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LUCIANO LANZA

BOMBE E SEGRETI

PIAZZA FONTANA: UNA STRAGE SENZA COLPEVOLI CON UN’INTERVISTA A GUIDO SALVINI

elèuthera

nuova edizione rivista e aggiornata

© 1997, 2005 Luciano Lanza
ed Elèuthera editrice

AVVERTENZA

Nelle pagine web di Elèuthera, alla sezione «materiali» della «scheda libro», è possibile scaricare liberamente una cronologia essenziale degli eventi trattati in questo volume.

INDICE

Prefazione 7
 
  1. Anno zero 9
  2. Una giornata esplosiva 17
  3. Aprite, è la polizia 20
  4. In questura con il motorino 25
  5. È lui! È lui! 29
  6. Non l’abbiamo ucciso noi 38
  7. È morto un cane 43
  8. La furia della bestia umana 47
  9. Quelli della Ghisolfa 55
  10. Tutto comincia in aprile 60
  11. Nazisti in maschera 66
  12. Il pericolo comunista 74
  13. Faremo ordine, ma nuovo 81
  14. Qui ci vuole il morto 88
 
  1. Dàgli all’anarchico 93
  2. Sulle tracce dei fascisti 99
  3. Il «commissario finestra» 106
  4. L’importante è depistare 113
  5. Sentenza di Carnevale 121
  6. La strage di Stato 127
  7. Quella verità da non dimenticare 127
    (intervista a Guido Salvini)

PREFAZIONE

La strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, segna un punto fondamentale della storia italiana del dopoguerra. Quel giorno si materializza la criminalità di una classe politica che, per conservare il potere di fronte all’avanzata del «comunismo», è pronta a tutto. Anche a lasciare morti sul suo percorso pur di non veder messa in discussione la sua leadership. Quella strage non è una pagina oscura, non è la «notte della repubblica», è un capitolo chiaro, preciso: meglio i morti che un cambiamento. E di morti, negli anni successivi, ce ne sono stati molti. Per mano soprattutto della destra, ma anche della sinistra. Un gioco perverso: la destra aveva attaccato, la sinistra doveva rispondere. Anzi, doveva innalzare il «livello di scontro».

Una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte di cambiamento radicale della società italiana. In questa ottica la bomba di piazza Fontana ha segnato e scritto la storia. Che è anche una storia infinita. Dagli anarchici «pazzi criminali» si passa ai nazisti e fascisti colpevoli. Accomunati sul banco degli imputati, verranno assolti tutti. E i colpevoli? Non esistono. Poi rispuntano responsabilità dei nazifascisti quando i principali colpevoli non possono essere più condannati. Infine altri tre processi che ancora una volta mandano tutti assolti. Una vera commedia all’italiana, se non fosse una tragedia.

Una tragedia che vede negli attentati del dicembre 1969 il momento centrale di una strategia che doveva portare, nelle intenzioni degli esecutori, a un regime autoritario, ma che è stata gestita dai più alti organi dello Stato per mettere fuori gioco gli avversari politici e per creare un clima di paura che perpetuasse la centralità della Democrazia cristiana e dei suoi alleati. In questo senso la bomba di piazza Fontana è l’analizzatore della società italiana: mette a nudo il ruolo di ministri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di polizia. Tutti coinvolti in un progetto criminale. È l’unica definizione possibile.

Ricostruire quell’avvenimento, che vede le sue premesse nelle bombe del 25 aprile e del 9 agosto 1969, significa dunque individuare l’essenza nascosta dello Stato italiano. Perché non si è di fronte a organismi deviati dai loro compiti. Questa è una grande favola che i mezzi d’informazione hanno cercato di raccontare quando le responsabilità dei «servitori dello Stato» non erano più occultabili. La realtà, infatti, è molto più semplice e sconcertante: «La presenza di settori degli apparati dello Stato, nello sviluppo del terrorismo di destra, non può essere considerata ‘deviazione’, ma normale esercizio di una funzione istituzionale», scrive il giudice Guido Salvini, titolare dell’ultima indagine su piazza Fontana. Allora si comprende come il termine «strage di Stato» assuma una valenza che va al di là dello slogan politico, perché individua invece una verità inconfutabile, nonostante le sentenze di assoluzione.

Infine una precisazione. Questo libro è di parte, ma non partigiano. Nel senso che io, l’autore, ho vissuto molte di quelle vicende come anarchico del Circolo Ponte della Ghisolfa. Ho condiviso la mia attività politica (fino al 15 dicembre 1969, giorno della sua morte) con Giuseppe Pinelli e ho partecipato attivamente alla campagna per la liberazione di Pietro Valpreda. Sono quindi coinvolto, anche sul piano emozionale. Ma ho cercato, grazie anche ai quasi quattro decenni trascorsi, di pormi un traguardo: raggiungere il massimo di obiettività possibile.

I
ANNO ZERO

Roma, 3 maggio 2005. Nel Palazzaccio di piazzale Clodio il presidente della seconda sezione penale della Cassazione, Francesco Morelli, legge con voce monotona una sentenza storica: respinge i ricorsi contro la sentenza della Corte d’appello per la strage di piazza Fontana. Tutti assolti titolano televisioni e giornali. La Cassazione, infatti, ha confermato la sentenza che scagiona Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi. Gli ultimi tre personaggi (all’epoca esponenti dell’organizzazione neonazista Ordine nuovo) di una storia infinita iniziata il pomeriggio del 12 dicembre 1969. Sentenza storica in due sensi: perché si tratta di una strage commessa trentasei anni prima e perché chiude una vicenda che ha scritto (modificandola) la storia d’Italia con il sangue di sedici morti (cui se ne aggiungerà un altro deceduto anni dopo per le ferite riportate) e di quasi un centinaio di feriti (ottantasei ufficialmente registrati e un’altra decina che preferì allontanarsi dalla Banca nazionale dell’agricoltura e curarsi in modo privato).

La «strage di Stato» è arrivata al capolinea. Nessun magistrato si azzarderà più ad addentrarsi in questo ginepraio. A scoperchiare quel «mistero di Stato», ci aveva riprovato nel 1989 il giudice istruttore di Milano Guido Salvini. In quell’anno eredita un’inchiesta molto sommaria sull’eversione di destra. Indaga. Interroga. Ascolta. Ordina ispezioni negli archivi della polizia, dei centri studi, delle amministrazioni statali. Individua personaggi fino a quel momento nemmeno sfiorati dalle indagini per la strage del 12 dicembre 1969. Prende forma un panorama inedito e, allo stesso tempo, antico.

Un gruppo di Ordine nuovo di Venezia-Mestre, con a capo Zorzi e in qualità di «armiere» Carlo Digilio (sotto la regia di Maggi), è riconducibile all’attività di un altro gruppo neonazista padovano, quello di Franco Freda e Giovanni Ventura. Colpo grosso! Sì, perché Freda e Ventura sono stati assolti, nel 1985 e poi nel 1987, per piazza Fontana ma condannati a quindici anni per i due attentati «propedeutici» (25 aprile a Milano e bombe sui treni del 9 agosto) a quello del 12 dicembre.

Assolti in quelle due sentenze, ma il 23 febbraio 1979 Freda e Ventura, insieme all’informatore del SID Guido Giannettini, erano stati condannati dalla Corte d’assise di Catanzaro all’ergastolo proprio per la strage di piazza Fontana. Colpo grosso, allora. I conti tornano. L’inchiesta di un magistrato di Treviso, Giancarlo Stiz, aveva individuato già agli inizi degli anni Settanta i veri responsabili della strage. Mettendo alla berlina le accuse di due magistrati romani, Vittorio Occorsio ed Ernesto Cudillo, decisamente «convinti» che quell’attentato fosse stato compiuto da Pietro Valpreda. Anarchico e per di più ballerino. Un colpevole perfetto.

A questo punto, sulla base dell’inchiesta Salvini, bastava andare al processo e con la mole di prove raccolte con le confessioni ottenute non si poteva che arrivare alla condanna dei neonazisti, e finalmente scrivere anche nelle aule giudiziarie ciò che molti, tanti, sapevano già.

Il 30 giugno 2001, infatti, la Corte d’assise di Milano, presieduta da Luigi Martino, condanna all’ergastolo Maggi, Rognoni e Zorzi e a tre anni di reclusione Stefano Tringali per favoreggiamento nei confronti di Zorzi.

Ma c’è un ma. I giudici di primo grado li condannano nonostante i pubblici ministeri Grazia Pradella e Massimo Meroni. Detta in parole povere, i due hanno scarsa competenza in processi di tale spessore: dopo, non se ne sentirà più parlare, ritorneranno nel limbo da cui erano stati prelevati. Pradella e Meroni sembrano essere stati scelti per azzoppare l’inchiesta di Salvini. E ci riescono.

Il 12 marzo 2004 la Corte d’appello di Milano assolve infatti Maggi, Rognoni e Zorzi. Con una nota curiosa: riduce da tre a un anno la pena di Tringali, ritenuto colpevole di favoreggiamento nei confronti di Zorzi. Particolare che solo qualche «raffinato» leguleio può spiegare, mentre logica vorrebbe che se non c’è reato non ci può essere favoreggiamento.

In sostanza, i giudici di Milano affermano che il pentito Carlo Digilio (prescritto il reato per la sua attività di armiere del gruppo di Ordine nuovo di Venezia-Mestre, grazie al suo ruolo di pentito) è inattendibile perché si è più volte contraddetto, ha commesso errori. Certo, li ha commessi dopo aver subìto un ictus che lo ha un po’ menomato (anche se relazioni mediche, non prese in considerazione, sostenevano la sua piena capacità mentale). L’altro pentito, Martino Siciliano, è invece attendibile, ma fornisce testimonianze di «seconda mano», quindi inutilizzabili ai fini processuali. Non è bastato che Zorzi (ricchissimo industriale della moda, divenuto cittadino giapponese, difeso in un primo tempo da Gaetano Pecorella, deputato di Forza Italia e difensore anche di Silvio Berlusconi) abbia a più riprese minacciato e allettato con pacchi di soldi Siciliano perché ritrattasse. E in effetti Siciliano è stato un pentito «ondeggiante», ma che alla fine, in aula, ha confermato tutte le accuse. Non è bastato. L’assoluzione dei tre ricalca la vecchia formula, oggi abolita formalmente, dell’insufficienza di prove.

I giudici milanesi aggiungono poi una vera «perla» nelle motivazioni della loro sentenza di assoluzione. Ricostruendo la sequenza degli attentati del 1969 riconoscono che Giovanni Ventura e Franco Freda sono i responsabili di piazza Fontana e non solo degli attentati a Milano del 25 aprile e ai treni del 9 agosto: «L’assoluzione di Freda e Ventura è un errore frutto di una conoscenza dei fatti superata dagli elementi raccolti in questo processo».

Insomma, a Milano si compie l’ultima beffa. I due colpevoli individuati da Stiz (si veda il capitolo XVI, Sulle tracce dei fascisti) sarebbero i responsabili della strage, ma non sono sufficientemente provati i loro rapporti con gli ordinovisti di Venezia-Mestre e Milano. Partita chiusa anche per Stefano Delle Chiaie, l’allora capo di Avanguardia nazionale a Roma, cioè il gruppo che diede un appoggio logistico (e non solo) per gli attentati, sempre del 12 dicembre 1969, al monumento al Milite ignoto (quattro feriti) e alla Banca nazionale del lavoro di via Veneto (quattordici feriti). Delle Chiaie, dopo una latitanza durata anni, rientrato in Italia è stato assolto in via definitiva nel 1991.

E poi dal processo sono definitivamente usciti (da anni) i vertici dello Stato italiano, quei democristiani e socialdemocratici che hanno fattivamente operato in sintonia con i servizi segreti italiani e americani (e con la manovalanza degli estremisti di destra) per mantenere lo statu quo in Italia anche con le bombe e le stragi.

Dimenticare o confondere è quello che vogliono sia la destra sia (pur con intendimenti diversi) la sinistra. Con una strategia messa in campo a colpi di relazioni nella Commissione stragi sul finire dell’anno 2000. Prima arriva la relazione dei parlamentari DS. Una lettura (o rilettura) degli anni delle bombe, degli attentati e dei tentativi di golpe. I DS fanno una ricostruzione a prima vista sufficientemente suffragata da fatti, da sentenze, da accertamenti. Il risultato è la messa in evidenza del ruolo delle organizzazioni neonaziste e neofasciste, delle coperture di cui hanno goduto negli apparati dello Stato, della magistratura, dei servizi segreti, e del ruolo rilevante che hanno avuto la CIA e i servizi segreti della NATO. L’aspetto originale è rappresentato dall’immagine immacolata che assume il PCI degli anni Sessanta e Settanta: il partito di Luigi Longo e di Enrico Berlinguer sarebbe stato il grande bastione a difesa della democrazia in Italia. Un’autoesaltazione, insomma.

Dopo arriva la risposta dei parlamentari Alfredo Mantica e Vincenzo Fragalà di Alleanza nazionale. Con due brevi, ma fantasiose, relazioni riportano l’attenzione sugli anarchici: «Nell’inchiesta su piazza Fontana è avvenuto di più e di peggio: ogni notizia che potesse dare impulso alla pista anarchica è stata semplicemente ignorata». Secondo Mantica e Fragalà, infatti, Pietro Valpreda sarebbe il vero colpevole dell’attentato del 12 dicembre a Milano. Giuseppe Pinelli, coinvolto in quella storia (forse anche confidente della polizia), messo alle strette si sarebbe suicidato. Per di più gli anarchici milanesi in fatto di bombe avrebbero, a loro avviso, una storia che inizia fin dai primi anni Sessanta. Logico, quindi, che tra loro andassero cercati i responsabili della strategia della tensione. Il tutto sotto la regia del servizio segreto sovietico: il KGB.

Una manovra maldestra, neppure documentata seriamente, piena di illazioni senza riscontri, ma che ha un preciso scopo politico: la storia di quegli anni può essere letta in modi diametralmente opposti. E se nessuno ha torto, nessuno ha ragione. Quindi meglio lasciar perdere e applicare la regola tutta italiana del colpo di spugna.

L’intento è chiaro: annullare dopo le elezioni del 2001 (vinte dal centrodestra) la Commissione stragi. Quindi riconoscere che gli anni Sessanta e Settanta sono stati luttuosi. Ma ora bisogna uscirne e mandare tutti a casa e tutti non colpevoli.

Quel passato scotta per entrambe le formazioni politiche. La destra vi è coinvolta in prima persona, tanto che ha rinunciato all’alleanza elettorale con Pino Rauti e il suo MSI-Fiamma tricolore. Sarebbe stato un alleato troppo scomodo perché pesantemente coinvolto nella stagione degli attentati: Ordine nuovo, di cui allora era capo Rauti, è stato in moltissimi casi il braccio armato di quella strategia. Per non dire delle connivenze del Movimento sociale di Giorgio Almirante con i terroristi neri. E Gianfranco Fini, allora giovane fedelissimo di Almirante, vuole far dimenticare quel passato. Alleanza nazionale, infatti, ha assunto la forma di «destra democratica». Quindi bisogna lasciarsi alle spalle le posizioni «estremiste». Da qui la necessità per il centrodestra di seppellire un passato scomodo e decisamente poco presentabile.

Discorso in un certo senso analogo per il centrosinistra, soprattutto per la sua componente maggioritaria, i DS. Il progenitore, il PCI, ha utilizzato (per dirla in modo schematico) la verità sulle stragi di Stato (che conosceva) per favorire la sua ascesa al potere. In pratica ha commercializzato il suo silenzio. Come? Mettendo alle strette la Democrazia cristiana, grande calderone politico in cui vivevano gomito a gomito tendenze filogolpiste con personaggi «democraticamente più presentabili». La famosa tattica del «io so, ma non parlo se ci mettiamo d’accordo». Una tattica che ha dato i suoi frutti anche perché la DC aveva un alleato compromesso nella copertura del ruolo dei servizi segreti americani: il PSDI. Il partito americano operante nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (non a caso nato nel 1947 con un sostanzioso finanziamento della CIA tramite il sindacato AFL-CIO).

Sempre nello stesso anno, il 2000, sulla stessa lunghezza d’onda ci sono anche altri magistrati. Libero Mancuso, pubblico ministero a Bologna, è a suo modo profetico: sostiene infatti che occuparsi di piazza Fontana è fare «archeologia giudiziaria» perché non si potrà mai arrivare a nulla.

E non è un caso che il giudice Salvini si debba difendere da accuse lanciategli da altri magistrati, in particolar modo dal collega veneziano Felice Casson con l’ausilio del giornalista Giorgio Cecchetti di «La nuova Venezia» e «la Repubblica», autore di diversi scoop su notizie ancora riservate. Alla fine Salvini viene assolto sia dal Consiglio superiore della magistratura sia dalla Cassazione. Era accusato di «incompatibilità ambientale» (cioè non avrebbe dovuto lavorare al tribunale di Milano) e di violazione degli obblighi di magistrato (aveva utilizzato agenti del SISMI per acquisire notizie su Martino Siciliano). La vicenda è comunque rivelatrice di una questione non irrilevante: chi indaga su piazza Fontana mettendo in discussione la «verità ufficiale» dà fastidio.

Nel 2000, per la precisione in settembre, il senatore a vita Paolo Emilio Taviani fa nuove importanti dichiarazioni dopo quelle rilasciate nel 1997 alla Commissione stragi. Nel maggio 1974, quando era ministro dell’Interno, era stato proprio Taviani a sciogliere l’ufficio affari riservati di Federico Umberto D’Amato. Un passo significativo, perché D’Amato è stato uno dei personaggi di punta nell’opera di depistaggio sull’eversione di destra e sulla strage del 12 dicembre (ma non solo, era anche regista di manovre). Il senatore a vita racconta a membri del ROS dei carabinieri di aver appreso nel 1974 che la bomba collocata a Milano non avrebbe dovuto provocare vittime e che un agente del SID, l’avvocato romano Matteo Fusco di Ravello, il 12 dicembre 1969 stava per partire da Fiumicino per Milano con l’incarico di impedire gli attentati. Quando sta per imbarcarsi viene a sapere che la bomba è già scoppiata. Anna, figlia di Fusco, morto nel 1985, conferma che il padre aveva lavorato a lungo per il SIFAR e poi per il SID e in varie occasioni le aveva parlato del suo fallito tentativo di impedire la strage di piazza Fontana. Questo fatto è un altro tassello che prova come i più importanti apparati dello Stato fossero a conoscenza della preparazione degli attentati e avessero cercato solo all’ultimo momento di ridurne gli effetti. In questo senso Fusco, indicato dalla figlia come molto vicino a Rauti, è uno dei punti di contatto a più alto livello fra il mondo militare e dei servizi segreti e Ordine nuovo. Ma Taviani non si ferma qui. Dice che fra i soggetti istituzionali attivi nel depistare le responsabilità verso la sinistra, c’è un ufficiale di Padova: Manlio Del Gaudio. Chi è questo signore? Il tenente colonnello Del Gaudio, comandante, all’epoca, dei carabinieri di Padova, sarebbe il militare cui il generale del SID Gianadelio Maletti nel 1975 affida l’incarico di «chiudere la fonte Turco», cioè la fonte Gianni Casalini, esponente di Ordine nuovo e informatore del SID che intendeva «scaricarsi la coscienza» e rivelare quanto sapeva sulle responsabilità del gruppo negli attentati ai treni tra l’8 e il 9 agosto 1969. Ma la Corte d’assise di Milano non vuole ascoltare, nell’aprile 2001, Taviani (che muore il 17 giugno) e la Fusco di Ravello. Il motivo? Le prove sono emerse quando il dibattimento è ormai prossimo alla conclusione, e comunque non vengono reputate «assolutamente necessarie». Uno dei tanti episodi rivelatore della matrice statale di quella strage e dei tanti attentati che hanno costellato gli anni Sessanta e Settanta. E se ne potrebbero elencare molti altri. Tutti dello stesso segno.

Adesso il clima è il più adatto per lasciar cadere nel dimenticatoio una questione così scomoda come piazza Fontana. Pietro Valpreda è morto il 7 luglio 2002. Tanti altri protagonisti sono morti, così come hanno lasciato la scena tante comparse. E la sentenza della Cassazione sancisce una situazione di fatto: per quella strage non ci devono essere colpevoli.

Come comincia questa intricata storia che parte dagli anarchici per arrivare ai nazifascisti, ai servizi segreti italiani e americani e si conclude con «tutti assolti»? Ovvio, bisogna tornare a quel tristemente famoso 12 dicembre 1969.

II
UNA GIORNATA ESPLOSIVA

Quel signore di mezza età dal vestito elegante, salito alla fermata di piazza Missori sul tram 23, non dava certo l’impressione di un personaggio un po’ stralunato che parla da solo o arringa la folla con frasi sconnesse. Eppure, subito dopo avere pagato le 70 lire del biglietto, guardando fisso davanti a sé, esclamò: «Che cosa sarà stato? Una caldaia esplosa o una bomba?». Alcuni dei passeggeri del tram che correva verso Porta Romana continuarono a leggere il giornale o a chiacchierare tra loro, ma quelli più vicini al signore di mezza età lo guardarono tra lo stupito e l’interessato. Allora l’improvvisato oratore riprese: «Arrivo da piazza Fontana, è un inferno… ci sono ambulanze, poliziotti, carabinieri… c’è stata un’esplosione alla Banca dell’agricoltura». Su quel tram, che nel frattempo si allontanava dal centro di Milano, nessuno sapeva ancora nulla. Erano da poco passate le cinque del pomeriggio di un venerdì come tanti con in più una certa aria prenatalizia, ma non era un giorno qualunque. Era il 12 dicembre 1969 e neanche mezz’ora prima, alle 16,37, una bomba aveva ucciso quattordici persone (altre due moriranno in ospedale e un’altra anni dopo) e provocato circa cento feriti. Una strage, come diranno subito i primi soccorritori.

