto, le strutture repressive dello Stato ‘democratico’ escono malconce dalla faccenda, nell’immagine pubblica, anziché ridipinte a nuovo di democraticità. Vittoria nostra, ripetiamo, e non accettiamo il disfattistico pessimismo di chi, nella scarcerazione, vede solo una manovra astuta del potere. C’è anche questo, certo [ … ] ma la scarcerazione di Valpreda, Gargamelli e Borghese resta sostanzialmente una sconfitta per lo Stato e una vittoria per noi».

L’andamento dei processi sulla strage di piazza Fontana, che si concluderanno nel 1991 e poi nel 2005, dimostrerà però che chi aveva gestito all’interno dello Stato la strategia della tensione non si era certo dato per vinto.

XVI
SULLE TRACCE DEI FASCISTI

Pasquale Iuliano ci ha provato, ma gli è andata male. Il capo della squadra mobile di Padova, Juliano, nella primavera del 1969 comincia a interessarsi dell’attività di un gruppo neonazista che opera in quella città. Alcuni suoi confidenti, Niccolò Pezzato e Francesco Tomasoni, gli hanno detto che i responsabili degli attentati alla casa del questore, Francesco Allitto Bonanno, il 30 aprile 1968, e allo studio del rettore dell’università, Enrico Opocher (15 aprile 1969), sono opera di un gruppo che fa capo a Franco Freda. Juliano allora predispone appostamenti sotto la casa di Massimiliano Fachini, convinto che sia lui il custode di armi ed esplosivi del gruppo. E lì, una sera di metà giugno, Juliano sorprende, grazie anche ai soliti informatori, Giancarlo Patrese (anche lui del gruppo di Freda) con una bomba e una rivoltella. Fa arrestare Patrese, Fachini e anche Gustavo Bocchini, nipote di Arturo, ex capo della polizia durante il fascismo. Juliano crede di avere iniziato lo smantellamento del gruppo dinamitardo, ma invece si trova coinvolto in un «affaire» più grande di lui. Patrese dichiara che armi ed esplosivo gli sono stati dati proprio dal confidente di Juliano, Pezzato, che era entrato con lui a casa di Fachini. Questa versione viene smentita dal portiere dello stabile, Alberto Muraro, ex carabiniere: Patrese è entrato e uscito da solo. Ma quella testimonianza non basta e Juliano viene accusato di aver organizzato una provocazione contro i tre fascisti. Con tempestività interviene il direttore dell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, Elvio Catenacci (cioè lo stesso funzionario che dopo la morte di Pinelli compie un’indagine alla questura di Milano). Catenacci ordina la sospensione di Juliano dall’attività e dallo stipendio. Juliano dopo due anni verrà reintegrato e trasferito a Ruvo di Puglia.

Inizia l’opera di dissuasione. I confidenti Pezzato e Tomasoni vengono incarcerati nella stessa cella con Patrese, che li convincerà a ritrattare. Mentre Muraro, il 13 settembre, viene trovato morto in fondo alla tromba delle scale. Morte accidentale, concluderanno gli investigatori, senza neppure far sottoporre il cadavere ad autopsia, come previsto in questi casi. «Un giorno o l’altro verrai qui in cerca di me e mi troverai con una legnata in testa in cantina oppure nella buca dell’ascensore», aveva confidato Muraro, poco prima di morire, all’amico Italo Zaninello.

Il 15 settembre Muraro doveva presentarsi al magistrato che indagava su Juliano. Quest’ultimo verrà poi definitivamente assolto nel 1979, mentre presta servizio a Matera.

L’ufficio affari riservati è un’altra volta intervenuto con efficienza: Freda non deve essere ostacolato.

Nonostante le protezioni di cui gode, Freda si trova di fronte un’altra persona che indaga su di lui. È il maresciallo dei carabinieri Alvise Munari. Tradizioni contadine, la sua famiglia lavora da generazioni i campi che circondano Bassano del Grappa, Munari è stato incaricato dal giudice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz, di approfondire una pista che parte dalle rivelazioni di un professore di francese di Maserada, Guido Lorenzon, iscritto alla Democrazia cristiana.

Vittorio Veneto, 15 dicembre 1969. Lorenzon si presenta ad Alberto Steccanella, avvocato di quella città. Gli fa un lungo e contorto discorso su un suo amico, Giovanni Ventura, editore e libraio a Castelfranco Veneto. Ventura, dice Lorenzon, gli ha parlato nel pomeriggio del 13 dicembre, dopo essere rientrato da Milano o da Roma, degli attentati del 12 dicembre. E ha mostrato tali conoscenze della dinamica dei fatti e dei luoghi da lasciarlo impressionato.

L’avvocato Steccanella intuisce che il racconto di Lorenzon può portare a rivelazioni importanti, così gli chiede di preparare un memoriale. Tre giorni dopo Lorenzon consegna a Steccanella i suoi appunti. Il 26 dicembre, resosi conto della gravità dei fatti riferiti da Lorenzon, l’avvocato va dal procuratore di Treviso. Gli riferisce quanto appreso dal suo cliente: nel Veneto c’è un’organizzazione eversiva, forse implicata nella strage, sostenuta dal conte Piero Loredan di Volpato del Montello.

Il 31 dicembre Lorenzon si presenta al pubblico ministero di Treviso, Pietro Calogero, e gli riferisce le confidenze di Ventura. L’editore in maggio ha deposto una bomba, poi inesplosa, in un ufficio pubblico di Milano. Ha finanziato gli attentati ai treni in agosto. Conosce perfettamente il sottopassaggio della Banca nazionale del lavoro dove è esplosa una bomba il 12 dicembre e non capisce come mai non sia esplosa quella alla Banca commerciale di Milano. In settembre Ventura gli ha mostrato un timer alimentato da una batteria. Inoltre sta preparando un nuovo ordigno da utilizzare contro il presidente USA, Richard Nixon, durante il suo prossimo viaggio in Italia.

Sono rivelazioni importanti. Così, il 12 febbraio 1970, il giudice istruttore di Roma, Ernesto Cudillo, deve sentire questo teste veneto. Ma non ne rimane impressionato. Tuttavia non può ignorare completamente quell’incontro: il pomeriggio dello stesso giorno, alla fine di un interrogatorio a Pietro Valpreda, chiede all’anarchico se conosce alcune persone che rispondono al nome di Giovanni Ventura e Guido Lorenzon. «Non ho conosciuto gente che si chiamasse così. Gli unici due Ventura che ho incontrato e che conosco sono entrambi ballerini», risponde Valpreda.

Il 4 gennaio 1970, inoltre, Lorenzon è preso dai rimorsi per aver tradito l’amico Ventura. Gli confida di essere andato dai magistrati. Ventura e Freda allora iniziano a esercitare forti pressioni sul professore di francese. Ci sarà un’altalena di dichiarazioni e ritrattazioni. Ma ritrattazioni anomale, come chiarirà più tardi ai giudici lo stesso Lorenzon: «Pensai di ritrattare una cosa che non avevo mai affermato. Io riferivo di cose che avevo udito, di cose che non avevo visto, ma mai avevo detto per esempio che il Ventura fosse andato a piazza Fontana e che il Ventura avesse messo le bombe sui treni, ma sempre che lui mi aveva detto quello che successivamente riferivo. Nella ritrattazione invece dichiarai che secondo me il Ventura era estraneo a qualsiasi fatto, quindi ritrattai una cosa che non avevo affermato con la segreta speranza che questa dichiarazione potesse essere giudicata per come era, cioè falsa. Fu soltanto un mezzo per guadagnare tempo, perché in quei giorni il magistrato era assente e io avevo tutti i giorni a che fare con Ventura».

Alla fine gli inquirenti muniscono Lorenzon di un registratore da utilizzare in segreto durante i colloqui con Ventura. Le bobine vengono poi inviate a Roma, a Cudillo e al suo collega Vittorio Occorsio, pubblico ministero. Che però non vi trovano nulla di interessante. Occorsio arriva ad affermare: «Le accuse di Lorenzon sono destituite da qualsiasi fondamento. Nei lunghi discorsi registrati si nota soltanto che il Ventura non fa confidenze di sorta e anzi parla in termini che chiaramente dimostrano la sua estraneità ai fatti. Non esiste neppure un elemento che possa far pensare che il Ventura, anche marginalmente, sia stato complice negli attentati del 12 dicembre 1969». Per Cudillo e Occorsio, Ventura è «una brava persona» e Freda «un galantuomo». Insomma, due onesti cittadini ingiustamente calunniati da Lorenzon.

Giudizi non condivisi dai magistrati di Treviso. Quando, alla fine del 1970, le bobine tornano a Stiz, la musica cambia. Il giudice, dopo aver attentamente ascoltato le registrazioni dei colloqui, convoca subito Lorenzon, che gli riconferma tutto. Stiz prosegue nelle indagini, legge con attenzione il libretto La giustizia è come un timone: dove la si gira va, scritto da Freda per attaccare l’inchiesta di Juliano, ascolta altri testimoni e, il 13 aprile 1971, incrimina Freda, Ventura e Aldo Trinco per associazione sovversiva e soprattutto per gli attentati del 25 aprile a Milano e del 9 agosto sui treni. Ma i difensori dei tre chiedono che siano i giudici di Padova a occuparsene per competenza territoriale. Gli indiziati vengono rilasciati.

Nuovo colpo di scena. Il 5 novembre a Castelfranco Veneto (Treviso) nella casa di Giancarlo Marchesin, esponente socialista della città, i muratori, durante lavori di ristrutturazione, trovano dietro un muro una cassetta piena di armi. Interrogato da Stiz, Marchesin ammette che quella cassetta gli è stata consegnata da Franco Comacchio per conto di Giovanni Ventura. In quella cassetta (che Comacchio riceve da Ruggero Pan, commesso nella libreria di Ventura e all’epoca in servizio militare), inizialmente c’era anche esplosivo. Questo, però, Comacchio lo ha nascosto nella campagna vicino a Crespano. Il 7 novembre Comacchio accompagna i carabinieri di Treviso a recuperare l’esplosivo. Ma i militi, senza avvertire Stiz, fanno subito brillare i 35 candelotti. Composti da che cosa? Considerato il caratteristico odore di mandorle amare che si avverte dopo l’esplosione dovrebbe trattarsi dell’ormai famosa gelignite. Si scoprirà poi, dalle dichiarazioni di Carlo Digilio al giudice Guido Salvini, che a partire dal 1967 i gruppi ordinovisti di Padova e Venezia disponevano di un casolare in località Paese (vicino a Treviso) in cui avevano concentrato una grande quantità di esplosivi e armi che lo stesso Digilio insegnava a usare. E si scoprirà che quelle poche armi rinvenute a casa di Marchesin, altro non erano che una piccolissima parte dell’arsenale dei due gruppi, disperso dopo la strage di piazza Fontana.

Pan, interrogato dai giudici, comincia a parlare: armi ed esplosivi gli sono stati consegnati da Ventura. Perché? Pan dal 1968 lavora nella libreria di Ventura, poi, il 10 marzo 1969, viene assunto, grazie all’interessamento di Freda, come assistente nell’Istituto per ciechi Configliaschi. Il custode è Marco Pozzan, uno dei fedelissimi di Freda. Freda cerca di arruolare nel suo gruppo il giovane Pan e gli fa anche diverse confidenze sugli attentati che stanno facendo a Padova e in altre città. Tutte queste informazioni finiscono in un memoriale che Pan scrive in carcere, con pesanti accuse, soprattutto per gli attentati ai treni, a Ventura e Freda.

A questo punto delle indagini salta fuori anche il nome di Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo, giornalista del quotidiano «Il Tempo» e autore con un altro giornalista, Guido Giannettini (personaggio importante di cui si parlerà ancora in questa storia), del libro Le mani rosse sulle Forze armate firmato con lo pseudonimo Flavio Messalla. Rauti risulta coinvolto nell’attività eversiva di Freda e Ventura. Ad accusarlo è Pozzan: sostiene che ha partecipato a una riunione del gruppo tenuta a Padova il 18 aprile (in cui sarebbero stati decisi gli attentati a Milano del 25 aprile). Stiz e Calogero inviano a Roma il maresciallo Munari che arresta Rauti per il reato di strage. È il 4 marzo 1972. Poi il 22 marzo Freda e Ventura vengono indiziati per la strage di piazza Fontana.

L’individuazione di questo reato impone ai magistrati trevigiani di passare la mano ai colleghi milanesi. Da quel momento se ne occupa il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio. Rauti nega ogni addebito. Pozzan ritratta (rimesso in libertà verrà fatto espatriare in Spagna con l’aiuto del SID). Il direttore del «Tempo», Renato Angiolillo, e alcuni redattori sostengono che Rauti quel 18 aprile era al lavoro in redazione; così, un mese dopo, il 24 aprile, D’Ambrosio rimette in libertà Rauti per insufficienza d’indizi. Il 7 maggio ci sono le elezioni politiche: Rauti viene eletto deputato nelle liste del Movimento sociale. Probabilmente Pozzan ha tirato in ballo Rauti, dietro indicazione di Freda, per coinvolgere un personaggio che mobiliti il MSI nella difesa di Rauti e quindi anche di Freda.

D’Ambrosio ha però maggior fortuna con Ventura. Quest’ultimo ammette di essere corresponsabile di alcuni attentati: maggio 1969 a Torino, luglio a Milano. E soprattutto inizia a coinvolgere l’amico Freda nel giro degli attentati: è il legale padovano che gli consegna le bombe. È sempre Freda che preannuncia gli attentati dell’agosto. Viene così riconfermato, punto per punto, quanto aveva già confessato Lorenzon alla fine del 1969. Sono passati, però, quasi quattro anni.

Ma dagli interrogatori dei giudici di Treviso e Milano emerge un altro fatto, ben più grave per Ventura: era sicuramente a Roma nel pomeriggio del 12 dicembre 1969. Ventura, alla fine, ammette la circostanza, ma accampa un alibi molto fragile che verrà demolito: il suo viaggio nella capitale è avvenuto perché il giorno prima gli è stato comunicato che il fratello Luigi, alloggiato in un pensionato cattolico, ha avuto una crisi epilettica. La crisi è vera, ma è falsa la data. Luigi Ventura ha avuto la crisi il 14 dicembre alle ore 12,30 (cioè domenica e non venerdì), dichiara don Pietro Sartorio, economo del pensionato. Avvisato da altri ragazzi, don Sartorio chiama subito un’ambulanza della Croce rossa. Con questa arriva anche un medico, ricorda don Sartorio, che visita il ragazzo e non ritiene necessario il ricovero: la crisi è ormai passata. A quel punto l’economo avvisa la famiglia Ventura della crisi avuta dal figlio e lamenta di non essere stato informato delle condizioni di salute del ragazzo. Ventura è smentito, ma c’è dell’altro. Ventura afferma che quel pomeriggio, dopo aver telefonato al pensionato e saputo che il fratello Luigi sta meglio, va a trovare un amico di famiglia, Diego Giannolla, nel suo studio di avvocato. Poi va nella sede della casa editrice Lerici per incontrare il suo socio Rinaldo Tomba. Circostanze che i due smentiscono. Infine passa la sera del 12 dicembre in casa del suo amico Antonio Massari che lo ospita per la notte. Ma Ventura non ha dormito soltanto quella notte a Roma: secondo le schede dell’albergo Locarno, ha soggiornato nella capitale tra il 5 e l’8 dicembre, e la notte tra il 10 e l’11 sempre di dicembre. E il 13 dicembre Ventura è finalmente a casa. Incontra nel pomeriggio l’amico Lorenzon. Galvanizzato da quanto è successo a Roma e a Milano, comincia a fare quelle confidenze che, riferite da Lorenzon prima all’avvocato Steccanella e poi ai magistrati di Treviso, coinvolgeranno Ventura e Freda negli attentati.

XVII IL «COMMISSARIO FINESTRA»

Un colpo di pistola. Un altro. Risuonano in via Luigi Cherubini, quasi all’angolo con via Mario Pagano, a Milano. Un uomo si allontana rapidamente. Sale su una macchina. Scompare. Sul marciapiede è rimasto il commissario Luigi Calabresi. Morto. È il 17 maggio 1972. Finisce così la vita del funzionario di polizia che gran parte della sinistra indica come il responsabile della morte di Giuseppe Pinelli. Mentre molti giornali della sinistra extraparlamentare, soprattutto il settimanale «Lotta continua», accusano apertamente il commissario, nei cortei gli slogan più ripetuti sono: «Calabresi assassino», «Pinelli sarai vendicato». E i muri di molte città sono tappezzati di manifesti che ritraggono Calabresi con le mani insanguinate. Per una parte consistente dell’opinione pubblica il commissario, nato a Roma nel 1937, non è più soltanto un funzionario brillante, laureato, sempre elegante con maglioni dolcevita e che si presenta come un «liberal» che vota per i socialdemocratici. È diventato un protagonista della strategia della tensione.

La campagna stampa di «Lotta continua» diventa ancora più accesa quando i giornalisti incaricati di seguire le vicende del Palazzo di giustizia si rendono conto che l’inchiesta sulla morte di Pinelli verrà archiviata senza responsabilità per la polizia. E infatti il sostituto procuratore Giovanni Caizzi chiude in questo senso l’inchiesta il 21 maggio 1970. Il disegno dei redattori di «Lotta continua» è chiaro: provocare Calabresi, ribattezzato «commissario finestra», perché quereli il giornale e si possa così riaprire, anche nei tribunali, il «caso Pinelli». Il 15 aprile Calabresi querela Pio Baldelli, direttore responsabile di «Lotta continua», per «diffamazione continuata e aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato», cioè la responsabilità della morte di Pinelli. Ma il procuratore generale di Milano, Enrico De Peppo, aspetta più di un mese per assegnare questa causa a un magistrato e intanto sollecita Caizzi perché completi l’istruttoria. Il processo deve iniziare dopo che Caizzi abbia stabilito come accidentale la morte di Pinelli.

Il 9 ottobre 1970 parte il confronto-scontro in tribunale tra Calabresi e Baldelli. È un processo carico di aspettative, preceduto in settembre da un appello, pubblicato sul settimanale «L’Espresso», firmato da intellettuali, docenti universitari e uomini politici italiani (tra questi Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giulio Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci, Carlo Salinari e Mario Spinella). La lettera aperta inizia con una constatazione: «Pino Pinelli, ferroviere, è morto nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, precipitando da una finestra della questura di Milano. Non sappiamo come. Sappiamo soltanto che era innocente». I firmatari, dopo aver criticato l’archiviazione dell’indagine su quella morte e la richiesta di non dare seguito alla denuncia fatta dai familiari di Pinelli contro il questore Marcello Guida, che ha diffamato l’anarchico, concludono: «Dobbiamo rispetto al magistrato, ma non possiamo non attribuirgli la stessa responsabilità di chi ha ucciso un’altra volta Giuseppe Pinelli inchiodandone il ricordo a colpe che non aveva commesso, e la responsabilità, abbastanza grave, di chi uccide in noi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini». Ma c’è anche un film che sta ottenendo un grande successo. Si intitola Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Regista Elio Petri, è interpretato da Gian Maria Volonté. La colonna sonora è di Ennio Morricone. E per gli spettatori l’accostamento tra il commissario Volonté e il commissario Calabresi è immediato.

