5.

«Caro K., sicuramente tu che sei anche uno scrittore conosci molti fatti fuori dell’ordinario e storie singolari… Tuttavia non so da dove cominciare perché tu comprenda appieno la mia strana storia. E forse anche se ascolterai fino alla fine ciò che ti dico non sarà facile per te crederci». Tomoda Ginzō scolò un altro bicchiere di cognac.

È accaduto quest’anno, nel giugno del 14° Taishō [1925]. Era la prima volta che mi incontravo al Café Sans-Souci di Kōbe con Tomoda, che da allora non avevo più visto.

«Sono nato nel villaggio Yagyū, distretto Soegami, provincia di Yamato. La mia è un’antica famiglia di quel territorio e discende da Matsunaga Hisahide. Quindi il mio nome sul registro di famiglia è Matsunaga Gisuke. Mi chiederai allora chi fosse l’altro Matsunaga Gisuke che hai incontrato nel marzo di tre anni fa. D’accordo, aspetta; lo capirai seguendo il mio racconto. A venticinque anni, nel 38° Meiji [1905], ricevetti in moglie una donna di nome Shige. Devo dire che non ero innamorato di lei. In quei giorni avevo appena finito l’università e non mi andava di sposarmi. Ad ogni modo secondo le usanze di una famiglia così antica, dopo la morte di mio padre, visto che ne ero divenuto il capo, non potevo divertirmi e trascurare all’infinito gli affari di casa. Riluttante, obbedendo all’ordine di mia madre, ritornai da Tōkyō e dovetti prendere in moglie Shige. Naturalmente ero scontento. Non potevo sopportare l’idea di vivere tutta la mia vita in quella campagna sperduta. Dopotutto ero giovane, ed essendo per me il tempo degli ardori giovanili non riuscivo a sopportare una vita priva di stimoli. Inoltre per natura ero un epicureo, un pigro, e non mi piaceva molto lavorare. E per di più, dato che per quanto mi divertissi non mi mancavano certo i mezzi di sostentamento – sarà stata fortuna o sfortuna – appena avevo del tempo libero non facevo altro che fantasticare di rincorrere il piacere. Bramavo di continuo la grande città. Non mi era possibile andare fino a Tōkyō, ma in un modo o nell’altro, col pretesto degli affari, andavo spesso a Kyōto e a Ōsaka e spendevo il mio denaro in luoghi come Gion e Shinmachi. Stanco di divertirmi con le geisha, ricercavo di continuo piaceri nuovi. Solo questo mi era permesso di fare in quel periodo e la disperazione fu in parte la responsabile di ciò che avvenne in seguito. Nel frattempo morì mia madre, e con la sua scomparsa si dissolsero gli ostacoli. Anche se avevo ancora dei parenti fastidiosi, ormai non c’era più nessuno da temere. E così all’improvviso cominciai a essere impaziente. Ormai ero libero di andare dovunque mi pareva. E se avessi trovato un paese interessante avrei perfino potuto non ritornare più in Giappone! Alla fine decisi di andare a Parigi, dove desideravo recarmi già da molto tempo.