Quella di piazza Fontana non è una bomba isolata. Un’altra viene ritrovata a poca distanza nella sede della Banca commerciale italiana di piazza della Scala. Sono le 16,25 quando un commesso della Commerciale, Rodolfo Borroni, vede una borsa nera abbandonata vicino all’entrata di un ascensore. La raccoglie pensando a un cliente distratto. La borsa è molto pesante. Insieme ad altri colleghi Borroni la apre. C’è una cassetta metallica, una bustina rettangolare di plastica e un dischetto nero, graduato da 0 a 60. Nient’altro. Qualcuno ipotizza che possa trattarsi di una bomba. La borsa viene presa dal brigadiere Vincenzo Ferrettino, trasportata nel cortile della banca e sotterrata. È una prova importante, ma Teonesto Cerri, ingegnere e perito balistico, alle nove di sera, cioè quattro ore dopo, la farà saltare con una carica di tritolo applicata alla serratura. Guido Bizzarri, maresciallo dell’esercito e artificiere con oltre quarant’anni di esperienza, dichiarerà poi ai giornalisti: «L’avrei disinnescata io, ma nessuno me lo ha chiesto. È stato più pericoloso farla brillare che aprirla».

È uno dei primi misteri di quel 12 dicembre a cui se ne aggiungerà un altro. Il 7 febbraio 1970 si verrà a sapere che nella borsa in cui era contenuta la bomba c’era anche un vetrino colorato che la questura di Milano aveva subito inviato alla Criminalpol di Roma per esami. Risultato dell’analisi: vetrino colorato utilizzato per fabbricare lampade libertà simile a quelli usati nel laboratorio artigianale di Roma da Pietro Valpreda. Un anarchico milanese che da poco tempo si è trasferito nella capitale.

Ed è proprio a Roma che si conclude la sequenza di scoppi di una giornata incandescente. Tra le 16,40 e le 16,55 in un corridoio sotterraneo della Banca nazionale del lavoro in via Veneto c’è un’esplosione che causa quattordici feriti tra gli impiegati dell’istituto. Poi, nell’arco di dieci minuti dopo le 17,20, altri due ordigni di minore potenza dei precedenti scoppiano all’Altare della patria in piazza Venezia. Soltanto quattro feriti: un carabiniere e tre passanti.

Si chiude così la giornata della strage. Radio e televisione mandano in onda i primi servizi, mentre nelle redazioni dei quotidiani si preparano i titoli a caratteri cubitali per l’edizione del 13 dicembre.

III
APRITE, È LA POLIZIA

Orrenda strage a Milano, titola il «Corriere della Sera» del 13 dicembre. Infame provocazione, mette in prima pagina «Il Giorno». Strage a Milano. Un piano terroristico in Italia?, «La Stampa». Un orrendo attentato provoca una terribile strage a Milano. Nel quadro di provocazioni fasciste e manovre reazionarie, «l’Unità». Ma se i maggiori quotidiani si limitano a riportare i fatti, almeno in prima pagina, e non fanno ancora ipotesi, con l’eccezione del giornale del PCI, su esecutori e mandanti della strage del giorno prima, c’è già chi ha le idee chiare. Nella stessa sera del 12 dicembre il prefetto di Milano, Libero Mazza, invia al presidente del consiglio, il democristiano Mariano Rumor, un fonogramma chiaramente orientato: «Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estremiste. Est già iniziata, previe intese autorità giudiziaria, vigorosa azione rivolta at identificazione et arresto responsabili». L’indicazione è chiara. E non coglie certo impreparati i poliziotti che stanno seguendo il caso. Luigi Calabresi, funzionario dell’ufficio politico della questura di Milano, ha già una pista: l’estremismo di sinistra. Il motivo? Gli obiettivi, banche e Altare della patria, sono per lui indizi chiarissimi. E in queste sue certezze supera di slancio anche il suo diretto superiore Antonino Allegra. La regia dell’inchiesta sembra seguire un copione già scritto. E infatti verranno fermati soprattutto anarchici, extraparlamentari di sinistra, e soltanto pochissimi attivisti di estrema destra.

Quel 12 dicembre Paolo Finzi è a letto con la febbre. Una leggera influenza. Ha appena compiuto 18 anni e studia al liceo Giosuè Carducci di Milano. È attivo nel gruppo anarchico della sua scuola. Un gruppo nel quale milita anche Fabio Treves, che qualche anno dopo diverrà famoso come musicista e consigliere comunale. Poco prima di mezzanotte suonano alla porta della casa dei Finzi, vicino a piazza della Repubblica. È la polizia. Agli allibiti genitori, Matilde e Ulisse, gli agenti di pubblica sicurezza dicono senza tanti preamboli: «Dobbiamo portare in questura vostro figlio perché è uno dei maggiori indiziati per la strage di piazza Fontana». Matilde Bassani Finzi non è una donna che si lascia facilmente impressionare. Ha 51 anni ed è stata una militante antifascista dalla fine degli anni Trenta, partecipando al Soccorso rosso di Ferrara, la sua città natale. Poi dal 1943 è attiva nella resistenza a Roma collaborando con i gruppi Bandiera rossa. Un passato che l’ha temprata. Però quella notte Matilde Bassani è angosciata per Paolo, il più piccolo dei suoi tre figli. Paolo Finzi viene portato al quarto piano di via Fatebenefratelli. Gli uffici della polizia politica. Nello stanzone vi sono decine di persone, tutte di sinistra, e solo quattro fascisti che fraternizzano e conversano con i poliziotti presenti. Lì Finzi vede Giuseppe Pinelli, per lui uno dei vecchi del circolo anarchico milanese Ponte della Ghisolfa. Ma c’è anche un altro anarchico più vecchio di Pinelli, che Finzi conosce perché amico dei suoi genitori: Virgilio Galassi. Galassi era nel movimento libertario dall’immediato dopoguerra, ma nel 1969 non è più un militante attivo. Però è anche lui tra i sospettati. Perché? Il motivo è semplice quanto ridicolo: è funzionario dell’ufficio studi della Banca commerciale italiana. L’istituto dove è stata trovata la bomba inesplosa. Ma non resterà per molto tempo ospite della questura. Il presidente della banca, Raffaele Mattioli, interverrà in suo favore.

Passano le ore. Poi uno alla volta i fermati vengono chiamati in un’altra stanza dove si svolgono gli interrogatori. Solita routine. Verifica dell’alibi, richiesta di valutazioni sui fatti e un’ultima domanda: «Chi pensi sia stato?». Ma è una domanda superflua, i poliziotti danno per scontato che gli autori dell’attentato siano anarchici.

Finiti gli accertamenti, i fermati vengono trasferiti nelle camere di sicurezza della questura. Tutto si conclude nel tardo pomeriggio del 13 dicembre quando quasi tutti vengono rilasciati.

Ma la polizia continua le indagini. O meglio il fermo di militanti dell’estrema sinistra. Fausto Lupetti non è un ragazzino come Finzi: ha 26 anni. Ma è sospettabile: milita nel Partito marxista-leninista italiano che qualche anno prima si è scisso in due tronconi, linea nera e linea rossa. Lupetti, oggi editore, fa parte della seconda corrente. E per di più è un «cinese» anomalo perché vive in una comune: un grande appartamento in via Mosso, dalle parti di via Padova, a Milano. Alle sei della mattina del 13 dicembre i membri di quella comune vengono bruscamente svegliati. È sempre la polizia. Tutti in questura. Interrogatorio di rito. Anche Lupetti nota Pinelli, forse l’anarchico milanese allora più conosciuto nell’ambito della sinistra milanese. «Mi colpì il fatto che il pavimento davanti a lui fosse cosparso di cenere di sigarette», ricorda Lupetti che verso sera verrà trasferito al carcere di San Vittore, dove resterà fino al 29 dicembre in compagnia di Pasquale Valitutti, detto Lello, un giovane anarchico, e Andrea Valcarenghi, animatore del gruppo Onda verde e dal 1971 responsabile del mensile «Re Nudo».

Il 15 dicembre il «Corriere della Sera» titola in prima pagina: Ventisette estremisti trattenuti a San Vittore. Appartengono in maggioranza ai gruppi neo-anarchici collegati con organizzazioni internazionali. L’attacco dell’articolo, firmato da Arnaldo Giuliani, spiega molto bene il clima che si sta creando: «Al termine delle prime quarantott’ore di indagini, l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana può così sintetizzarsi: 1) sono state fermate finora oltre centocinquanta persone sospette, appartenenti agli opposti estremismi; 2) alle venti di ieri sera restavano in stato di fermo a San Vittore ventisette giovani appartenenti in maggioranza a gruppi anarcoidi che si sospettano in collegamento con movimenti anarchici internazionali». E nelle pagine interne viene approfondita la pista anarchica. Titolo della quinta pagina: Anche i vecchi anarchici del Diana setacciati nei covi degli estremisti. L’autore dell’articolo, Enzo Passanisi, traccia una radiografia del movimento anarchico milanese, quasi a voler far conoscere meglio l’ambiente in cui può essere maturato l’attentato: «Gli anarchici italiani sono riuniti in una federazione, la FAI. [ … ] Ma quelli milanesi, che sono sui duemila fra membri attivi e simpatizzanti, seguono in maggioranza una linea autonoma. Sono divisi in circoli e gruppi: uno solo di questi ultimi, che prende il nome da Sacco e Vanzetti e che è composto principalmente da anziani militanti, è affiliato alla FAI. Gli altri gruppi, in numero di una dozzina, sono divisi a seconda delle rispettive branche di attività: c’è per esempio la Lega anarchica milanese che opera nelle università e in otto istituti superiori e c’è il sindacato anarchico fra i lavoratori. Vale la pena di ricordare come la linea politica seguita dal movimento [ … ] predichi il sovvertimento della società e la presa del potere della massa retta direttamente da assemblee del popolo e da comuni di lavoro, senza governo, né parlamento sull’esempio della Repubblica Ucraina formatasi durante la lotta fra bolscevichi e russi bianchi». Dopo la descrizione, la bomba. Non quella di piazza Fontana, ma al teatro Diana il 23 marzo 1921. Il precedente storico. Il giornalista Passanisi pone la domanda ad alcuni anarchici del Circolo Ponte della Ghisolfa. Ecco la risposta: «Un errore. Si volevano colpire i magistrati che stavano nell’albergo vicino al teatro: i giudici che tenevano in carcere, senza processo, Malatesta. Agenti provocatori della polizia riuscirono a fare cambiare il bersaglio all’ultimo momento e fu il massacro. Un massacro che abbiamo sempre deplorato». E il giornalista può così commentare: « Già, fra l’attentato accettabile dalla linea anarchica e quello da respingere c’è sempre la possibilità dell’errore. Non potrebbe esserci stato un errore anche venerdì?».

Ma c’è già chi la stessa sera del 12 dicembre fa un accostamento tra la bomba alla banca e quella del Diana. È Alberto Grisolia del «Corriere della Sera», quotidiano diretto da Giovanni Spadolini, più storico che giornalista. «È come per il Diana», dice Grisolia (e il 14 dicembre lo scriverà sul «Corriere»: «La gravità dell’attentato, che a Milano ha soltanto il precedente del teatro Diana [ … ]») a Giulio Polotti, classe 1924, all’epoca segretario della UIL milanese e deputato socialista. Polotti ricorda perfettamente quel venerdì pomeriggio: «C’era una riunione delle tre confederazioni nella sede della CISL in via Tadino per discutere il piano degli scioperi per i rinnovi contrattuali. Verso le 17 arriva la notizia dello scoppio, come deputato vado subito in piazza Fontana per vedere che cosa è successo. Entro nell’atrio della banca e, orrore, inciampo nel braccio di una vittima. Poi salgo al primo piano e lì arrivano anche il sindaco Aldo Aniasi, il prefetto Libero Mazza, il questore Marcello Guida e il cardinale Giovanni Colombo. A quel punto è chiaro: è stata una bomba. Vado a telefonare per informare Antonio Giolitti a Roma e lui mi dice che anche nella capitale ci sono state delle esplosioni. Dopo la telefonata incontro Grisolia che mi parla dell’attentato al Diana come precedente storico di questa bomba».

Stesso clima a Roma. Il «Corriere d’informazione» del pomeriggio del 14 dicembre scrive: «Non hanno dormito stanotte, gli estremisti d’ogni colore, sonni tranquilli. La polizia ha effettuato, in tutta la città, una vasta retata di estremisti di ogni tendenza, di individui compromessi con movimenti che non hanno mai fatto mistero delle loro intenzioni sovvertitrici». E più avanti Fabrizio De Santis, autore dell’articolo, aggiusta il tiro: «Sono evidentemente individui decisi a tutto. Volevano non soltanto spaventare la popolazione, dimostrare la loro esistenza come elementi rivoluzionari e contestatori. Volevano uccidere».

Il clima psicologico e sociale è pronto. Manca soltanto il «mostro» da sbattere in prima pagina.

IV
IN QUESTURA CON IL MOTORINO

Quel 12 dicembre era rientrato alle sei di mattina. Abitava nelle case popolari di via Preneste 2, a Milano. Nel quartiere san Siro, strana mescolanza di palazzoni, villette con giardino e piscina, condomini piccolo-borghesi. Giuseppe Pinelli aveva fatto il turno di notte. Manovratore allo scalo della stazione di Porta Garibaldi. Un’ora dopo la moglie Licia sveglia le figlie, Silvia e Claudia. Prepara la colazione e le accompagna a scuola. Dopo si ferma a fare la spesa, torna a casa. Verso le 11 arriva uno che a lei piace poco: Nino Sottosanti. Licia sta lavando i pavimenti. «Vai di là che lo svegli», dice Licia a Sottosanti. Poi va a riprendere le bambine. Quando arriva a casa, Pinelli e Sottosanti stanno parlando di Tito Pulsinelli che con altri giovani anarchici è in prigione per gli attentati del 25 aprile alla stazione Centrale di Milano e alla Fiera campionaria. Ma Pulsinelli è accusato anche di essere l’autore dell’attentato alla caserma di pubblica sicurezza Garibaldi del 19 gennaio 1969. E Sottosanti può fornire un alibi a Pulsinelli per quella notte. Perché? Sottosanti si è infatuato del giovane Pulsinelli e la notte dell’attentato l’hanno passata insieme. Pinelli, membro della Croce nera anarchica (organismo di difesa costituito nell’aprile 1969, sull’esempio dell’inglese Anarchist Black Cross, inizialmente per aiutare la lotta degli anarchici spagnoli contro il franchismo, ma poi sempre più impegnato nel difendere gli anarchici italiani colpiti dalle misure repressive di polizia e magistratura), deve quindi tenere contatti con questo personaggio ambiguo: amico di estremisti di destra, ex volontario nella Legione straniera, ammiratore di Benito Mussolini, in precedenza custode della sede di Nuova Repubblica. Nei capannelli che di tanto in tanto si formano in piazza Duomo è conosciuto come Nino il fascista o Nino il mussoliniano.

Alle due del pomeriggio Pinelli e Sottosanti escono. Devono cambiare un assegno di 15 mila lire per Sottosanti. Un rimborso per le spese di viaggio. Il conto corrente è quello dei fondi della Croce nera, agenzia 11 della Banca del Monte di Milano. Prima bevono un caffè al bar di via Morgantini. In via Pisanello, sede della banca, i due si lasciano e Sottosanti va a Pero dove abitano i parenti di Pulsinelli. Arriverà alle 16,30, secondo la deposizione di Lucio Pulsinelli, fratello di Tito.

Pinelli invece, dopo aver riscosso la busta paga con la tredicesima alla stazione di Porta Garibaldi, spedisce una lettera a Paolo Faccioli, un altro anarchico arrestato per i fatti del 25 aprile. È una lettera semplice, ma rivelatrice dell’indole di Pinelli. Eccola: «Caro Paolo, rispondo con ritardo alla tua, purtroppo tempo a disposizione per scrivere come vorrei ne ho poco: ma da come ti avrà spiegato tua madre ci vediamo molto spesso e ci teniamo al corrente di tutto. Spero che ora la situazione degli avvocati sia chiarita. Vorrei che tu continuassi a lavorare, non per il privilegio che si ottiene, ma per occupare la mente nelle interminabili ore; le ore di studio non ti sono certamente sufficienti per riempire la giornata. Ho invitato i compagni di Trento a tenersi in contatto con quelli di Bolzano per evitare eventuali ripetizioni dei fatti. L’anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla: esso è ragionamento e responsabilità e questo lo ammette anche la stampa borghese, ora speriamo lo comprenda anche la magistratura. Nessuno riesce a comprendere il comportamento dei magistrati nei vostri confronti. Siccome tua madre non vuole che ti invii soldi, vorrei inviarti libri, libri non politici (che me li renderebbero) così sono a chiederti se hai letto Spoon River, è uno dei classici della poesia americana; per altri libri dovresti dirmi tu i titoli. Qua fuori cerchiamo di fare del nostro meglio. Tutti ti salutano e ti abbracciano, un abbraccio particolare da me e un presto vederci. Tuo Pino».

A questo punto la ricostruzione del pomeriggio di Pinelli si complica. Alcuni avventori del bar di via Preneste, Mario Magni, Mario Pozzi, Luigi Palombino e Mario Stracchi sostengono che Pinelli giocò a carte con loro dalle 15-15,30 fino alle 17-17,30, confermando così l’alibi fornito da Pinelli al brigadiere Carlo Mainardi che lo aveva interrogato. Ma il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio nella sua sentenza del 27 ottobre 1975 (quella che mandò tutti assolti per la morte di Pinelli, inventando un caso nuovo nella medicina mondiale: «il malore attivo») sostiene che quei testimoni si confondono con il giorno precedente e ricorda che il titolare del bar, Pietro Gaviorno, smentisce questa circostanza sostenendo che Pinelli bevve un caffè con uno sconosciuto e poi si allontanò. D’Ambrosio trova discordanze o incompatibilità temporali negli spostamenti di Pinelli, soprattutto grazie alla circostanza «che l’appuntato di pubblica sicurezza Carmine Di Giorgio abbia insistito nell’affermare di essere quasi certo che quel giorno egli non aveva giocato». Di Giorgio era un altro avventore in quel bar e la sua «quasi certezza» vale molto di più della certezza degli altri. Così D’Ambrosio può sostenere che questi ultimi si confondono: «Del resto non è senza significato, ai fini dell’errore sul giorno della partita, che Pozzi, Palombino e Stracchi fossero presenti allorché il Magni fu intervistato dai giornalisti. La suggestione che ne potette derivare è evidente».

Comunque sia andata, Pinelli, dopo aver giocato o non giocato a carte, va al Circolo Ponte della Ghisolfa. In piazzale Lugano 31. Lì incontra Ivan Guarnieri, anche lui membro della Croce nera, e un altro giovane anarchico, Paolo Erda. L’orario? Tra le 17 e le 18. Come al solito gira con il suo motorino. Un po’ malandato, ma Pino ne è orgoglioso. Ed è a cavallo del suo Benelli che poco prima delle 19 arriva al Circolo di via Scaldasole. Una sede anarchica aperta da poco tempo, in un seminterrato di un antico caseggiato fatiscente, a due passi da Porta Ticinese. Ci sono molti lavori di restauro da fare e Pinelli vuole chiudere la giornata dando una mano a un anarchico da poco arrivato dalla Sardegna, Sergio Ardau, che sapeva essere già là. Prima di arrivare al circolo Pinelli si ferma a comprare delle sigarette. È un accanito fumatore. Ed è dal tabaccaio che per la prima volta sente notizia di quanto è successo alla Banca dell’agricoltura. Arrivato in via Scaldasole, Pinelli trova Ardau. Ma non è solo. Ci sono anche tre poliziotti. Li guida il commissario della squadra politica, Luigi Calabresi.

«Ah, bene, sei qui anche tu», dice Calabresi a Pinelli, «vieni in questura, puoi seguirci con il tuo motorino». Ardau viene fatto salire sulla macchina della polizia. Durante il percorso Calabresi dice ad Ardau: «C’è una sicura matrice anarchica negli attentati». Poi chiede notizie di «quel pazzo criminale di Valpreda». E aggiunge: «Voi due siete due bravi ragazzi, ma dovete riconoscere che tipi loschi come quel pazzo di Valpreda con il suo codazzo di ragazzini, con la loro esaltazione criminale ci costringono a prendere seri provvedimenti che si ritorcono anche contro di voi, perché ora non possiamo più tollerare ciò che in passato abbiamo fin troppo tollerato. Dovete rendervi conto che ci sono stati quattordici morti e non venitemi a raccontare, tu o altri, che sono stati i fascisti. Questa è roba da anarchici, non c’è ombra di dubbio. E voi dovete aiutarci a trovarli e fermarli prima che possano uccidere ancora». Questo è quanto Ardau ricorda di quel colloquio. Intanto Pinelli li segue. È il suo penultimo viaggio. Quello definitivo sarà da una finestra del quarto piano della questura di Milano in via Fatebenefratelli.

V
È LUI! È LUI!

Piazza Duomo è piena di gente. Anche i sindacati hanno deciso la mobilitazione. Migliaia di milanesi sono assiepati sul sagrato. Il Duomo è stracolmo. Lì si svolgono i funerali delle quattordici vittime. Officiante l’arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Colombo. In rappresentanza dello Stato c’è il presidente del consiglio, Mariano Rumor, per la città il sindaco, Aldo Aniasi. Ma la mattina del 15 dicembre non c’è in piazza del Duomo una persona importante in questa vicenda. Non solo importante, ma essenziale: l’involontario protagonista, Pietro Valpreda.