Al processo, Calabresi è difeso da Michele Lener. Mentre gli avvocati di Baldelli sono Marcello Gentili e Bianca Guidetti Serra. Il giudice è Carlo Biotti, pubblico ministero Emilio Guicciardi. Fuori, attorno al Palazzo di giustizia, c’è uno schieramento imponente di poliziotti e carabinieri.

La prima udienza vede l’aula del tribunale stracolma, gente che grida subito «assassino» quando entra Calabresi per deporre. Il commissario parla di Pinelli come di una brava persona con cui aveva scambi di vedute. All’anarchico aveva regalato anche un libro (Enrico Emanuelli, Un milione di uomini) e Pinelli aveva contraccambiato con Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. Gli interrogatori a Pinelli li faceva perché comandato e le indagini venivano fatte in tutte le direzioni. Insomma con Pinelli quel 15 dicembre il clima era disteso, solo una volta aveva usato una frase a effetto: «Valpreda ha parlato». Ma tutto era finito lì. E al momento del volo di Pinelli, Calabresi era nell’ufficio del suo capo, Antonino Allegra. Calabresi ovviamente tace le minacce che da mesi faceva all’anarchico quando, accortosi di non poter affatto contare sulla collaborazione di Pinelli, lo aveva preso di mira. «In settembre, durante un picchettaggio a San Vittore fatto per chiedere la liberazione degli anarchici arrestati per le bombe del 25 aprile, Calabresi si avvicinò a Pinelli e dopo uno scambio di battute gli disse con tono irato: ‘Te la faremo pagare’», ricorda Cesare Vurchio, del Circolo Ponte della Ghisolfa, presente a quel colloquio.

Nelle udienze successive si assiste alla sfilata degli altri poliziotti. Il copione è sempre lo stesso, perfino con identiche parole («sereno e disteso», «sbiancò in volto», «recepii la notizia»). Si diffonde l’impressione che tutti stiano ripetendo una lezione imparata a memoria. Con vistose differenze, però, rispetto a quanto hanno precedentemente dichiarato al giudice Caizzi. Gli orari vengono spostati: la fine dell’interrogatorio non è più mezzanotte, ma le 23,30. La finestra non viene spalancata, ma un’anta resta chiusa. Savino Lograno, da poco promosso capitano dei carabinieri, ha sempre tenuto d’occhio Pinelli e lo vede volare giù dalla finestra, ma in tribunale non l’ha più visto: guarda la finestra spalancata mentre due agenti, rimasti imprigionati dietro le ante, non riescono a bloccare l’anarchico.

Ma il momento di maggiore assurdità arriva con la deposizione del brigadiere Vito Panessa. Si contraddice, parla a ruota libera, ammette e subito smentisce. Fino a quando fa anche una negazione che suona come involontaria ammissione: «Ho detto che non sono in grado di fare delle precisazioni; però, grosso modo, si tenga presente che non è che c’è stata una versione concordata e quindi c’è stata una verifica di quello… Ognuno di noi è andato dal signor giudice Caizzi e ha dato quella versione che … ». Il giudice Biotti tempestivamente lo interrompe: «Signor Panessa lei parla troppo!». E poi chiede a Panessa: «Cos’è questa storia della versione concordata?». Risposta di Panessa: «Non è che c’è stato uno scambio di idee fra noi che eravamo presenti: ognuno il giorno successivo è venuto dal giudice e ha raccontato quello che ricordava».

Il processo continua per cinque mesi con toni simili, ma alla fine i difensori di Baldelli ottengono una prima vittoria: il corpo di Pinelli verrà riesumato e sottoposto a nuova perizia medico-legale. A che cosa puntano Gentili e Guidetti Serra? Vogliono far verificare se sul corpo di Pinelli ci possa essere anche traccia di un colpo di karate sferrato durante gli interrogatori. Colpo che avrebbe provocato un malore forse irreversibile di Pinelli. Con successiva defenestrazione. Ed è proprio quello che Lener non vuole assolutamente. Colpo di scena. Lener chiede la ricusazione del giudice Biotti: non deve più presiedere quel processo. Il 7 giugno 1971 la Corte d’appello rimuove Biotti dall’incarico. Perché? Il giudice, come riferito da Lener, ha chiesto un colloquio con il difensore di Calabresi il 21 novembre 1970. Gli avrebbe parlato delle pressioni ricevute dall’alto perché il processo si concluda con l’assoluzione di Baldelli e gli avrebbe detto che «tanto lui che gli altri due giudici erano convinti che il famoso colpo di karate fosse stato inferto a Pinelli e gli avesse leso il bulbo spinale».

La ricusazione di Biotti è la carta vincente che gioca il difensore di Calabresi quando forse è ancora possibile stabilire (anche se è passato un anno e mezzo) come è morto Pinelli. Il processo si arena. Parte un’altra inchiesta su denuncia della vedova di Pinelli, Licia, affidata al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, che il 4 ottobre del 1971 emette un avviso per omicidio volontario contro Calabresi, Lograno, Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi e Pietro Mucilli, cioè i poliziotti che interrogavano Pinelli. D’Ambrosio fa riesumare il corpo dell’anarchico. È il 21 ottobre. Ma, come sostengono molti scienziati e medici, ormai è difficile scoprire qualcosa, visto l’avanzato stato di decomposizione. La vicenda si avvia verso la sentenza del 27 ottobre 1975. Calabresi, commissario non più aggiunto, ma capo, è morto da tre anni. Quella sentenza individua nel famoso «malore attivo» la causa della morte di Pinelli. D’Ambrosio proscioglie tutti gli imputati perché «la mancanza assoluta di prove che un fatto è avvenuto equivale nel nostro sistema processuale, come in quello degli altri Stati più progrediti, alla prova che un fatto non è avvenuto».

Però il «caso Calabresi» non si chiude. Il 17 maggio 1973 viene inaugurato un monumento al commissario nel cortile della questura di Milano, in occasione del primo anniversario della sua morte. Partecipa il ministro dell’Interno, Mariano Rumor. Gianfranco Bertoli, rientrato in Italia da Israele, lancia una bomba contro l’entrata della questura. Il suo intento, dichiara dopo l’arresto, è colpire le autorità che commemorano Calabresi. Ma un poliziotto con un calcio devia la bomba che finisce tra la folla. Una strage: quattro morti e quasi quaranta feriti. Bertoli afferma di essere un anarchico individualista. Ma subito parte una campagna stampa su quasi tutti i giornali che lo definiscono un fascista, portando come prove una serie di fatti (assalti a sedi di partiti di sinistra e altro) che però cadranno durante il dibattimento. Nato a Venezia nel 1933, Bertoli, che fino al 1952 è iscritto alla Federazione giovanile del PCI, ha un passato di piccolo delinquente. Per anni entra ed esce di galera. Dopo la strage viene condannato all’ergastolo l’1 marzo 1975. Sentenza confermata in appello il 9 marzo 1976. Il 28 novembre 2000 muore Gianfranco Bertoli. Ma il suo caso non è chiuso. Già l’11 marzo di quell’anno la Corte d’assise di Milano ha condannato all’ergastolo per l’attentato alla questura di Milano i soliti noti: Carlo Maria Maggi, Francesco Neami, Giorgio Boffelli e Amos Spiazzi. L’ex SID Gianadelio Maletti si prende quindici anni per occultamento di documenti. Ma il 27 settembre 2002 la Corte d’appello assolve tutti. Poi l’11 luglio 2003 la Cassazione annulla le assoluzioni a Maggi, Neami e Boffelli, mentre ritiene definitive quelle di Spiazzi e Maletti. L’1 dicembre 2004 la Corte d’assise d’appello conferma le assoluzioni degli ultimi tre imputati. Stesso copione in Cassazione il 13 ottobre 2005.

E chi ha ucciso Calabresi? Tutto tace fino al 2 luglio 1988. Quel giorno Leonardo Marino, ex operaio alla FIAT ed ex militante di Lotta continua si presenta ai carabinieri di La Spezia (lì vicino, a Bocca di Magra, ha un chiosco dove vende crêpes). Vuole confessare la responsabilità sua e dei suoi compagni per l’assassinio di Calabresi. Ma passeranno diciassette giorni prima che venga firmato un verbale. Perché? Mistero. Portato a Milano, trascorrono altri sette giorni perché faccia una completa confessione. Altro mistero. Il 28 luglio, oltre a Marino, vengono arrestati Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. Sofri è stato il leader indiscusso di Lotta continua e Pietrostefani il capo del movimento a Milano.

Inizia un lungo iter processuale. L’accusa si basa quasi esclusivamente sulla confessione di Marino: lui alla guida dell’auto, Bompressi l’esecutore materiale dell’omicidio, Sofri e Pietrostefani i mandanti. La prima sentenza è del luglio 1991. Tutti condannati: mandanti ed esecutore a ventidue anni di carcere, Marino a undici. La Cassazione, il 23 ottobre 1992, annulla la sentenza per insufficiente motivazione. Così il 21 dicembre 1993 la Corte d’assise d’appello assolve tutti. Nuovo annullamento della sentenza il 27 ottobre 1994. Poi una terza Corte d’appello condanna ancora Sofri, Bompressi e Pietrostefani a 22 anni, mentre Marino, grazie alle attenuanti, vede il suo reato prescritto. Atti finali: il 22 gennaio la Cassazione conferma le condanne. E il 5 ottobre 2000 la Cassazione respinge la richiesta di revisione del processo. La condanna è definitiva.

XVIII
L’IMPORTANTE È DEPISTARE

Quando il 17 dicembre 1969 gli anarchici milanesi del Ponte della Ghisolfa accusano, durante una conferenza stampa, il ministero dell’Interno di coprire i colpevoli della strage di piazza Fontana, sollevano l’incredulità e l’ironia dei giornalisti presenti. Che scrivono di «ragazzi sotto lo choc subìto in questi giorni». I fatti hanno dimostrato che quell’accusa non era campata in aria.

Bisogna infatti guardare da vicino che cosa fa negli anni Sessanta e Settanta l’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno. Alla guida di quel centro di spionaggio e di potere c’è Federico Umberto D’Amato, nato a Marsiglia nel 1919, da padre piemontese e madre napoletana. D’Amato si mette in luce fin da giovane, quando, nel 1945, gestisce i contatti con i servizi d’informazione della repubblica di Salò. L’obiettivo è recuperare gli archivi dell’OVRA, la polizia segreta di Benito Mussolini. Nel 1957 entra al Viminale come semplice funzionario e all’ufficio affari riservati sale fino al massimo grado la scala gerarchica. Ma dopo la strage di Brescia, il 30 maggio 1974 D’Amato viene sostituito. Resta però al Viminale e di fatto controlla ancora quell’ufficio, così come lo controllava anche quando i direttori erano Elvio Catenacci e Ariberto Vigevano, suoi superiori solo formalmente. Alla metà degli anni Ottanta deve andare in pensione; allora D’Amato trasferisce all’estero molti fascicoli importanti, frutto di decenni di indagini tenute segrete. Il segno tangibile del potere che ha potuto esercitare su moltissimi uomini politici, imprenditori, manager, intellettuali italiani. D’Amato, però, non è solo una superspia, è uomo che sa apprezzare i piaceri della tavola. In questa veste lo si ritrova come curatore della rubrica gastronomica La tavola del settimanale «L’Espresso» e di molte edizioni della Guida agli alberghi e ai ristoranti d’Italia sempre dell’«Espresso». Una passione, quella per cibi e vini, che gli procura una cirrosi epatica. Muore l’1 agosto 1996.

Quando nascono i primi partitini maoisti nel 1965, D’Amato, che ama definirsi «uno sbirro», ma è invece un raffinato organizzatore di doppi e tripli giochi, non si lascia sfuggire l’occasione. In quel momento non lo preoccupano «gli studentelli che giocano alla rivoluzione», il suo obiettivo è, come sempre, il Partito comunista. Allora ha un’idea astuta: fa scrivere e stampare migliaia e migliaia di manifesti filocinesi. Li affida a Stefano Delle Chiaie perché li distribuisca ai militanti di Avanguardia nazionale e di Ordine nuovo. E questi li affiggono sui muri di quasi tutte le città d’Italia. Dando una mano ai contestatori da sinistra del PCI, D’Amato vuole creare problemi al maggiore partito comunista occidentale.

Ma l’attività di D’Amato non si esaurisce certo in queste trovate. Grazie al suo rapporto con Delle Chiaie e con molti altri esponenti del nazifascismo, è in grado di gestire l’attività dei gruppi dell’estrema destra. In pratica, Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, è teleguidato da D’Amato.

Al tempo stesso l’uomo del Viminale rappresenta l’Italia nell’ufficio sicurezza del Patto atlantico, lo spionaggio della NATO. E così può controllare anche l’attività di uomini come Carlo Digilio, armiere del gruppo Ordine nuovo di Venezia, ma anche informatore della CIA e dei servizi di sicurezza della NATO. Ed è Digilio che fa arrivare a Delfo Zorzi il potente esplosivo, la gelignite, che verrà utilizzato anche per gli attentati del 12 dicembre 1969. Digilio è un uomo diligente: informa, come è suo dovere, i superiori.

D’Amato è, quindi, costantemente informato sull’attività di Zorzi e dei suoi alleati, Franco Freda e Giovanni Ventura. Anzi ne è il silenzioso promotore. È dunque responsabile, in ultima istanza, della strage di piazza Fontana? E se controlla Delle Chiaie, è pensabile che non sia a conoscenza del suo ruolo negli attentati a Roma il 12 dicembre 1969? L’ipotesi di un coinvolgimento di D’Amato è tutt’altro che fantastica. Anzi, da come l’ufficio affari riservati si muove per proteggere l’attività del gruppo di Freda e Ventura, una risposta affermativa risulta convincente. È infatti Catenacci che allontana da Padova il capo della squadra mobile, Pasquale Juliano, quando sta per mettere le mani su Freda, prima che quest’ultimo abbia completato la sua opera. È sempre Catenacci (promosso nel 1971 vicecapo della polizia) che, subito dopo la morte di Giuseppe Pinelli, svolge un’indagine, ovviamente riservata, negli uffici della questura milanese, ricevendo le confessioni dei poliziotti presenti al «volo» di Pinelli. Poi, scagionandoli, prepara le condizioni favorevoli all’assoluzione dei poliziotti da parte del giudice Giovanni Caizzi. Ed è infine D’Amato il protettore che permette a Delle Chiaie di restare per diciassette anni latitante.

D’Amato è stato uno degli uomini più potenti d’Italia e forse non è un caso che i famosi 150 mila fascicoli ritrovati il 17 agosto 1996 siano stati scoperti sedici giorni dopo la sua morte.

Nella strategia del depistaggio politico e della creazione di prove false o nell’attuare provocazioni, l’ufficio affari riservati ha un valido alleato. Un alleato, come vogliono le regole tra spie, con cui ha anche forti contrasti. Questo partner sta a Palazzo Baracchini, sede del SID.

Il 18 ottobre 1970 si siede sulla poltrona di numero uno del SID il generale Vito Miceli. Prende il posto dell’ammiraglio Eugenio Henke, che diverrà capo di stato maggiore dell’esercito. Nel giugno 1971 all’ufficio D del SID (il reparto più delicato) a sostituire il colonnello Federico Gasca Queirazza arriva il generale Gianadelio Maletti. Che per le operazioni più segrete apre una base in via Sicilia 235, una traversa della famosa via Veneto, sotto il nome di Turris cinematografica. Qui opera un suo uomo: Antonio Labruna, capo del NOD, la struttura operativa del SID.

Con questi nuovi capi i servizi segreti accentuano il loro ruolo nei depistaggi e nelle provocazioni. Così quando l’emergere della pista fascista nella strage di piazza Fontana comincia a diventare sempre meno occultabile, prima producono numerosi documenti falsi che fanno arrivare, con il contagocce, ai giudici; poi imbastiscono un’operazione alla grande: i carabinieri di Camerino, sotto la regia di Maletti, trovano vicino alla città marchigiana un enorme deposito di armi. È il 10 novembre 1972.

Le armi sono suddivisibili in tre grandi gruppi. Il primo è costituito da materiale bellico dell’ultima guerra mondiale. Il secondo deve fornire la firma di estrema sinistra al deposito: fionde, biglie di vetro, bombolette spray, ma anche bottiglie, tappi di sughero, benzina e acido solforico. Cioè la dotazione per fabbricare bottiglie molotov. L’ultimo gruppo è formato da 25 bombe a mano Mx2 tipo ananas di fabbricazione americana, tritolo, esplosivo ad alto potenziale (pentrite), una mina anticarro e infine detonatori, micce e timer di fabbricazione tedesca. Il tutto accompagnato da oltre 600 carte d’identità in bianco e uno schedario cifrato.

Il giorno dopo il ritrovamento compare un articolo sul quotidiano «Il Resto del Carlino», a firma di Guido Paglia, passato da poco dalla militanza in Avanguardia nazionale al giornalismo. In quell’articolo (pubblicato su un giornale del gruppo di Attilio Monti) si annuncia che lo schedario cifrato trovato nel casolare dimostra «inoppugnabilmente l’attività eversiva e paramilitare di taluni gruppi di estremisti di sinistra». Ma Paglia non si ferma qui. Nonostante i documenti cifrati non siano nemmeno stati consultati e quindi decrittati, il giornalista sa già che l’arsenale appartiene a estremisti di sinistra di Roma, Perugia, Trento, Bolzano e Macerata.

Il 3 gennaio 1973 verranno incriminati quattro militanti di sinistra di quelle località, manca solo il terrorista di Roma.

Come arrivano i carabinieri a queste quattro persone? Semplice, quanto sconcertante: i fogli cifrati (ma che portano in testa a ogni foglio la chiave per interpretarli) contengono l’elenco di 31 attivisti della sinistra extraparlamentare. Ma Paglia, preso dalla frenesia di fare lo scoop giornalistico e la contemporanea opera di provocazione, ha accelerato troppo i tempi. È a conoscenza di cose che nemmeno i carabinieri sono in grado di rivelargli. Per di più il proprietario del casolare pochi giorni prima del ritrovamento è stato sul posto: non c’era nessuna arma.

Insomma, la tipica montatura che si sgonfierà già durante l’istruttoria. Questa però si conclude dopo tre anni, il 28 aprile 1976. Con un’appendice alla Corte d’assise di Macerata. La procura generale di Ancona ha impugnato quel proscioglimento. Il 7 dicembre 1977 si chiude, con l’assoluzione, la storia processuale degli imputati.