Proprio come sai anche tu adesso, benché io sia giapponese conduco una vita quasi da occidentale, e questa mia vita sembra essere tutta presa dalla passione per le donne e per l’alcol. Non mi dicono più di tanto né il sake né le donne giapponesi, ma adoro in modo esagerato l’occidente dalla A alla Z. A ripensarci ora, può darsi che questo mio modo di vedere abbia avuto origine in quella vecchia famiglia di campagna: forse sarà stata una reazione al peso delle antiche usanze. O forse sarà nato nel periodo in cui vivevo a Tōkyō e una volta o due andai a Yokohama su consiglio di un certo mio cattivo compagno. Feci infatti delle visitine ai quartieri di piacere dei bianchi, un misterioso paese di sogno dove i giapponesi non avevano accesso che di rado. Fu in ogni modo da quel periodo che cominciai a maledire gli atteggiamenti orientali: tutti opprimenti proprio come lo erano nella casa del villaggio Yagyū. “Buon gusto” e “raffinatezza” sono all’opposto della spontaneità. Non hanno niente a che fare con le persone sane, i giovani, gli esseri umani dalla vitalità autosufficiente; sono cose di cui gioiscono, tanto per fare un esempio, i vecchi decrepiti che danno valore a situazioni insignificanti e inevitabili. In breve, è una mentalità perversa e passiva ed è senz’altro un principio gretto e falso. Anche quando si tratta di apprezzare un piacere, gli orientali non ne approfittano del tutto ma si limitano a goderlo al cinquanta-sessanta per cento. Ci si giustifica dicendo che in questo modo si esprime il fascino della moderazione e del mistero. Ma in verità non c’è niente di suggestivo o del genere; il fatto è che la natura non ha dotato gli orientali della forza necessaria a soddisfare tutti gli stimoli come vorrebbero. Per esempio, quando cantano una canzone non tirano fuori tutta la voce che hanno in gola; definiscono iki cantare con voce roca5. Anche quando una donna appare davanti a un uomo non cerca di mettere in mostra al meglio la sua bellezza fisica, ma al contrario finisce per nasconderla più che può con l’obi e le larghe maniche del kimono6; questo viene definito iroke7. In realtà è la loro natura a essere limitata. Anche se desiderassero tirar fuori tutta la voce, i suoni acuti uscirebbero solo in falsetto; non hanno una respirazione regolare. E anche se aspirassero a sciorinare la loro bellezza, la pelle si rivelerebbe scialba e le linee di mani e piedi irregolari. Quindi, dato che non hanno scelta, iki e iroke sono solo delle mistificazioni. Visto che la pensavo così, provavo disprezzo verso i gusti orientali. La faccia giallastra degli orientali mi dava il voltastomaco. Il mio unico dispiacere era che anch’io mi trovavo in possesso di una faccia del genere. Ogni volta che mi guardavo allo specchio sentivo l’infelicità di essere nato in un “paese giallo”. Avevo la sensazione che più a lungo vi fossi rimasto più la mia faccia si sarebbe ingiallita. Desideravo scappar via il più presto possibile da questo paese tetro, deprimente e privo di entusiasmo, e fuggire in occidente. Lì non ci sono i gusti contorti che qui vengono definiti iki o sabi e c’è la musica che canta il piacere a voce spiegata. Ci sono corpi che quanto più apertamente vengono mostrati, tanto più sono belli. Quello che vi si trova è il contrario della suggestione poetica, è il contrario del significato implicito. Sono le tinte forti, gli stimoli viziosi, l’alcol che infiamma la lingua, un godere sfrenato, un mondo di ebbrezza che non conosce sazietà. Fu questo il motivo per cui misi gli occhi su Parigi come terra promessa.

Quando partii era l’estate del 39° anno Meiji [1906]; in quel periodo Shige aspettava un bambino. Dato che in cuor mio ero risoluto a non tornare più in Giappone, lasciai una rendita in modo che la mia famiglia non avesse almeno preoccupazioni economiche. Credo che Shige fosse vagamente consapevole delle mie decisioni e che dentro di sé abbia provato risentimento verso il mio egoismo e abbia perfino pianto… Comunque, conoscendo il mio temperamento egoista, non ebbe altra scelta se non ubbidire docile ai miei ordini. Alla partenza provai un po’ di pietà per lei, ma appena salito sulla nave mi dimenticai di tutto. Infatti non ebbi neppure bisogno di approdare in Francia: lasciato il Giappone, subito il piacere crebbe in me a poco a poco già da quando giunsi a Shanghai. A esser sincero in ogni porto mi innamoravo di una donna del posto. Dovunque mi trovassi pensavo che invece di andare a Parigi avrei vissuto con quella donna al mio fianco in quel porto. Ma quando arrivavo in quello successivo mi accoglieva un mondo più nuovo e sconosciuto. Più mi allontanavo dal Giappone, più la mia infatuazione si faceva profonda e l’ebbrezza più forte. Così la mia vita decadente raggiunse il culmine una volta arrivato a Parigi.

Sfarzo, dissipazione, vizio, deformità quasi inimmaginabili per la modesta mente degli orientali, un vortice lussurioso e vertiginoso che non lasciava niente all’immaginazione… Quella è la Parigi in cui sono stato, il luogo che avevo visto soltanto in sogno come un paese di piaceri carnali irraggiungibile in questo mondo. Era naturale che venissi travolto da un tale vortice, nel quale avevo intenzione di abbandonarmi anima e corpo. Un epicureo è abituato a soccombere a causa del piacere. Se finirà col morire con il corpo paralizzato dal veleno del vino, del tabacco, delle leccornie, delle donne, sarà stato soprattutto lui che l’ha voluto. Ogni volta che annegavo nel piacere, avevo la sensazione che quella fosse davvero l’ultima volta. Mi divertivo a pensare che la morte sarebbe potuta arrivare in ogni momento. Questo “presentimento di morte”, invece di intimidirmi, mi faceva precipitare baldanzoso negli abissi infernali. “La morte”, pensavo. Ma proprio per questo donne e liquori mi affascinavano in modo sempre più intenso.