Valpreda è un anarchico di 36 anni, milanese, che da giovane abitava in via Civitale, quartiere San Siro, a poche centinaia di metri dalla casa dove Pinelli va a vivere dopo essersi sposato con Licia Rognini. Una vita da ragazzo di periferia, quella di Valpreda. Con un paio di precedenti penali: nel 1956 viene condannato a quattro anni di carcere dalla Corte d’assise di Milano per rapina a mano armata commessa contro una coppia in macchina. La seconda condanna è del 1958 per contrabbando. Poi comincia ad appassionarsi di questioni politiche e sociali. E mentre studia danza moderna si dedica alla lettura dei classici del pensiero anarchico: Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin, Errico Malatesta. Balla per alcune compagnie di rivista, ha qualche ingaggio alla televisione. Gira l’Italia al seguito dei corpi di danza nei quali è scritturato. Nei primi anni Sessanta è stato operato per disturbi di circolazione: porta ancora sulle gambe i segni dell’intervento che lo ha guarito. La sua militanza nei gruppi milanesi è forzatamente saltuaria. Ma quando è a Milano va quasi sempre a trovare gli anarchici del Circolo Sacco e Vanzetti, in viale Murillo 1, vicino a piazzale Brescia, e poi, dal maggio 1968, del Circolo Ponte della Ghisolfa, la nuova sede degli anarchici milanesi. Valpreda è un tipo dalla statura media, agile, dalla battuta ironica sempre pronta lanciata con accento tipicamente milanese e con la erre un po’ arrotata. Nei primi mesi del 1969 si trasferisce a Roma. Comincia a frequentare il Circolo Bakunin, formato da gruppi aderenti alla FAI (Federazione anarchica italiana). Poi, in disaccordo, se ne stacca e con altri (Mario Merlino, Roberto Mander, Emilio Borghese, Roberto Gargamelli, Enrico Di Cola) fonda il Circolo 22 marzo in via del Governo vecchio 22. E visto che le scritture teatrali si sono molto diradate (è praticamente disoccupato) apre con Ivo Della Savia (a cui subentra Giorgio Spanò quando Della Savia, a metà ottobre, va all’estero) un negozio artigiano in via del Boschetto, dove fabbrica lampade libertà, gioielli e collanine. Tra i materiali utilizzati vi sono anche molti vetrini colorati. Uno simile a questi comparirà poi, in modo strano, nella borsa che conteneva la bomba alla Banca commerciale.

Valpreda è a Milano dalle sette del 12 dicembre. È partito la sera prima da Roma, perché convocato dal giudice Antonio Amati. Il 15 dicembre Valpreda, accompagnato dalla nonna Olimpia Torri, alle otto va in via San Barnaba 39 dove c’è lo studio di Luigi Mariani, il suo avvocato. Deve presentarsi ad Amati, il giudice istruttore che si occupa degli attentati del 25 aprile alla Fiera campionaria e alla stazione Centrale di Milano. Amati si considera un esperto di anarchici e di attentati: poco dopo l’esplosione di piazza Fontana sa già che è una bomba e che a metterla non possono essere stati che degli anarchici. È quanto dice al telefono parlando con i responsabili della questura milanese.

Valpreda, con Mariani e Luca Boneschi, altro suo avvocato, va dunque al Palazzo di giustizia. Lì i due avvocati si separano da Valpreda. Appuntamento a dopo l’interrogatorio. Valpreda lascia la nonna ad aspettarlo e bussa alla porta dello studio di Amati. Sono le 10,35. Entra e viene accolto dal giudice con un’esclamazione: «Ah, è qua lei?». «Sì, non sono potuto venire prima perché ero a Roma, sa, io sono un ballerino-attore e mi sposto per motivi di lavoro», risponde Valpreda. Ma il giudice Amati lo interrompe con una serie di domande: «Ma chi siete voi anarchici? Cosa volete? Perché amate tanto il sangue?». Questo dialogo (reale o inventato?) si svolge nello studio del giudice, ma c’è qualcuno che lo sente e che lo riporterà sul «Corriere della Sera» del giorno successivo.

È Giorgio Zicari, un giornalista molto particolare. Nel 1969 è un informatore dei servizi segreti, ma più che informatore è uno che viene informato e a cui i servizi fanno arrivare notizie o, meglio, veline riservate. Il suo ruolo verrà poi definitivamente reso pubblico il 20 giugno 1974 da Giulio Andreotti, all’epoca ministro della Difesa, in un’intervista a Massimo Caprara, giornalista ed ex segretario del leader del PCI Palmiro Togliatti, pubblicata sul settimanale «il Mondo». Andreotti rivela che Zicari «era un informatore gratuito del SID» e che poi «è passato alle dipendenze della direzione affari riservati della pubblica sicurezza». Una carriera, quella di Zicari, che anni dopo lo rivedrà giornalista nel gruppo Monti come direttore responsabile del «Corriere di Pordenone».

Zicari è dunque al posto giusto nel momento giusto. E lo sarà per molte volte ancora, sollevando le proteste dei giornalisti delle altre testate: soltanto lui ha accesso alle notizie riservate di questura e tribunale.

Dal suo osservatorio privilegiato Zicari vede uscire Valpreda, alle 11,30, finito l’interrogatorio con Amati. Vede che due poliziotti lo prelevano a forza prendendolo sotto le ascelle e dopo averlo ammanettato, in una saletta del tribunale, lo accompagnano in questura. La nonna Olimpia non riesce neppure a comprendere che cosa stia succedendo. Chiama il «suo Pietro», ma i poliziotti si allontanano rapidamente. In via Fatebenefratelli, Valpreda, dopo un breve interrogatorio, viene lasciato ad attendere in una stanza. Poi, colpo di scena: trasferimento a Roma alla questura di via San Vitale. Tre poliziotti, l’autista e Valpreda partono per la capitale. Ad attenderli ci sono Umberto Improta, commissario della squadra politica che anni dopo diventerà questore di Milano, Alfonso Noce, altro funzionario della politica, e i brigadieri di polizia Remo Marcelli e Vincenzo Santilli. Alle 3,30 del mattino del 16 dicembre viene redatto il primo verbale ufficiale. Prima però, tra le due e le tre, Valpreda deve accompagnare i poliziotti in un campo di fianco alla via Tiburtina. Per cercare, senza risultato, un deposito di esplosivi. Ecco che cosa viene messo a verbale. Valpreda: «Ricordo che Ivo Della Savia, prima di partire da Roma l’ultima volta, passando per la via Tiburtina all’altezza della Siderurgica romana e della ditta Decama, a circa due o trecento metri dal Silver cine, mi indicò [ … ] un tratto di boscaglia, dicendomi: ‘Non molto lontano dalla strada, ai piedi di una pianta non molto alta, tengo della roba conservata’». E aggiunge: «Non mi precisò di che cosa si trattasse. Comunque con la parola roba, noialtri intendiamo far riferimento a esplosivi, detonatori e micce».

Perché Valpreda fa questa ammissione? Semplice: Merlino è stato il primo del gruppo 22 marzo a venire interrogato dalla polizia romana. Non perché sospettato, ma come testimone. È il 13 dicembre, ore 13,45, Merlino fa verbalizzare: «In merito agli attentati [ … ] sono in grado di riferire che i miei amici Emilio Borghese, Roberto Mander e Giorgio Spanò, in occasione di incontri che hanno avuto separatamente con me, mi hanno parlato dell’esistenza in Roma di un loro deposito di armi e materiale esplodente. [ … ] Spanò, circa un mese e mezzo fa, nella sede del Circolo Bakunin di via Baccina, parlando di attentati in genere, mi disse di essere al corrente di alcuni fatti e particolari riguardanti gli attentati verificatisi a Roma».

Merlino, che solo più tardi verrà incriminato con Valpreda e gli altri anarchici del Circolo 22 marzo, quando viene interrogato, sempre come testimone, rilascia altre dichiarazioni che devono incastrare i suoi compagni. E fa verbalizzare: «Roberto Mander, il 28 novembre, in occasione del raduno nazionale dei metalmeccanici, in piazza Santa Maria Maggiore, verso le ore dieci, mentre era in atto il concentramento degli studenti che poi parteciparono al corteo degli operai, mi disse che aveva bisogno di esplosivo perché la situazione politica stava precipitando e quindi era necessario agire. Inoltre il 10 o l’11 corrente, in via Cavour, verso le 20, Roberto, avendogli io riferito alcune cose che mi erano state dette da Emilio Borghese, mi disse che loro effettivamente tenevano un deposito sulla via Casilina». Un deposito itinerante, dunque, che si sposta dalla Tiburtina alla Casilina. Frutto forse più di millanteria esaltata che di attività dinamitarda. Continua Merlino: «Emilio Borghese una o due sere prima dell’incontro con Mander [ … ] nella sede del Circolo anarchico 22 marzo, mi disse che sulla via Casilina aveva un deposito di esplosivo, detonatori e armi: al riguardo mi precisò di avere [ … ] un forte quantitativo di detonatori e minor quantità di esplosivo [ … ] ricordo che soggiunse pure di essere andato al deposito qualche giorno prima in compagnia di Roberto Mander e Pietro Valpreda. Di essere andato con la macchina di Valpreda e di aver prelevato o di aver depositato [ … ] un certo quantitativo di esplosivo».

Prima contraddizione: se Mander aveva libero accesso al famoso deposito, perché aveva bisogno di esplosivo? E perché si rivolgeva a Merlino? Mistero. Un mistero che lo stesso Mander, studente liceale di 17 anni, figlio di un direttore d’orchestra sinfonica, provvede a dissipare in un interrogatorio del 15 dicembre con la polizia: «Il giorno dello sciopero dei metalmeccanici, il 28 novembre, con Merlino esaminai l’opportunità che scoppiasse un ordigno esplosivo per creare incidenti; cioè discutemmo se ai metalmeccanici poteva fare comodo che si verificassero scontri con la polizia. La settimana successiva il Merlino mi chiese se era vero che io e Valpreda tenevamo un deposito di esplosivo sulla via Casilina. Pregai il Merlino di informarsi bene da dove provenivano quelle voci. Nell’occasione gli chiesi se aveva la possibilità di procurare dell’esplosivo al fine di compiere qualche atto dimostrativo. Nei giorni scorsi ho fatto analoga richiesta di esplosivo a Borghese, il quale mi aveva detto che non aveva niente per le mani». Dichiara ancora Mander: «Debbo precisare che quando mi recai sulla Tiburtina ove mi venne indicato il deposito di materiale, mi sembra micce e detonatori, mi trovavo in compagnia di Ivo Della Savia». Quindi niente esplosivo.

Mander aggiunge un’altra dichiarazione: «Ritengo che Valpreda sia più esperto di me nell’uso dell’esplosivo per il fatto che ha militato per molti anni nelle associazioni anarchiche e anche perché è rimasto implicato negli attentati alla Fiera di Milano e credo anche in altri attentati». I militanti del Circolo 22 marzo cominciano ad accusarsi reciprocamente e Merlino insiste: «Posso aggiungere che, oggi in questura, avendo detto che il commissario mi aveva contestato l’esistenza di esplosivo degli anarchici sulla via Casilina, il Mander mi ha risposto: ‘Sanno pure questo?’ . [ … ] Il Borghese mi disse anche che aveva modo di rimediare altro esplosivo ma non capii dove lo teneva».

Chi invece non si lascia coinvolgere nel gioco che sta orchestrando la polizia è Roberto Gargamelli, 20 anni, figlio di un funzionario della Banca nazionale del lavoro, che alle cinque del mattino del 15 dicembre fa mettere a verbale: «Durante gli incontri con il Valpreda, sia da solo sia in compagnia degli altri compagni, non ho mai sentito parlare di esplosivi, intendo dire che non ho mai sentito che da parte del Valpreda, del Mander o del Borghese sia stata fatta richiesta di procurare materiale esplosivo, né ho sentito mai parlare dell’esistenza di un deposito o di un magazzino posto sulla via Casilina o sulla via Tiburtina, nel quale il Mander o il Borghese tenessero depositato detto materiale».

Ma chi è Merlino, che con tanta determinazione vuole gettare sospetti sui suoi compagni? Laureato in filosofia, 25 anni, figlio di un funzionario del Vaticano, ramo Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, Merlino nel 1962, quando ha 18 anni, inizia la sua militanza nei gruppi di estrema destra, soprattutto in Avanguardia nazionale guidata da Stefano Delle Chiaie. Stringe rapporti anche con Pino Rauti (il fondatore di Ordine nuovo, poi leader del Movimento sociale-Fiamma tricolore, «defenestrato» dal partito nel 2004) e con il deputato missino Giulio Caradonna. Quest’ultimo, esponente dell’ala dura del fascismo italiano, guida gli attivisti della Giovane Italia, circa duecento e tra questi Merlino, negli scontri del 17 marzo 1968 contro gli studenti dell’estrema sinistra che occupano la facoltà di lettere dell’università La Sapienza di Roma.

Nell’aprile dello stesso anno Merlino partecipa al viaggio in Grecia promosso dall’ESESI, la lega degli studenti greci fascisti in Italia, e organizzato da Rauti e Delle Chiaie. Rientrato in Italia, Merlino ha una conversione politica. Comincia a vestirsi secondo gli schemi della sinistra più radicale, si lascia crescere barba e baffi, inizia a frequentare gruppi della sinistra extraparlamentare, fonda il Circolo XXII marzo, progenitore, in un certo senso, del futuro Circolo 22 marzo. Diffonde volantini che inneggiano alla rivolta studentesca di Parigi, partecipa con una bandiera nera su cui campeggia la scritta «XXII marzo» a una manifestazione davanti all’ambasciata francese. Nel settembre 1969 approda al Circolo Bakunin di via Baccina. Qui non fa mistero del suo passato e dichiara di essere ormai un ex camerata e di nutrire simpatie per l’anarchia. All’interno del Circolo Bakunin si lega ai militanti più insofferenti verso la linea politica del circolo e con questi, alla fine di ottobre, dà vita al Circolo 22 marzo.

Merlino resta ancora oggi una figura difficilmente definibile. Valpreda, anche dopo il loro arresto e la carcerazione, continuerà a difenderlo sostenendo che anche un fascista può cambiare idea e che il clima creatosi con la contestazione aveva rotto molte certezze anche fra i militanti della destra estrema. Resta il fatto però che i collegamenti con i camerati e soprattutto con Delle Chiaie non si interrompono con la sua dichiarata conversione all’anarchia. Anzi, quando verrà messo alle strette dalla polizia, cioè quando la sua posizione passerà da quella di testimone-informatore a quella di inquisito, Merlino come alibi per il pomeriggio del 12 dicembre può contare soltanto su una persona: Stefano Delle Chiaie. Che verrà perfino incriminato per falsa testimonianza. Tanto che Merlino nel gennaio 1981 in un’intervista al settimanale «L’Europeo» riconosce questo suo debito di gratitudine verso Delle Chiaie: «Ha detto la verità e continua a dirla anche adesso a distanza di undici anni. [ … ] Ma le ragioni della mia stima non sono tutte qui. A proposito della strage di Bologna, per esempio, è stato l’unico ad avere il coraggio di dire certe cose, a prendersi le proprie responsabilità di fronte al terrorismo, rosso o nero che sia. A differenza di certi personaggi, come Rauti e Almirante, che si sono lanciati in centomila distinguo, quando non sono corsi in questura a consegnare gli elenchi degli aderenti a Terza posizione».

Se Valpreda nei confronti di Merlino tiene un atteggiamento di solidarietà, nutre però molti sospetti su qualcuno che non riesce a identificare: «Tra noi c’era una spia. [ … ] La polizia sapeva tutto dei nostri spostamenti, dei discorsi che si facevano al circolo», aveva scritto il 27 novembre 1969 al suo avvocato, Boneschi. La sensazione è esatta, ma Valpreda non sa ancora chi è la spia che diligentemente informa la polizia di tutto quanto facevano i giovani anarchici del Circolo 22 marzo.

Chi è questo personaggio? È il «compagno Andrea», con questo nome lo conoscono gli anarchici di via Governo vecchio, ma in realtà si chiama Salvatore Ippolito, ed è l’agente di pubblica sicurezza incaricato di infiltrarsi tra gli anarchici romani. Due persone, Merlino e Ippolito, controllavano quindi quel piccolo gruppo. Il primo informava Delle Chiaie, il secondo il suo superiore della questura, il commissario Domenico Spinella. C’era poi un terzo, Stefano Serpieri, frequentatore saltuario del circolo e informatore del SID.

Ma la carta vincente per la polizia non è tra questi personaggi. C’è il «superteste» Cornelio Rolandi, tassista a Milano. Rolandi si è presentato ai carabinieri e poi alla polizia per fare un’importante dichiarazione: ha trasportato l’uomo che ha messo la bomba in piazza Fontana. Viene trasferito a Roma, dove arriva alle ore 17 del 16 dicembre. Si organizza un confronto. Valpreda è tra quattro poliziotti (Vincenzo Graziano, Marcello Pucci, Antonino Serrao e Giuseppe Rizzitello). Sono presenti anche il pubblico ministero romano Vittorio Occorsio (il 10 luglio 1976 verrà ucciso da un commando di Ordine nuovo composto da Pierluigi Concutelli e Gianfranco Ferro) e Guido Calvi, avvocato difensore di Valpreda. Prima del confronto Rolandi dichiara: «L’uomo di cui ho parlato è alto metri 1,70-1,75, età circa 40 anni, corporatura regolare, capelli scuri, occhi scuri, senza baffi e senza barba. Mi è stata mostrata dai carabinieri di Milano una fotografia che mi si è detto doveva essere la persona che io dovevo riconoscere. Mi sono state mostrate anche altre foto di altre persone. Non sono mai stato chiamato allo stesso esperimento». Poi Rolandi indica Valpreda. Questi gli chiede di guardarlo meglio, ma Rolandi replica: «È lui. E se non è lui qui non c’è».

Con questa testimonianza, che verrà poi smontata nella sua assurdità, viene creato il «mostro». I giornali possono cantare vittoria: «La macchina del terrore è ormai saltata».

VI
NON L’ABBIAMO UCCISO NOI

L’interrogatorio è arrivato a una fase cruciale oppure si svolge secondo la consueta routine? E concitato o disteso? L’alibi del fermato è caduto oppure regge? C’è calma in quella stanza o c’è violenza? La finestra è chiusa, socchiusa o spalancata? A queste domande non è possibile dare risposte certe, perché i testimoni si sono contraddetti più volte. Tra loro e con se stessi. Le ultime ore di vita di Giuseppe Pinelli sono infatti racchiuse nei racconti dei poliziotti che lo interrogavano. Di coloro che gran parte dell’opinione pubblica ha indicato come i responsabili della sua morte. La verità è sepolta con Pinelli nel cimitero di Musocco a Milano e poi dal 1981 in quello di Carrara.

Il commissario Luigi Calabresi e i suoi poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli e il tenente dei carabinieri Savino Lograno quella notte al quarto piano della questura interrogavano Pinelli. Poi il ferroviere anarchico è volato dalla finestra.

È la mezzanotte del 15 dicembre, il cronista dell’ «Unità», Aldo Palumbo, ha lasciato la sala stampa della questura. È nel cortile quando sente un tonfo seguito da altri due. Qualcosa che sbatte contro i cornicioni dei vari piani. Accorre, vede un uomo per terra nell’aiuola. Corre a chiamare agenti e colleghi. È mezzanotte? Manca ancora qualche minuto? È già iniziato il 16 dicembre? Altro quesito irrisolto. L’ora esatta della caduta di Pinelli diventerà un altro tormentone in questa storia tormentata. Dalla questura è partita una richiesta di ambulanza prima che Pinelli cadesse o dopo? Mistero. Che pretende di risolvere Gerardo D’Ambrosio con la sua famosa sentenza del «malore attivo», che manda tutti assolti, ma riabilita pienamente Pinelli. Scrive D’Ambrosio: «Pinelli accende la sigaretta che gli offre Mainardi. L’aria della stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare una boccata d’aria fresca, una improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». Tutto qui.

D’Ambrosio non tiene in considerazione le enormi contraddizioni in cui sono caduti i poliziotti. Secondo loro Pinelli si è gettato dalla finestra gridando: «È la fine dell’anarchia». I poliziotti accorrono per fermarlo, scossi dal suo grido. Panessa afferma di essere riuscito ad afferrare Pinelli, rimanendo con una scarpa in mano. Ma i giornalisti accorsi vicino al moribondo lo vedono con tutte e due le scarpe ai piedi. E poi c’è il fatto che Pinelli non presenti ferite sulle mani e sulle braccia: in caso di caduta vengono istintivamente portate a difesa della testa. Mancano lesioni (perdite di sangue dal naso, dalla bocca) che si registrano in questi casi. Tutte contraddizioni che per il giudice D’Ambrosio non hanno rilevanza.

Inoltre D’Ambrosio stigmatizza solo a parole il comportamento degli inquirenti. Ecco un riepilogo dei fatti. Pinelli viene fermato al Circolo Scaldasole con Sergio Ardau alle 19 del 12 dicembre. Segue i poliziotti in questura con il suo motorino. A mezzanotte viene interrogato per la prima volta. Gli chiedono notizie su quel «pazzo di Valpreda». Sabato 13 Ardau viene trasferito nel carcere di San Vittore, mentre Pinelli resta all’ufficio politico. La mattina di domenica 14 un agente telefona alla moglie di Pinelli: «Signora, dica alle ferrovie che suo marito è malato e non andrà a lavorare». Il tono è amichevole: inutile creare complicazioni sul lavoro. Alle 9,30 di lunedì 15 l’anarchico riceve la visita della madre, Rosa Malacarne, che lo trova tranquillo, sorridente e sereno. Verso le 14,30 la moglie Licia riceve una telefonata dall’ufficio politico: «Signora telefoni alle ferrovie e dica che suo marito è fermato in attesa di accertamenti. Ha capito? Deve dire che è fermato». Niente più fair play: Pinelli deve capire che rischia il posto di lavoro. Alle 22 un’altra telefonata, questa volta è lo stesso Calabresi: «Signora cerchi il libretto chilometrico di suo marito». Cioè il documento personale di ogni ferroviere dove vengono annotati i viaggi. Dopo dieci minuti Licia Pinelli telefona in questura: ha trovato il libretto. Alle 23 arriva un agente a ritirarlo. Calabresi sta giocando un’altra carta contro Pinelli: gli fa nuovamente balenare la possibilità di coinvolgerlo come uno dei responsabili degli attentati sui treni nella notte tra l’8 e il 9 agosto (aveva cercato di farlo tempo addietro anche Allegra). L’ultimo interrogatorio di Pinelli si svolge nella stanza di Calabresi, che sostiene di essere uscito poco prima di mezzanotte per informare dell’andamento dei colloqui i suoi superiori. Pinelli vola dalla finestra. Poco dopo l’una del 16 dicembre alcuni giornalisti bussano alla porta di casa dei Pinelli, la moglie viene informata che suo marito è caduto dalla finestra. Lei telefona a Calabresi: «Perché non mi avete avvertito?». Risposta del commissario: «Non avevamo il tempo, abbiamo molte altre cose da fare … ».