Nel frattempo sono emerse le responsabilità di Labruna e soprattutto del capitano Giancarlo D’Ovidio, comandante dei carabinieri di Camerino, che poi passerà all’ufficio D del SID. Ad accusarli è il colonnello dei servizi segreti Antonio Viezzer, iscritto alla P2, sotto processo per aver fornito materiale segreto a Licio Gelli. Anche la pista Labruna-D’Ovidio cadrà nel nulla: i giudici istruttori li proscioglieranno con argomentazioni giuridiche definite completamente illogiche da molti altri giuristi. Nel 1993 si scopriranno altre importanti prove sulla responsabilità di D’Ovidio come organizzatore di quella provocazione e di Guelfo Osmani, un «manovale» del SID.

L’episodio di Camerino, se non è riuscito a produrre l’effetto sperato dai servizi segreti, ha almeno creato forti contrasti e divisioni all’interno dei gruppi dell’estrema sinistra. I filocinesi italiani si sono accusati a vicenda di «avventurismo». A margine della nota informativa su Camerino il generale Maletti può finalmente aggiungere di suo pugno: «Bel risultato».

Di lì a poco per gli uomini di Maletti si presentano compiti ancora più impegnativi, perché sta per venire alla luce il loro coinvolgimento negli attentati del 12 dicembre e in molte altre attività terroristiche.

Gennaio 1973. Il fedelissimo di Freda, Marco Pozzan, è sfuggito al mandato di cattura emesso dai giudici di Treviso. Massimiliano Fachini, regista di tante operazioni del suo camerata Freda, contatta gli uomini dell’ufficio D. Lui è ben conosciuto e si fa garante per Pozzan. Accompagna il latitante Pozzan a Roma, alla Turris cinematografica. Ad accoglierli ci sono Labruna e Guido Giannettini. Labruna prende in consegna Pozzan, fa preparare un passaporto falso intestato a Mario Zanella (questo nome compare tra gli iscritti alla loggia massonica P2) e il 15 gennaio accompagna Pozzan all’aeroporto di Fiumicino. Lo affida al maresciallo Mario Esposito. I due vanno a Madrid. Nella capitale spagnola Esposito si fa rendere il passaporto falso e torna dai suoi capi.

Marzo 1973. Giovanni Ventura è detenuto nel carcere di Monza. Viene sottoposto a diversi interrogatori dai giudici milanesi Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini. Per di più comincia a fare le prime ammissioni. Ci vuole una soluzione. Quale? Farlo evadere. Maletti incarica della questione Giannettini. Interviene anche Delfo Zorzi che invita Carlo Digilio a collaborare con Giannettini per far evadere Ventura. Zorzi dice a Digilio (così sostiene quest’ultimo): «Fatelo scappare altrimenti Ventura parla».

L’agente Zeta (questo è il nome in codice di Giannettini) contatta la sorella di Ventura, Mariangela, e la fidanzata, Pierangela Baretto. Le convince sull’affidabilità del piano di fuga e consegna alle due donne una chiave che (come poi verrà anche accertato in giudizio) apre le porte del carcere. In più consegna due bombolette spray (acquistate dal reparto D nel 1972 da una ditta di Berna) per addormentare i secondini. Una volta fuori dal carcere verrebbe espatriato in Spagna. Ma Ventura non si fida, forse teme che la vera destinazione non sia Madrid, ma la sua definitiva liquidazione durante l’evasione. Non ci sta. Scapperà poi, il 16 gennaio 1979, durante il soggiorno obbligato a Catanzaro, ma organizzandosi meglio.

Aprile 1973. È arrivato il turno di Giannettini. L’agente Zeta, che dal 1966 è in servizio per il SID (il suo secondo lavoro è quello di giornalista), è nel mirino del giudice D’Ambrosio che continua, senza successo, a chiedere informazioni al SID su questo personaggio. Giannettini, punto di contatto tra i servizi segreti e il gruppo di Freda e Ventura, non può permettersi il lusso di dover affrontare contestazioni che mettano a nudo il suo ruolo. Così preferisce prendere il volo. Può contare sul collaudato «ufficio spedizioni» del SID. Dorme nell’appartamento intestato alla Turris cinematografica. Il giorno dopo viene accompagnato all’estero dal solito maresciallo Esposito. Ma con una variante: i due sbarcano a Parigi. È il 9 aprile. Poi Giannettini volerà a Madrid e da lì a Buenos Aires. Partenza tempestiva: in maggio i giudici milanesi fanno perquisire l’abitazione romana di Giannettini. Nel gennaio 1974 viene spiccato un mandato di cattura contro l’agente Zeta.

Prima di lasciare la Francia, Giannettini si fa intervistare, nella primavera 1974, dal giornalista Mario Scialoja del settimanale «L’Espresso» per far sapere ai suoi capi (che forse potrebbero lasciarlo al suo destino) quanto lui sia fedele. Dichiara infatti: «L’indicazione che io sono un agente del SID ha uno scopo, quello di compromettere gli ambienti militari, e in primo luogo il SID, col caso Freda. E io non mi presto a questa manovra». Ma la situazione precipita. Giulio Andreotti, in un’intervista pubblicata il 20 giugno sul settimanale «il Mondo», dichiara al giornalista Massimo Caprara che Giannettini è un agente del SID, mentre il giornalista del «Corriere della Sera» Giorgio Zicari è uno stabile informatore.

È un segnale preciso: Giannettini non è più sicuro nemmeno a Buenos Aires. L’8 agosto si costituisce all’ambasciatore italiano in Argentina, Giuseppe Derege Thesauro. Il diplomatico al processo di Catanzaro dichiarerà: «Giannettini non fece mistero con alcuno nell’ambasciata di essere impaurito e dell’esigenza di essere protetto».

Riportato in Italia, Giannettini si attiene alla tattica fin qui seguita: non parla. Fa solo allusioni lanciando messaggi ai suoi superiori: resto muto se non mi abbandonate. Così si assiste a deposizioni di capi del SID e di ministri che cercano in tutti i modi di minimizzare l’opera dell’agente Zeta, cioè di colui che li ha sempre informati sull’attività terroristica a cui partecipava con Freda e Ventura.

Il gioco funziona: i registi delle stragi forniscono scappatoie a Giannettini purché non parli. E lui si attiene alla consegna del silenzio. Un comportamento che alla fine viene premiato. La Corte di Cassazione lo catapulta definitivamente fuori dai processi. Ma l’agente Zeta ha dovuto attendere per anni quel benservito: la sentenza è del 1982. Però non viene lasciato senza lavoro. Lo assume il finanziere ed editore di destra Giuseppe Ciarrapico.

XIX
SENTENZA DI CARNEVALE

Sono da pochi giorni cominciate le udienze e tutto si ferma. La scena si svolge alla Corte d’assise di Roma. Il 23 febbraio 1972 parte il processo agli anarchici del gruppo 22 marzo, ai familiari di Pietro Valpreda e anche al nazifascista Stefano Delle Chiaie (latitante) per falsa testimonianza a favore di Mario Merlino. Ma i giudici si accorgono che tutta quella storia non è di loro competenza. O meglio, sotto l’incalzare di alcuni difensori degli anarchici (Francesco Piscopo, Giuliano Spazzali, Placido La Torre, Rocco Ventre), il presidente Orlando Falco sceglie di liberarsi di un processo divenuto difficilmente gestibile. Perfino lo stesso pubblico ministero Vittorio Occorsio cerca di scaricare sul collega Ernesto Cudillo, giudice istruttore, le carenze e la parzialità dell’inchiesta. Quasi volesse far dimenticare che è stato proprio lui a iniziare le indagini. È lui che ha gestito il riconoscimento fatto dal tassista Cornelio Rolandi. È sempre lui che nella requisitoria di rinvio a giudizio, pur di salvare l’unica prova su cui ha costruito la sua accusa, arriva a negare l’evidenza. Scrive Occorsio: «Quanto affermato dal Rolandi nella parte preliminare dell’atto di riconoscimento: ‘Mi è stata mostrata dai carabinieri di Milano una fotografia che mi si è detto doveva essere la persona che io dovevo riconoscere’, deve essere inteso nel senso che, quando in questura venne mostrata al Rolandi la fotografia del Valpreda, il tassista fu invitato a riconoscere, ovviamente in senso affermativo o negativo, la persona trasportata con il tassì. Ogni illazione al riguardo circa pretese e implicite sollecitazioni a un riconoscimento positivo è del tutto gratuita». E per ribadire la forzatura, conclude: «Infatti se è stato usato il verbo dovere, l’obbligo contenuto nel termine stesso si riferisce all’onere giuridico dell’atto di ricognizione e non ai risultati del riconoscimento».

Di fronte a queste posizioni praticamente insostenibili, il 6 marzo la Corte di Roma spedisce tutto a Milano. Il processo è tornato, come vuole anche la logica giudiziaria, nella città dove è avvenuta la strage. Ma il procuratore generale del capoluogo lombardo, Enrico De Peppo, non ci sta. Secondo lui Milano è una città che non offre la necessaria serenità per un dibattimento così delicato. Per di più la piazza, sempre secondo De Peppo, è praticamente in mano agli extraparlamentari di sinistra che vogliono fare azioni «dirette a dimostrare, al di fuori del processo, la pretesa innocenza di Valpreda e degli altri coimputati». Azioni che potrebbero innescare la reazione dei militanti dell’estrema destra. Si rivolge alla Cassazione per un nuovo trasferimento. Il 13 ottobre il processo passa sotto la competenza della Corte d’assise di Catanzaro.

Ma non comincia subito. Bisogna aspettare il 27 gennaio 1975 perché partano le udienze. Che vedranno sullo stesso banco degli imputati gli anarchici (Pietro Valpreda, Emilio Bagnoli, Emilio Borghese, Roberto Gargamelli, Ivo Della Savia, Enrico Di Cola), i familiari di Valpreda (Maddalena Valpreda, Ele Lovati, Rachele Torri e Olimpia Torri), l’indefinibile Mario Merlino, i nazifascisti (Franco Freda, Giovanni Ventura, Stefano Delle Chiaie, Marco Pozzan, Piero Loredan di Volpato del Montello), fascisti che operano per i servizi segreti (Guido Giannettini e Stefano Serpieri) e ufficiali del SID (Gianadelio Maletti, Antonio Labruna e Gaetano Tanzilli).

Perché questa strana mescolanza? La Corte di Catanzaro ha riunito due procedimenti che portano a risultati inconciliabili: l’inchiesta di Occorsio e Cudillo e quella, successiva, dei magistrati milanesi Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini. Quest’ultima si fonda anche su indagini condotte da magistrati di Treviso, Padova e altre città. Indagini che hanno messo in luce il ruolo di fascisti e servizi segreti nella strategia degli attentati.

Il 23 febbraio 1979, dopo quasi dieci anni dagli attentati, arriva la prima sentenza. Tre ergastoli per strage e attentati (Freda, Ventura e Giannettini). Ma Giannettini è l’unico a essere arrestato in aula, Freda è latitante in Costa Rica, Ventura in Argentina. Maletti è condannato a quattro anni per favoreggiamento e falsa testimonianza, Labruna e Tanzilli a due. Valpreda e Gargamelli vengono assolti per insufficienza di prove per il reato di strage, ma condannati per associazione a delinquere: quattro anni e sei mesi a Valpreda, un anno e sei mesi a Gargamelli. A Bagnoli viene sospesa la condanna di due anni per associazione a delinquere. Anche Merlino viene assolto per insufficienza di prove per la strage, prende quattro anni e sei mesi per associazione a delinquere. Ambigua poi la formula adottata per i parenti di Valpreda che avevano sostenuto l’alibi dell’anarchico: il reato di falsa testimonianza è prescritto. Stessa formula viene adottata per Delle Chiaie. E l’amica di Valpreda, Elena Segre, altro testimone che conferma l’alibi dell’anarchico? È sparita dalle carte processuali. Un altro mistero.

Quella di Catanzaro è una sentenza contraddittoria perché riconosce la colpevolezza di Freda, Ventura e Giannettini, ma rimane in parte ancorata all’istruttoria dei giudici Occorsio e Cudillo. Da lì l’assoluzione per insufficienza di prove degli anarchici. Ma c’è un altro fatto che getta una luce ambigua sulla sentenza. I giudici di Catanzaro, di fronte alle reticenze di alcuni testimoni eccellenti, preferiscono non prendere posizione. Rinviano a Milano gli atti che riguardano gli ex presidenti del consiglio Giulio Andreotti e Mariano Rumor e gli ex ministri Mario Tanassi, Difesa, e Mario Zagari, Giustizia. I giudici hanno però un moto d’orgoglio di fronte alle contraddizioni in cui cade il generale Saverio Malizia, consulente giuridico di Tanassi. Lo arrestano in aula. Processo immediato: Malizia è condannato a un anno. Ma viene rimesso subito in libertà. Scatta il consueto copione: la Cassazione annulla il processo e affida la causa alla Corte d’assise di Potenza. Il 30 luglio 1980 Malizia viene assolto con formula piena.

In soccorso dei politici arriva il giudice di Milano Luigi Fenizio (a lui passa l’indagine quando Alessandrini viene ucciso, il 29 gennaio 1979, da militanti dell’organizzazione clandestina Prima linea), che invia un’ordinanza innocentista alla Commissione inquirente del parlamento. Il 24 agosto 1981 la Commissione decide di archiviare le accuse contro Andreotti, Rumor, Tanassi e Zagari. I quattro uomini politici escono dall’inchiesta.

Ma è al processo d’appello che si assiste a un vero colpo di scena. Il 20 marzo 1981, la Corte di Catanzaro assolve fascisti e anarchici per il reato di strage. Non ci sono più colpevoli per piazza Fontana. Freda e Ventura vengono condannati a quindici anni per associazione sovversiva e per gli attentati del 25 aprile e del 9 agosto 1969. In pratica i giudici spezzano quella continuità logica (suffragata da prove) che lega i tre principali attentati del 1969. Assolvono per insufficienza di prove anche Giannettini. Riducono le pene a Maletti e Labruna.

Ci pensa poi la Cassazione, il 10 giugno 1982, quando affida un secondo appello a Bari, a togliere definitivamente dai processi Giannettini, che può dichiarare: «Il mio stesso coinvolgimento è avvenuto per motivi politici. Attraverso me si è voluto colpire il SID».

Stesso rituale alla Corte d’appello della città pugliese. Ma con una variante di rilievo: il pubblico ministero, Umberto Toscani, chiede l’assoluzione per Valpreda. I giudici però preferiscono attenersi alla tradizione: il dubbio deve valere per i fascisti come per gli anarchici. E intanto si riducono ulteriormente le pene a Maletti, latitante in Sudafrica, (un anno) e Labruna (dieci mesi). Con questa sentenza dell’1 agosto 1985 sta per calare il sipario su piazza Fontana. L’ultimo atto si tiene alla Corte di Cassazione di Roma che respinge tutti i ricorsi per un nuovo processo. Ed è proprio la Cassazione il perno centrale di questa commedia giudiziaria. Sono i giudici del più alto grado che sottraggono le prime indagini da Milano per trasferirle a Roma. Sempre loro stabiliscono che Milano è una città ingovernabile e quindi il processo si deve tenere a Catanzaro, unificando i procedimenti contro anarchici e fascisti.

Il 27 gennaio 1987, la prima sezione della Cassazione mette la parola fine su un processo che si è dilatato nel tempo e nello spazio. E chi presiede quella sezione? Corrado Carnevale. Che più tardi diventerà famoso come il «giudice ammazzasentenze». Dal 1985 Carnevale dirige la sezione più importante della Cassazione e subito si distingue per essere il «re del cavillo» che manda liberi mafiosi, terroristi e bancarottieri. Alcuni esempi. Il 16 dicembre 1987 Carnevale annulla il processo per la strage dell’Italicus che ha come principali imputati i neofascisti Mario Tuti e Luciano Franci. Poco prima aveva annullato la condanna all’ergastolo dei fratelli Greco, ritenuti i mandanti dell’omicidio del giudice Rocco Chinnici. Il 25 giugno 1990 Carnevale annulla una sentenza all’ergastolo per Raffaele Cutolo, capo della Nuova camorra organizzata. Sempre nel 1990, il 15 ottobre, assolve Licio Gelli dall’accusa di sovversione e banda armata. Il 5 marzo 1991 ordina un nuovo processo per l’attentato del 24 dicembre 1984 al rapido Napoli-Milano (sedici morti e centinaia di feriti). Risultato? Annullamento dell’ergastolo al boss mafioso Pippo Calò. Tanta frenetica attività non passa inosservata e nel 1995 le gesta del giudice Carnevale vengono racchiuse in un libro: La giustizia è cosa nostra. Carnevale ha azzerato 134 ergastoli (ben 19 riguardano il mafioso Mommo Piromalli), 700 anni di carcere per 96 imputati responsabili di associazione mafiosa, traffico di droga e omicidi.

Insomma il giudice giusto anche per la strage di piazza Fontana. Strage che torna nuovamente in scena nei tribunali dopo l’arresto di Delle Chiaie. Il 26 ottobre 1987 si apre il settimo processo (non contando due interventi della Cassazione) per quella strage. Con Delle Chiaie c’è sul banco degli imputati Massimiliano Fachini. Dopo 90 udienze, il 20 febbraio 1989, i due vengono assolti per non aver commesso il fatto. Sentenza che la Corte d’appello conferma il 5 luglio 1991.

Finale di partita come da copione. Nel nuovo, ennesimo, processo per piazza Fontana la Corte d’assise di Milano condanna, il 30 giugno 2001, all’ergastolo i neonazisti Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi. Tre anni si prende Stefano Tringali per favoreggiamento a favore di Zorzi. Ma il 12 marzo 2004 la Corte d’appello di Milano assolve i tre e riduce la pena a un anno per Tringali.

Infine, il 3 maggio 2005 la Cassazione conferma la sentenza della Corte d’appello. Fine dei processi.

XX
LA STRAGE DI STATO

Mariano Rumor non perde tempo. Il giorno dopo le bombe del 12 dicembre 1969, il presidente del consiglio convoca i segretari di Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito socialista unificato (denominazione dei socialdemocratici dopo la scissione socialista del 2 luglio 1969) e Partito repubblicano. L’obiettivo dichiarato è ricostituire un governo quadripartito. Ci vorranno più di tre mesi per varare la nuova formula governativa. L’impressione generale è che, mentre la situazione politico-sociale è drammatica, nei palazzi romani si perpetuino le solite alchimie per definire cariche ministeriali in grado di accontentare le varie correnti politiche. Invece, sotto questa liturgia consueta si sta consumando uno scontro durissimo. Mauro Ferri e Mario Tanassi, i due leader del nuovo partito socialdemocratico, sono i fautori di un governo forte che, sull’onda emozionale creata dalle bombe, imponga una svolta neo-autoritaria al Paese. Danno cioè voce a quel «partito americano» che si oppone con determinazione e accanimento al progressivo scivolamento a sinistra dell’Italia. Il vero obiettivo di Rumor è infatti costituire un governo di centro (DC, PSU) che sancisca a livello politico la strategia che ha portato alla strage di piazza Fontana. Ma la mobilitazione di sindacati e forze di sinistra ai funerali di Milano gli fa cambiare idea. Quel 15 dicembre 1969 piazza del Duomo è gremita dalle sinistre e non dai fascisti come era stato programmato.