E così, nell’anno e mezzo che seguì il mio arrivo a Parigi, assimilai nella sua completezza “l’occidente” dal punto di vista sia fisico sia mentale. Chiunque, facendo un viaggio in occidente, tende a diventare un po’ maniaco delle usanze locali; ma devono essere ben poche le persone che in un breve periodo di tempo cambiano in tutto e per tutto, perfino nel fisico, come me. Non realizzavo che il cambiamento fosse stato così radicale, ma quando mi imbattevo casualmente in un giapponese per la strada, nessuno ormai mi riteneva un connazionale. Alcuni mi facevano italiano, altri spagnolo. Fu una sera a un caffè con un’amica che me ne stupii io stesso. Al tavolo proprio accanto al nostro si sedette un giapponese; quando lo guardai mi accorsi che era S., una mia vecchia conoscenza, con cui avevo avuto rapporti abbastanza amichevoli nel periodo universitario. Pur guardando nella mia direzione, S. restò indifferente. Mi stupii e mi domandai il perché del suo atteggiamento. Ecco! Ero a tal punto diverso dal passato che S., perfino fissandomi, non mi riconosceva proprio. Quando me ne resi conto fui al colmo della felicità. Mi alzai di proposito e mi piazzai davanti a lui. Gli rivolsi la parola in francese; ma ancora una volta, pur sentendo la mia voce, non mi riconobbe. Ne fui davvero contento e ritornai di corsa nella mia stanza; mi osservai con attenzione allo specchio. Poi mi venne in mente che avevo delle fotografie fatte in Giappone al tempo della mia partenza; le tirai fuori e provai a fare un paragone. Dio mio, cos’era successo! Come era stato possibile che, nel breve periodo di circa un anno e mezzo, pur essendo cambiate le circostanze di vita, fossero così mutati i lineamenti, la figura, il colore della pelle, l’espressione degli occhi, oserei dire l’uomo stesso? Quando ero al mio paese ero magro; durante la navigazione, dato che eccedevo nel bere giorno e notte, cominciai a ingrassare. Quando poi arrivai in Francia, dato che non potevo più indossare gli abiti di prima, capii che stavo ingrassando in fretta. Tuttavia fino al momento in cui provai a confrontarmi con le foto, non mi resi conto che questo aveva modificato tutta la mia figura. Quando guardavo l’uomo che ero stato in passato, pensavo: “Senza rendermene conto, più che essere cambiato sono diventato un’altra persona! L’uomo di nome Matsunaga Gisuke, discendente di Matsunaga Hisahide, nato nel villaggio Yagyū del distretto Soegami della provincia di Yamato, è scomparso inosservato da questo mondo. Al suo posto c’è qui un uomo, in piedi davanti allo specchio, un uomo di cui non si conoscono né la razza né la nazionalità, che potrebbe essere giapponese, italiano, spagnolo… Ecco quello che sono ora”. La sensazione che provavo nel momento in cui pensavo queste cose era, come dire, qualcosa di simile a un misterioso terrore. Spesso nei racconti occidentali di fantasmi sono citate storie in cui appare un essere umano del tutto uguale al personaggio. A me era successo il contrario: io, così come ero, avevo finito col trasformarmi in un altro. In un certo senso mi sentivo come se fossi posseduto dal diavolo. Osservai di nuovo attentamente la foto di quel Matsunaga Gisuke e pensai: “Ero così fino a un anno e mezzo fa? È davve-ro naturale allora che S. non abbia potuto riconoscermi”. Infatti io stesso non potevo assolutamente pensare, guardandola, che quella fosse la mia foto!

E così non ero più Matsunaga Gisuke. Il giapponese sconosciuto che era ritratto in questa foto, l’orientale magro con la faccia malinconica, non aveva proprio alcun rapporto con me. Questo era il grido che sgorgava dal mio cuore, e gettai la foto per terra. Nel mio petto in quel momento fiorì una nuova felicità. Non ero più un giapponese. Quando pensai che ero diventato occidentale fino all’osso intonai eccitato una canzone trionfale e, le mani alte sopra la testa, ballai come un pazzo. I cibi giapponesi, le varie usanze giapponesi, gli abiti giapponesi e il resto, tutto veniva a galla nella mia memoria, non come un’esperienza del mio stesso passato, ma come se appartenesse alla vita di una barbara razza orientale. Se da Marsiglia, qui in Francia, sali in nave e navighi per ben un mese e mezzo andando sempre più verso est, finisci per trovare un’isola chiamata Giappone. Le persone lì hanno facce giallastre, vivono in case tetre, quando parlano lo fanno a voce bassa biascicando fra i denti, la mattina mangiano una minestra di miso in scodelle di lacca nera8. Che vita malinconica e senza colore! E poi non ci sono né letti né sedie, e quando si è svegli ci si siede per terra in stanze dal soffitto basso. Solo a immaginare quella limitatezza mi si bloccava il respiro. Se l’“io” del momento, che non era Matsunaga Gisuke (in quel periodo mi chiamavo Jacques Moran), fosse stato reinserito in tale vita, sentivo che non avrebbe potuto resistere neppure un giorno.