Nel frattempo Pinelli è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli. Lì è arrivata la giornalista Camilla Cederna con i colleghi Corrado Stajano e Giampaolo Pansa. Cederna riesce a parlare con il medico di turno, Nazzareno Fiorenzano: «Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c’è niente da fare, durerà poco». Fiorenzano verrà interrogato dal sostituto procuratore Giuseppe Caizzi soltanto quattro mesi dopo: il 7 aprile 1970. Caizzi chiuderà l’inchiesta sulla morte di Pinelli il 21 maggio 1970. Risultato? Nessun responsabile, Pinelli è morto per «un fatto del tutto accidentale». Trasmette il fascicolo al capo dei giudici istruttori, Antonio Amati, che deposita il decreto di archiviazione il 3 luglio. Poi il 17 luglio, a tribunale praticamente chiuso per ferie, Caizzi deposita un’altra richiesta di archiviazione: quella relativa alla denuncia della moglie e della madre di Pinelli contro il questore Marcello Guida.

Perché questa denuncia? Bisogna tornare alla famosa notte tra il 15 e il 16 dicembre. Ufficio del questore Guida (nel 1942 era direttore del confino di Ventotene), con lui ci sono Allegra, Calabresi e Lograno. Sono le prime ore del 16 dicembre. Vengono fatti entrare i giornalisti e Guida dichiara: «Era fortemente indiziato di concorso in strage… era un anarchico individualista… il suo alibi era crollato… non posso dire altro… si è visto perduto… è stato un gesto disperato… una specie di autoaccusa, insomma». «Il suo era un fermo prorogato dall’autorità». Queste le frasi che Cederna registra sul suo taccuino. La parola passa ad Allegra: negli ultimi tempi il suo giudizio su Pinelli era cambiato, perché certe notizie avevano messo l’anarchico in una luce diversa, poteva essere implicato in una storia come quella di piazza Fontana, annota Renata Bottarelli cronista di «l’Unità». Sempre Bottarelli registra l’intervento di Calabresi: «Innanzi tutto ci disse che al momento della caduta lui era da un’altra parte; era appena uscito per andare nell’ufficio di Allegra per informarlo del decisivo passo avanti fatto, a suo parere, durante le contestazioni. Gli aveva, infatti, contestato i suoi rapporti con una terza persona, che non poteva ovviamente nominare, lasciandogli credere di sapere molto di più di quanto non sapesse; aveva visto Pinelli trasalire, turbarsi. Aveva sospeso l’interrogatorio, che però non era un vero e proprio interrogatorio, per riferire ad Allegra questo trasalimento».

Calabresi cambierà poi versione dei fatti. Guida invece la stessa mattina del 16 dicembre farà una dichiarazione a dir poco sconcertante: «Vi giuro che non l’abbiamo ucciso noi! Quel poveretto ha agito coerentemente con le proprie idee. Quando si è accorto che lo Stato, che lui combatte, lo stava per incastrare ha agito come avrei agito io stesso se fossi un anarchico». Ma va ricordato che l’alibi di Pinelli non era affatto caduto: Mario Pozzi, interrogato, aveva confermato che quel pomeriggio del 12 dicembre Pinelli aveva giocato a carte con lui. E Pinelli sorridendo lo aveva ringraziato.

Calabresi quasi un mese dopo, l’8 gennaio 1970, dichiara ai giornalisti: «Fummo sorpresi del gesto, proprio perché non ritenevamo che la sua posizione fosse grave. Pinelli per noi continuava a essere una brava persona, probabilmente il giorno dopo sarebbe tornato a casa [ … ] posso dire anche che per noi non era un teste chiave, ma soltanto una persona da ascoltare». Una persona da ascoltare che però veniva trattenuta illegalmente: il fermo di polizia era scaduto dalla sera del 14 dicembre e il magistrato incaricato delle indagini, il sostituto procuratore Ugo Paolillo, non sapeva nulla di questo fermato. Così come non sapeva niente del trasferimento a Roma di Valpreda. Paolillo infatti era già stato espropriato della sua inchiesta. Tutto veniva ormai deciso nella questura di Milano e nel tribunale di Roma.

VII
È MORTO UN CANE

«Hanno buttato Pinelli da una finestra della questura. Vediamoci tutti in via Fatebenefratelli. Facciamoci arrestare. Devono buttarci tutti dalla finestra per farci tacere», dice con tono addolorato e al tempo stesso concitato Amedeo Bertolo telefonandomi (cioè all’autore di questo libro). Sono da poco passate le sette del 16 dicembre. Scatta la catena telefonica. Tutti sono avvisati. Sono scosso, ma mi vesto rapidamente ed esco dopo pochi minuti da casa. Mi avvio a piedi verso la questura. Abito nella zona di porta Venezia, così attraverso i Giardini pubblici, arrivo in piazza Cavour e a passi svelti raggiungo via Fatebenefratelli. Davanti alla questura non c’è ancora alcun anarchico. Aspetto. I minuti passano lentamente. Nessuno. Poi mi accorgo che alcune persone, quasi sicuramente poliziotti in borghese, cominciano a osservarmi con insistenza. Cerco di darmi un’aria tranquilla, anche se non è facile. Aspetto.

Dopo quasi mezz’ora, ma mi sono sembrate ore, vedo arrivare Enrico Maltini, anche lui del Circolo Ponte della Ghisolfa. Continuiamo ad aspettare gli altri per entrare tutti insieme e consegnarci ai poliziotti: l’obiettivo è creare un caso politico. Ma non arriva proprio nessuno. Cominciamo a sentirci a disagio. I poliziotti ci hanno praticamente circondati. «Andiamo a telefonare», dice Maltini. Chiama Bertolo, risponde sua moglie, Antonella, che quasi grida: «Lo hanno arrestato sulle scale di casa». Inizia un giro di telefonate agli altri. Il risultato è sempre lo stesso: arrestati. A quel punto Maltini e io ci rendiamo conto di essere praticamente gli unici del Ponte della Ghisolfa ancora in libertà. Breve consultazione sul da farsi. Maltini, che è anche membro della Croce nera anarchica, propone: «Andiamo da Boneschi».

Quando arriviamo nello studio di Luca Boneschi, uno dei difensori degli anarchici, troviamo l’avvocato seduto alla sua scrivania. È uno studio moderno con mobili laccati di bianco, ma il volto di Boneschi è ancora più bianco. Solo gli occhi cerchiati di nero danno segni di vita. Ci vede e non riesce a trattenere un moto di stupore: «Ma come… siete ancora liberi? Scappate subito… qui vi ammazzano tutti».

L’avvocato però si sbaglia. Nelle prime ore del pomeriggio quasi tutti i fermati vengono rilasciati. Mentre era trattenuto al commissariato San Siro, quello del suo quartiere, Bertolo sente un graduato di polizia gridare allegramente: «È morto un cane. Un cane di meno», riferendosi a Pinelli. Anche per gli altri fermati il trattamento non è dei migliori: controllo degli alibi, minacce e intimidazioni. Ma alla fine tutti fuori. Così scatta un altro tam tam telefonico e gli anarchici si ritrovano in Conca del Naviglio, vicino al Circolo di via Scaldasole. Decidono che come prima mossa devono almeno fare un comunicato stampa. Bertolo si siede su una panchina, scrive un breve testo che termina con una sfida: «Per ogni anarchico che cade, dieci prenderanno il suo posto. No pasaran» (è lo slogan degli antifascisti spagnoli durante la guerra civile contro i generali golpisti). In quel momento arriva un altro anarchico: «Gli studenti sono in assemblea alla Statale per decidere quale risposta dare all’uccisione di Pinelli». Mentre uno si incarica di portare il comunicato all’ANSA ( verrà ignorato da tutta la stampa), gli altri decidono di andare alla Statale. Ma arrivati all’università c’è una sorpresa: gli studenti sono sì in assemblea, ma per discutere i piani di studio. Altro che repressione o morte di Pinelli. Agli sbalorditi anarchici uno dei leader del Movimento studentesco, Andrea Banfi, spiega che l’assemblea sta per finire e quindi, se vogliono, poi potranno intervenire.

Così dopo quasi un’ora prendo la parola. Leggo il comunicato e insisto sulla gravità del momento: si vuole dare una sterzata reazionaria per stroncare il movimento sindacale più radicale e la sinistra rivoluzionaria. Subito Banfi, Salvatore Toscano, Popi Saracino, tre capi del Movimento studentesco, intervengono per minimizzare una situazione oggettivamente drammatica. Qualche tempo dopo rivendicheranno di essere stati i primi ad accorgersi del «pericolo fascista».

Il giorno dopo, 17 dicembre, gli anarchici del Ponte della Ghisolfa tengono nella loro sede una conferenza stampa. Arrivano pochi giornalisti, tra questi Enzo Passanisi del «Corriere della Sera» e Pier Maria Paoletti del «Giorno». Gli anarchici si difendono attaccando: «Pinelli è stato ucciso, Valpreda è innocente, la strage è di Stato». È proprio durante quella conferenza stampa che viene coniata la locuzione «strage di Stato» che accompagnerà manifestazioni, l’opera di controinformazione e darà il titolo a un libro famoso sui fatti di piazza Fontana. Il giorno dopo il «Corriere della Sera» titolerà: Farneticante conferenza-stampa al Circolo Ponte della Ghisolfa. Nessuna recriminazione fra gli anarchici.

L’articolo di Passanisi esemplifica il modo con cui quasi tutta la stampa italiana si è occupata della strage di piazza Fontana subito dopo la morte di Pinelli. Scrive Passanisi: «Spaventosa macchinazione poliziesca per salvare il sistema, è la parola d’ordine. Si colpiscono gli anarchici per coprire i fascisti. Valpreda? Non ha mai fatto del male a nessuno, tranne un piccolo peccato di gioventù, rapina a mano armata, roba da ridere». «Pinelli? Dato che non aveva alcun motivo per uccidersi, ad ucciderlo non possono essere stati che i poliziotti. Direttamente o indirettamente, materialmente o psicologicamente. Una macchinazione diabolica, appunto, alla quale i giovani, quantomeno impulsivi estremisti, di piazzale Lugano oppongono una loro verità, sostenuta con fideistica convinzione dalla quale non sono disposti a scostarsi di un’unghia». «La strage e gli attentati contemporanei, falliti o no? Un giro grosso, un giro internazionale, fascista ovviamente». «I ragazzi del circolo, sotto lo choc subìto in questi giorni, non si accorgono di spingersi un poco troppo in questo gioco di controaccuse». «Nesso fra gli attentati del 25 aprile, dell’agosto e di venerdì scorso: una continuità logica che ha come rovescio la montatura governativa e poliziesca contro gli anarchici. I morti di piazza Fontana sono da addebitare al ‘fine intuito’ della polizia che incarcera gli innocenti e lascia in pace i colpevoli, agendo ‘fuori dalla legge’. Colpevoli che sono coperti dal ministero dell’Interno, sul quale sarebbe bene indagare». Passanisi conclude ironizzando: «Ma dormiamo sonni tranquilli. Ci sono loro, i giovani anarchici, che pensano a salvare l’Italia dal fascismo».

VIII
LA FURIA DELLA BESTIA UMANA

«La macchina del terrore è saltata, ormai si tratta soltanto di raccoglierne le schegge. La bestia umana che ha fatto i quattordici morti di piazza Fontana e forse anche il morto, il suicida di via Fatebenefratelli, è stata presa, è inchiodata: la sua faccia è qui, su questa pagina di giornale, non la dimenticheremo mai, la bestia ci ha fatto piangere, ci ha fatto sentire fino in fondo l’amarissimo sapore del dolore e della rabbia. Ora si comincia a respirare, si comincia a tirare la somma della diabolica avventura. Il massacratore si chiama Pietro Valpreda, ha 37 anni, mai combinato niente nella vita; rottura con la famiglia; soltanto una vecchia zia, che stira camicie e spazzola cappotti, gli dà una mano; viene dal giro forsennato del be bop, del rock, un giro dove gli uomini sono quello che sono e le ragazze pure. S'è dimenato sulle piste delle balere fuori porta o sotto le strade del centro. È approdato anche al palcoscenico della rivista musicale, faceva il boy, uno di quei tipi con le sopracciglia limate e ritoccate a matita grossa che fanno ala, in pantaloni attillatissimi, alla soubrette che scende o precipita da una scala crepitante di luci al neon: che mestiere corto, infelice, di pochi soldi a parte tutto. Di più, questo refoulé si ammala, il sangue non gli circola più normale nelle arterie delle gambe, è il morbo di Burger, una feroce morsa che blocca e che alla lunga può dare l’embolo e la morte. Un passo dietro l’altro, Pietro Valpreda s’avvia a diventare la bestia». Così comincia l’articolo, intitolato La furia della bestia umana, in prima pagina del «Corriere d’informazione» di mercoledì 17 dicembre, firmato da Vittorio Notarnicola, direttore responsabile Giovanni Spadolini, che assomma questa carica a quella di numero uno del «Corriere della Sera». Sopra l’articolo campeggiano due grandi foto: quelle del tassista Cornelio Rolandi e di Pietro Valpreda. In alto un titolo a caratteri cubitali: Valpreda è perduto.

Formalmente più asettici i giornali del mattino di quello stesso giorno, pur con alcune sfumature, ma ovviamente la linea è chiara: accettazione senza riserve della colpevolezza di Valpreda. «Corriere della Sera»: L’anarchico Valpreda arrestato per concorso nella strage di Milano. «La Stampa»: Anarchico arrestato per concorso in strage. Inchiesta sul suicidio alla questura di Milano. «Il Giorno»: Incolpato di strage. «l’Unità»: Un arresto per la strage. «Avanti!»: Arrestato per concorso in strage. «Il Resto del Carlino»: Un anarchico arrestato per la strage. «Il Messaggero»: Arrestati i criminali. «Il Tempo»: L’assassino arrestato: è l’anarchico Pietro Valpreda. «Paese sera»: Denunciato per concorso in strage l’uomo riconosciuto dal tassista. «Il Popolo»: Arrestato un anarchico per la strage di Milano. «L’Avvenire»: Nella rete i dinamitardi. «Il Secolo d’Italia»: Arrestato un comunista per la strage di Milano. «Il Mattino»: Catturato il terrorista che ha compiuto la strage. «Roma»: Il mostro è un comunista anarchico ballerino di Canzonissima: arrestato. La televisione non è da meno. Al telegiornale della sera del 16 dicembre, il giornalista Bruno Vespa, in diretta dalla questura di Roma, afferma: «Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma». Non ci devono essere dubbi.

La partita sembra quindi chiusa: la polizia ha scovato in tempi da record i responsabili. Ma la testimonianza del tassista Cornelio Rolandi è l’unico puntello su cui si fonda l’accusa. Per di più è al limite del credibile.

Alle ore 16 del 12 dicembre Rolandi è in piazza Beccaria con la sua Seicento multipla. Sale un cliente che gli chiede di accompagnarlo all’incrocio con via Santa Tecla. Lì gli dice di aspettarlo. Scende con una borsa nera. Dopo pochi minuti ritorna e si fa lasciare in via Alberici. Per chi conosce il centro di Milano la cosa appare pazzesca. Il parcheggio di piazza Beccaria dista 135 metri dall’ingresso della Banca nazionale dell’agricoltura. Da via Santa Tecla alla banca ci sono 117 metri. Quindi Valpreda, per risparmiarsi 135 metri, ne avrebbe compiuti tra andata e ritorno al tassì 234. Con in più il rischio di farsi riconoscere da un tassista insospettito da chi gli chiede una corsa talmente breve. Così Rolandi ha rievocato quel pomeriggio: «In piazza Beccaria sul mio tassì salì quel tipo con la borsetta, che aveva in mano una borsa nera. Lo guardai attraverso lo specchietto retrovisore e notai subito che aveva delle lunghe basette come si usano oggi. Mi disse di accompagnarlo in via Alberici passando per via Santa Tecla. Era un percorso piuttosto breve, ma in via Alberici ci sono molte compagnie aeree e pensai che fosse un viaggiatore in partenza. In via Santa Tecla, come mi aveva ordinato il cliente, mi fermai. Gli feci presente che la via Alberici non era molto distante, che avrebbe potuto andare a piedi. Mi disse di aspettarlo, che aveva fretta. Scese con la borsa. Ritornò poco dopo: la borsa nera non l’aveva più. Lo accompagnai in via Alberici: lui pagò l’importo della corsa, 600 lire, e quindi se ne andò» (Franco Damerini, Intervista a Milano con il teste-chiave, «Corriere d’informazione» del 17 dicembre).

A parte il fatto che secondo le tariffe dell’epoca quel viaggio con la sosta doveva costare poco più della metà di quanto dichiarato da Rolandi, c’è una testimonianza che getta ombre su quella ricostruzione. È di Liliano Paolucci, direttore del patronato scolastico di Milano. Paolucci con la figlia Patrizia prende il tassì 3444, quello di Rolandi, la mattina del 15 dicembre, si accorge che il tassista è strano, sbaglia continuamente le strade, poi, dopo che la figlia è scesa per andare a scuola, Rolandi si confida con Paolucci. E Paolucci ha registrato una sua memoria al magnetofono domenica 21 dicembre affinché restasse traccia certa di quel suo strano incontro: «Ecco il racconto, il più fedele possibile, che il tassista mi ha fatto: erano circa le 16 di venerdì 12 dicembre. Mi trovavo in piazza Beccaria quando, dalla galleria del Corso, vidi venire, verso piazza Beccaria, un uomo dall’apparente età di quarant’anni. Si avvicinò a me e mi disse: ‘Alla Banca dell’agricoltura di piazza Fontana’. Parlava un italiano perfetto senza inflessioni dialettali. Io gli dissi: ‘Ma signore, la Banca dell’agricoltura è qui a due passi, a 50 metri. Fa prima a piedi. Egli non disse niente. Aprì lo sportello e si introdusse nel tassì, lo vidi bene: portava una valigia, una grossa borsa che mi sembrò molto pesante. Partimmo e arrivammo davanti alla Banca dell’agricoltura, cinque-sei minuti dopo. Egli scese dal tassì, entrò frettolosamente nella Banca dell’agricoltura, e uscì ancora frettolosamente. Saranno passati 40-50 secondi, un minuto. Entrò di nuovo nel tassì e mi disse … ». A questo punto Paolucci interviene nel discorso e gli domanda perché quell’uomo veniva dalla galleria del Corso. La risposta di Rolandi è esemplare: «Ma lei non sa che alla galleria del Corso c’è un famoso covo?». Affermazione che ripete per tre volte.

Ma, fatto ancora più misterioso, Rolandi negherà di aver trasportato Paolucci e di aver parlato con lui. E soprattutto polizia e magistratura non metteranno mai a confronto Rolandi e Paolucci per verificare le diverse versioni dei fatti. Ma questa non è l’unica stranezza, come fa rilevare lo stesso Paolucci al giornalista Enzo Magrì che lo intervista per il settimanale «L’Europeo» del 9 marzo 1972: «Lunedì mattina alle 9,15 io, un cittadino, denuncio un fatto grave. [ … ] Racconto i fatti per filo e per segno. Ebbene la polizia come reagisce? Non mobilita due gazzelle, non viene subito da me, non mi tiene al telefono. Bisogna ricordare che Cornelio Rolandi non è ancora andato dai carabinieri di via Moscova, dove si recherà alle 11,35 di quel giorno. Quindi questo Rolandi può essere un pazzo, ma può anche dire la verità. E se dice la verità bisogna cercarlo prima che qualcuno lo possa eliminare. [ … ] Ebbene a me che in quel momento sono l’unico a conoscere una verità sconvolgente, il telefonista della questura, mezz’ora dopo la mia chiamata, dice: ‘Sono il poliziotto che ha preso la sua chiamata. Senta lei, per caso, non ha chiesto al tassista com’era vestito l’uomo che è stato accompagnato davanti alla Banca nazionale dell’agricoltura?’».

Ma non ci sono soltanto le contraddizioni rilevate da Paolucci. C’è anche un altro testimone. Molto importante. Perché sostiene che Valpreda il 12 dicembre era a letto ammalato. Chi è? La prozia di Valpreda, Rachele Torri, che abita a Milano in via Vincenzo Orsini. La prozia così ricorda quel pomeriggio: «Pietro era a letto con la febbre. Bisognava andare a prendere il cappotto che avrebbe usato l’indomani per andare in ordine dal giudice Amati. Bene ci andai io. Saranno state le 19-19,30 e ricordo che salendo sull’autobus E in piazza Giovanni dalle Bande Nere una signora ha aperto ‘La Notte’ e ho visto a grossi caratteri qualcosa di morti; le chiesi se fosse stato un incidente e lei mi rispose che erano state le bombe. Sono scesa in piazza del Duomo e passando in via Dogana per prendere il tram 13 per andare in piazza Corvetto dai genitori di Pietro, mi sono fermata all’edicola e ho comprato ‘La Notte’ . Arrivata da mia nipote le ho detto che Pietro era arrivato, che stava male, che perciò ero andata io a prendere il cappotto. La sorella di Pietro, la Nena, mi ha raccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e le scarpe. Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Pietro che sua sorella gli raccomandava di mangiare, poi gli ho dato il giornale» (intervista a Rachele Torri pubblicata su «A-rivista anarchica» del febbraio 1971).