La situazione che si è creata a partire dal 1968 preoccupa larghe fasce di imprenditori e ceti medi. La contestazione studentesca prima e le agitazioni operaie poi hanno aumentato la psicosi del «pericolo rosso». I sindacati tradizionali da molti mesi non riescono a mantenere nell’ambito del consueto rivendicazionismo le lotte dei loro iscritti. Tanto che il 3 luglio 1969 lo sciopero generale per chiedere il blocco degli affitti vede gli operai della FIAT Mirafiori di Torino scandire uno slogan ironico, ma che suona minaccioso per la classe dirigente: «Che cosa vogliamo? Tutto». E quello slogan ha una fortuna immediata. Presto nei cortei operai risuonerà con sempre maggiore insistenza. E infatti il 1969 conta 300 mila ore di sciopero contro una media, in quegli anni, di 116 mila. Il costo del lavoro cresce del 15,8% (19,8% nell’industria), per cui la quota dei salari sul prodotto interno lordo sale dal 56,7% al 59%. È iniziata una sensibile redistribuzione dei redditi. Una minaccia per le classi sociali privilegiate e per quelle che solo pochi anni prima sono state beneficiate dal «miracolo economico».

Insomma una situazione apparentemente pre-rivoluzionaria. Anche se la rivoluzione sperata e sognata dalla maggioranza degli studenti e da una frangia di operai non solo è lontana: è praticamente impossibile. Ma che importa? Molti credono sinceramente che sia alle porte, e molti, molti di più, temono che sia vero.

Anche se i portatori di un progetto di trasformazione radicale della società sono un’infima minoranza rispetto alla popolazione complessiva, l’asse politico del Paese si sta spostando a sinistra. Il Partito comunista, pur criticato aspramente dalle frange estremiste, si prepara a conquistare nuovi spazi. Colti impreparati dalle manifestazioni studentesche dell’inizio 1968, i dirigenti di via Botteghe oscure cercano rapidamente di recuperare il terreno perduto. Soprattutto nel luogo della politica istituzionale: il parlamento. Tanto che il 28 aprile 1969 dovrebbe iniziare la discussione per il disarmo della polizia. L’agente italiano come un «bobby» inglese. Ci pensano le bombe a Milano del 25 aprile a mandare nella soffitta delle utopie quel progetto.

È cominciata la strategia della tensione.

Questa fase è il perfezionamento e la sintesi di quanto dalla metà degli anni Sessanta andavano teorizzando e praticando gli esponenti dell’estrema destra collegati a larghi settori delle forze armate. Nazisti e fascisti italiani vogliono estirpare alla radice il «morbo comunista», assecondati, seguiti e, in definitiva, diretti dai servizi segreti italiani e americani.

In Italia la CIA (Central Intelligence Agency) opera con successo dal dopoguerra. Nel 1947 ha finanziato (tramite la centrale sindacale AFL-CIO) la scissione socialista capeggiata da Giuseppe Saragat e aiutata da un gruppo di rivoluzionari antistalinisti, Iniziativa socialista, guidato da Mario Zagari. Al di là delle motivazioni ideologiche di Saragat e Zagari, i dollari della CIA riescono a indebolire il Fronte popolare e a facilitare la grande vittoria della Democrazia cristiana il 18 aprile 1948, quando raggiunge il 48,5% dei voti conquistando la maggioranza assoluta alla Camera dei deputati.

Una vittoria quasi scontata. Il 20 marzo George Marshall, segretario di Stato USA, aveva ammonito gli italiani: in caso di vittoria dei comunisti tutti gli aiuti americani all’Italia sarebbero cessati. Nel 1969 la CIA si trova facilitata nella sua azione: alla presidenza della repubblica c’è un uomo che le deve riconoscenza, Saragat.

La CIA ha un grande nemico: il comunismo. Così come il KGB combatte con ogni mezzo il capitalismo. Ma se nel Terzo mondo i due organismi si combattono quasi ad armi pari, con prevalenza del KGB, nell’area occidentale la CIA non tollera intrusioni. Tanto che nel 1967 risolve brillantemente la crisi in Grecia installando al potere, con un colpo di Stato, un suo uomo: Georgios Papadopoulos. E da quel momento il «partito del golpe» anche in Europa è egemone all’Agency. E lo sarà fino alla metà degli anni Settanta.

Dopo la Grecia, è la volta dell’Italia. E nel SID, americano-dipendente, ovviamente prevale il partito golpista. Dal 1966 (cioè dall’anno dell’entrata in funzione) alla guida del SID c’è l’ammiraglio Eugenio Henke, mentre l’ufficio D viene diretto da quel Federico Gasca Queirazza che, nel 1969, riceve le informative dell’agente Guido Giannettini su quanto stanno preparando i nazisti veneti Franco Freda, Giovanni Ventura e Delfo Zorzi. Gasca Queirazza comunica quanto sa al suo superiore Henke, che riferisce al ministro dell’Interno, Franco Restivo. E Restivo non dice nulla al suo compagno di partito e presidente del consiglio, Mariano Rumor? Difficile crederlo. Anche perché le continue e incredibili amnesie di cui soffrirà Rumor al primo processo di Catanzaro suscitano ilarità, nonostante il contesto sia drammatico.

Quando nel 1970 Vito Miceli prende il posto di Henke, il partito golpista non è più solo coordinatore degli attentati fatti dall’estrema destra; scende in campo come diretto organizzatore. Il tentativo di Junio Valerio Borghese si inserisce in questa nuova dinamica. Miceli verrà anche processato per questo, ma come al solito senza alcun risultato.

Quando agiscono durante la notte del 7 dicembre, gli uomini di Borghese non sono pensionati nostalgici. Hanno coperture e aiuti consistenti. Il ministro della Difesa, Tanassi, viene informato direttamente da Miceli di quanto sta accadendo. Stessa procedura con il capo di stato maggiore Enzo Marchesi. E Restivo sa tutto ancora prima che i congiurati occupino per alcune ore una parte del suo ministero. Restivo, interrogato in parlamento il 18 marzo 1971, cioè quando la notizia è ormai trapelata, nega tutto. Ovvio.

La storia del golpe in Italia è una storia infinita. Come quella di piazza Fontana. Una storia che si ripete nell’aprile del 1973 con la Rosa dei venti. Che vede il coinvolgimento di personaggi ancora più seri e preparati di Borghese: cioè gente come il colonnello Amos Spiazzi (peraltro già presente anche il 7 dicembre 1970). Anche lui assolto.

Chi sovrintende a questo moltiplicarsi di attentati e di preparativi di golpe è un distinto ingegnere, Hung Fendwich, che ha la sua base a Roma in via Tiburtina. Ma non è un luogo segreto come molti potrebbero pensare. No, è l’ufficio dove lavora, cioè la Selenia, società del gruppo STET (IRI).

Fendwich, che lascia l’Italia dopo il golpe Borghese, è la tipica eminenza grigia: studia, perfeziona piani, elabora analisi sulle situazioni socio-economico-politiche. Il lavoro operativo, quello che in gergo si chiama «lavoro sporco», lo compiono personaggi di levatura più modesta. Agenti di stanza alla base FTASE (il comando NATO di Verona dal 1969 al 1974). Oppure il capitano Theodore Richard della base di Vicenza. Sono questi gli uomini a cui fa capo Sergio Minetto, capostruttura degli informatori italiani della CIA. Cioè l’uomo a cui risponde Carlo Digilio, infiltrato nel gruppo di Ordine nuovo di Venezia. Un infiltrato operativo: prepara gli esplosivi e addestra Delfo Zorzi e Giovanni Ventura. Dove? Nella santabarbara del gruppo: il casolare in località Paese, vicino a Treviso.

Gli attentati che costellano l’Italia dal 1969 fino alla metà degli anni Settanta (ma continueranno ancora) sono considerati propedeutici al colpo di Stato. E se questo non viene attuato, ma sempre ventilato, ha comunque una funzione precisa: mandare segnali forti, minacciosi alle forze di opposizione, cioè al Partito comunista. Un segnale che viene recepito. Non è un caso che, dopo il golpe in Cile nel settembre 1973 (che porta a 47 i regimi militari nel mondo), il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, lanci dalle colonne della rivista «Rinascita» la proposta del «compromesso storico», cioè un accordo governativo tra DC, PCI e PSI. Ma ci vorranno ventitré anni prima che il PDS, erede del PCI, vada al governo con una coalizione di centrosinistra.

Le bombe quindi cristallizzano la situazione politica istituzionale, ma come reazione a sinistra generano il fenomeno della lotta armata. Sono i continui attentati e il pericolo del golpe che, tra l’altro, fanno scendere in clandestinità molti militanti extraparlamentari, ma anche personaggi come l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Tutto creerà un circuito perverso che, in una certa misura, giustificherà, a posteriori, la teoria degli «opposti estremismi», da cui ci si può salvare solo dando fiducia a chi detiene in quel momento il potere. Cioè gli uomini che avallano e coprono quanto stanno facendo l’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno e il SID, sotto la direzione della CIA.

I ministri danno le direttive. I servizi segreti eseguono. E ci mettono in più un po’ di loro iniziativa. Quindi non è un caso che nel 1974, quando gli uomini del SID portano a Giulio Andreotti, ministro della Difesa (nel quinto governo Rumor), le registrazioni fatte dal capitano Antonio Labruna con l’industriale Remo Orlandini, coinvolto nel golpe Borghese, Andreotti consigli di «sfrondare il malloppo». Traduzione: depurare i nastri dai nomi più importanti, cioè i vertici delle forze armate inseriti a vario titolo nel mancato golpe.

È un comportamento analogo a quello tenuto dal suo predecessore Mario Tanassi (alla Difesa nel quarto governo Rumor). Nell’estate 1974 il giudice Giovanni Tamburino chiede informazioni al SID sull’attività filogolpista del generale Ugo Ricci: lo ritiene uno dei responsabili della Rosa dei venti. Il SID, che sa perfettamente cosa fa Ricci, risponde: il generale è uomo di sicura fede democratica. Ma prima di mandare questa lettera, il capo del SID invia la richiesta del giudice a Tanassi che la restituisce con l’annotazione: «Dire sempre il meno possibile».

La pratica del silenzio e della menzogna si tramanda negli anni. È il 13 ottobre 1985 quando il settimanale «Panorama» pubblica stralci di un documento di Bettino Craxi, presidente del consiglio, che invita gli uomini dei servizi segreti a «mantenere una linea di mancata collaborazione» con i giudici che li interrogano. Craxi non negherà mai l’autenticità del rapporto. E come potrebbe? Ma farà pressioni sui giudici affinché lo ignorino. Dunque i politici sapevano tutto delle trame dei servizi segreti. Spesso ne erano gli ispiratori. Sapevano che venivano utilizzati i fascisti per creare la strategia della tensione. Erano corresponsabili o direttamente promotori come Restivo.

Un affare di Stato sta, dunque, dietro le bombe del 12 dicembre. Un affare di personaggi che scelgono il terrorismo per perpetuarsi nella gestione del potere.

«Il 12 dicembre 1969 segna una frattura, nella storia della repubblica [ … ] perché effettivamente, allora, insieme a sedici persone comuni, morì un pezzo significativo della prima repubblica: una parte consistente dell’apparato statale passò consapevolmente nell’illegalità. Si pose come potere criminale continuando a occupare istituzioni vitali ed essendone tollerato (sono migliaia i ‘servitori dello Stato’, poliziotti, giudici, agenti segreti, politici, cancellieri, ministri, passacarte e uomini di mano che hanno cooperato per realizzare e poi coprire, depistare, insabbiare, rendere impunibile quel delitto). È da allora che l’Italia ha cessato di essere una democrazia costituzionale in senso pieno», scrive il politologo Marco Revelli nel suo libro Le due destre.

L’analisi politica è confortata e documentata dalle indagini del giudice Guido Salvini: «La protezione dei componenti della cellula veneta [ … ] era un’attività assolutamente necessaria in quanto il cedimento anche di uno solo degli imputati avrebbe portato gli inquirenti, livello dopo livello, a risalire fino alle più alte responsabilità che avevano reso possibile l’operazione del 12 dicembre e le ripercussioni che ne sarebbero derivate sarebbero state forse addirittura incompatibili con il mantenimento dello statu quo politico del Paese».

Un coinvolgimento così esteso alimenta anche un dubbio. Quanto sapeva della strage di piazza Fontana il principale partito d’opposizione: il PCI, oggi DS? Molto, certamente. Ma quanto? E fino a che punto la paura delle bombe e del colpo di Stato hanno ammorbidito le posizioni del PCI? Fino a che punto questa paura ha portato a proporre il compromesso storico e ad accettare poi il consociativismo? La risposta è solo negli archivi dell’ex PCI, impenetrabili come quelli del Vaticano.

Una risposta è però possibile. Una risposta che, viste le responsabilità a tutti i più alti livelli, può essere una sola: piazza Fontana è una strage di Stato. Di più: la madre di tutte le stragi.

INTERVISTA A GUIDO SALVINI

I testi in corsivo sono di Luciano Lanza, quelli in tondo di Guido Salvini

QUELLA VERITÀ DA NON DIMENTICARE

Guido Salvini, 52 anni, è stato giudice istruttore dal 1989 al 1997 di un’inchiesta sull’eversione di destra e su piazza Fontana. E in questa veste ha ricostruito l’attività di Ordine nuovo nel Veneto e di Avanguardia nazionale a Roma e nel Sud. Così ha messo in luce trame, alleanze, coperture politiche e militari che hanno portato alla strage del 12 dicembre 1969. Quella ormai definita «la madre di tutte le stragi». Salvini, oggi giudice per le indagini preliminari, si è occupato recentemente del caso Parmalat e di terrorismo internazionale. All’attività professionale affianca un impegno storico e culturale sui temi della giustizia, della «memoria». In questa veste tiene lezioni e dibattiti in scuole, università e associazioni culturali e giovanili. Dal 2003 è consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’occultamento dei fascicoli sulle stragi nazifasciste del 1943-1945.

Con la sentenza della Cassazione del 3 maggio 2005 si chiude l’infinita storia giudiziaria legata alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Una storia complessa, contraddittoria, piena di reticenze, di «misteri». Eppure in primo grado, il 30 giugno 2001, erano stati condannati all’ergastolo tre neonazisti (Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni) e un altro (Stefano Tringali) a tre anni per favoreggiamento. Poi il 12 marzo 2004 la Corte d’appello assolve i tre e riduce a un anno la pena a Tringali. La Cassazione ha confermato quella sentenza. Per quali ragioni si passa da una condanna a un’assoluzione?

A questo bilancio apparentemente solo negativo vorrei aggiungere subito la circostanza spesso dimenticata dagli organi di informazione che, comunque, alla fine di queste indagini, per la strage di piazza Fontana un colpevole c’è ed è Carlo Digilio. Lui per più di dieci anni, prima di fuggire a Santo Domingo, aveva svolto per il gruppo veneto di Ordine nuovo, non solo mestrini ma anche padovani, il ruolo di «tecnico» in materia di armi e di esplosivi.

La Corte d’assise di appello e la Cassazione, pur assolvendo gli altri imputati per incompletezza delle prove raccolte, non hanno infatti toccato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto Digilio colpevole quale partecipe alla fase organizzativa degli attentati, dichiarando in suo favore, come vuole la legge, la prescrizione (che in quel caso scattava automaticamente) grazie alle attenuanti dovute per la sua collaborazione. Digilio era il «quadro coperto» di Ordine nuovo: si occupava della logistica, e non era certo un anarchico né un seguace di Giangiacomo Feltrinelli o un agente del KGB. E ciò significa, lo si legge nella stessa sentenza di appello, come la strage e tutti gli attentati collegati abbiano una paternità certa sul piano storico-politico: sono stati ideati e commessi dai gruppi neonazisti, cioè quelli già al centro della prima indagine dei giudici Giancarlo Stiz e Pietro Calogero.

Sul piano tecnico in sostanza le dichiarazioni di Digilio, di Martino Siciliano (che aveva partecipato solo ad alcuni attentati «preparatori») e degli altri testimoni sono state ritenute sufficienti per quanto concerne le loro responsabilità ma, in sede di appello, non sufficienti, e incomplete, per affermare la responsabilità delle persone da loro indicate come complici.

Tutto questo nella grande maggioranza dei commenti è sfuggito. Così si è dimenticato come le indagini milanesi negli anni Novanta abbiano definitivamente collocato la strage nella casella politica già intuita da coloro che, pochi mesi dopo il 12 dicembre 1969, avevano pubblicato il modello di ogni lavoro di «controinformazione»: il libro La strage di Stato. Ma oggi i principali imputati sono stati assolti tagliando, se non la paternità dell’operazione, buona parte di quel «film della strage» descritto nei verbali istruttori. Perché poi si passi da una condanna a un’assoluzione è evidentemente un problema di valutazione delle prove raccolte. Prove che è stato difficile portare in dibattimento anche perché a distanza di trent’anni molti ricordi sfumano, molti testimoni non sono quasi più in grado di testimoniare in un’aula anche per ragioni di salute e molti sono morti o comunque scomparsi.

Io, nella mia veste professionale, rispetto ovviamente tutte le sentenze e non ho timore di dire che sia la sentenza di condanna sia la sentenza di assoluzione erano serie e motivate. Ma mi sento anche di dire che nelle sentenze di Appello e della Cassazione si è tornati un po’ alla discutibile logica, presente anche nei primi processi per piazza Fontana e negli altri processi per strage, della «frammentazione» degli indizi. Tale logica porta invariabilmente all’assoluzione perché ciascun indizio valutato singolarmente come insufficiente non viene aggiunto e concatenato a quelli successivi ma quasi «buttato via», e la somma finale resta sempre zero.

Se qualcuno esalta le stragi, possiede i timer, commette gli attentati preparatori e magari il 12 dicembre 1969 era a Milano e non a casa sua, è vero che ciascun indizio preso da solo non prova in sé la responsabilità per la strage di piazza Fontana, ma l’interpretazione complessiva e non frammentaria di questi stessi indizi può dare un risultato diverso. Soprattutto mi sembra sia stata un po’ tralasciata nelle sentenze l’analisi del movente di un fatto simile, in quel particolare contesto storico-politico, a sua volta in grado di illuminare gli indizi e i personaggi.

Una strage non è un reato a fini di lucro, ma ha un movente politico che va sempre cercato per capire se è in consonanza con i moventi ad agire degli imputati. E questa ricerca è quasi del tutto assente nelle motivazioni anche se lo scenario fornito dai documenti, tra cui quelli acquisiti da alcuni archivi, è assai ricco. E mi sento di dire che il movente, se preso in esame, sarebbe stato giudicato in sintonia con l’ideologia e la strategia dell’ambiente degli imputati.