Il giorno dopo, cioè il 13, Valpreda incontra l’avvocato Luigi Mariani, con lui va dal giudice Amati. Non lo trova, lascia un biglietto per informarlo che sarebbe tornato lunedì 15. Poi raggiunge la casa dei nonni, Olimpia Torri in Lovati e Paolo Lovati, in viale Molise. E vi resta fino alla mattina del famoso 15 dicembre. Lo vanno a trovare la sorella Maddalena e un’amica d’infanzia, Elena Segre, 33 anni, impiegata come traduttrice, che vive in un palazzotto di viale Lucania, lo stesso dove abitano i genitori di Valpreda. Segre passa a salutare l’amico Pietro la domenica 14 verso le ore 18.

In un’intervista a Giampaolo Pansa sulla «Stampa» del 18 febbraio 1970, afferma: «Pietro era qui dai nonni. Ho suonato il campanello e mi hanno aperto. Quel ragazzo era lì, sul divano messo contro la parete di sinistra, indossava un pigiama forse azzurro, si è alzato dal sofà per venirmi incontro … ». Pansa la interrompe per ricordarle che è già stata sentita da Ernesto Cudillo, giudice istruttore, e Vittorio Occorsio, pubblico ministero, e quindi se mente la possono arrestare. Segre risponde: «Senta, domenica quel ragazzo era qui! Che cosa posso farci se l’ho visto? Mi ha salutato, era da molto tempo che non ci vedevamo. Si è seduto sul divano-letto, anch’io mi sono seduta, lui era alla mia destra, di fronte c’erano i due nonni. Abbiamo cominciato a parlare […]». Valpreda ha dunque un alibi per i giorni che vanno dal 12 al 15 dicembre. Alibi che contraddicono la sua presenza in piazza Fontana e il suo incredibile tragitto in tassì.

A questo punto la colpevolezza di Valpreda è difficilmente sostenibile. Ma poliziotti e magistrati non si danno certo per vinti. E così dopo poco più di un mese, ai primi del febbraio 1970, spuntano alcuni testimoni romani per i quali Valpreda era nella capitale nei giorni 13 e 14 dicembre. Se i familiari di Valpreda mentono per quei due giorni, allora hanno detto il falso anche per il 12 dicembre e così si salverebbe la testimonianza del tassista Rolandi.

Chi sono questi testimoni? Ermanna Ughetto, in arte Ermanna River, Enrico Natali, Gianni Sampieri, Armando Caggegi e sua moglie, Benito Bianchi, tutti personaggi dell’ambiente dell’avanspettacolo che spesso si esibiscono al teatro Ambra-Jovinelli di Roma. Ma nei confronti giudiziari che Valpreda ha poi con alcuni di questi, il 6 marzo, si assiste alla contrapposizione di due ricostruzioni dei fatti. I testi romani affermano di aver incontrato il 13 o il 14 Valpreda a Roma. Valpreda sostiene che quegli incontri si sono svolti circa dieci giorni prima. E cioè poco tempo dopo che Valpreda è uscito, il 25 novembre, dal carcere di Regina Coeli. Valpreda è stato infatti arrestato il 19 dopo una rissa con alcuni fascisti nel quartiere Trastevere. Altro particolare: alla visita medica, prima di entrare in carcere, Valpreda presenta un’ecchimosi all’occhio sinistro. Livido che non ha più quando viene fermato il 15 dicembre. Alcuni testimoni ricordano quel livido quando sostengono di aver incontrato Valpreda dopo la strage di piazza Fontana. È un’altra contraddizione che non crea dubbi in Cudillo e Occorsio che incriminano per falsa testimonianza i parenti di Valpreda. Ma inspiegabilmente non prendono alcun provvedimento contro Segre che sostiene le stesse cose.

E per aumentare i capi d’accusa Beniamino Zagari, della questura di Milano, il 7 febbraio dichiara che nella borsa in cui c’era la bomba inesplosa alla Banca commerciale italiana, è stato trovato anche un vetrino colorato simile a quelli che Valpreda usava per fabbricare lampade libertà. Un’imperdonabile distrazione dell’anarchico attentatore. La scoperta di quella incredibile prova risale, secondo la polizia, alle ore 14 del 14 dicembre. Però fino a febbraio nessuno ha visto quel vetrino. Così il difensore di Valpreda, Guido Calvi, può con facilità mettere in dubbio quel «provvidenziale» ritrovamento.

Per i giudici, Valpreda è arrivato a Milano il 12 dicembre con la sua Cinquecento. Alle 16 ha preso un tassì per andare a depositare la bomba in piazza Fontana. La mattina del 13 va con l’avvocato Mariani dal giudice Amati. Non lo trova e lascia un biglietto per informarlo che tornerà il 15 dicembre. Poi parte, sempre con la sua scassatissima Cinquecento, per Roma. Incontra in serata la ballerina Ughetto e va a cena con lei. Domenica 14 gira ancora per i bar vicino all’Ambra-Jovinelli, si fa vedere da altri che potranno smentire il suo alibi. Alle ore 21 è ancora a Roma. Alle otto del mattino successivo è già dal suo avvocato milanese. Tecnicamente, forse con un’altra macchina, è possibile. Ma non si capisce perché Valpreda fornisca un alibi così fasullo, che molti possono smentire. Neppure si capisce perché i parenti di Valpreda e l’amica Segre, con i quali non ha parlato dal momento del suo arresto, confermino quanto Valpreda ha dichiarato. Per Cudillo e Occorsio la verità è un’altra: Valpreda è colpevole. Mente. E mentono i suoi parenti. Soprattutto dice la verità Rolandi che così potrà incassare la taglia di 50 milioni del ministero dell’Interno. Una verità che il 2 luglio 1970 Cudillo e Occorsio provvederanno a registrare in un interrogatorio «a futura memoria», forse prevedendo che Rolandi morirà il 16 luglio 1971.

IX
QUELLI DELLA GHISOLFA

La morte di Giuseppe Pinelli segna la prima profonda frattura nella disorientata opinione pubblica. Il castello di accuse contro Pietro Valpreda e gli altri anarchici del Circolo 22 marzo regge ancora. Ma quel volo dal quarto piano della questura di Pinelli, persona conosciuta e stimata nella sinistra milanese, provoca molte perplessità. Le contraddizioni dei poliziotti, le false dichiarazioni del questore Marcello Guida, il fermo illegale non passano inosservati. E quando il 27 dicembre 1969 la vedova e la madre di Pinelli denunciano e querelano Guida, diversi giornali cominciano a fare marcia indietro su Pinelli colpevole e suicida. «La querela è per diffamazione continuata e aggravata. La denuncia è per violazione del segreto d’ufficio. Il questore Guida avrebbe compiuto entrambi questi reati subito dopo il suicidio del ferroviere, rilasciando ai giornali dichiarazioni ‘che non doveva rilasciare’ e addentrandosi in ‘valutazioni, interpretazioni e giudizi’ che le due Pinelli hanno ritenuto diffamatori della figura del loro parente scomparso», scrive Giampaolo Pansa su «La Stampa» del 28 dicembre. E così prosegue: «Parlano i tre giovani penalisti che assistono le due donne nella vicenda: Domenico Contestabile, Marcello Gentili e Renato Palmieri. Le accuse degli avvocati sono articolate in tre punti. Intanto, subito dopo la morte del Pinelli, il questore ha dichiarato ‘in più conferenze stampa’ che tutti gli alibi del ferroviere erano caduti. Secondo i tre penalisti si tratta di affermazioni ‘gravi e infondate’ che tuttavia Guida avrebbe ripetuto più volte. [ … ] Seconda ‘colpa’ del questore: aver messo subito in relazione le contestazioni mosse a Pinelli e ‘l’asserito suicidio’ dicendo a tutti: Pinelli si è ucciso perché era inchiodato dalle domande dei funzionari dell’ufficio politico. [ … ] Terza ‘colpa’ del questore (e la più grave a giudizio dei tre penalisti): aver indicato il Pinelli come colpevole degli attentati dinamitardi».

Insomma, si domandano in molti: se Pinelli era innocente perché si è suicidato? Perché tremila persone, nonostante il clima di intimidazioni poliziesche, hanno seguito i funerali dell’anarchico il 20 dicembre? Domande che incrinano le verità ufficiali di poliziotti e magistrati. Che hanno mentito su questo uomo nato a Milano nel 1928 nel popolare quartiere di Porta Ticinese.

Corporatura robusta, statura media, baffi e pizzetto neri, Pinelli finite le scuole elementari deve andare a lavorare, prima come garzone, poi come magazziniere. Ma l’abbandono della scuola non lo allontana dai libri: ne leggerà centinaia e centinaia. È un appassionato autodidatta. Nel 1944 è tra le fila della resistenza a Milano. Staffetta della Brigata Franco collabora con un gruppo di partigiani anarchici. È l’incontro che segna la sua vita: comincia in quegli anni la sua militanza anarchica.

Nel 1954 vince un concorso ed entra nelle ferrovie come manovratore. L’anno dopo si sposa: avrà due figlie, Silvia e Claudia.

Arriva il 1963, aria nuova, alcuni giovani creano il gruppo Gioventù libertaria. Pinelli è con loro anche se ha già 35 anni mentre gli altri sono poco più che ventenni. È il naturale punto di contatto tra i nuovi arrivati all’anarchismo e i vecchi militanti scampati al fascismo.

Poi il salto di qualità: nel 1965 è tra i fondatori del Circolo Sacco e Vanzetti, di viale Murillo. Da dieci anni gli anarchici milanesi non avevano una loro sede. Ma nel 1968 arriva lo sfratto, gli anarchici trovano un’altra sede in piazzale Lugano, la chiamano Circolo Ponte della Ghisolfa: a pochi metri c’è l’omonima sopraelevata che sovrasta innumerevoli e piccolissimi orti.

Il vento del maggio francese soffia in tutta Europa. E Pinelli vive la frenesia di quei giorni. Gli studenti contestano l’autorità, gli operai danno segni di insofferenza verso i sindacati tradizionali. È una grande occasione per uno come Pinelli che sta cercando di ridare vita all’USI (Unione sindacale italiana), il sindacato libertario che negli anni Venti, guidato dall’anarchico Armando Borghi, vedeva tra le sue fila anche un giovane che diverrà famoso come segretario della CGIL, Giuseppe Di Vittorio.

Nascono i primi CUB (Comitati unitari di base), strutture sindacali autonome dalle tre centrali CGIL, CISL e UIL. Il più combattivo dei CUB è quello dell’ATM, l’azienda tramviaria milanese. Lo anima un cinquantenne che ha militato nel movimento anarchico nell’immediato dopoguerra. Le affinità fra il tramviere e il ferroviere Pinelli sono tante. I CUB trovano nel Circolo Ponte della Ghisolfa il luogo più adatto dove riunirsi (poi il clima creato dalle bombe del 12 dicembre e la campagna contro gli anarchici consigliano i militanti dei CUB di trovarsi un’altra sede). Pinelli sembra instancabile nel creare occasioni di confronto, prendendo contatti con gli insofferenti del sindacalismo ufficiale. Viene aperto un altro circolo, quello di via Scaldasole, dove si riuniscono prevalentemente gli studenti galvanizzati dalle rivolte parigine del maggio 1968. La situazione è decisamente effervescente, anche un po’ caotica, ma, contrariamente a quello che scriveranno poi i giornali, gli anarchici milanesi (e non solo quelli) hanno strutture organizzative precise, fondate su piccoli gruppi di militanti che si conoscono bene.

A Milano la Gioventù libertaria ha cambiato denominazione: Bandiera nera. Nel gruppo oltre a Pinelli c’è un altro operaio: Cesare Vurchio, nato a Canosa di Puglia nel 1931. Con lui Pinelli ha un rapporto più intenso: sono quasi coetanei e hanno una famiglia da mandare avanti. Gli altri sono tutti giovani, alcuni ancora studenti.

Ma uno, Amedeo Bertolo, nonostante abbia soltanto 28 anni, ha già un’esperienza che nel 1962 lo ha visto protagonista di un fatto clamoroso: il rapimento del viceconsole spagnolo a Milano, Isu Elias. Il primo rapimento politico del dopoguerra.

Perché questo sequestro? Ai primi di settembre del 1962 un giovane anarchico spagnolo, Jorge Conill Valls, viene condannato a morte dal tribunale militare di Barcellona per attività antifranchista. Non c’è tempo da perdere. Bertolo, che aveva conosciuto personalmente Conill un mese prima (durante una «missione» organizzata dalla clandestina Federazione iberica della gioventù libertaria), mette rapidamente in atto il sequestro, il 29 settembre, con una mezza dozzina di anarchici e socialisti «irrequieti».

Il rapimento riempie le prime pagine dei giornali e innesca una campagna di solidarietà antifranchista e di pressioni sul regime di Francisco Franco a vari livelli (dalle manifestazioni di piazza all’intervento «umanitario» del cardinale Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI dal 1963 al 1978). Dopo tre giorni, quasi contemporaneamente, la condanna a morte di Conill viene commutata in trent’anni di carcere e Isu Elias viene liberato. I rapitori vengono ben presto identificati e (chi prima, chi dopo) incarcerati. Ultimo Bertolo, fuggito in Francia, che si presenta spontaneamente e rocambolescamente in tribunale all’apertura del processo.

Il processo, seguito da gran parte della stampa più come un processo al regime fascista spagnolo che ai giovani antifranchisti italiani, si tiene a Varese.

Il 21 novembre vengono tutti condannati, ma a pene molto miti. Per Bertolo (che nell’aprile 1969 sarà tra i fondatori della Croce nera anarchica, sciolta nel 1973 dopo la liberazione di Valpreda) la pena è di sei mesi di carcere per il sequestro e venti giorni per il porto abusivo di armi. Nella sentenza i giudici, presieduti da Eugenio Zumin, riconoscono che gli imputati hanno «agito per motivi di particolare valore morale e sociale». Sono tutti incensurati e quindi beneficiano della libertà condizionale.

X
TUTTO COMINCIA IN APRILE

Festa della liberazione, 25 aprile 1969. Nel padiglione della FIAT alla Fiera campionaria di Milano scoppia una bomba. Sono quasi le 19. Restano ferite, ma non gravemente, venti persone. Poco prima delle 21 alla stazione Centrale (ufficio cambi della Banca nazionale delle comunicazioni) c’è un’altra esplosione, pochissimi feriti lievi. Questa volta non ci sono stati morti, ma è soltanto un caso fortunato. Le due bombe sono state azionate da un congegno a orologeria. I dati ufficiali del ministero dell’Interno dicono che quelle azioni terroristiche sono state precedute da altri 32 attentati. A fine anno le esplosioni o gli incendi saranno 53, sempre secondo il ministero. Ma altre fonti arrivano a contarne oltre 140. Perché questa differenza? I dati del ministero si riferiscono unicamente ad attentati per cui qualcuno è stato denunciato o arrestato. Mancano quelli di autori ignoti.

Per le bombe del 25 aprile (ricorrenza partigiana, ma obiettivi di «sinistra»: il simbolo del capitalismo italiano, la FIAT, e quello della finanza, una banca) c’è in azione un trio che nel corso dell’anno diverrà famoso: il commissario Luigi Calabresi, il suo capo Antonino Allegra e il giudice Antonio Amati. I tre imboccano subito la pista anarchica. Fermano una quindicina di libertari e ne trattengono quattro: Paolo Braschi, Paolo Faccioli, Giovanni Corradini e sua moglie Eliane Vincileone. Mentre i primi due sono giovanissimi e praticamente sconosciuti nella sinistra milanese, Corradini e Vincileone sono personaggi che godono di una discreta notorietà, lui è architetto, hanno ampie frequentazioni, per di più sono buoni amici dell’editore Giangiacomo Feltrinelli e della sua quarta moglie, Sibilla Melega. Risultato: Corradini e Vincileone sono le menti organizzative, i mandanti degli attentati. Corradini viene considerato dalla polizia anche un teorico dell’anarchia perché nel 1963 è stato direttore responsabile del mensile «Materialismo e libertà». Un giornale considerato innovativo negli ambienti anarchici, ma che ha vita brevissima: soltanto tre numeri. Ai quattro si aggiungeranno Angelo Piero Della Savia, estradato dalla Svizzera, e Tito Pulsinelli, arrestato a Riccione il 22 agosto. Pulsinelli viene preso con Enrico Rovelli che però è quasi subito rilasciato. Esce dalla scena delle indagini, ma entra nella parte di confidente del commissario Calabresi. Il suo ruolo verrà definitivamente alla luce durante le indagini sull’attentato compiuto, il 17 maggio 1973, da Gianfranco Bertoli davanti alla questura di Milano. Quell’inchiesta, condotta da Antonio Lombardi, giudice istruttore di Milano, appura, per stessa ammissione di Rovelli, che questi forniva informazioni al commissario Calabresi. E dell’ufficio affari riservati con il nome in codice di Anna Bolena. Anni dopo si ritrova Rovelli, sempre sulla piazza milanese, come organizzatore di grandi concerti rock e gestore di locali famosi come il Rolling Stones prima e l’Alcatraz poi.

Gli anarchici vengono accusati sia delle bombe del 25 aprile (tre giorni dopo il parlamento dovrebbe discutere una proposta di legge per il disarmo della polizia che ovviamente, dato il clima creatosi, non verrà più presa in considerazione) sia di altri 18 attentati minori. Per alcuni di questi ultimi gli arrestati ammettono la paternità, ma respingono sempre con decisione le accuse per gli attentati del 25 aprile. In sede processuale ritrattano quelle ammissioni dichiarando che sono state estorte dal commissario Calabresi. Corradini e Vincileone il 7 dicembre 1969 vengono scarcerati per mancanza di indizi. Il loro alibi è stato confermato proprio da Feltrinelli e Melega che però vengono incriminati per falsa testimonianza. Un’accusa che cadrà solo durante il processo. Questo si apre quasi due anni dopo gli arresti, il 22 aprile 1971. Il 28 maggio gli imputati vengono assolti per gli attentati alla Fiera campionaria e alla stazione Centrale, ma condannati per sei attentati minori. Ecco le condanne: Della Savia otto anni, Braschi sei anni e dieci mesi, Faccioli tre anni e sei mesi. Pene poi ridotte dalla Corte d’appello nell’aprile 1976. Pulsinelli è invece assolto con formula piena.

Il processo si risolve con una sostanziale sconfessione delle indagini del commissario Calabresi e dell’inchiesta del giudice Amati, che avevano fondato le accuse agli anarchici sostanzialmente su due testi: Rosemma Zublena e, altro nome ricorrente, l’esperto balistico Teonesto Cerri.

Zublena, ex amante di Braschi e più vecchia di lui di circa vent’anni, risulta completamente inattendibile durante gli interrogatori in aula. Accusava i giovani anarchici degli attentati sostenendo che Braschi, ma anche gli altri, le avevano confidato le loro imprese. Incalzata dagli avvocati difensori, che ne mettono in luce le dichiarazioni contraddittorie, cerca senza risultato di indicare in Giuseppe Pinelli la fonte delle sue informazioni. Infine, messa ancor più alle strette, se ne esce con una frase rivelatrice: «Io non ho fatto che ripetere quello che sapeva Calabresi». E così il pubblico ministero, Antonio Scopelliti, nella sua requisitoria finale arriva a dire: «La Corte non deve tenere conto di questa testimone, che ha incrinato diverse pagine di questa istruttoria con la sua presenza massiccia e ingombrante. [ … ] Alla Zublena il ruolo di testimone non si addice e le pagine processuali hanno chiaramente messo in mostra la sua fragilità accusatoria».

Cerri sostiene invece le sue accuse ipotizzando un furto di esplosivi alla cava di Grone. Un furto non denunciato e che i responsabili della cava negano anche durante il processo. Ma contro ogni logica la giuria conferma il furto nella cava. Perché? Per giustificare la condanna per i sei attentati minori e indirettamente giustificare il possesso di esplosivi da parte di Pietro Valpreda.

Ma, fatto ancora più grave, il presidente del tribunale, Paolo Curatolo, non tiene in alcun conto un documento pubblicato all’inizio di dicembre 1969 dai quotidiani inglesi «The Observer» e «The Guardian ». E giudicato attendibile da esperti internazionali. Di cosa si tratta? È un documento segreto inviato al ministro degli Esteri di Atene in cui si informa il primo ministro Georgios Papadopoulos sui risultati della campagna di provocazione che il governo greco sta attuando da tempo in Italia, con la collaborazione di gruppi fascisti e di «alcuni rappresentanti dell’esercito e dei carabinieri». Nel rapporto si ipotizza la possibilità di un colpo di Stato di destra mediante l’incentivazione di gruppi di azione già da tempo operanti. In quel dossier (composto di tre pagine) si apprezza l’opera in questo senso svolta da Luigi Turchi, deputato del Movimento sociale, e di un certo signor P. Nel documento si legge anche: «Le azioni che era stato previsto fossero realizzate prima non è stato possibile realizzarle che il 25 aprile. La modifica dei nostri piani ci fu imposta dal fatto che era difficile penetrare nel padiglione FIAT. Entrambi i fatti hanno prodotto effetti considerevoli». L’altro fatto era la bomba esplosa alla stazione Centrale.

C’è un elemento, ancora più clamoroso, che getta nuova luce su questo processo. Il 13 aprile 1971, quindi pochi giorni prima che iniziasse il dibattimento a Milano, il giudice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz, emette un mandato di cattura contro Giovanni Ventura, 27 anni, editore e libraio di Castelfranco Veneto, Franco Freda, 35 anni, procuratore legale a Padova, e Aldo Trinco, studente di 28 anni. Il giudice Stiz li accusa di associazione sovversiva e «procacciamento di armi da guerra», ma soprattutto della preparazione di attentati dinamitardi a Torino nell’aprile 1969 e sui treni delle Ferrovie dello Stato nell’agosto 1969. Freda e Ventura verranno poi condannati definitivamente a quindici anni nel 1987 per questi attentati e per quelli del 25 aprile a Milano.

Particolare sconcertante. Per quest’ultima operazione Gianni Casalini, del gruppo nazista di Padova e informatore del SID, nome in codice Turco, aveva comunicato ai servizi segreti di aver accompagnato in macchina a Milano Ivano Toniolo, uomo di fiducia di Freda, che portava una borsa contenente esplosivo. Ma ci penserà Gianadelio Maletti, direttore del reparto D del SID, a insabbiare le informazioni.

Che cosa era successo nell’agosto 1969?

Dieci treni vengono presi di mira sulle linee del Nord e del Centro-sud Italia. Otto bombe esplodono tra la una e le tre del 9 agosto, due, inesplose, vengono scoperte per un difetto nel congegno di accensione. Risultato: dodici feriti tra viaggiatori e ferrovieri. Il rapporto costi-benefici per gli attentatori non è certo favorevole. È stata messa in campo una notevole organizzazione logistica (per la bomba sul treno Pescara-Roma interviene direttamente Freda aiutato da Ivan Biondo, anche lui del gruppo nazista di Padova) che però non ha prodotto tutti gli effetti desiderati. Si è creato un clima di allarme, ma non c’è stato il morto.

Allegra e Calabresi anche in questo caso imboccano subito la pista anarchica. Allegra contesta questa accusa a Giuseppe Pinelli che, stando ai verbali d’interrogatorio, ride in faccia al capo dell’ufficio politico. Anche in questo caso, siamo nell’agosto 1969, i giornali si accodano alle direttive della questura. Il 13 agosto «La Stampa» pubblica un articolo siglato G. M. dal titolo Scomparsi gli anarchici per evitare gli interrogatori. «Dopo gli attentati sui treni», scrive il corrispondente del quotidiano torinese, «gli anarchici milanesi sono spariti dalla circolazione. Un po’ per le vacanze, un po’ per evitare gli interrogatori della polizia hanno cambiato aria. Nell’aprile scorso alcuni vennero arrestati sotto l’accusa di una serie di attentati tra cui quello alla Fiera campionaria di Milano. Nonostante le prove raccolte dalla polizia gli arrestati hanno sempre respinto ogni addebito; forse soltanto al processo si potrà stabilire la verità. Gli anarchici milanesi si sono resi ‘uccelli di bosco’. Le sedi de La Comune di via Lanzone 39 e del gruppo Ponte della Ghisolfa sono chiuse. Dopo l’attentato alla Campionaria, era sembrato che l’organizzazione dei giovani anarchici fosse stata distrutta: in realtà la loro bandiera nera non è mai stata ammainata; le file sono state riorganizzate seguendo nuovi criteri per rendere più difficile l’identificazione dei nuovi accoliti». L’articolo si chiude con accuse fantasiose, ma a effetto: «Fino a qualche tempo fa gli anarchici a Milano erano pochi, privi di mezzi, per nulla organizzati. Ora qualcuno ha pensato di sfruttare le loro utopie. Così gli anarchici sono stati corteggiati e finanziati dalla destra totalitaria e dall’estremismo di sinistra».

Nonostante l’appoggio dei giornali, le polizie delle varie città non riescono ad arrestare e accusare nessuno, però il clima è favorevole per interventi contro gli estremisti. Così all’alba del 19 agosto, 150 fra poliziotti e carabinieri di Milano sgomberano l’ex albergo Commercio, ribattezzato Casa dello studente e del lavoratore. L’immobile, destinato alla demolizione, è in piazza Fontana proprio di fronte alla sede della Banca nazionale dell’agricoltura. Occupato il 28 novembre 1968, dopo un’assemblea di studenti, lo stabile diventa subito un luogo di incontro dell’estrema sinistra; i giornali lo definiscono «una centrale della contestazione maoista e anarchica». Gli agenti sorprendono nel sonno cinquantotto persone che vengono fermate per l’identificazione. Tre verranno arrestate e rimesse in libertà il 22 agosto. Subito dopo lo sgombero entra in azione una squadra di demolitori e in poche ore dell’immobile restano soltanto macerie.

XI
NAZISTI IN MASCHERA

Mestre, giugno 1968. Durante la notte, ai primi del mese, vengono affissi numerosi manifesti inneggianti a Mao Tse Tung. Poi numerose auto vengono ritrovate dai proprietari imbrattate da scritte sempre inneggianti al presidente cinese. Una bravata di maoisti veneziani? No, gli autori sono tre giovani militanti del gruppo neonazista Ordine nuovo di quella città: Delfo Zorzi, Paolo Molin e Martino Siciliano. È quest’ultimo a confessare l’azione, il 6 ottobre 1995, al giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, che dal 1989 al 1997 ha indagato sulla strage di piazza Fontana: «Facemmo queste scritte sulle macchine parcheggiate nella zona per infastidire i residenti e sviluppare al massimo questa iniziativa di provocazione».

Palermo, 15 maggio 1969. Vengono arrestati sette fascisti. Appartengono alla Giovane Italia. Dal mese di aprile fino al giorno precedente hanno compiuto attentati contro la chiesa Regina Pacis, le stazioni dei carabinieri di Castellammare e di Pretoria, la caserma del centro addestramento reclute e il carcere dell’Ucciardone.

Legnano, 15 settembre 1969. Ettore Alzati, 26 anni, venditore ambulante, ed Ermanno Carensuola, 19 anni, impiegato in un’azienda di trasporti, vengono arrestati. Sono responsabili, e lo confessano, di aver lanciato una bottiglia molotov contro l’ingresso di un circolo dove era in corso un festival dell’«Avanti!». Ma fanno fiasco: la bottiglia si rompe senza esplodere. Allora cercano di dare fuoco allo striscione propagandistico. Stesso risultato deludente. Prima di andarsene, armati ormai soltanto di vernice, tracciano sul muro una grande A cerchiata.

Vanno davanti al Club Turati e scrivono sui muri «Viva Mao». Alzati e Carensuola sono estremisti di destra iscritti alla sezione di Legnano del Movimento sociale.

Tre esempi,e altri ancora se ne potrebbero citare, che generano un’immediata domanda: che cosa sta succedendo? Il maggio francese del 1968 ha contagiato anche fascisti e nazisti? Come mai nascono strani gruppi che si definiscono nazi-maoisti? Perché estremisti di destra fanno attentati cercando di farli ricadere sugli anarchici? Sono soltanto atti estemporanei o fanno parte di un piano? I responsabili della Croce nera anarchica di Milano, tra questi c’è anche Giuseppe Pinelli, propendono per la seconda ipotesi. Sul numero uno del loro bollettino, pubblicato nel giugno 1969, scrivono a proposito dei fatti di Palermo: «Per quanto emozionalmente squilibrati siano i neofascisti, non siamo tanto ingenui da credere all’improvvisa contemporanea follia di sette di loro. Evidentemente le loro azioni facevano parte di un piano». I redattori del bollettino approfondiscono questa ipotesi: «Che dei fascisti colpiscano degli obiettivi ‘anarchici’ si può spiegare solo con l’intento di: 1) suscitare la psicosi dell’attentato sovversivo per giustificare la repressione poliziesca e l’involuzione autoritaria; 2) gettare discredito sugli anarchici (e, per estensione, sulle forze di sinistra). Essenziale per ottenere il secondo risultato e utile anche per il primo è fare qualche ferito innocente o meglio ancora (ma più pericoloso) qualche morto». L’articolo si chiude con una previsione: «Quanto è successo a Palermo conferma quello che dicevamo subito dopo gli odiosi attentati del 25 aprile a Milano (Fiera e stazione): gli attentatori non sono tra noi. E l’insistenza della polizia ad arrestare e a fermare gli anarchici ci fa sospettare cose gravi».

Dopo gli attentati ai treni del 9 agosto, sempre sul bollettino della Croce nera (numero due, agosto 1969), si legge: «Dove vige un regime autoritario, alla vigilia della venuta di qualche importante uomo di Stato vengono effettuati dei controlli particolari, teste calde, sediziosi e anarchici vengono trattenuti dalla polizia, chi per accertamenti, chi per pretesi crimini: tutti per precauzione. Ci si domanda allora, in questo terribile 1969, chi diavolo sta arrivando in Italia?». A questo interrogativo risponderanno le bombe del 12 dicembre.

I redattori del bollettino della Croce nera intuivano che qualcosa era in preparazione, ma ovviamente non disponevano ancora di una conoscenza completa dei fatti. Per esempio non sapevano che l’operazione «manifesti cinesi» e le altre azioni terroristiche fatte da fascisti, ma con firma anarchica o maoista, costituivano il prologo della «strategia della tensione». Non sapevano che a ideare, far stampare manifesti in decine di migliaia di copie e distribuirli per l’affissione a gruppi nazifascisti era Federico Umberto D’Amato, capo dell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno. Una strategia precisa e teorizzata anche nel documento La nostra azione politica, sequestrato nel 1974 nella sede dell’Aginter Presse a Lisbona.

Questa organizzazione terroristica di destra, guidata da Ralph Guerin Serac (pseudonimo di Yves Felix Marie Guillou, nato in Francia nel 1926), è uno degli snodi dell’azione eversiva nera. Nel documento sequestrato si legge, tra l’altro, che oltre all’infiltrazione nei gruppi filocinesi, dovevano essere attuate azioni di propaganda apparentemente opera degli avversari politici, tali da aumentare il clima di instabilità e creare una situazione di caos. Quelli della Croce nera non sapevano ancora che le operazioni di provocazione, prima, e di depistaggio, poi, erano guidate da D’Amato, tessera 1643 della loggia massonica P2, come risulta da numerosi riscontri e dalle dichiarazioni al giudice Salvini di Vincenzo Vinciguerra, autore, con Carlo Cicuttini, dell’attentato di Peteano (tre carabinieri uccisi e uno ferito il 31 maggio 1972) e militante di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Vinciguerra, che si definisce nazista rivoluzionario, si è dissociato dai suoi camerati perché li ritiene teleguidati dai servizi segreti.

La tattica di fare attentati o azioni dimostrative spacciandosi per anarchici o estremisti di sinistra, i fascisti non l’abbandonano con i fatti del 1969. La pratica continuerà per anni.

Un altro esempio. La notte del 15 ottobre 1971 scoppia una bomba davanti all’università Cattolica di Milano, in largo Gemelli. Produce solo danni alla recinzione esterna dell’edificio. Chi è stato? Ecco la ricostruzione che Siciliano ha fatto a Salvini il 18 ottobre 1994: «L’episodio fu estemporaneo e nacque dopo una cena a Milano a casa di Marco Foscari, in via Piceno 19. Erano presenti Foscari e la moglie, Gianluigi Radice e la moglie, Giambattista Cannata, detto Tanino, e io». Siciliano è arrivato da Mestre con una bomba da mortaio senza spoletta. Finito di mangiare, il gruppo decide di fare un attentato da attribuire all’estrema sinistra. Nella casa ci sono un detonatore, polvere da sparo e una miccia. Siciliano prepara la bomba: riempie la cavità dove avrebbe dovuto esserci la spoletta con polvere da sparo. Poi vi inserisce il detonatore e la miccia. Terminata la fase tecnica, il gruppo discute su quale obiettivo scegliere. Si decide per la Cattolica, perché i camerati di Milano hanno la tessera di uno studente di sinistra proprio dell’università di piazza Gemelli: gliela hanno presa durante un pestaggio. Cannata accompagna, con la sua Cinquecento, Siciliano. Gli altri rimangono con le mogli. L’idea è di lasciare il documento dello studente vicino a dove esploderà la bomba. Ma lo dimenticano a casa. Lasciato l’ordigno, dopo aver acceso la miccia, vicino alla cancellata (pensavano di scavalcarla, ma era troppo alta), i due ritornano velocemente alla macchina e fuggono. Ma senza il documento dello studente di sinistra non ottengono l’effetto sperato. Per di più quasi alla stessa ora c’è un altro attentato a una sede del Partito comunista. Come lamenterà tempo dopo Angelo Angeli in una lettera a Giancarlo Esposti, entrambi neonazisti, i due fatti vengono sostanzialmente collegati nelle ricostruzioni giornalistiche.

Ma i gruppi neonazisti non fanno soltanto operazioni mascherate di sinistra. Già da anni, ben prima quindi del 1969, si preparano alla guerra insurrezionale. Assalti alle sedi dei partiti di sinistra e ai suoi militanti, campi di addestramento paramilitare (in uno di questi, a Pian del Rascino, morirà nel 1974 Esposti), reperimento di armi e di esplosivi sono il complemento operativo dell’indottrinamento ideologico.

Primi mesi del 1965. Siciliano, Piercarlo Montagner e Zorzi sono sulla macchina di Carlo Maria Maggi, capo di Ordine nuovo nel Triveneto. Alla guida c’è Siciliano che da pochi mesi ha preso la patente. Vanno a una cava di marmo vicino ad Arzignano del Chiampo, in provincia di Vicenza. Zorzi conosce bene la zona perché vi è nato. Sfondano la porta del deposito degli esplosivi e rubano quasi 40 chili di ammonal, detonatori e numerose micce detonanti e a lenta combustione. Un bottino ricchissimo, ma non ci sta tutto in macchina. Allora ne nascondono una parte poco lontano dalla cava. Tornano a Mestre e Zorzi si occupa di nascondere la refurtiva. Qualche giorno dopo tornano ad Arzignano. Questa volta in treno fino a Vicenza e poi in pullman fino ad Arzignano. Si infilano sotto i soprabiti esplosivo e micce. Tornano a Venezia.

Nel 1969 l’azione dei militanti veneziani di Ordine nuovo ha un’impennata. Si addestrano, ma all’inizio con scarsi risultati, a preparare attentati con un esplosivo particolare: la gelignite. La bomba che scoppierà il 12 dicembre a Milano sarà composta da un chilo e mezzo di gelignite. Zorzi si è procurato questo esplosivo, in candelotti color rosso mattone, grazie a Carlo Digilio. A venderglielo è stato Roberto Rotelli, un contrabbandiere veneziano, specializzato nel recupero di beni preziosi da navi affondate. «Rotelli mi disse che intendeva vendere questo esplosivo che gli era costato circa 5 milioni investendo proventi del contrabbando di sigarette. Rotelli mi fece il nome di Zorzi come possibile acquirente e io gli risposi che la persona poteva andare bene», dichiara, il 13 gennaio 1996, Digilio al giudice Salvini. E aggiunge: «Zorzi era molto preoccupato che si mantenesse la segretezza di questo acquisto e io lo tranquillizzai che nessuno di noi aveva l’interesse a parlare».

Trieste, 3-4 ottobre 1969. Di lì a qualche giorno il presidente della repubblica, Giuseppe Saragat, deve far visita al presidente iugoslavo Tito. Zorzi, Siciliano e Giancarlo Vianello si ritrovano a Venezia in piazzale Roma. Nel grande garage ritirano la macchina di Maggi. Nel baule ci sono due contenitori metallici riempiti di gelignite con timer già predisposti. Manca soltanto il collegamento con la batteria. Il tutto è stato preparato da Digilio, che i tre chiamano anche zio Otto, ex legionario esperto di armi ed esplosivi. Però Digilio ha anche un altro soprannome che i giovani ordinovisti non conoscono: Erodoto. È il nome in codice come agente della CIA nel Veneto. Nome che ha ereditato nel 1967 alla morte del padre Michelangelo, anch’egli uomo legato ai servizi segreti americani. Il gruppo guidato da Zorzi parte per Trieste. Il primo obiettivo è la Scuola slovena nel rione San Giovanni. Depongono la prima bomba, dopo aver collegato la batteria, su una finestra, lasciano anche volantini antislavi e partono alla volta di Gorizia, il secondo obiettivo. Ma dopo una quarantina di minuti non sentono alcun boato. La perizia accerterà che la batteria era completamente scarica. «Evidentemente qualcuno aveva programmato l’azione in modo diverso, perché mi sembra impossibile che possa avvenire un errore del genere», commenta Siciliano con il giudice Salvini il 18 ottobre 1994.

Quando arrivano a Gorizia è già giorno. Aspettano il buio, poi depositano bomba e volantini al cippo di confine di fronte alla vecchia stazione ferroviaria. E via verso Venezia. Ma il risultato non cambia: la bomba verrà ritrovata inesplosa.

Ci penserà, indirettamente, Giancarlo Rognoni, capo del gruppo ordinovista di Milano, La Fenice, a vendicare l’onore dei camerati veneti. Il 27 aprile 1974 due militanti della Fenice fanno saltare la Scuola slovena.

Fascisti e neonazisti, infatti, continueranno per anni a compiere attentati, praticamente fino agli anni Ottanta. Alcuni sono rimasti impressi nella memoria collettiva: piazza della Loggia a Brescia e treno Italicus nel 1974, stazione di Bologna nel 1980. Tanto per citare i più noti. Ma ce ne sono altri che non hanno superato la soglia della cronaca, anche se importanti.

Gioia Tauro, 22 luglio 1970. Una carica di tritolo fa saltare un tratto di binario poco prima della città calabra. Muoiono sei passeggeri e altri cinquantaquattro rimangono feriti. Inizialmente gli investigatori denunciano quattro ferrovieri per omicidio colposo. Ma non è un incidente dovuto a incuria o negligenza, è un attentato a cui ne seguiranno altri, sempre contro treni in Calabria. E gli esecutori, secondo testimonianze raccolte nel 1993, sarebbero Vito Silverini e Vincenzo Caracciolo (morti rispettivamente nel 1987 e nel 1990) che hanno agito dietro compenso dei responsabili del Comitato d’azione per Reggio capoluogo, organismo formato da fascisti calabresi.

Su quell’attentato Angelo Casile e Giovanni Aricò, due anarchici calabresi, avevano condotto attività di controinformazione. Casile e Aricò muoiono nella notte tra il 26 e il 27 settembre 1970, con altri tre anarchici, schiantandosi sulla strada da Reggio a Roma contro un camion che aveva frenato bruscamente. Sulla dinamica di quell’incidente vennero scritte anche alcune sciocchezze da parte della controinformazione di sinistra. Tra queste si portò come prova che non di incidente si trattava, ma di omicidio organizzato dalla destra, il fatto che lo scontro avvenne in un tratto di strada (a circa 60 chilometri da Roma) che costeggiava alcune tenute del principe Junio Valerio Borghese.

Però il 26 marzo 1994 si è presentato al giudice Salvini il cugino di Aricò, Antonio Perna. Questi ha riferito che, il giorno prima di partire per Roma, Aricò gli aveva confidato che avrebbe portato a Veraldo Rossi (chiamato da tutti Aldo), esponente della FAI romana e redattore del settimanale anarchico «Umanità nova», molta documentazione importante sull’attentato di Gioia Tauro. Perna afferma anche che al momento della partenza Aricò aveva con sé quella documentazione, che non venne però ritrovata sul luogo dell’incidente, così come non vennero riconsegnate ai familiari le agende delle cinque vittime. Inoltre Casile, uno dei ragazzi morti, durante l’estate era stato interrogato dal giudice Vittorio Occorsio (indagine sulle bombe del 12 dicembre) e aveva dichiarato di aver visto a Roma, dopo l’attentato all’Altare della patria, Giuseppe Schirinzi, militante di Avanguardia nazionale a Reggio Calabria, e di averlo accusato, nella concitazione di quelle ore, di essere l’autore dell’azione.

Schirinzi è stato condannato con Aldo Pardo per l’attentato contro la questura di Reggio Calabria del 7 dicembre 1969, pochi giorni prima dell’incontro a Roma con Casile. Ma Schirinzi non è un manovale delle bombe, è un personaggio di spicco in Avanguardia nazionale: nell’aprile 1968 partecipa con Mario Merlino (fondatore con Valpreda del circolo romano 22 marzo) al viaggio nella Grecia dei colonnelli e nell’estate del 1969 cerca di infiltrarsi nel circolo degli anarchici di Reggio Calabria che, ironia della sorte, si chiama 22 marzo.

XII
IL PERICOLO COMUNISTA

Che già dalla metà degli anni Sessanta fascisti e nazisti intensifichino l’attività per procurarsi armi ed esplosivi non avviene per puro caso. C’è chi sta teorizzando la strategia della tensione. E per di più lo fa pubblicamente. A Roma dal 3 al 5 aprile 1965 molti noti esponenti della destra si riuniscono all’hotel Parco dei principi. L’occasione è il convegno sulla «Guerra rivoluzionaria», organizzato dall’Istituto di storia militare Alberto Pollio. Tra i nomi di spicco figurano Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo, Guido Giannettini, giornalista e agente del SID, Edgardo Beltrametti ed Enrico De Boccard, due giornalisti che daranno vita ai Nuclei di difesa dello Stato. Assiste ai lavori anche un gruppo di circa 20 studenti, invitato per apprendere le nuove teorie. Tra questi ci sono due nomi ricorrenti nella storia di quegli anni: Stefano Delle Chiaie, capo di Avanguardia nazionale, e il suo pupillo, Mario Merlino.

Se gli interventi di Rauti e Giannettini riscuotono applausi, chi magnetizza la sala è Pio Filippani Ronconi, docente universitario, traduttore di lingue orientali, crittografo alle dipendenze del ministero della Difesa e del SID. Le relazioni di quel convegno compaiono nel volume La guerra rivoluzionaria, pubblicato nello stesso anno dall’editore Gioacchino Volpe. Il libro circolerà soprattutto con una «diffusione militante» nei vari gruppi dell’estrema destra. È, per esempio, Paolo Molin a portarlo da Roma ai membri del gruppo di Ordine nuovo di Venezia. Quello guidato da Delfo Zorzi.

Tema del convegno è la strategia da adottare in tempi brevi contro l’avanzata del comunismo e quindi mantenere l’Italia nel campo occidentale. Nella sua relazione, Ipotesi per una controrivoluzione, Filippani Ronconi propone uno schema di sicurezza articolato su più livelli, operativi e gerarchici. La base sarà costituita da professionisti, docenti e piccoli industriali. Individui capaci di compiere soltanto un’azione puramente passiva e non rischiosa, ma in grado anche di boicottare le iniziative promosse dal campo comunista.

Il secondo livello sarà formato da persone capaci di esercitare «azioni di pressione» con manifestazioni che si svolgano nell’ambito della legalità e che, anzi, si muovano in difesa dello Stato e della legge.