Non dimentichiamo: Ordine nuovo ha compiuto molti attentati prima e dopo il 12 dicembre 1969, era l’unica organizzazione terroristica che non si poneva il problema dell’eventuale verificarsi di vittime civili e, nei documenti cui si ispirava, era teorizzata la necessità di contrastare subito e con ogni mezzo, compreso il caos, l’avanzata del comunismo, favorita da un sistema parlamentare borghese ritenuto imbelle e putrescente in cui si salvavano, forse, solo i militari.

C’è però un elemento importante: in tutte quelle tre sentenze viene confermata la responsabilità di due protagonisti: Franco Freda e Giovanni Ventura. Quegli stessi personaggi individuati dal giudice di Treviso Stiz come responsabili degli attentati del 25 aprile 1969 a Milano, degli attentati sui treni tra l’8 e il 9 agosto e infine delle bombe del 12 dicembre. Senza dimenticare Guido Giannettini, informatore del SID, il servizio segreto italiano dell’epoca, uscito però dall’iter processuale nel 1982. Insomma, i giudici riconoscono che c’erano dei colpevoli, che erano dei neonazisti, ma non sono condannabili perché ormai definitivamente assolti. Allora la matrice di quegli attentati e della strage è indiscutibile o no?

Certamente, la matrice della strage è ormai indiscutibile, la sua firma è la croce celtica di Ordine nuovo. Come lei ha detto, anche le ultime sentenze di assoluzione hanno una «virtù segreta», e cioè scrivono esplicitamente cose chiare: dopo le nuove indagini, è da ritenersi raggiunta la «prova postuma» della colpevolezza di Freda e Ventura, non più processabili perché assolti per insufficienza di prove per la strage di piazza Fontana, anche se già condannati per gli attentati precedenti. In Italia, come in tutti gli altri Paesi civili, le sentenze di assoluzione tecnicamente non sono soggette a revisione. Si può scoprire anche vent’anni dopo che un’assoluzione è stata pronunziata per sbaglio ma ormai è così, solo le sentenze di condanna possono essere riviste.

L’elemento nuovo e storicamente determinante nei confronti dei padovani sono state le sofferte testimonianze del 1995 di Tullio Fabris, l’elettricista che attaccava i lampadari nello studio legale di Freda. Una persona ignara ed estranea al gruppo. Ma Freda, con una certa imprudenza e impudenza, l’ha coinvolto nell’acquisto dei timer. Nel 1995 Fabris (aveva già raccontato sin dall’inizio di aver accompagnato Freda ad acquistare i timer) ha spiegato di non aver mai rivelato la parte più consistente di quella storia perché più volte minacciato nel suo negozio dagli ordinovisti padovani dopo aver saputo che lui aveva rilasciato la sua prima deposizione. Fabris ha raccontato, con molti particolari tecnici, come qualche giorno dopo l’acquisto, nello studio di Freda, mentre Ventura prendeva appunti, fosse stato costretto a tenere loro delle lezioni sul meccanismo di innesco, con tanto di batterie e fiammiferi antivento, e aveva fatto con loro delle vere e proprie prove di apertura e chiusura del circuito. Dopo la strage ovviamente aveva capito subito, essendo un esperto, che proprio quei congegni erano serviti a innescare le esplosioni, ma non era riuscito a vincere la propria paura e aveva raccontato ai giudici solo una piccola parte della storia.

Come mai un teste così importante non viene interrogato «a fondo»?

Se c’è una critica da muovere agli inquirenti milanesi della prima indagine è proprio quella di non essersi accorti della centralità della possibile testimonianza di Fabris, di averlo sentito solo una volta e in modo non molto approfondito dopo la prima testimonianza ai giudici di Treviso e di non aver intuito che, se fosse stato adeguatamente protetto e se si fosse già da allora acquisita la sua fiducia, la sorte dei primi processi per la strage di piazza Fontana sarebbe stata probabilmente diversa, con un effetto a catena su tutto il fenomeno della strategia della tensione.

Fra l’altro Fabris nel 1995 ci ha raccontato un fatto importante: le «lezioni» a Ventura e a Freda erano avvenute in un periodo successivo, circa la fine di novembre, a quello in cui quest’ultimo aveva collocato la cessione dei timer al fantomatico capitano Hamid dei servizi segreti algerini. Anche questo tentativo di Freda, per quanto puerile, di sostenere di essersi disfatto di tutti i timer prima del 12 dicembre, sarebbe già allora caduto dimostrando falso quell’alibi. Con conseguenze immaginabili per le Corti giudicanti. Quanto a Giannettini e agli uomini del SID, le nuove indagini hanno arricchito, con molti episodi mai smentiti dalle sentenze, il quadro dei rapporti tra i servizi segreti e Ordine nuovo. Rapporti non occasionali ma organici in un reciproco scambio di favori contro il «nemico comune», compresa soprattutto la tutela del segreto su quanto avvenuto. Ricordo, tra i tanti esempi possibili, il ritrovamento di un documento non solo autografo ma addirittura interamente manoscritto dal generale Gianadelio Maletti, del 1975, e riguardante la fonte «Turco», cioè un ordinovista di Padova, tale Gianni Casalini. Il vicecapo del SID scriveva, con evidente preoccupazione, che Turco «voleva scaricarsi la coscienza» e riferire quanto sapeva delle attività del gruppo padovano, comprese le bombe sui treni. Conseguenza: «bisogna chiudere la fonte», incarico subito affidato da Maletti a un ufficiale piduista.

Abbiamo chiamato Casalini vent’anni dopo e ci ha confermato che era tutto vero. Sapeva molte cose sulla cellula padovana di cui aveva fatto parte, ma a un certo punto nessuno si era più occupato di lui e di coltivare le notizie che poteva fornire. Ha confessato tra l’altro in questi tardivi verbali di aver partecipato materialmente con il gruppo agli attentati ai treni dell’agosto 1969 e, particolare non indifferente, che il gruppo padovano si riforniva di armi da quello veneziano. Ma quanto aveva detto allora non era mai giunto alla magistratura. Era rimasto nei cassetti del SID. Casalini quindi aveva sbagliato porta…

Comunque, siamo sempre nell’ambito degli esecutori, dei manovali o al massimo dei quadri intermedi, ma restano, come al solito, fuori i nomi dei personaggi di spicco. Tanto per farne qualcuno famoso: Giulio Andreotti, Giuseppe Saragat, Mariano Rumor, Mario Tanassi, Franco Restivo…

Tutti questi nomi, a eccezione del senatore Andreotti, sono di politici già morti quando abbiamo riaperto le indagini e su questo versante non c’era quasi più nessuno da sentire. Solo il senatore Paolo Emilio Taviani poco prima di morire, mentre stava scrivendo la sua autobiografia uscita postuma con il titolo Politica a memoria d’uomo, ha voluto lasciare qualcosa di quanto sapeva. Anche il generale Maletti, uno dei capi del vecchio SID e uno degli uomini più ascoltati dagli ambienti politici del tempo, si è reso per tutta la durata delle indagini irraggiungibile, restando latitante in Sudafrica e ha fatto una fuggevole comparsa solo nel dibattimento di primo grado.

Sul campo erano rimasti ormai solo i personaggi minori come il capitano Antonio Labruna, un vecchio spione quasi simpatico, un subalterno che aveva pagato per tutti. Nel 1993 ci ha portato la copia dei nastri relativi al golpe Borghese (a ogni buon conto se l’era tenuta per venti anni) consentendo così di provare al di là di ogni dubbio che la copia consegnata allora alla magistratura era stata dai suoi superiori alleggerita dei nomi più importanti, militari e civili (Licio Gelli compreso), coinvolti a vario titolo in quel progetto di golpe non proprio da operetta come si è voluto far credere poi.

Sul fronte delle aspettative e delle reazioni politiche a livello più alto insite nei progetti degli autori materiali e dei quadri intermedi della strage non si è potuto quindi lavorare molto, se non per acquisire la conoscenza del fatto, riferito da vari testimoni ma stranamente del tutto assente nelle sentenze, che dopo il 12 dicembre gli autori del progetto si aspettavano non solo l’arresto di Pietro Valpreda o di qualcuno come lui ma una dichiarazione di stato di emergenza come primo passo di una stabile svolta autoritaria. Ciò è del resto in sintonia con la strategia di aree radicali come Ordine nuovo. Queste non potevano certo prendere il potere da sole, ma piuttosto fungere da detonatore: agire affinché altri, soprattutto i militari, si muovessero a loro volta. Del resto, «strategia della tensione» ha significato, non solo in Italia, un’azione combinata per creare tramite il terrore le condizioni per l’accettazione da parte dell’opinione pubblica di una stretta autoritaria.

Complessivamente, la mia personale opinione è che comunque ben difficilmente a livello politico potesse essere concepita o accettata l’idea di una strage con la sua carica criminale, ma al di sotto di tali atteggiamenti vi sono livelli di collusione più sottili che comprendono la possibilità di accettare di divenire «beneficiari occasionali» di una strategia capace di utilizzare le bombe. Bombe e attentati potevano essere una manna per l’area moderata, e non dimentichiamo che dopo il 12 dicembre 1969 i contratti con i sindacati si chiusero più in fretta e più facilmente. Del resto Edgardo Sogno, nel suo Testamento di un anticomunista, raccontò, poco prima di morire, come nell’area democristiana torinese più conservatrice si caldeggiasse in quegli anni la fase dei «piccoli botti», aiutando economicamente anche chi prometteva di commetterli, perché spaventare l’opinione pubblica serviva a mantenere lo statu quo.

Una campagna di bombe dimostrative, come quelle deposte prima del 12 dicembre 1969, probabilmente era in qualche modo accettata in alto, ma forse l’eccidio di piazza Fontana è stato un’accelerazione o un mutamento di programma voluto dai suoi autori materiali.

E veniamo alla nuova inchiesta che la vede giudice istruttore. Per quale ragione lei nel 1989 inizia un’altra indagine sulla cosiddetta strategia della tensione, sull’attività degli estremisti di destra? Quali nuove piste individua? Quali scenari inediti si aprono?

L’indagine è ripartita quasi per caso dopo che per molti anni a Milano l’impegno a indagare sulla vecchia destra eversiva era stato quasi abbandonato. Una destra molto attiva e con molte collusioni. Accadde un fatto imprevedibile a margine dell’inchiesta sull’omicidio dello studente missino Sergio Ramelli. Una persona in cerca di un tetto sfondò la porta di un abbaino e vi trovò, in stato di abbandono, il vecchio archivio di Avanguardia operaia, il gruppo di cui alcuni componenti erano proprio in quei giorni accusati dell’omicidio.

Oltre alle solite e ormai inutili schede sui «fascisti», vi era un documento anonimo ma riferibile al gruppo milanese di Ordine nuovo. Quel documento conteneva notizie inedite sui legami appunto tra la cellula milanese e le cellule venete ai tempi della strage e sul fatto che alcuni dei timer rimasti dopo il 12 dicembre erano stati consegnati dopo la strage alla cellula milanese. Questa avrebbe dovuto collocarli in una villa di Feltrinelli non per farla saltare in aria ma per indirizzare le indagini nei suoi confronti.

Era un episodio misterioso, ma alcuni testimoni ci diedero conferma dell’esistenza di questo progetto e ripartimmo quindi proprio dagli spunti offerti da quel documento.

Nel giro di poco tempo circostanze e notizie nuove cominciarono a depositarsi nell’indagine, come i frammenti di un puzzle, inizialmente disordinati ma poi sempre più leggibili. Quasi in successione Carlo Digilio, latitante da più di dieci anni, fu espulso da Santo Domingo e portato in Italia. Un vecchio «pentito» della destra milanese, passato in seguito alla malavita comune, Gianluigi Radice, ci indicò Martino Siciliano, sino a quel momento personaggio quasi sconosciuto, come una persona molto informata sulla strage di Milano avendo fatto per molti anni la spola tra la cellula di Mestre, in cui militava, e il capoluogo lombardo. Vincenzo Vinciguerra accettò di ricostruire i rapporti tra il vecchio mondo di Ordine nuovo e gli apparati dello Stato, e questo avvenne quando si rese conto che io, a differenza della procura di Venezia, non gli affibbiavo l’etichetta di «gladiatore», non lo accusavo, ipotesi questa tanto propagandata quanto priva di fondamento, di aver commesso l’attentato di Peteano con l’esplosivo di Gladio, e gli riconoscevo invece la sua identità, cioè quella di «fascista rivoluzionario» puro che aveva sempre rifiutato le collusioni con pezzi dello Stato e con la logica delle stragi contro i civili.

A un certo punto si presentò anche il capitano Labruna (degradato e rimasto in Italia senza una lira a pagare anche le colpe dei suoi superiori) e ci portò la copia originale e impolverata dei nastri del golpe Borghese, quella non «alleggerita» dei nomi più importanti. L’arrivo in Italia di Digilio fu decisivo, perché solo allora, grazie a una serie di testimonianze incrociate, riuscimmo a provare definitivamente che proprio lui era lo «zio Otto», il personaggio misterioso comparso sullo sfondo delle indagini fatte a Catanzaro e indicato da Sergio Calore e da altri testimoni con il soprannome, pur senza conoscerlo, come il «quadro coperto» di Ordine nuovo in Veneto, incaricato di occuparsi dell’esplosivo utilizzato anche per piazza Fontana.

Digilio, una volta in carcere in Italia e perso l’anonimato e le protezioni di cui aveva goduto, cominciò, seppur faticosamente e centellinando le sue dichiarazioni, a collaborare. Riuscimmo anche a raggiungere Siciliano in Francia. Alle prime avvisaglie delle nuove indagini era incerto se accogliere l’invito dei suoi ex camerati a raggiungerli in Russia, dove avevano impiantato una serie di attività commerciali, o a stabilirsi in Colombia, dove c’era la sua nuova famiglia. Comunque sarebbe sparito per sempre se, ironia della storia, non si fosse mosso proprio il SISMI per rintracciarlo e convincerlo a collaborare. Sembra un paradosso, uno dei molti di questo processo, ma fu proprio qualche funzionario del SISMI, con una mentalità nuova e con l’obiettivo di riscattare in questa vicenda il passato dei servizi segreti italiani, a compiere il lavoro migliore, mentre molti colleghi magistrati guardavano con indifferenza, per non dire fastidio, alle nuove indagini su piazza Fontana.

Intanto anche gli archivi dei servizi segreti, civili e militari, cominciavano ad aprirsi. Fu possibile acquisire nuovi documenti e certamente l’indagine, pur rimanendo non facile, fu almeno resa possibile da alcuni fenomeni politici quali la rivelazione di Gladio e la caduta del Muro di Berlino con la fine di fatto della guerra fredda.

Coloro che, direttamente o indirettamente, avevano lavorato come «forze irregolari» a fianco dei servizi segreti occidentali, alleati o «prigionieri» delle loro strategie, erano ora più liberi di parlare perché, in un certo modo, la «guerra» era vinta, o comunque terminata ed era possibile alzare il velo anche sui suoi risvolti più tragici. In molti testimoni c’era orgoglio e insieme rammarico, perché erano consapevoli di essere stati usati, e se anche il nemico sovietico non si era impadronito dell’Italia, il futuro politico era di compromesso e non certo quello fatto di tradizione, gerarchia e fanatismo militare da loro auspicato.

Un altro vantaggio fu, all’inizio della nostra indagine, poter lavorare in silenzio perché Mani pulite e il crollo della prima repubblica monopolizzavano l’interesse dei mass media e nessuno si era accorto di noi, almeno sino a quando qualche collega, forse indispettito dal fatto che la semplicistica equazione «Gladio uguale stragi» stesse venendo meno, non cominciò a porre un ostacolo dopo l’altro alla nostra inchiesta, diventando quasi il «salvatore» dell’ambiente su cui aveva indagato fino a poco tempo prima.

Come è proseguita l’indagine?

La dinamica è stata molto particolare, in pratica un percorso a cerchi concentrici che portava però progressivamente al centro della strategia del terrore. Inizialmente abbiamo fatto luce su avvenimenti più esterni, anche avvenuti in luoghi diversi da Milano e qualche tempo prima o dopo il 12 dicembre, ma sempre ricollegabili a quella strategia certamente unica, almeno sino alla metà degli anni Settanta con il colpo di coda della destra estrema e golpista costituito dalla strage di Brescia. Queste sono anche le conclusioni cui è giunta la Commissione stragi.

Vennero alla luce tanti episodi sotto questo profilo collegati tra loro. Ne ricordo solo alcuni: l’arsenale in un casolare di Camerino «scoperto» dai carabinieri e attribuito a giovani di sinistra della zona, in realtà allestito, prima della «scoperta», dagli stessi carabinieri e dal SID; le esercitazioni e gli attentati del MAR di Carlo Fumagalli in Valtellina, con armi e divise fornite dall’esercito e tanto di avviso alla più vicina stazione dei carabinieri quando c’era da spostare una macchina carica di armi; la strage dell’estate 1970 sul treno Freccia del Sud prima della stazione di Gioia Tauro, attribuita a un errore del macchinista ma in realtà, come scoprimmo, causata da un ordigno deposto sui binari da avanguardisti di Reggio Calabria; l’attentato alla caserma dei carabinieri di Este commissionato dal SID a uomini di Ordine nuovo del posto per creare tensione; le bombe a mano SRCM riconsegnate dal gruppo dei milanesi ai romani del gruppo di Paolo Signorelli dopo essere state usate nell’aprile 1973 nella manifestazione in cui fu ucciso l’agente Antonio Marino. E ancora i Nuclei di difesa dello Stato (quello sì, molto più di Gladio, un caso più politico che penale), una struttura pericolosa e con fini eversivi in cui ordinovisti e militari si addestravano insieme, all’inizio degli anni Settanta, in vista dell’imminente presa del potere.

Ma fu solo quando Digilio e Siciliano, e anche Giancarlo Vianello, cominciarono a parlare degli esplosivi di tutti i tipi a disposizione del gruppo mestrino, dei contatti con Milano, che avevano portato Siciliano a commettere un attentato qualche tempo dopo (nel 1971, all’università Cattolica di Milano), e ancor di più quando emerse l’attentato alla Scuola slovena di Trieste del 3 ottobre 1969, davanti alla quale il gruppo al gran completo aveva deposto una cassetta metallica con chili di gelignite, che vi fu la sensazione di avvicinarsi al cuore della strategia: la strage di piazza Fontana.