«A un terzo livello», sostiene Filippani Ronconi, «molto più qualificato e professionalmente specializzato, dovrebbero costituirsi (in pieno anonimato sin da adesso) nuclei scelti di pochissime unità, addestrati a compiti di controterrore e di ‘rotture’ eventuali dei punti di precario equilibrio, in modo da determinare una diversa costellazione di forze al potere. Questi nuclei, possibilmente l’un l’altro ignoti, ma ben coordinati da un comitato direttivo, potrebbero essere composti in parte da quei giovani che attualmente esauriscono sterilmente le loro energie in nobili imprese dimostrative». Ed ecco il vertice dell’organizzazione: «Di là di questi livelli dovrebbe costituirsi con funzioni ‘verticali’, un Consiglio che coordini le attività in funzione di una guerra totale contro l’apparato sovversivo comunista e dei suoi alleati, che rappresenta l’incubo che sovrasta il mondo moderno e ne impedisce il naturale sviluppo».

Testi sul pericolo comunista non sono certo una novità, ma qui si è di fronte a qualcosa di qualitativamente diverso. Non è soltanto un’esercitazione teorica: l’organizzazione prospettata da Filippani Ronconi è già in fase di costituzione e diventerà operativa molto presto.

Nel 1966 ben duemila ufficiali dell’esercito ricevono, in busta chiusa, un volantino firmato, appunto, Nuclei di difesa dello Stato. Testo destinato, nelle intenzioni degli autori, a risvegliare l’orgoglio dei militari: «Ufficiali! La pericolosa situazione della politica italiana esige il vostro intervento decisivo. Spetta alle Forze armate il compito di stroncare l’infezione prima che essa divenga mortale. Nessun rinvio è possibile: ogni attesa, ogni inerzia significa vigliaccheria. Subire la banda di volgari canaglie che pretendono di governarci, significa obbedire alla sovversione e tradire lo Stato. Militari di grande prestigio e di autentica fedeltà hanno già costituito in seno alle Forze Armate i Nuclei di difesa dello Stato. Voi dovete aderire ai NDS. O voi aderite alla lotta vittoriosa contro la sovversione, oppure anche per voi la sovversione alzerà le sue forche. E sarà, in questo caso, la meritata ricompensa per i traditori». Autori e diffusori del volantino sono Franco Freda e Giovanni Ventura, due protagonisti della stagione delle stragi. In quell’occasione compare un altro personaggio di rilievo in questa storia: Guido Lorenzon. All’epoca è ufficiale di complemento alla base di Aviano, anche lui riceve il volantino e durante una licenza ne parla con l’amico Ventura. Sorpresa: Ventura gli rivela di essere uno degli autori di quel documento. Verrà poi definitivamente condannato per apologia di reato con Freda, nel 1987.

Accanto all’opera di divulgazione che fanno Freda e Ventura, c’è chi sta lavorando per creare la rete dei Nuclei di difesa dello Stato. Una rete parallela all’altra più famosa, ma forse meno pericolosa, organizzazione segreta: Gladio. Il maggiore Amos Spiazzi (oggi generale), responsabile dell’ufficio I (informazioni) dell’esercito a Verona, dopo un corso di aggiornamento al terzo corpo d’armata di Milano, nell’autunno-inverno tra il 1966 e il 1967, viene incaricato dai suoi superiori, «singolarmente e oralmente», di sviluppare nella sua città un’attività parallela a quella di Gladio. «Mi fu detto comunque che era necessario, regione per regione e capillarmente provincia per provincia, reclutare personale con analoghe caratteristiche, compartimentato al massimo e da addestrare in nuclei di tre persone [ … ] avvalendosi di istruttori dei locali reparti. [ … ] Questi Nuclei presero il nome di Legioni. [ … ] Formai così con 50 elementi selezionati la Quinta Legione», dichiara al giudice Guido Salvini, il 2 giugno 1994, Spiazzi, salito alla ribalta della cronaca nel 1974 per il suo coinvolgimento nell’organizzazione eversiva Rosa dei venti. E prosegue: «Nelle riunioni [ … ] fu sollecitata una collaborazione sempre più stretta con le associazioni d’Arma, con associazioni politiche esistenti quali gli Amici delle Forze armate, l’Istituto Pollio, il Combattentismo attivo, per unificare le forze in una attiva opera di difesa, di sostegno e di propaganda in favore delle Forze armate e dei valori da esse rappresentati». L’attività di Spiazzi non si ferma all’addestramento: organizza conferenze e dibattiti, collabora al giornale del Movimento di opinione pubblica del generale Francesco Nardella (iscritto alla P2 di Licio Gelli), prende contatto con Adamo Degli Occhi, avvocato milanese, leader delle manifestazioni della cosiddetta Maggioranza silenziosa, e con il Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese, comandante durante la guerra della Decima Mas e nel 1943 passato alla repubblica di Salò. Precisa Spiazzi: «Ogni mia attività esercitata fuori servizio in seno a tale organizzazione era nota ai superiori Uffici».

Dal Veneto alla Lombardia e, per la precisione, in Valtellina. Qui c’è un personaggio che rappresenta un autentico mito per i suoi uomini: Carlo Fumagalli. Comandante durante la resistenza, aveva guidato una formazione autonoma, I Gufi, composta da partigiani «bianchi». Il gruppo operava in stretto contatto con i servizi segreti americani dell’OSS (Office of Strategic Services). Da questi, alla fine della guerra, riceve la medaglia Bronze Star. Rimane legato ai servizi americani e alla fine degli anni Sessanta è pronto per dare una mano alla trasformazione dell’assetto politico italiano in senso presidenzialista e con un ancor più marcato accento filoatlantico. Fumagalli fonda il MAR (Movimento di azione rivoluzionaria) e, come copertura per le sue attività illegali, gestisce un’officina meccanica specializzata in fuoristrada. Segue la strategia della provocazione con attentati da attribuire alla sinistra, ma il colpo di Stato da lui desiderato non ha le connotazioni filonaziste dei suoi «alleati». Questo, però, non gli impedisce di mettere a segno operazioni clamorose.

Milano, 7 gennaio 1971. Viene appiccato un incendio al deposito di copertoni della Pirelli-Bicocca in viale Sarca. Le fiamme vengono spente solo dopo dieci ore. Con un danno di oltre un miliardo, ai valori dell’epoca. Durante le operazioni di soccorso muore un operaio di 30 anni, Gianfranco Carminati. «L’attentato nelle intenzioni del gruppo MAR doveva essere attribuito alle Brigate rosse che allora stavano sorgendo», dichiara, anni dopo, Gaetano Orlando, considerato l’ideologo del MAR. «Ricordo benissimo gli attentati che avvennero alla Pirelli all’inizio del 1971 e posso confermare che la nostra organizzazione era estranea al grosso incendio che fu appiccato a un deposito di copertoni della Pirelli-Bicocca», sostiene, il 23 luglio 1991, Roberto Franceschini, all’epoca dei fatti dirigente delle BR a Milano e oggi dissociato dal terrorismo.

Esattamente un mese prima, il 7 dicembre 1970, alcune colonne armate entrano in Roma. Le guida il principe Borghese del Fronte nazionale. Tra i maggiori finanziatori dell’operazione ci sono Remo Orlandini, costruttore romano, braccio destro di Borghese, e Attilio Lercari, genovese, amministratore delegato della Piaggio. L’obiettivo è occupare le sedi politiche più importanti, la RAI e l’aeroporto, mentre gli uomini di Stefano Delle Chiaie (i militanti di Avanguardia nazionale) devono impadronirsi della centrale operativa del ministero dell’Interno. Per poi passare la mano ai carabinieri e dedicarsi al rastrellamento degli avversari politici da internare nell’arcipelago delle Eolie. Alcune navi, fornite dagli armatori genovesi Cameli, sarebbero pronte per il trasporto. Il classico colpo di Stato. Ma qualcosa non funziona, oppure qualcuno fa marcia indietro. C’è un fitto giro di telefonate: alla fine i golpisti lasciano Roma. Così anche Roberto Palotto e Saverio Ghiacci, che con altri militanti di Avanguardia nazionale sono riusciti a penetrare nel ministero dell’Interno (grazie alla collaborazione di Salvatore Drago, medico in servizio a quel dicastero, iscritto alla P2), devono lasciare velocemente il palazzo. Ma il golpe non è circoscritto solo alla capitale.

«Il maggiore ci disse di tenerci pronti in camerata, con gli abiti borghesi», ricorda Enzo Ferro che in quel dicembre 1970 prestava servizio militare alla caserma Montorio di Verona e quindi sottoposto al maggiore Spiazzi, «e che poi avremmo dovuto essere portati nella zona di Porta Bra a Verona, nella sede dell’Associazione mutilati e invalidi di guerra, dove si stampava il giornaletto del Movimento di opinione pubblica. [ … ] Ci fu detto chiaramente che dovevamo intervenire e che non potevamo tirarci indietro e che, giunti al punto di raccolta, saremmo stati armati e portati nella zona dove dovevamo operare come supporto al colpo di Stato. Tutte le cellule di civili e militari avrebbero dovuto intervenire. Tuttavia nella notte ci fu il contrordine, era verso l’una e trenta e ce lo comunicò direttamente il maggiore Spiazzi, dicendoci che il contrordine veniva direttamente da Milano».

«Anche a Venezia […] per la notte del 7 dicembre era concordato il concentramento in punti determinati. Il concentramento effettivamente ci fu, ma poco dopo giunse il contrordine, con vivo disappunto di tutti i presenti. [ … ] Il punto di concentramento era l’Arsenale, cioè lo spiazzo dinanzi al comando della Marina militare. Anche di queste iniziative io riferii regolarmente a Verona (al comando FTASE) che quindi misi al corrente dei vari sviluppi», dichiara Carlo Digilio, legato al gruppo di Ordine nuovo di Venezia e informatore della CIA dal 1967. L’agente a cui Digilio riferisce si chiama Sergio Minetto, capo della rete CIA per il Triveneto. Minetto, ovviamente, nega di avere mai ricoperto quel ruolo. Il FTASE indicato da Digilio è il comando generale delle Forze dell’alleanza atlantica per il Sud Europa. «A Reggio Calabria», ricorda Carmine Dominici, esponente fino al 1976 di Avanguardia nazionale, diretta, in quella città, dal marchese Felice Genoese Zerbi, «eravamo in piedi tutti pronti a dare il nostro contributo. Zerbi disse che aveva ricevuto delle divise dai carabinieri e che saremmo intervenuti in pattuglia con loro, anche in relazione alla necessità di arrestare avversari politici che facevano parte di certe liste che erano state preparate. Restammo mobilitati fin quasi alle due di notte, ma poi ci dissero di andare tutti a casa».

Altre testimonianze, sempre raccolte dal giudice Salvini, rivelano che anche in molte località italiane, militari, civili e carabinieri erano pronti a intervenire per sostenere il colpo di Stato a Roma. Chi fermò il golpe fu Licio Gelli, cioè l’ispiratore e, sul piano operativo, l’uomo che doveva guidare il sequestro di Giuseppe Saragat, presidente della repubblica. Gelli utilizzerà poi il coinvolgimento nel golpe di alti ufficiali per i suoi giochi fatti di ricatti e manovre a largo raggio. Ma le sentenze del novembre 1978, novembre 1984 e infine la Cassazione nel marzo 1986 hanno mandato assolti tutti i congiurati. E per quanto riguarda Gelli e l’attività di cospirazione attuata per anni dalla loggia massonica P2, la sentenza definitiva della Cassazione ha stabilito, il 21 novembre 1996, che Gelli andava condannato a otto anni (ma da non scontare) soltanto per il reato di procacciamento di notizie riservate (mentre l’anno prima era stato condannato a dieci anni per calunnia e depistaggio sulla strage alla stazione di Bologna). Si chiude così un altro capitolo di una storia giudiziaria iniziata nel 1981, quando la Guardia di finanza scoprì nell’abitazione di Gelli, villa Wanda a Castiglion Fibocchi, l’elenco di 962 nominativi di affiliati alla loggia P2. Quell’inchiesta venne tolta ai magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone e trasferita a Roma. E la procura della capitale fece il suo dovere: bloccò le indagini.

XIII
FAREMO ORDINE, MA NUOVO

Ecco altri due attori di questa storia: Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Attori importanti, protagonisti. Perché? Militanti di queste organizzazioni hanno eseguito gli attentati a Milano e a Roma il 12 dicembre 1969. Non si tratta però di semplici manovali del terrore. Il rapporto tra esecutori e ideatori è più complesso. Non il banale schema «prendi la bomba e vai a far saltare tutto». C’è una ragnatela di complicità, sollecitazioni, aiuti, reciproci ricatti che traccia alcune delle pagine più velenose della storia italiana. Una storia che vede come regista della strategia della tensione proprio il ministero dell’Interno nelle persone del responsabile del dicastero, Franco Restivo, e di molti suoi successori, e soprattutto di Federico Umberto D’Amato, capo dell’ufficio affari riservati (sciolto nel 1978). D’Amato, deceduto l’1 agosto 1996, è tornato alla ribalta poco dopo la sua morte con il ritrovamento in una palazzina sulla via Appia, alla periferia di Roma, di circa 150 mila fascicoli non catalogati (e forse in parte già depurati dei documenti più compromettenti). Ma non solo documenti: per esempio c’è anche il quadrante di un timer utilizzato per l’attentato del 9 agosto 1969 sul treno Pescara-Roma (quello attuato personalmente da Franco Freda). Quei documenti, ritrovati il 17 agosto 1996 da Aldo Giannuli, esperto nominato dal giudice Salvini, costituiscono una sorta di archivio parallelo del Viminale nel quale sono racchiuse moltissime delle storie legate all’attività di spionaggio interno. Un archivio segreto che non è stato distrutto, ma depositato alla rinfusa in una sorta di magazzino. Forse per tenerlo comunque disponibile in caso di eventuali future utilizzazioni oppure fatto trovare dopo l’uscita di scena di D’Amato.

A questo punto occorre tornare indietro di oltre quarant’anni. E il 1956, Giuseppe Rauti, che tutti chiamano Pino, dà segni d’insofferenza sempre più evidenti verso la linea politica «piccolo borghese e legalitaria» del segretario del suo partito, il Movimento sociale italiano. Arturo Michelini, eletto alla massima carica dei neofascisti italiani nel 1954, viene considerato troppo ossequiente nei confronti della destra democristiana dai «duri» della corrente di Giorgio Almirante. Rauti è uno dei più duri. Si stacca dal MSI e fonda (con Clemente Graziani, Paolo Signorelli, Stefano Serpieri e Stefano Delle Chiaie) il Centro studi Ordine nuovo. Nell’autunno 1969, quando diventa segretario del MSI Giorgio Almirante, Rauti rientra nel partito e scioglie il Centro studi. E un atto solo formale perché i gruppi e l’organizzazione di Ordine nuovo continueranno a operare ancora per anni.

Nel 1958 Delle Chiaie inizia un processo di autonomizzazione da Rauti che lo porta il 25 aprile 1960 a fondare Avanguardia nazionale. Organizzazione che formalmente si scioglie nel 1966 per permettere il reingresso di molti militanti nel MSI. Ma nel 1968 Delle Chiaie ricostituisce, sempre formalmente, la mai disciolta organizzazione.

Ordine nuovo e Avanguardia nazionale hanno un’impostazione ideologica sostanzialmente simile. Il principale referente teorico è il filosofo Julius Evola, che Rauti ha conosciuto alla fine degli anni Quaranta. Il programma si fonda sulla lotta al comunismo e al capitalismo, per uno Stato delle corporazioni, sull’esempio del programma nazional-rivoluzionario del 28 agosto 1919 dei Fasci di combattimento costituiti in piazza San Sepolcro a Milano il 23 marzo 1919. Programma perfezionato (almeno nelle enunciazioni) dalla repubblica di Salò (che vede tra i suoi combattenti il volontario Rauti di appena 17 anni). E inoltre lotta contro il sistema parlamentare e ogni forma di democrazia, per arrivare a uno Stato aristocratico e organico, riprendendo molte delle concezioni della Germania hitleriana. L’obiettivo finale è il Nuovo ordine europeo.

Le due organizzazioni in pratica si spartiscono il territorio italiano: Ordine nuovo colleziona gruppi soprattutto nel Nord, mentre Avanguardia nazionale ha le sue basi principali a Roma e nel Sud.

Nella primavera del 1969 è ormai giunto il momento di operare insieme. I dirigenti veneti di Ordine nuovo incontrano quelli romani di Avanguardia nazionale il 18 aprile. La riunione si tiene a Padova nella casa di Ivano Toniolo, un fedelissimo di Franco Freda. Con l’approvazione, è ovvio, di Carlo Maria Maggi, responsabile di Ordine nuovo nel Triveneto, e dei suoi referenti a livello nazionale, Signorelli e Rauti. D’ora in poi le due organizzazioni agiranno in modo concordato, almeno per le operazioni in grande stile. Il 25 aprile scoppiano le bombe di Milano (Fiera campionaria e stazione Centrale).

Si è creato un asse operativo che parte da Venezia, arriva a Padova, prosegue per Milano, punta sulla capitale e si estende fino a Reggio Calabria. I nomi? Per Venezia, Delfo Zorzi, Martino Siciliano, Giancarlo Vianello (che, infiltratosi nel 1970 in Lotta continua, si innamorerà di una militante del gruppo di estrema sinistra e finirà per abbandonare i camerati), Paolo Molin, Piercarlo Montagner. Con l’appoggio «tecnico» fornito da Carlo Digilio. A Padova, sotto la direzione di Freda, si muovono Giovanni Ventura, Massimiliano Fachini e Marco Pozzan. Giancarlo Rognoni è il capo riconosciuto del gruppo La Fenice di Milano. Delle Chiaie guida Avanguardia nazionale a Roma, mentre a Reggio Calabria il suo uomo di fiducia è il marchese Felice Genoese Zerbi. Questi può contare su un buon gruppo di militanti decisi come Carmine Dominici, Giuseppe Schirinzi e Aldo Pardo.

Tutti personaggi dalla vita avventurosa. Freda e Ventura saranno definitivamente condannati per 17 attentati compiuti tra il 15 aprile e il 9 agosto 1969 (quindi anche per quelli di Milano del 25 aprile e ai treni del 9 agosto). Rognoni eviterà ventitré anni di carcere dandosi latitante, soprattutto in Spagna. È stato infatti condannato in contumacia per un attentato compiuto dal suo luogotenente, Nico Azzi.

Treno Torino-Roma. È il 7 aprile 1973. Scoppia una bomba in un gabinetto. Ma l’attentatore, Azzi, non se n’è andato. L’ordigno gli è esploso tra le mani. O meglio, tra le gambe. Ferito, viene arrestato. E poi condannato a 20 anni. Con lui finiscono in carcere altri due membri della Fenice: Mauro Marzorati e Francesco De Min. Quell’attentato, deciso alla presenza dell’ideologo di Ordine nuovo, Paolo Signorelli, doveva servire, almeno nelle intenzioni, a depistare le indagini condotte dai giudici di Milano sulla strage di piazza Fontana, ed essere sfruttato politicamente nella manifestazione della Maggioranza silenziosa già fissata per il 12 aprile a Milano. Dopo l’attentato, infatti, doveva essere fatta una rivendicazione, per telefono, a nome di un’organizzazione di sinistra.

Carattere forte, duro, capace di passare subito alle mani, il suo viso è spesso segnato da ferite, non lo impressiona la vista del sangue, si occupa personalmente di infliggere punizioni ai camerati che sgarrano, ma anche introverso e affascinato dal buddhismo e dal pensiero di Evola, questo il profilo che traccia Siciliano del suo capo Zorzi. Cioè l’uomo che confesserà almeno in due occasioni di aver partecipato all’attentato di Milano del 12 dicembre.

È il 31 dicembre 1969. Zorzi, Siciliano e Vianello festeggiano l’ultimo giorno dell’anno andando prima a puttane in corso del Popolo a Mestre. «Abitudine cameratesca legata alla concezione fascista della virilità», commenta Siciliano. Poi vanno a casa di Vianello a mangiare, brindare e sentire inni nazisti. Il discorso cade sulle bombe di pochi giorni prima. Ecco che cosa dichiara Siciliano, l’8 giugno 1996, al giudice Salvini: «Zorzi ci ricordò che, secondo i nostri grandi teorici, anche il sangue poteva essere motore di una rivoluzione nazionale che, partendo dall’Italia, avrebbe salvato l’Europa difendendola dal comunismo. Riprese i discorsi che già erano stati fatti a Padova e che cioè la gente comune, colpita e non in grado di difendersi da sé, avrebbe chiesto essa stessa lo Stato forte, soprattutto in quanto la strategia prevedeva che episodi così gravi dovessero essere attribuiti all’estrema sinistra». E Zorzi così conclude, secondo Siciliano: «Ci fece chiaramente intendere che gli anarchici non c’entravano nulla e che erano stati presi come capro espiatorio per i loro precedenti bombaroli, un’accusa di quel genere nei loro confronti era credibile, e che in realtà gli attentati di Milano e Roma erano stati pensati e commissionati ad alto livello e materialmente eseguiti da Ordine nuovo del Triveneto».

Nel gennaio 1996 Digilio racconta al giudice Salvini che cosa gli ha detto Zorzi a Mestre nel 1973: «Guarda che io ho partecipato direttamente all’operazione di collocazione della bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura». E precisa Digilio: «Queste furono testualmente le sue parole, che ricordo ancora bene, anche per la loro gravità. Zorzi non parlò né di morti né di strage, ma usò il termine ‘operazione’, come se si fosse trattato di un’operazione di guerra». A questo punto Zorzi spiega a Digilio: «Me ne sono occupato personalmente e non è stata una cosa facile, mi ha aiutato il figlio di un direttore di banca».

Oggi Zorzi vive in Giappone, dove si è trasferito dopo che i giudici Giancarlo Stiz a Treviso, Pietro Calogero a Padova, Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini a Milano hanno cominciato a indagare sulla pista fascista per la strage di piazza Fontana.