Ricordo altri due episodi che portavano in quella direzione: le riunioni nella libreria Ezzelino di Freda, quella di cui si è molto parlato anche nella prima indagine, dove Siciliano ci raccontò di essere stato presente nel 1969 e dove non si parlava solo del misticismo pagano e dei falsi «manifesti cinesi», attacchinati a Padova dai mestrini dopo averli ritirati dagli stessi padovani. Libreria e «mascheramento» da estremisti di sinistra erano esattamente la continuazione dei contesti, con voci questa volta dall’interno, in cui si era mossa anche la prima indagine. Davanti a questi episodi faccio fatica a spiegarmi come mai le sentenze abbiano respinto l’idea che tra gli amici di Freda e quelli di Maggi vi fosse una sintonia ben finalizzata.

Con quali strumenti ha portato avanti per diversi anni questa inchiesta?

Lavoravamo in modo quasi artigianale io e il mio collaboratore, l’insostituibile maresciallo Antonio Russo della Guardia di finanza, tra pile di fascicoli. Dieci o dodici anni sembrano pochi, ma sono un secolo in tema di sviluppo delle tecniche di indagine. Allora avevamo veramente pochi mezzi. Inoltre occupandoci di fatti molto lontani non potevamo certo usufruire di strumenti efficaci come l’esame dei tabulati telefonici e di certe indagini scientifiche molto avanzate realizzate oggi sul luogo del delitto. Le stesse perizie fatte all’epoca sui resti dei vari ordigni erano incomplete, quasi disastrose, e ci rendevano praticamente impossibile fare delle comparazioni con i nuovi risultati acquisiti tramite le testimonianze. Anche la solidarietà all’interno del tribunale è stata scarsissima, sentivamo intorno a noi quasi un atteggiamento di ironia perché ci occupavamo di quella che veniva chiamata «archeologia giudiziaria».

Per fortuna a partire da un certo momento ci hanno aiutato molto alcuni carabinieri e alcuni poliziotti: hanno svolto le indagini a loro delegate senza guardare in faccia nessuno, anche se i risultati potevano toccare i vecchi ufficiali e i vecchi funzionari magari responsabili in passato dei depistaggi di quelle stesse indagini. Ci ha anche molto aiutato il perito che avevamo nominato: lo storico e specialista in archivistica Aldo Giannuli. Si è dimostrato un vero segugio nel trovare documenti utili tra armadi pieni di faldoni che per la prima volta era possibile visionare negli archivi.

Dalla lettura delle sentenze di Appello e della Cassazione sembrerebbe che tutta la sua inchiesta si basi sulle confessioni dei pentiti Digilio e Siciliano.

Non è così. I riscontri obiettivi e gli apporti di altri testimoni sono stati molti nonostante lavorassimo su episodi lontani nel tempo, anche sugli attentati precedenti da noi definiti «preparatori» alla strage di piazza Fontana.

Quando scoprimmo la responsabilità per gli attentati in contemporanea del 3 ottobre 1969 alla Scuola slovena di Trieste e a un cippo di confine a Gorizia del gruppo di Delfo Zorzi, attentati per i quali fra l’altro furono utilizzati almeno sei chili di gelignite, riuscimmo a trovare, grazie a un vecchio giornale dell’epoca, addirittura il titolo del film in programmazione quella sera in un cinemino di Gorizia che Siciliano ci aveva raccontato di aver visto insieme agli altri mentre attendevano l’ora propizia per andare a deporre l’ordigno. Ricordo ancora il titolo di quel vecchio film, La realtà romanzesca, un titolo quasi allusivo. Poi per caso, nel 1996, durante un accesso alla questura di Firenze dove non immaginavamo si potesse trovare del materiale sul gruppo sotto indagine, trovammo un pacco di lettere e di fax scambiati fra Tringali e Zorzi. Da questi documenti, nonostante qualche tentativo di «criptarne» il significato, si capiva chiaramente come già vent’anni or sono la maggiore preoccupazione del gruppo era Siciliano. Considerato evidentemente un debole, temevano «crollasse» psicologicamente e raccontasse la storia del gruppo mestrino, inclusi i segreti «scottanti» (così definiti in una lettera) di cui anche Tringali era depositario. Un bel riscontro anticipato quindi, risalente a tempi non sospetti, del valore complessivo di quanto Siciliano ci avrebbe poi detto.

In quelle lettere si faceva anche riferimento al terrore che gli inquirenti potessero scoprire l’«anello di congiunzione», all’epoca, tra il gruppo mestrino e l’«amico Fritz», cioè certamente Freda o Fachini del gruppo di Padova. Era un elemento importante perché la sentenza di appello, in alcuni passaggi per la verità un po’ discutibili, ha indicato come elemento di debolezza dell’accusa il fatto che non fossero sufficientemente provati i rapporti operativi tra il gruppo mestrino e quello di Padova, tralasciando tra l’altro di rilevare, sul piano storico e geografico, l’ovvia circostanza che Mestre era in pratica la periferia di Padova perché in tale città quasi tutti i mestrini, ordinovisti e non, andavano a frequentare l’università.

Comunque quelle lettere (una prova documentale importantissima) non sono state nemmeno fotocopiate dalla procura e portate nell’aula della Corte d’assise, e questo non è l’unico caso di atti importanti che avrebbero dovuto essere usati e, con una certa disattenzione, sono stati invece dimenticati.

Vi sono state poi altre testimonianze in grado di illuminare la fase preparatoria degli attentati del 12 dicembre 1969, come quella, confermata anche in dibattimento, di Ennio Peres, da giovanissimo vicino ad Avanguardia nazionale, amico personale di Mario Merlino e in seguito allontanatosi rapidamente da tale mondo. Attualmente, fra l’altro, cura una brillante rubrica di enigmistica sulla rivista «Linus».

Ecco cosa ci raccontò Peres: poche settimane prima del 12 dicembre 1969 Merlino gli aveva chiesto di «darsi da fare per la causa» e di deporre una borsa all’Altare della patria di Roma senza preoccuparsi più di tanto perché «la colpa sarebbe ricaduta su altri». Peres non accettò e, una volta avvenuti gli attentati, capì subito quale avrebbe dovuto essere il suo ruolo, anche se non ha avuto il coraggio di raccontarlo se non dopo tanti anni. Una testimonianza apparentemente minore la sua, ma importante se si ricorda che gli attentati di Milano e di Roma furono un tutt’uno e, come hanno poi spiegato Vinciguerra e altri testimoni, Ordine nuovo e Avanguardia nazionale si erano in pratica divisi i compiti, e Avanguardia si era ritagliata il suo ruolo a Roma ove da sempre era più forte e radicata.

Non dimentichiamo poi le intercettazioni, poco valorizzate nelle sentenze di assoluzione, come quelle in cui, nel 1986, si sentono in diretta i tentativi del gruppo mestrino di indurre a ritrattare una testimone che aveva confermato il racconto di Siciliano in merito a un attentato commesso da membri del gruppo nel marzo 1970 a danno del grande magazzino Coin di Mestre. Un attentato modesto e sul piano penale ormai prescritto, ma sul quale fare piena luce era molto pericoloso per il gruppo in quanto l’esplosivo usato, forse imprudentemente, poteva riportare all’intera dotazione del gruppo stesso e ai ben più gravi attentati precedenti.

Tornando a Siciliano, sempre combattuto tra la scelta di affidarsi allo Stato e le lusinghe dei suoi ex camerati, bisogna anche sottolineare come dopo il 1995 sia stato fatto tutto il possibile per scoraggiarne la collaborazione. Le iniziative singolari della procura di Venezia, subito riversate sulla stampa locale, hanno reso la sua collaborazione di pubblico dominio delegittimandola proprio nel momento cruciale dell’indagine. In seguito le strutture addette alla sua protezione lo hanno lasciato in uno stato pressoché di isolamento, costretto a condurre una vita stentata e a pagarsi anche le telefonate ai suoi familiari in Colombia. Alla fine Siciliano ha testimoniato e confermato tutto il suo racconto nel processo di appello, ma forse era ormai troppo tardi.

Gli ostacoli e gli atteggiamenti di gelosia e di insofferenza che avevano contrassegnato l’indagine negli anni precedenti, ne avevano irrimediabilmente segnato l’esito. E stata la prima volta, nelle indagini sulle stragi, in cui i boicottaggi non sono venuti dai servizi segreti o da altre «forze oscure» ma dall’interno stesso della magistratura.

Risulta, quindi, chiaro che Ordine nuovo, ma anche Avanguardia nazionale, sono i soggetti politici più attivi nella strategia della tensione. Dalla sua inchiesta è arrivato a evidenziare cosa realmente si proponevano?

Ordine nuovo (ON) e Avanguardia nazionale (AN) entravano e uscivano dal vecchio Movimento sociale italiano, ne condividevano quantomeno l’ambiente umano e soprattutto erano entrambi componenti del Fronte nazionale del principe Junio Valerio Borghese, un’organizzazione seria e ramificata di cui si è sempre parlato troppo poco.

Avanguardia nazionale di Stefano Delle Chiaie era un movimento molto rozzo, quasi privo di un’elaborazione politica, vi militavano molti sottoproletari utilizzati per gli scontri di piazza, ma fu il primo a intuire le possibilità offerte dall’infiltrazione nei gruppi studenteschi grazie al motto del nazi-maoismo.

Vinciguerra ci ha del resto raccontato come erano proprio i militanti di AN ad attacchinare i finti manifesti filocinesi, stampati, secondo il suo racconto, con i soldi del ministero dell’Interno. Manifesti pensati sia per spargere confusione nel PCI e nella sinistra sia per spaventare i benpensanti.

In realtà erano gruppi inventati dagli avanguardisti. AN ebbe anche un ruolo decisivo nell’alimentare la rivolta di Reggio Calabria, riuscendo a incanalare un moto spontaneo di protesta e a renderlo funzionale agli interessi dei notabili reazionari e dei gruppi mafiosi del luogo. A Reggio Calabria AN aveva anche l’intento di addestrare i propri uomini sulla piazza in vista del sostegno a una possibile azione golpista.

Ordine nuovo di Pino Rauti aveva invece un maggiore spessore teorico, un’ideologia di stampo prettamente nazista con venature iniziatiche ed esoteriche: i suoi militanti si definivano appartenenti a un «ordine di combattenti e di credenti». Privilegiavano, rispetto agli scontri di piazza, lo studio dei teorici della «tradizione» come Julius Evola e la costituzione di cellule formate da pochi militanti molto selezionati e ispirate al modello dell’OAS, i cui reduci avevano spesso svolto per loro il ruolo di istruttori.

Ordine nuovo aveva chiaro, come l’OAS, che non si poteva prendere o mantenere il potere tramite gli attentati, ma contava (come insegnavano i principi della «guerra rivoluzionaria» elaborati in Algeria) su una catena di attentati per indurre altri, in pratica i militari, a muoversi. Del resto l’esperienza di ON coincide in buona parte con quella dei Nuclei di difesa dello Stato, l’organizzazione «segreta» di cui facevano parte anche Freda, Ventura e probabilmente Maggi. Quest’ultima, suddivisa in legioni territoriali, si era incaricata di inviare agli ufficiali nelle varie caserme volantini per incitarli a sollevarsi contro la «sovversione rossa», e in qualche caso era riuscita a organizzare esercitazioni miste tra civili e militari.

Piuttosto, come ho accennato, si è sempre parlato molto poco del Fronte nazionale, di cui sia ON sia AN erano tra i componenti, una realtà certo non trascurabile di cui facevano parte militari, imprenditori, elementi della nobiltà nera ed elementi massoni, in grado di attrarre anche politici apparentemente non di estrema destra.

Molto probabilmente già nell’autunno del 1969 il Fronte nazionale aveva quasi messo a punto il suo programma di golpe e solo alcuni ritardi ed esitazioni dinanzi all’ampiezza della risposta popolare dopo gli attentati del 12 dicembre 1969 hanno indotto i suoi dirigenti a spostare in avanti il progetto di un anno, e cioè al dicembre 1970, perdendo tuttavia parte della spinta iniziale. Del resto, alla fine del settembre 1969 il principe Prospero Colonna, un esponente della nobiltà romana vicino al Fronte nazionale, rivelò a un ufficiale del SID come il piano per il golpe fosse quasi pronto e come il principe Borghese intendesse favorirlo con una serie di grossi attentati dinamitardi capaci di rendere inevitabile l’intervento dei militari al suo fianco.

Quindi piazza Fontana era in qualche modo una strage annunciata. Purtroppo la confidenza del principe Colonna non è mai stata approfondita né allora né in seguito e la morte di Borghese in Spagna ha contribuito a porre una pietra sull’intera vicenda.

Qual è il ruolo dell’Aginter Presse e chi è Ralph Guerin Serac, pseudonimo di Yves Felix Marie Guillou?

L’Aginter Presse, fondata dal bretone Guerin Serac, già militare in Corea e in Indocina e disertore dell’esercito francese in Algeria avendo aderito alla rivolta dell’OAS, era un servizio segreto «privato» specializzato in azioni clandestine soprattutto, ma non solo, nei paesi del Terzo mondo, ovunque gli interessi dell’Occidente dovessero essere difesi dall’«avanzata comunista». Poiché ufficialmente non faceva parte di nessun governo, la sua esistenza evitava ai governi beneficiari delle sue azioni di sporcarsi le mani quando si trattava di eliminare un avversario o di preparare una sollevazione militare o difendere gli interessi occidentali in un paese coloniale o semicoloniale. L’Aginter Presse è stata in un certo senso il prototipo di quegli «eserciti privati» proliferati negli ultimi anni. Aveva sede inizialmente a Lisbona e in seguito, dopo la caduta del regime di Marcelo Caetano, si è spostata a Madrid sotto la protezione del generale Francisco Franco.

Vinciguerra (così come Delle Chiaie e molti altri militanti francesi, portoghesi e anche americani) ha vissuto a lungo in una delle sue basi a Madrid e quindi, grazie al suo racconto e alle nuove indagini, ora sappiamo molto di più della storia di Aginter Presse, comprese le azioni, ancora sino alla seconda metà degli anni Settanta, in Algeria, in Honduras, in Angola e addirittura nelle Azzorre, ove era stata incaricata di creare un finto movimento di liberazione per proteggere le basi americane dalle rivendicazioni dei militari progressisti andati al potere in Portogallo con la Rivoluzione dei garofani.

Aginter Presse aveva stretti rapporti con le organizzazioni dell’estrema destra italiana, soprattutto con ON, e forniva una «istruzione base» sull’infiltrazione, le tecniche di sabotaggio, l’uso degli esplosivi, la «guerra psicologica» contro il nemico. Come è noto, un lungo appunto del SID redatto già il 15 dicembre 1969 indica l’Aginter Presse come ispiratrice degli attentati del 12 dicembre, pur avendo l’accortezza di etichettare Guerin Serac come anarchico e indicare in Delle Chiaie e in Merlino i suoi principali referenti in Italia.

Questo mischiare il falso al vero e al verosimile è una vera astuzia in quanto doveva costituire per il SID una sorta di alibi preventivo. Infatti, una volta consegnato l’appunto nel 1973 alla magistratura tramite i carabinieri di Roma (non si dimentichi: nei primi giorni dopo gli attentati avevano indagato proprio su Delle Chiaie e Merlino), nessuno poteva più dire che il SID non avesse fatto in qualche modo il suo dovere, anche se la pista offerta era assolutamente confusa e si risolveva il problema invitando i magistrati a indagare in Portogallo, cosa allora del tutto impraticabile.

Personalmente sono convinto che gli autori materiali degli attentati del 12 dicembre siano stati italiani e non militanti venuti da fuori. Tutta la vicenda, per quanto tragica, ha un sapore decisamente «casereccio», ma nel contempo ritengo plausibile il messaggio generale dell’appunto del SID. L’Aginter Presse, infatti, si occupava di indicare la strategia generale, il «protocollo di intervento», spiegava cosa era opportuno fare pur senza indicare il singolo obiettivo, individuazione di pertinenza dei militanti locali già istruiti nei «corsi» della Aginter Presse. Del resto i documenti trovati nella vecchia sede dell’Aginter Presse a Lisbona sono del tutto in sintonia con la pratica, anche nei paesi occidentali, di attentati misteriosi, non rivendicati e tali da creare un clima generale di insicurezza, utili soprattutto quando i governi locali si dimostrassero esitanti nel contrapporsi ai progressi dei «comunisti» di quel Paese.

Le racconterò comunque un particolare capace di illuminare questa possibile fase di istruzione e di ispirazione ricoperta dall’Aginter Presse. Vinciguerra ha raccontato che, durante uno dei corsi di «istruzione» a Madrid, Guerin Serac aveva insegnato a nascondere un ordigno esplosivo in un oggetto apparentemente innocuo come un libro scavando una nicchia al suo interno. Proprio un ordigno fatto in quel modo, un grosso libro semisvuotato all’interno per nascondervi l’esplosivo, fu trovato inesploso nel rettorato di Padova pochi giorni prima dell’attentato più noto e riuscito per il quale fu in seguito condannato Freda. Un aggeggio del genere non si era mai visto. Solo una coincidenza? Dopo l’esperienza spagnola, buona parte del vecchio gruppo dell’Aginter Presse si è trasferito in Sud America, in Cile e in Argentina, a fare lo stesso lavoro, e l’ultima segnalazione su Serac lo indica negli anni Ottanta in Bolivia quale consulente del dittatore locale.

Durante le nostre indagini abbiamo pensato di chiedere alle autorità francesi qualcosa del suo fascicolo, almeno per mettere a fuoco i suoi passati rapporti con l’Italia ma, prima ancora che partisse la nostra richiesta formale, un ufficiale di collegamento francese ci ha cortesemente avvertito di lasciar perdere: tanto non ci sarebbe mai stato dato o detto nulla. Non ho dubbi: così sarebbe stato.

C’è poi un personaggio nei fatti del 1969 che oggi occupa ancora un posto di rilievo nel panorama politico: Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo poi rientrato nel Movimento sociale e poi promotore del Movimento sociale-Fiamma tricolore. Rauti viene indagato, messo in galera su richiesta dei magistrati Stiz e Calogero, ma rimesso in libertà da Gerardo D’Ambrosio il 24 aprile 1972. Nella sua inchiesta Rauti ricompare. In quale veste?

Il nome di Rauti è ricomparso qua e là nelle testimonianze raccolte nelle nuove indagini sia in dettagli di «ambiente» sia invece in situazioni un po’ più compromettenti, anche se non è mai stato indagato. Tullio Fabris ha raccontato che anche Rauti era presente nel 1972 nel suo negozio di elettricista quando Massimiliano Fachini lo minacciò pesantemente per dissuaderlo dal raccontare tutta la vicenda dei timer e dei favori chiesti da Freda. Era una testimonianza plausibile: quando venne fatto un controllo nella casa di Ventura fu trovato un biglietto in cui era scritto: «Mi hanno perquisito. Informare Maggi e Rauti». Questo significa, e non può essere diversamente in un gruppo come Ordine nuovo con ben definiti rapporti gerarchici, che il rapporto tra questi vari personaggi era assai stretto. Tale avvertimento tra l’altro smentisce una delle tesi su cui si basa la sentenza di assoluzione, e cioè che non vi è prova sicura di legami significativi tra il gruppo padovano e il gruppo mestrino-veneziano.

Un ordinovista veronese poi, Giampaolo Stimamiglio, ha ricordato al processo di piazza Fontana che Rauti e altri dirigenti di Ordine nuovo già nei primi anni Cinquanta erano stati convocati dagli alti comandi americani di Trieste per sondare la possibilità di una strategia comune. Rauti era stato tra coloro che non avevano rifiutato tale proposta di collaborazione in nome della comune lotta contro il comunismo, circostanza questa non insignificante se si pensa ai rapporti tra Ordine nuovo e le basi americane emersi proprio nelle nuove indagini. Inoltre Rauti nell’intervista pubblicata nel libro di Michele Brambilla, Interrogatorio alle Destre, incalzato dal giornalista sui fatti di piazza Fontana proprio nel periodo in cui si stava cominciando a parlare delle nuove indagini e per la prima volta era corsa voce della collaborazione di ex militanti di Ordine nuovo, ha risposto in modo un po’ sibillino: la responsabilità di piazza Fontana era dei servizi segreti, ma «i servizi utilizzarono come pedine ragazzi di destra che giocavano con il tritolo, con le ipotesi di golpe, con il clandestinismo», benché in buona parte inconsapevoli di essere al servizio di una strategia altrui. Detto da Rauti (all’epoca punto di riferimento per tutta l’area giovanile della destra radicale e in rapporti con pressoché tutti i militanti, peraltro non molti) non sembra certo un sentito dire ma piuttosto, se rapportato al momento dell’intervista, l’inizio del 1995, un «mettere le mani avanti» rispetto agli sviluppi della nuova indagine non del tutto immaginabili in quel momento. Certo un concetto come quello espresso da Rauti, a lungo deputato e quindi un «rappresentante del popolo italiano» colpito dalla strage, dovrebbe comportare il dovere di una spiegazione.

Nell’attività dei gruppi di estrema destra in che misura e con quale funzione intervengono i servizi segreti americani?

La presenza e la funzione dei servizi segreti americani sono rimaste, soprattutto nei dibattimenti, un po’ sullo sfondo, di loro si è parlato poco. Non credo del tutto a Digilio (sicuramente un informatore delle basi americane in Veneto come molti altri militanti di ON) quando sostiene che gli ufficiali americani avrebbero direttamente ispirato e coordinato gli attentati. Questa versione poteva servire a Digilio per attenuare un po’ le sue responsabilità, presentarsi più come osservatore dei fatti che come responsabile della loro decisione ed esecuzione. Credo però nel contempo che lo scambio di informazioni reciproco tra le basi americane e le strutture di ON fosse continuo e ben accettato da entrambe le parti in quanto i militanti di ON erano visti come «cobelligeranti» nella guerra contro il comunismo. Quindi i servizi segreti americani erano a conoscenza della campagna di attentati, dei loro autori, della loro progressione e hanno assunto un atteggiamento di «osservatore benevolo» non facendo mancare qualche aiuto logistico al gruppo come, per esempio, la fornitura di armi alla cellula ordinovista di Verona. Ovviamente in questo «controllo senza repressione» si guardavano bene dall’informare le autorità italiane perché quanto stava accadendo poteva risultare funzionale al mantenimento del quadro politico e delle alleanze per cui lavoravano le forze del Patto atlantico. Inoltre, da documenti recentemente declassificati degli archivi di sicurezza statunitensi e resi pubblici è emerso come gli Stati Uniti fossero perfettamente al corrente anche degli sviluppi del golpe Borghese. E il generale Maletti nella sua fugace e prudente deposizione al dibattimento di primo grado, nel 2001, ha tenuto a sottolineare come i servizi segreti italiani, in cui aveva ricoperto ruoli di alto livello, all’epoca dipendevano in tutto e per tutto da quelli americani.

Il meccanismo direi non solo politico ma anche quasi psicologico che ha permesso sino alla metà degli anni Settanta l’esecuzione di stragi e attentati in una condizione di impunità e di sicurezza quasi garantita per i loro autori è quindi in un certo senso a gradini: c’è chi li commette, i gruppi terroristici di estrema destra; c’è chi appronta o ha già approntato false piste o si incarica di far fuggire chi sia stato inopinatamente individuato come Marco Pozzan, e mi riferisco ai servizi segreti italiani; c’è chi è soddisfatto di quanto avviene e certo non lo contrasta, e mi riferisco ai servizi stranieri alleati; e c’è infine chi, una parte del mondo politico, è convinto, magari a torto, di essere un potenziale beneficiario o di poter trarre comunque vantaggio da tutto questo. Quest’ultima aspettativa tuttavia, salvo qualche risultato immediato, a lungo termine non si realizza perché gli attentati impuniti suscitano alla fine una risposta democratica contro le ambiguità del potere contribuendo a portare verso nuovi equilibri anche all’interno della stessa Democrazia cristiana. Piuttosto, conseguenza probabilmente non prevista, piazza Fontana e le altre stragi con il loro fondo di irrazionalità sono certo non la causa ma almeno una forte concausa del passaggio delle organizzazioni armate di sinistra da azioni dimostrative al terrorismo perché, dinanzi alle stragi impunite, salta psicologicamente in molti giovani ogni remora a usare la violenza estrema. È come se si pensasse: se lo Stato protegge gli autori delle stragi allora la mia violenza cessa di essere moralmente illegittima. In realtà questa onda lunga e non calcolabile da chi il pomeriggio del 12 dicembre ha deposto la valigetta sotto il tavolo nell’atrio della Banca nazionale dell’agricoltura, finisce per lambire, sul piano delle conseguenze a lungo termine, l’unico crimine politico italiano che effettivamente ha avuto conseguenze dirette e in parte previste anche dai suoi autori e cioè l’omicidio di Aldo Moro. Dopo quell’omicidio, infatti, il disegno del compromesso storico e della solidarietà nazionale è entrato subito in crisi e sono comparsi come attori soggetti politici prima comprimari sulla scena.

Torniamo alla funzione degli americani.

Le dichiarazioni di Digilio sul loro ruolo non devono essere poi più di tanto svalutate. Digilio, il cui padre, ufficiale della Guardia di finanza, era già durante la guerra un agente alleato con il nome in codice «Erodoto», ha parlato, per esempio, di un ex ufficiale italoamericano, Joseph Pagnotta, che con frequenti visite faceva da «supervisore» del loro gruppo ordinovista. Ebbene, a casa di questo Pagnotta (aveva partecipato allo sbarco in Sicilia e, prima di morire, si era stabilito per lungo tempo in Veneto) abbiamo trovato le agende di lavoro da cui risulta, con tanto di conteggi e indicazione di elicotteri e di carri armati, che egli faceva il lavoro riservato di vendita di mezzi dell’esercito USA a Israele negli anni Cinquanta-Sessanta in violazione dei divieti stabiliti dagli accordi internazionali dell’epoca. «Triangolazioni» di questo genere le fa solo un agente ad alto livello come ci insegna la vicenda Irangate e altre più recenti.

Nel 1995 scoprimmo poi un’altra cosa molto interessante: mentre noi indagavamo sul possibile intervento dei servizi americani, un uomo della CIA a Milano stava acquisendo informazioni sulla nostra indagine contattando alcuni nostri testimoni e preparando anche una scheda su di me e sui miei investigatori. Quest’uomo si chiamava Carlo Rocchi, non un tipo qualsiasi perché già dal dopoguerra aveva lavorato per il reclutamento nei ranghi americani di ex ufficiali nazisti come Otto Skorzenà o il colonnello Eugen Dollmann, e più recentemente era stato mandato in missione nel Salvador. Quando gli domandammo perché lo facesse rispose tranquillamente perché riteneva scontato che gli alleati americani «avessero il diritto di sapere» cosa si faceva in Italia, indagini comprese. Non credo valga anche il contrario.

Ricordiamo poi, tanto per attualizzare la storia delle interferenze sulla sovranità dell’Italia, che le basi americane in Veneto di cui parla Digilio e a cui molti ordinovisti avrebbero avuto libero accesso, sono più o meno quelle in cui, secondo gli esiti delle recenti indagini della procura di Milano, una squadra di agenti americani avrebbe trasferito e interrogato l’imam Abu Omar, rapito a Milano sotto casa sua nel febbraio 2003, prima di imbarcarlo su un aereo militare alla volta dell’Egitto. Quindi queste «presenze» non sono solo fantasie o forzature propagandistiche.

In conclusione, la Commissione stragi è chiusa, i processi sono finiti, ma forse nei prossimi anni dagli atti degli archivi americani progressivamente declassificati per iniziativa di gruppi di studiosi verranno sorprese interessanti, come è già successo per quelli sul colpo di Stato in Cile e le complicità statunitensi.

Un politico democristiano di lungo corso come Paolo Emilio Taviani, uno dei «padri» della repubblica, cosa ha sostenuto esattamente poco prima di morire?

Il senatore Paolo Emilio Taviani, uno dei pochi esponenti politici ancora viventi negli anni Novanta fra quelli con incarichi di rilievo negli anni della strategia della tensione, solo nel 2000 ha rivelato, in una serie di testimonianze rese nell’ambito delle nuove indagini, di aver appreso nel 1974 che la bomba collocata a Milano non avrebbe dovuto provocare vittime e che un agente del SID, l’avvocato romano Matteo Fusco, proveniente da una famiglia di militari, il pomeriggio del 12 dicembre 1969 stava per partire da Fiumicino per Milano, tardivamente incaricato di impedire gli attentati perché avrebbero avuto conseguenze più gravi di quelle previste. È una testimonianza assai attendibile in quanto la figlia di quest’uomo, Anna Fusco, ha confermato che il padre aveva lavorato per lungo tempo per il SIFAR e poi per il SID con incarichi di rilievo, tanto da occuparsi di «ripulire» nel 1968 l’ufficio del colonnello del SIFAR Renzo Rocca dopo il suo misterioso suicidio. Fusco in varie occasioni aveva confidato alla figlia il cruccio della sua vita: il fallimento del suo tentativo di impedire la strage di piazza Fontana. Fusco non era un semplice procuratore legale di provincia come Freda, ma un agente importante del SID e contemporaneamente un convinto aderente alla linea politica di Ordine nuovo di Rauti, quindi è uno degli elementi di intersezione a più alto livello sinora individuati tra il mondo militare e dei servizi segreti e la struttura politico-operativa di Ordine nuovo. Se un uomo come Fusco è stato inviato all’ultimo momento per impedire che una strategia, forse solo «dimostrativa», sfuggisse di mano, significa chiaramente un fatto: a Roma almeno una parte degli apparati istituzionali doveva essere bene a conoscenza della preparazione degli attentati, cercando solo all’ultimo momento di ridurne gli effetti. Taviani ha fornito quindi uno squarcio delle consapevolezze e delle collusioni degli apparati dell’epoca, anche se è inquietante il fatto che abbia sentito il dovere di questa timida apertura solo nel 2000, dopo essere stato sentito tante volte dai magistrati e dalla Commissione stragi.

Appare chiaro: l’attività politica in Italia e quella dei governi, ma in una certa misura anche dei partiti d’opposizione, era fortemente condizionata dall’attività del SID e dell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno guidato da Federico Umberto D’Amato. Un uomo diventato personaggio noto praticamente dopo la sua morte nel 1996. Infatti passano solo sedici giorni dalla morte di D’Amato e vengono ritrovati dal suo consulente, Aldo Giannuli, ben centocinquantamila fascicoli del ministero dell’Interno non catalogati nel deposito della via Appia. Chi era D’Amato e quanta parte ha avuto nella strategia della tensione?

Sin dalle prime indagini funzionari del ministero dell’Interno vicinissimi a D’Amato furono coinvolti nel sottrarre all’attenzione della magistratura reperti importantissimi tra cui la cordicella della borsa in cui era nascosto l’ordigno trovato alla Banca commerciale e si impegnarono nel non fare le indagini con le quali si sarebbe potuto facilmente risalire agli acquirenti a Padova delle cinque borse utilizzate il 12 dicembre 1969. Del resto fu proprio il ministero dell’Interno (mentre i carabinieri a Roma seguivano inizialmente la pista di Delle Chiaie) ad accompagnare immediatamente la magistratura sulla falsa pista anarchica. Non vi è da stupirsi. Dai documenti rinvenuti da Giannuli proprio nel deposito di via Appia, quelli contenenti i verbali del Club di Berna (gli incontri informali degli anni Sessanta tra i rappresentanti dei vari servizi segreti europei di cui D’Amato era fra gli animatori), si legge che la sinistra e l’estrema sinistra, viste come l’unico pericolo, dovevano essere oggetto di operazioni di infiltrazione da parte di agenti ben addestrati anche «all’uso delle armi e esplosivi», come se loro compito fosse non solo prevenire attentati ma anche crearne le condizioni o ispirarli. In proposito non mi sembra sia stato mai abbastanza approfondito per quale ragione il ministero dell’Interno abbia avvertito la necessità di infiltrare a tempo pieno in un gruppetto insignificante come il Circolo 22 marzo di Roma, in cui Avanguardia nazionale aveva già inserito Merlino con compiti di provocazione, il finto anarchico Andrea, e cioè l’agente Salvatore Ippolito. C’erano forze ben più agguerrite nella nascente sinistra extraparlamentare in cui sarebbe stato più utile, tenendo conto dei non molti uomini di cui il ministero disponeva, infiltrare per mesi un agente segreto. L’unica spiegazione ragionevole? Da molto tempo doveva essere già in atto il progetto di creare una pista anarchica, studiando i movimenti di alcuni di loro, verso cui indirizzare la responsabilità di alcuni attentati. Tornando a via Appia, in quel deposito dimenticato, oltre a tante informative mai fatte pervenire alla magistratura, sono stati trovati nel 1996 addirittura «pezzi di bomba», cioè alcuni reperti, tra cui una sveglia bruciacchiata, dell’ordigno deposto alla stazione di Pescara, l’8 agosto 1969, giorno in cui furono collocate altre nove bombe in altrettante strutture ferroviarie. Se quel reperto fosse giunto in tempo alla magistratura inquirente, avrebbe potuto essere utilizzato per utili comparazioni, ma così non è stato. Mi viene in mente la confidenza fatta da Freda a Filippo Barreca, un esponente della ’ndrangheta calabrese che lo aveva aiutato e nascosto durante la prima fase della sua fuga da Catanzaro. Freda, come ha riferito poi Barreca divenuto collaboratore di giustizia, disse: «Se le cose vanno male tiro giù l’Italia, dirò quello che è successo, che la strage l’ha organizzata un prefetto». Una frase su cui meditare. Può spiegare come una parte delle istituzioni, coprendo e favorendo certi imputati, abbia fatto anche un’opera di autotutela.

Servizi segreti, ufficio affari riservati, esponenti delle forze dell’ordine erano dunque impegnati a depistare e occultare. Riguardando quegli anni si vede una sorta di lungo filo nero di manomissione della verità, se non peggio.

L’intera storia dell’Italia, sin dal primo dopoguerra, è attraversata, come da un fiume carsico, da manovre e operazioni sotterranee fatte per condizionare gli equilibri politici e istituzionali. Solo negli ultimi anni, anche grazie alle ricerche di un valente storico come Giuseppe Casarrubea, sta venendo alla luce la presenza di uomini del principe Borghese e di esponenti americani negli avvenimenti che hanno portato la banda di Salvatore Giuliano a compiere una delle prime stragi politiche, quella di Portella della Ginestra. Solo oggi, grazie al lavoro solitario del collega Vincenzo Calia della procura di Pavia, è possibile affermare con certezza che la morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei nel 1962 a Bescapè non fu dovuta a un temporale capace di far precipitare l’aereo su cui viaggiava ma a una piccola carica esplosiva sapientemente collocata nel vano del carrello dell’aereo alla partenza dalla Sicilia.

Solo nel 1994 è stato scoperto in uno stanzino di un palazzo della magistratura militare a Roma l’«armadio della vergogna» con 695 fascicoli relativi a eccidi nazifascisti commessi in Italia contro la popolazione civile tra il 1943 e il 1945, insabbiati negli anni Sessanta con un provvedimento di «archiviazione provvisoria», quando ancora la maggior parte dei responsabili tedeschi e italiani era viva e raggiungibile. Sulle responsabilità, in ipotesi anche politiche, di tale «confisca di giustizia», una Commissione parlamentare di inchiesta sta ancora lavorando.

Il fenomeno dei depistaggi e dell’occultamento riguarda quindi anche il nostro passato meno recente ed è sempre espressione, pur con forme diverse, della stessa strategia. La strage di piazza Fontana quindi non è un’eccezione. Come ha scritto il senatore Giovanni Pellegrino, l’attività storica e giudiziaria di questi anni, nonostante tutto, ha ristretto il campo dell’«indicibilità» aggiungendo costantemente frammenti di verità che si sommano alle acquisizioni precedenti rendendo progressivamente visibile l’invisibile. Pellegrino, citando Thomas Mann, ha ricordato: «Senza fondo è il pozzo del passato. Dovremmo per questo dirlo insondabile?». La domanda è retorica. No, il passato va continuamente sondato e non cessa mai di sorprenderci.

In questa luce assumono un’altra dimensione le accuse a lei rivolte dal suo collega veneziano Felice Casson e i procedimenti a cui l’ha sottoposta il Consiglio superiore della magistratura. O forse pecco di dietrologia?

La procura di Venezia di allora, e non solo una singola persona, ha la responsabilità storica di aver obiettivamente lanciato una ciambella di salvataggio ai membri del gruppo ordinovista di Mestre-Venezia, già in forte difficoltà nel 1994 perché temevano nuovi cedimenti collaborativi al suo interno. In concreto ha coltivato per oltre tre anni un esposto di Carlo Maria Maggi chiaramente infondato e strumentale. Maggi sosteneva di aver subìto durante «colloqui investigativi», peraltro liberamente accettati, presunte pressioni da parte degli investigatori. Si è giunti al punto di incriminare per «abuso di ufficio» non solo l’ufficiale dei carabinieri più impegnato nelle indagini sulle stragi (la vicenda ricorda amaramente cosa avvenne al commissario di Padova Pasquale Iuliano), ma addirittura di incriminare il sottoscritto nemmeno presente ai colloqui con Maggi. La nostra indagine è rimasta così semiparalizzata e delegittimata dinanzi ai possibili testimoni e collaboratori, ma anche dinanzi all’opinione pubblica, per un lungo periodo, passato il quale il «momento magico» era ormai svanito.