A Tokào, Zorzi mette in piedi una società di import-export. In pochi anni diventa miliardario tanto che nel 1993 può prestare 30 miliardi a Maurizio Gucci. Una fortuna che qualcuno sospetta sia stata accumulata grazie alla protezione della Yakuza, la potente mafia nipponica, e dei servizi segreti italiani e statunitensi. Zorzi nel frattempo si è sposato con una giapponese, dalla quale ha avuto una figlia, ha anche una rete di società e di negozi in Italia, ed è difeso in Italia dall’avvocato Gaetano Pecorella che nega qualsiasi coinvolgimento del suo cliente con la strage di piazza Fontana. Pecorella, conosciuto negli anni Settanta soprattutto per la difesa di militanti di sinistra, negli anni Novanta affianca clienti come Zorzi a Ovidio Bompressi, ex Lotta continua, condannato a ventidue anni per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. «Ero a Napoli dove frequentavo l’università orientale, alla quale mi ero iscritto nel 1968», ha dichiarato Zorzi, riferendosi al 12 dicembre 1969, in un’intervista pubblicata il 14 novembre 1995 sul «Giornale». Un alibi che non è stato confermato.

Altro personaggio, altra fuga. Digilio, mentre viene interrogato da Salvini, ha già subìto una condanna in contumacia a dieci anni. Nel 1982, segretario del poligono di tiro di Venezia, Digilio viene arrestato la prima volta per detenzione illegale di munizioni. Rilasciato dopo pochi giorni, capisce che forse possono contestargli altri reati più gravi. Si rifugia in una casa isolata a Villa d’Adda, in provincia di Bergamo. Poi alla fine del 1985 fugge a Santo Domingo con documenti falsi. Ma nell’autunno 1992 viene arrestato dall’Interpol e riportato in Italia a scontare la sua condanna per ricostituzione di Ordine nuovo, detenzione di detonatori, cessione di armi, detenzione di macchinari per la riparazione e trasformazione di armi e per la falsificazione di documenti.

Ed ecco il più famoso latitante dell’eversione fascista: Delle Chiaie. Che prima di essere ribattezzato «primula nera», a Roma era conosciuto come «er caccola». Durante un interrogatorio al Palazzo di giustizia di Roma, chiede di andare al gabinetto. Scompare. È il 9 luglio 1970. La polizia non riuscirà a rintracciarlo nonostante venga visto nella capitale ancora per diversi mesi.

Fallito il golpe Borghese, Delle Chiaie si trasferisce a Madrid dove può godere della protezione di esponenti del franchismo, ma nel febbraio 1977, ormai tramontato il regime di Francisco Franco, Delle Chiaie approda nella più sicura America Latina. Di tornare in Italia non se ne parla, anche perché Giorgio Pisanò, direttore del settimanale fascista «Il Candido», gli ha mandato, attraverso le colonne del suo giornale, un messaggio chiaro. In una lettera aperta, pubblicata il 9 gennaio 1975, Pisanò ha scritto: «Resta dove sei e statti zitto. Perché se torni dovrai raccontarci tante cose: tanti traffici d’armi, per esempio, con relativa scomparsa di fondi che ti erano stati affidati, o i tuoi intrallazzi con Mario Merlino. Oppure i tuoi rapporti con l’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno». Argentina, Bolivia, Paraguay e Cile sono le tappe dei continui spostamenti di Delle Chiaie. Che ha preso intanto una nuova identità, si chiama Alfredo Di Stefano. Ma nel 1987 viene fermato a Caracas. Finisce così la sua latitanza durata 17 anni. Contro di lui è stato spiccato un mandato di arresto internazionale. Le accuse? Strage dell’Italicus, associazione sovversiva, rapina, concorso nella strage di piazza Fontana, banda armata. Viene processato in Italia nell’ottobre 1987, con Massimiliano Fachini, dalla Corte d’assise di Catanzaro (l’ultimo atto dei processi per piazza Fontana). Il 20 febbraio 1989, i due vengono assolti con formula piena dopo 90 udienze. Sentenza confermata in appello il 5 luglio 1991.

XIV
QUI CI VUOLE IL MORTO

Torniamo a bomba, cioè al 1969. Gli attentati del 25 aprile a Milano fanno solo pochi feriti. Stesso risultato per quelli ai treni del 9 agosto. Questi ultimi ordigni sono innescati da un comune orologio: marca Ruhla. Orologi che uno strano signore acquista a tre-quattro per volta al magazzino Standa di Treviso. Ma il primo esperimento non riesce. Il 24 luglio la bomba piazzata al Palazzo di giustizia di Milano non esplode. Ci vuole un esperto. Franco Freda si fa allora spiegare dall’elettricista Tullio Fabris (che nel 1968 gli ha montato i lampadari nel suo studio in via San Biagio a Padova) come collegare un orologio a sveglia con una resistenza che incendi poi dei fiammiferi antivento. E Fabris dà le informazioni tecniche a Freda. Sui treni l’esperimento è positivo: su dieci bombe, otto esplodono. Per le due che fanno cilecca si scopre che sono azionate da orologi Ruhla.

Il passo successivo è l’utilizzo di timer. Freda, tramite Fabris, ordina 50 timer da 60 minuti alla ditta Elettrocontrolli di Bologna. Il 19 settembre Freda va nel capoluogo emiliano con Fabris e ritira quei timer (fabbricati dalla Junghans-Diehl di Venezia). Nuovo strumento, nuove lezioni. Prima lezione: Fabris insegna a Freda (anche se i timer non sono ancora stati acquistati) come collegare batteria, filo al nichelcromo, fiammifero antivento a un timer. Visti i risultati, Freda fa comprare a Fabris una discreta quantità di quei fili. Seconda lezione: l’elettricista, dopo l’acquisto dei timer, fornisce a Freda e a Ventura nozioni generali sui congegni a tempo e sul loro utilizzo. Freda prende diligentemente appunti. Terza lezione: Freda e Ventura, sotto la supervisione di Fabris, predispongono per due volte il congegno. L’esperimento riesce alla perfezione. Tutto è pronto per il grande botto. E infatti nella borsa che conteneva la bomba inesplosa alla Banca commerciale italiana di piazza della Scala a Milano viene ritrovato il dischetto orario staccatosi da un timer della Junghans-Diehl. Quella borsa fa parte di uno stock importato in Italia e prodotto dalla ditta tedesca Mosbach-Gruber. Le borse utilizzate per gli attentati sono di due tipi: Cità 2131 di colore marrone e Peraso 2131 di colore nero. E soltanto tre negozi in Italia vendono entrambi i tipi: Biagini di Milano, Protto di Cuneo e Al Duomo di Padova. Quando Fausto Giuriati, proprietario della valigeria Al Duomo, vede la foto della borsa pubblicata sui giornali e trasmessa in televisione telefona in questura. Devono passare alcuni giorni prima che qualcuno della polizia si presenti alla valigeria Al Duomo. La commessa Loretta Galeazzo riferirà di aver venduto quattro borse di quel tipo la sera del 10 dicembre a un giovane ben vestito. I poliziotti padovani mandano il loro rapporto alla questura di Milano e all’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, ma dovranno passare tre anni prima che qualcuno si ripresenti nel negozio del centro di Padova. E non su indicazione di Milano o di Roma. Chi va a informarsi? È il maresciallo Alvise Munari che indaga per conto del giudice istruttore di Treviso Giancarlo Stiz.

Restiamo a Padova. È la vigilia delle bombe. Ecco una ricostruzione logica degli avvenimenti sulla base di quanto è stato appurato, ma non sufficientemente provato, per quanto riguarda Zorzi, in appello nel 2004 e in Cassazione nel 2005. Freda, ormai esperto grazie alle lezioni di Fabris, prepara gli esplosivi con la gelignite che si è procurato (come sostiene Carlo Digilio) Delfo Zorzi. Li collega ai timer Junghans-Diehl. Li mette nelle borse acquistate alla valigeria Al Duomo di Padova e in un’altra simile comprata prima. E li consegna agli incaricati del trasporto. Zorzi parte per Milano. Lì lo attendono i militanti del gruppo La Fenice di Giancarlo Rognoni (anche lui, però, assolto definitivamente), che gli forniscono la base operativa, un appartamento vicino a piazza Fontana. Ventura va invece a Roma e consegna il suo carico ai camerati di Avanguardia nazionale, che dipendono da Stefano Delle Chiaie.

Il pomeriggio del 12 dicembre due borse contenenti altrettante bombe di gelignite collegate a timer Junghans-Diehl vengono deposte alla Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana e alla Banca commerciale italiana di piazza della Scala. Un’altra bomba viene lasciata a Roma nel sottopassaggio della Banca nazionale del lavoro, due al monumento al Milite ignoto di piazza Venezia. I militanti di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale hanno compiuto quasi alla perfezione il loro lavoro. C’è solo il mancato funzionamento dell’ordigno lasciato alla Banca commerciale di Milano, ma ci penserà, come si è visto, il perito Teonesto Cerri a eliminare quella prova compromettente. Non completamente però: nella confusione dimentica di fare esplodere anche il quadrante del timer rimasto nella borsa.

E sono proprio i timer che tradiranno il gruppo di Freda e i suoi partner. Ne sono stati utilizzati solo cinque. Gli altri vengono consegnati a Cristiano De Eccher perché li nasconda. De Eccher, discendente di una nobile famiglia del Sacro romano impero, possiede un castello a Calavino, vicino a Trento. Nel 1969 ha solo 19 anni, ma è già un esponente di Avanguardia nazionale di Trento, iscritto all’università di Padova e in stretto contatto con Freda. Uno dei pochi a cui l’aristocratico Freda, forse per le nobili e antiche origini, si rivolge dandogli del tu. Un elemento di contatto, quindi, tra i due gruppi nazisti. De Eccher provvede a murarli. Ma è più fedele a Delle Chiaie che a Freda: non restituirà più quei timer. Tanto da suscitare l’ira profonda del procuratore legale padovano che si lamenterà con un suo camerata, Sergio Calore, «sulla decadenza di un barone del Sacro romano impero».

Poiché Freda non può negare di aver comprato quei timer, dichiarerà che li ha ceduti a un certo capitano Hamid, dei servizi segreti algerini. L’algerino glieli avrebbe chiesti per organizzare attentati contro obiettivi sionisti. E, clamoroso, i giudici gli credono, per nulla scossi dal fatto che il Mossad, il servizio segreto israeliano, dichiari che il capitano Hamid non esiste. I giudici sembrano credere del tutto plausibile che un agente algerino debba rivolgersi a un legale di Padova per procurarsi dei timer. Mentre l’elettricista Fabris al processo fa soltanto parziali ammissioni. Perché? È stato minacciato per tre volte affinché taccia. Due volte da Massimiliano Fachini, un’altra volta da Fachini in compagnia di Pino Rauti, così sostiene la moglie di Fabris che avrebbe riconosciuto Rauti vedendolo, successivamente, in televisione.

I timer non prendono affatto la via dell’Algeria. Rimasti sotto il controllo di De Eccher, protetto dal colonnello dei carabinieri Michele Santoro, finiscono in parte al gruppo La Fenice di Milano e in parte ad Avanguardia nazionale di Roma, che ne utilizza qualcuno per gli attentati ai treni diretti a Reggio Calabria nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 1972.

I militanti del gruppo La Fenice nel 1973 preparano un piano per collocare alcuni di questi timer in una casa di Giangiacomo Feltrinelli (morto nel marzo 1972 a Segrate). La casa, in realtà un castello a Villadeati nel Monferrato, è di proprietà della famiglia Feltrinelli, ma quasi mai utilizzata. Alcuni militanti del gruppo di Rognoni dovrebbero introdursi con destrezza nel castello e nascondervi i timer, poi sarebbero stati avvisati i carabinieri. Questa iniziativa ha l’obiettivo di riportare le indagini su piazza Fontana verso la «pista rossa» proprio mentre Gerardo D’Ambrosio indaga sui fascisti. Il progetto però viene abbandonato perché Rognoni lo ritiene troppo fantasioso.

Di Feltrinelli, due anni prima, si occupano Martino Siciliano e Marco Foscari del gruppo Ordine nuovo di Venezia. Foscari ha un castello di famiglia a Paternion, in Carinzia.

Non lontano c’è uno chalet di proprietà di Sibilla Melega. Feltrinelli, all’epoca latitante, spesso si rifugia in quello chalet. Ai due ordinovisti viene allora l’idea di rapirlo, portarlo in Italia e farlo trovare alle forze di polizia. Così, armati con fucili da caccia, alla guida di un fuoristrada e accompagnati dal guardacaccia di Foscari, un ex Waffen-SS, vanno a prelevare Feltrinelli. Muniti anche di etere per stordire l’editore, corde per legarlo e un baule da utilizzare per il trasporto oltre confine. Ma è un piano improvvisato e sono sfortunati: «Individuammo senza difficoltà la proprietà dove c’era uno chalet, ma non riuscimmo a vedere Feltrinelli e anzi lo chalet sembrava chiuso. Abbandonammo quindi il progetto così come era nato», ricorda Siciliano.

Dai timer alla gelignite. Questo esplosivo non esaurisce certo la sua funzione con le bombe del 12 dicembre 1969. Viene usato altre volte dal gruppo ordinovista di Venezia.

Mestre, 27 ottobre 1970. Siciliano prepara un congegno a orologeria, ma poiché non è sicuro di averlo innescato bene, consiglia di affidarsi a una comune miccia collegata alla gelignite. Piero Andreatta si occupa di collocare l’ordigno, che esplode davanti al magazzino Coin in piazza Barche. Ma la gelignite è utilizzata anche in attentati più importanti e mortali. Delfo Zorzi, Ordine nuovo di Venezia, consegna a Marcello Soffiati, militante del gruppo di Verona, una bomba preparata con quell’esplosivo. Soffiati la porta a Milano. La consegna a militanti delle SAM (Squadre d’azione Mussolini) milanesi, che si occupano di trasferirla a Brescia. Il 28 maggio 1974 in piazza della Loggia c’è una manifestazione indetta dal Comitato unitario antifascista bresciano e dai sindacati. Alle 10,20, mentre sta parlando il segretario provinciale della FIM-CISL, Franco Castrezzati, la bomba alla gelignite esplode. Risultato: otto morti e circa cento feriti. Questo episodio segna anche una rottura all’interno di Ordine nuovo: i rapporti tra Zorzi e Soffiati si guastano, diventeranno quasi nemici. Soffiati non perdona al camerata di Venezia di averlo coinvolto in un’azione così importante e che soprattutto si discosta dalla strategia finora seguita: mettere bombe che possano essere attribuite alla sinistra.

XV
DÀGLI ALL’ANARCHICO

I fascisti mettono le bombe. La polizia arresta gli anarchici. Schema classico di questa storia. Le direttive vengono dall’alto. Si deve colpire a sinistra. E il commissario Luigi Calabresi a Milano, come il suo collega della squadra politica di Roma, Umberto Improta, eseguono con la massima solerzia. Calabresi, lo stesso pomeriggio in cui scoppiano le bombe del 12 dicembre, punta subito su «quel pazzo criminale di Valpreda». Dopotutto il gioco gli è già riuscito il 25 aprile quando ha messo in carcere gli anarchici per gli attentati alla Fiera campionaria e alla stazione Centrale di Milano. E non ha gradito che proprio pochi giorni prima, il 7 dicembre, il capo dell’ufficio istruzione di Milano, Antonio Amati, sia stato costretto a rilasciarne due, Giovanni Corradini ed Eliane Vincileone, per mancanza di indizi. Ma adesso, di fronte a una strage come quella di piazza Fontana, Calabresi non si può accontentare di ragazzi come Paolo Braschi e compagni. Ha bisogno di un uomo e Valpreda ha l’età giusta, 36 anni. Ha bisogno di un personaggio che faccia, come Valpreda, discorsi esagitati. E Valpreda, negli ultimi tempi, ha perso quella ironia e autoironia che lo caratterizzavano. Frequentando i bar di Brera (un tempo la zona degli artisti di Milano) si lancia in lunghe e accalorate discussioni che si colorano sempre più di una sorta di «tremendismo verbale». Per di più Brera pullula di confidenti della polizia. E il valore di un informatore dipende dalla «qualità» delle notizie che può passare agli uomini della questura. Così, in un gioco perverso di rilanci, i discorsi di Valpreda vengono ingigantiti. Valpreda è favorevole agli scontri durante le manifestazioni? Vuole la guerriglia urbana. Parla di «azioni esemplari» fatte da poche persone, ma capaci di galvanizzare le masse? Vuole fare attentati.

Valpreda si fa prendere la mano con affermazioni sempre più «tremendiste». E quando con due giovani anarchici, Leonardo Claps, detto Steve, e Aniello D’Errico, dà vita al bollettino ciclostilato «Terra e libertà», organo del Gruppo degli Iconoclasti, cioè loro tre, scrive sul numero uno del marzo 1969 (l’unico uscito) un articolo dal titolo Ravachol è risorto, che verrà utilizzato dai poliziotti per avvalorare la tesi di Valpreda bombarolo. Ravachol, infatti, è lo pseudonimo di un anarchico francese (François-Claudius Koeningstein) ghigliottinato nel 1892 e divenuto famoso nella Parigi di fine secolo per i suoi attentati dinamitardi. Lo stereotipo dell’anarchico sedimentato nell’immaginario collettivo. Ebbene, in questo articolo, dopo aver elencato una serie di piccoli attentati (fatti quasi tutti con qualcosa che ricorda più bombecarta, cioè grossi petardi, che veri ordigni esplosivi), Valpreda così conclude il suo articolo: «Centinaia di giovani sono pronti a organizzarsi per riprendere il posto di nemici dello Stato e gridare né Dio né padrone, con la dinamite di Ravachol, col pugnale di Caserio, con la pistola di Bresci, col mitra di Bonnot, le bombe di Filippi e di Henry. Tremate borghesi! Ravachol è risorto!».

Se la polizia gongola per questa prosa allucinante, Giuseppe Pinelli è furente. «Ho buttato fuori dal Ponte quel pirla di Valpreda», riferisce ai suoi compagni del gruppo Bandiera nera. Da quel momento, è l’inizio del 1969, i rapporti tra Pinelli e Valpreda si raffreddano completamente. E quando, il 2 novembre, Pinelli partecipa a Empoli al convegno dei GIA (Gruppi di iniziativa anarchica, una delle tre componenti del movimento anarchico organizzato, con la FAI, Federazione anarchica italiana, e i GAF, Gruppi anarchici federati; a quest’ultima aderisce il gruppo Bandiera nera di cui fa parte Pinelli) lo scontro con Valpreda diventa plateale. Dopo il convegno gli anarchici si riuniscono in una trattoria. Valpreda saluta Pinelli, ma lui non gli risponde, anzi prende l’occasione per dirgli che non lo considera un amico, quindi non c’è alcun motivo per salutarlo. Valpreda, offeso davanti a tutti i presenti, ha uno scatto d’ira e getta contro Pinelli una saliera. È l’ultima volta che i due si vedono.

A Roma, Valpreda entra in dissidio con gli anarchici del Circolo Bakunin. Troppo seduti, capaci solo di fare discorsi, mentre è arrivato il momento di agire perché studenti e operai stanno scalzando il vecchio regime, dice in più occasioni Valpreda. E così con un gruppo di giovani (Roberto Mander, Roberto Gargamelli, Enrico Di Cola, Emilio Borghese) dà vita al Circolo 22 marzo. A questo gruppo si uniscono Mario Merlino, formalmente ex di Avanguardia nazionale, e il «compagno Andrea», cioè Salvatore Ippolito, agente di pubblica sicurezza. Questi due infiltrati saranno affiancati, ma in modo molto saltuario e più esterno, da Stefano Serpieri, uno dei fondatori, con Pino Rauti, di Ordine nuovo e dalla metà degli anni Sessanta stabile informatore del SID. Il ruolo di Serpieri è marginale, ma penserà lui stesso a ingrandirlo presso i suoi superiori. Dopotutto deve pur sempre giustificare i compensi che il SID gli passa.

Sottoposti a questi controlli, gli aderenti al Circolo 22 marzo iniziano a fare «politica», che per loro significa partecipare a manifestazioni con scontri finali, fare azioni dimostrative (il 7 ottobre, guidati da Merlino, lanciano una bottiglia molotov contro il portone della sede del Movimento sociale a Colle Oppio). Insomma si mettono in mostra.

Valpreda è il più anziano, può vantare una buona conoscenza del pensiero anarchico, è quindi naturale che divenga l’elemento di spicco del 22 marzo. E la polizia, ovviamente, lo sa. Dopo le bombe del 9 agosto Valpreda viene fermato una dozzina di volte. La polizia cerca anche di corromperlo con promesse di soldi (800 mila lire) e facendogli balenare la possibilità di avere un contratto con la RAI. Ma Valpreda non ci sta e manda i poliziotti a quel paese. Così si intensificano i controlli su quel gruppo, anche se non fa niente di più di quanto stanno facendo molti altri gruppi dell’estrema sinistra. Perché allora tanta attenzione? La risposta è semplice: Valpreda è stato prescelto. Se la situazione politica dovesse richiederlo può essere un comodo capro espiatorio. Non importa che non stia facendo nulla di particolarmente grave: è anarchico, fa parte di un gruppo che, in pratica, si è autoisolato dagli altri anarchici romani, fa discorsi arroventati, lancia (o forse ne parla soltanto) qualche molotov. La sua immagine risponde al copione che gli si potrebbe affidare. Non importa se innocente.

Solo ragionando secondo questa logica si può comprendere come mai Calabresi subito dopo le bombe chieda a tutti gli anarchici fermati, con insistenza, notizie di «quel pazzo criminale di Valpreda». Calabresi sa che c’è della ruggine tra Valpreda e Pinelli, così come sa che l’anarchico romano Aldo Rossi non vede di buon occhio «quel milanese che fa solo casini». Forse è anche convinto che buttando quell’accusa di strage contro Valpreda, gli altri anarchici non reagiscano. Accusino il colpo che li coinvolge come immagine, ma che dopotutto si circoscrive solo a Valpreda e a qualcuno del 22 marzo. Ma il commissario si sbaglia. Anche perché ci scappa il morto: Pinelli.

Bombe e segreti. Piazza Fontana: una strage senza colpevoli
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