Come si è letto poi nelle intercettazioni svolte in quei mesi dalla procura di Milano, gli ex ordinovisti esultavano per aver trovato qualcuno disposto a coltivare un esposto così sfacciatamente pretestuoso, e ogni iniziativa contro di noi della procura di Venezia veniva prontamente riferita dalla stampa locale grazie ai soliti «giornalisti amici». La cosa più inquietante? Proprio in numerosi passaggi di quelle stesse intercettazioni gli interlocutori raccontavano come l’esposto fosse stato un trucco strumentale ispirato e pagato dal Giappone, un imbroglio ideato per bloccare le indagini andato al di là delle più rosee aspettative. Ma quelle intercettazioni (che avrebbero comportato l’immediata archiviazione del fascicolo aperto contro di me e il capitano Massimo Giraudo) sono state accuratamente tenute fuori dal fascicolo stesso, benché il suo titolare disponesse di tutte le trascrizioni. Solo quando sono riuscito ad averle in mano, tre anni dopo, l’archiviazione è finalmente arrivata, ma ormai il danno era fatto. Il giudice per le indagini preliminari di Venezia, Luigi Nunziante (che tra l’altro, molti anni prima, aveva lavorato con il collega Giovanni Tamburino nella prima inchiesta sul golpe Borghese e sulla Rosa dei venti), scrisse che il carattere strumentale e di inquinamento di quell’esposto risultava per tabulas dalle intercettazioni tenute appunto in un cassetto dall’inquirente. Quanto avvenuto è stata insofferenza, gelosia o un semplice abbaglio? Difficile rispondere.

Dopo la procura di Venezia cominciò a muoversi la procura generale della Cassazione, facendo fioccare contro di me decine di incolpazioni disciplinari redatte perlopiù in modo sgangherato. Quindi chi le scriveva aveva solo una vaga idea delle indagini, addirittura mi accusavano di attività mai fatte. Così il Consiglio superiore della magistratura aprì il famoso procedimento di «incompatibilità ambientale» per farmi trasferire da Milano, dove lavoravo da quindici anni, e togliermi le indagini. L’incompatibilità ambientale è un procedimento odioso in cui, a dispetto del «giusto processo», accusa e giudici sono rappresentati dalle stesse persone, la possibilità di difendersi è ridottissima, anzi più ti difendi più dimostri di essere «incompatibile», come nelle giustizie di «partito». Può durare un tempo indefinito e infatti il mio è durato sette anni. Caratteristica singolare: puoi essere trasferito anche «senza colpa», quindi puoi perdere il posto anche perché o soprattutto perché la tua presenza dà fastidio a qualcuno che è più potente di te. E questo nonostante i giudici, secondo la Costituzione, dovrebbero godere della tutela della «inamovibilità». Purtroppo il CSM, dove pesano le correnti e gruppi di influenza di fatto stratificatisi nel tempo, fa fatica da sempre a trattare i suoi «governati» come se avessero uguali diritti, è sempre stato geloso del suo privilegio di dividere tra «buoni» e «cattivi» e, soprattutto all’epoca, per ragioni politico-giudiziarie, dava più credito e pendeva a favore delle varie procure. Non si saprà mai dove sarebbe stato possibile arrivare se questi ostacoli non fossero stati posti. Quando sono stato assolto da tutte le accuse la mia indagine era finita da un pezzo: è stato come consentire a qualcuno di entrare nello stadio quando l’arbitro ha già fischiato il fine partita e i giocatori sono ormai negli spogliatoi.

Perdipiù mi trovavo accanto una procura abbastanza demotivata che inizialmente aveva pensato di mandare di nuovo tutti gli atti a Catanzaro, poi ha avuto i suoi uomini più esperti occupati in altre indagini, infine, dopo una breve fase di ripresa di interesse, si è adagiata in tutto e per tutto sulla linea della procura di Venezia, rifiutandosi completamente di collaborare con me. Il pubblico ministero delegato alle indagini, in questa confusione, oltre a vedere progetti di attentato dappertutto contro la sua persona e a incriminare per «depistaggi», rivelatisi del tutto inesistenti, anche gli ufficiali di polizia giudiziaria che lavoravano al suo fianco, si è trovato a condurre un’indagine rapidamente arenatasi. Ulteriore paradosso. L’indagine della procura continuava a vivere solo degli atti utili che provenivano dalla mia inchiesta anche se al CSM era stato sollecitato, in ogni modo possibile, con audizioni ed esposti, di farmi scomparire.

L’errore più catastrofico per il possibile sviluppo dell’indagine è stato l’arresto, richiesto dalla procura nella primavera 1996, senza nemmeno informarmi, di quattro «favoreggiatori» di Zorzi e Maggi che, a Mestre, nelle intercettazioni ambientali stavano parlando a ruota libera, fornendo inconsapevolmente moltissime indicazioni interessanti. Ovviamente dopo il loro arresto, seguito ben presto dalla scarcerazione per decorrenza dei termini (il favoreggiamento è un reato abbastanza lieve), quel canale si è chiuso e non è stata più acquisita alcuna informazione. Qualsiasi investigatore, secondo me, non avrebbe tolto dalla scena, sino alla richiesta di arresto, avvenuta nel 1997, di Maggi e Zorzi, e forse nemmeno dopo, le pedine che commentavano quotidianamente i fatti oggetto delle indagini e il loro sviluppo. Probabilmente gli arrestati sono stati i primi a esserne stupiti. In bene o in male, in termini di colpevolezza o di innocenza, non si chiude il rubinetto di notizie che scorre spontaneamente dall’ambiente degli indagati. E qui mi fermo perché solo su come le indagini si sono bendate e «autodepistate» da sole ci sarebbe da scrivere un libro.

Alla fine di questo processo cosa si può dire di Pietro Valpreda, il «mostro» della prima ora recentemente scomparso?

Personalmente penso al calvario di Valpreda come detenuto e come persona la cui vita è stata comunque definitivamente segnata da quell’accusa. Il primo processo terminò con un’assoluzione per insufficienza di prove contro cui si è battuto lo stesso procuratore generale di Bari sollecitando alla Cassazione un’assoluzione piena, mai accolta. Di fronte agli esiti delle nuove indagini che, nonostante le assoluzioni dei singoli imputati, hanno confermato in base alle parole stesse della Corte d’assise d’appello come la strage sia stata di inequivocabile matrice ordinovista, io però vorrei dire che questa insufficienza di prove non è più compatibile con quanto è emerso ed è storicamente superata dai fatti. L’insieme delle indagini condotte a Milano è del tutto incompatibile con il permanere di qualsiasi sospetto di colpevolezza nei confronti di Valpreda e ha invece il valore di un suo completo scagionamento, suonando come condanna storica e morale di altre persone, quali Freda e Ventura assolti in passato e non più processabili.

Qual è stato l’atteggiamento delle forze politiche di sinistra negli anni in cui stava conducendo la sua indagine?

Ondivago, a tratti indifferente. Il quotidiano «l’Unità» trattava nei suoi articoli quasi con sufficienza le nuove indagini ripartite a Milano o addirittura in modo quasi ostile nella fase tra il 1994 e il 1996. Quello stesso quotidiano diede invece ampio e del tutto acritico risalto all’azione della procura di Venezia contro di me e fu proprio un esponente DS, Giovanni Fiandaca, componente del CSM scelto da tale partito e presidente della prima commissione, a firmare l’atto di accusa per l’incompatibilità ambientale, cioè quel procedimento che non esito a definire una pagina nera della storia dello stesso CSM con il quale si cercò di farmi trasferire con la forza lontano da Milano, con il risultato obiettivo di affossare definitivamente le indagini su piazza Fontana.

Per non parlare del ministro della Giustizia del governo di sinistra, Oliviero Diliberto. Nel 1999, quando fui assolto da tutte le incolpazioni del procedimento disciplinare aperto parallelamente a quello di «incompatibilità ambientale», Diliberto fece personalmente qualcosa che non accade quasi mai: impugnò l’assoluzione pronunziata nei miei confronti dinanzi alla Cassazione, la quale l’anno successivo gli diede sonoramente torto. Ma intanto un altro ostacolo era stato posto sulla strada già impervia delle indagini.

Tornando all’«incompatibilità ambientale», cioè il tentativo di mandarmi via da Milano, il presidente della Commissione stragi, Pellegrino (una persona indipendente e che mi fu molto vicino perché aveva sin da subito compreso l’importanza dei nuovi elementi raccolti e da raccogliere) disse che quel tentativo del CSM, se fosse riuscito, avrebbe fatto impallidire le conseguenze causate dalla sentenza della Cassazione quando negli anni Settanta aveva disposto il trasferimento del processo a Catanzaro. In quel momento una possibile verità sulla strage di piazza Fontana non era più politicamente spendibile. Intorno al 1996 l’ex PCI, infatti, era entrato per la prima volta nel governo e non aveva interesse a rimestare il passato e soprattutto a confrontarsi con un’indagine nella quale si cominciavano a scoprire i rapporti esistiti tra Ordine nuovo e gli alleati statunitensi, cioè il soggetto dinanzi al quale l’ex PCI si stava legittimando come credibile forza di governo in Italia. Insomma, la mia indagine non aveva un «fatturato» politico. Solo più tardi, intorno al 2000, il gruppo DS nella Commissione stragi, con una lunga relazione, condivise e fece propri i risultati e gli scenari delle mie indagini, ma è stato un recupero tardivo dettato dal fatto che, paventando la sconfitta alle vicine elezioni politiche, di nuovo piazza Fontana poteva servire in chiave di polemica politica.

Prima era bastata la verità parziale di Gladio. Quella andava bene a tutti, a quella larga parte del mondo politico, della magistratura e dell’informazione che aveva diffuso come verità indimostrabile ma sufficiente la responsabilità generica delle stragi di Gladio. Come dire tutto e nulla.

Ma si poteva fare di più? La magistratura, così attiva negli anni Novanta nell’affrontare la corruzione politica e altri fenomeni criminali, cosa ha fatto per gettare luce su piazza Fontana e le altre stragi?

La magistratura per altre inchieste come Mani pulite e anche per l’indagine sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, ha messo in campo, in termini di indagini, i suoi uomini di punta e più preparati, ma non ha avuto altrettanta cura quando si è trattato di completare il lavoro su piazza Fontana da me iniziato e percorso per un bel tratto come giudice istruttore.

Non giudico le intenzioni o la buona volontà ma un fatto obiettivo. Chi doveva finire di percorrere la strada tracciata era completamente digiuno di indagini sul terrorismo e non era certo propenso a «un gioco di squadra». Mentre il gioco di squadra, come si sente nelle stesse intercettazioni degli indagati, è in questi casi invece decisivo. L’ambiente degli ex ordinovisti ha favorito la divisione tra gli inquirenti, ne ha tratto poi il massimo vantaggio possibile e ha continuato a fare quel «gioco di squadra» mancato invece fra magistrati.

Del resto, dalla fine del 1997, quando, scaduta l’ultima proroga si è conclusa la mia parte di lavoro, piazza Fontana è stata quasi la storia di un abbandono. Digilio non è stato quasi più interrogato da quando io ho terminato il mio lavoro: eppure, ne sono convinto, aveva ancora molte cose da dire. Infatti, quando io lo sentii per l’ultima volta proprio nel dicembre 1997, aggiunse ancora nuovi particolari, il suo non era ancora un discorso concluso. Ma da allora ben raramente ha visto nella stanza dell’ospedale dove si trovava qualche inquirente e nessuno ha avuto voglia di tener viva la sua attenzione e la sua motivazione anche in vista delle deposizioni in aula nel 2001, un impegno enorme per lui anziano e semiparalizzato. Questo lungo distacco, percepito quasi come una indifferenza degli inquirenti, dopo tanti anni in cui invece io lo avevo sentito con regolarità, certo ha contribuito molto alle sue difficoltà in aula, sotto il fuoco di fila delle domande dei difensori.

Invece c’era ancora molto da fare. Nessuno è andato a cercare Giampietro Mariga (militante del gruppo mestrino, indicato da Digilio come l’autista della vettura che portava nel bagagliaio le bombe del 12 dicembre 1969) e individuato dai carabinieri in Francia con la nuova identità assunta dopo aver lasciato la Legione straniera. Questo possibile uomo chiave di quegli eventi si è ucciso a casa sua poco prima del processo di primo grado. Sembra soffrisse di una forte depressione: forse portava dentro di sé qualcosa. E avrebbe potuto raccontarla. Nessuno è nemmeno andato a cercare Salvatore Ippolito, l’agente Andrea infiltrato dal ministero dell’Interno nel gruppo di Pietro Valpreda qualche mese prima delle bombe del 12 dicembre, e Ippolito abitava e abita ancora più vicino, dopo essersi dimesso dalla polizia: vive a Genova e fa l’assicuratore. Anche lui, non più alle dipendenze di qualcuno, avrebbe potuto fornire delle spiegazioni.

Nessuno soprattutto, quando il tempo per la mia indagine era ormai scaduto, si è soffermato a effettuare certi riscontri, come l’individuazione del furto presso una cava del vicentino grazie al quale, secondo il racconto di Siciliano e anche di un altro giovane presente, Piercarlo Montagner, il gruppo si era approvvigionato della sua prima dotazione di esplosivi. Individuare l’episodio e sapere con precisione di quale esplosivo si trattasse avrebbe fornito informazioni utilissime per verificare l’attendibilità complessiva di quanto raccolto, perché in un’accusa di strage nulla è più importante dell’esplosivo. Tale verifica, con esiti molto interessanti, è stata avviata invece solo dalla procura di Brescia alla fine del 2004, ma ormai il processo di piazza Fontana si era concluso. Sempre sullo stesso tema, l’accusa non si è premurata di affidare a un perito uno studio comparativo tra gli esplosivi descritti negli interrogatori di Digilio e di Siciliano e le conclusioni delle confuse e artigianali perizie svolte nel 1969 subito dopo la strage. Così, in questo vuoto, la difesa ha avuto buon gioco, e non so darle torto, a nominare (essa sola) un suo consulente le cui conclusioni hanno pesato molto nell’orientare la sentenza d’appello verso l’assoluzione.

Leggendo la sentenza d’appello (in mancanza di altro aveva fatto proprie queste conclusioni di parte) mi sono accorto, spulciando qualche manuale e consultando alcuni esperti, come tali conclusioni siano molto discutibili. In realtà, studiando bene la composizione di tutti gli esplosivi in quel periodo sul mercato, e non solo di alcuni di essi, vi era la compatibilità, negata nella sentenza, tra il racconto dei collaboratori su certi tipi di esplosivo da cava che avevano avuto in mano e le incerte tracce di esplosivo raccolte nella banca. Anche la parte civile e la procura generale se ne accorsero e portarono questi dati in Cassazione, ma ormai era tardi. Non era più quella la sede per discutere del merito dei fatti e introdurre nuovi argomenti.

Il disinteresse sin dall’inizio dell’accusa nel nominare suoi periti ha quindi contribuito, non poco, all’esito del processo, e questo lascia l’amaro in bocca visto che gli uffici inquirenti portano in aula fior di specialisti spesso per processi assai meno importanti.

Infine, e mi è sembrata la circostanza più inspiegabile, non sono state portate in aula nemmeno tutte le relazioni mediche che, dopo visite collegiali e accurate, testimoniavano la piena capacità di Digilio di raccontare spontaneamente e lucidamente i fatti anche dopo l’ictus del 1995. La Corte d’assise d’appello, senza nemmeno disporre delle registrazioni di tutti gli interrogatori sostenuti da Digilio con me negli anni 1995-1997, è giunta infatti alla conclusione, ancora una volta offerta solo dalla difesa, che la voce stanca e rallentata del testimone era quella di un uomo non più in grado di rievocare il passato, ma al massimo di ripetere quanto sentito dai carabinieri o da qualcun altro. L’assoluzione si è basata molto anche su questa sensazione; la Corte si è accontentata di una mera impressione su un uomo mai visto prima.

Mi chiedo allora perché la procura milanese non abbia portato in aula la perizia fatta fare un paio di anni prima, nominando un collegio di eminenti docenti, dalla procura di Brescia, avendo anch’essa Digilio come indagato. Gli esperti avevano ascoltato tutte quelle stesse cassette registrate e avevano parlato a lungo con Digilio. Quella perizia giungeva a conclusioni del tutto opposte rispetto alle impressioni della Corte, spiegando in termini scientifici e neutrali come Digilio fosse perfettamente in grado di ricordare e di esporre autonomamente il suo pensiero. «Coscienza lucida, conservazione della memoria, efficienza critica» c’era scritto, lo ricordo ancora, nella perizia dei tre medici. I colleghi di Brescia avevano inviato quella importante perizia a Milano, dove però è finita in un cassetto dell’accusa e non nel fascicolo della Corte d’assise. No, c’era veramente molto da fare o almeno si poteva non dimenticarsi di quanto era già stato fatto.

Adesso con tutti gli imputati usciti di scena cosa resta della sua inchiesta?

Bisogna rifiutare il luogo comune di stampo qualunquista e un po’ alla Indro Montanelli secondo cui la storia d’Italia sarebbe solo una storia di misteri insoluti e le indagini condotte non sarebbero servite a nulla. Invece gli anni Novanta, che avrebbero potuto essere gli anni dell’oblio per tanti episodi, sono stati gli anni della memoria e della ricostruzione di tanti episodi di cui non si può far finta di non sapere nulla.

Alcune indagini, e mi riferisco non solo a quelle su piazza Fontana ma anche a quelle su Portella della Ginestra, sull’assassinio di Enrico Mattei, sul golpe Borghese, su Gladio, sulla strage di Brescia e altre meno conosciute come quella sull’attentato alla stazione di Gioia Tauro, hanno fatto irrompere la storia nel presente, hanno fatto luce, anche al di là delle responsabilità dei singoli, su periodi oscuri della storia contemporanea ricostruendo un filo di operazioni segrete e di depistaggi che ha accompagnato la storia d’Italia sin dal primissimo dopoguerra. E la verità non è mai inutile sino a quando sono vivi i parenti delle vittime e sino a quando almeno una parte della società rifiuta di dimenticare.

Un’ultima domanda. Un’indagine di questo genere, durata anni, si sovrappone anche alla vita personale di chi la conduce. Quale impronta le ha lasciato?

Facendo le indagini su piazza Fontana non mi aspettavo promozioni e ricompense ma nemmeno di essere «perseguitato legalmente», per usare un eufemismo, dall’organo di governo della magistratura per ben sette anni. È stata una vicenda incredibile, di cui tutti sanno ma di cui in pubblico si preferisce tacere perché non fa onore alla storia della magistratura italiana. Per quanto riguarda la mia vita personale, io sono sempre stato laico anche nei confronti del mondo della magistratura cui appartengo (certo non un mondo perfetto, ma fatto di uomini con le loro gelosie e con i loro rapporti di forza) e laico nei confronti della società. Sono rimasto tale come cittadino, ma ogni esperienza, buona o cattiva, porta oltre, così ho dovuto cercare dentro di me la forza morale per «avere pazienza». Soprattutto per allontanare le emozioni negative come il rancore.

Finito di stampare nel mese di novembre 2005 presso Grafiche Speed, Peschiera Borromeo, su carta Bollani, per conto di Elèuthera, via Rovetta 27, Milano

 

Bombe e segreti. Piazza Fontana: una strage senza colpevoli
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