Mi chiederai allora perché adesso sono in Giappone e perché non sono rimasto in occidente fino alla morte. Beh, direi che proprio a quel punto il diavolo ci mise la coda. Mi spiego. Come ti ho appena detto ero diventato un fanatico adoratore di Parigi, dove ormai non facevo altro che vivere giorno dopo giorno nella dissipatezza. Non avevo la minima voglia di tornare in Giappone, neanche da morto. Il mio corpo si era fatto sempre più grasso e rotondo, e al mio massimo pesavo sui settantasei chili9. Inoltre anche il colore della pelle si era schiarito e sulle mie guance risplendeva brillante un colorito roseo. Così un ritorno dovuto alla morte non sembrava probabile dal momento che non avevo per niente l’aspetto di uno che sta per morire, e bevevo il liquore del piacere sempre più fino in fondo. Bevevo e bevevo, ma non conoscevo la sazietà. Se l’uomo vuole restare in salute, deve vivere una vita attiva, intensa, allegra secondo i canoni occidentali. Deve essere avido finché non è sazio fino al punto desiderato: sia d’appetito sia di lussuria. Il negativismo dello stile di vita orientale, al contrario, rende deboli gli uomini. Guarda me! Non pensi che sia diventato più forte ora, dopo che mi sono assuefatto all’occidente? Per quanto mi diverta e trascuri la mia salute, non è forse vero che sono rapidamente ingrassato? Questo fisico robusto è la prova che meglio di ogni altra attesta la vittoria del positivismo. Acquisii questa convinzione a poco a poco e la mia audacia non conobbe più limiti. Parliamo dei divertimenti della vita di quel periodo. Il clima era mite, i cibi deliziosi, non c’era nulla di cui doversi preoccupare, le avventure amorose si susseguivano una dopo l’altra, e se giocavo d’azzardo non facevo che vincere… Sembrava davvero di navigare a gonfie vele in un infinito mare di felicità. Inoltre nel portafoglio c’era ancora abbastanza denaro, e anche se lo sperperavo c’erano tanti modi di guadagnarsi il pane se non ci si preoccupava della degradazione morale. Questa era Parigi, dove perfino un negro d’Africa può fare una vita divertente. E non si può dire che non si potessero imitare i negri. E poi, nel peggiore dei casi potevo almeno morire come un barbone. Prendevo quindi le cose alla leggera. Ma ecco il diavolo di cui ho parlato prima arrivare proprio nel bel mezzo di tutto questo. Accadde un pomeriggio di bel tempo: se fossi stato in Giappone l’avrei definita una dolce giornata primaverile. Passeggiavo per un boulevard, gli alberi che fiancheggiavano la strada erano molto belli e d’un tratto mi fermai a guardare il cielo azzurro attraverso la cima dei platani. In quel momento, non so perché, ebbi un tremito e mi sembrò che tante piccole bollicine salissero su verso il cielo. All’improvviso davanti ai miei occhi tutto si rabbuiò e per poco non caddi pesantemente a terra. Fu questione di un solo istante. “Davvero strano”, pensai. Quando mi fui del tutto ripreso, non ci feci più caso e per quel giorno mi dimenticai di quanto era successo. In seguito, comunque, di tanto in tanto mi capitarono altri attacchi: quando guardavo in alto all’improvviso, la testa mi girava. Provavo un senso di intensa oppressione, come se avessi un peso alla nuca che mi tirasse giù. A poco a poco mi capitò di trasalire non soltanto quando guardavo in alto, ma anche quando guardavo in basso. Una volta mi caddero i guanti per strada, e quando feci per chinarmi a raccoglierli, per lo sforzo tutto il sangue che avevo in corpo affluì alla testa e le vene intorno al collo si gonfiarono come se stessero per scoppiare. La faccia mi si fece rossa come un polpo bollito e quasi svenni rischiando di cadere a terra. Era proprio strano. Cosa mi stava succedendo? In quel momento rimasi un po’ confuso. Comunque, dato che in certi casi capita perfino alle persone che scoppiano di salute di avere dei capogiri, pensai che probabilmente fosse una cosa da niente, che doveva trattarsi di un fenomeno passeggero, e minimizzai il pericolo. Tuttavia, ogni volta che mi chinavo per allacciarmi i lacci delle scarpe o per lavarmi i capelli, non mi sentivo affatto bene. Per citare un caso estremo, un giorno al ristorante davanti a una minestra calda, all’improvviso il sangue cominciò ad affluirmi violentemente alla testa; stavo per perdere i sensi e per afflosciarmi sul piatto. Ricuperai i sensi nel momento in cui stavo quasi per toccare la minestra con la punta del naso, ma presi uno spavento terribile. Poteva essere colpa del fatto che la minestra era calda, ma se mi era salito il sangue alla testa solo a chinarmi sul piatto, non potevo certo andare tra la gente fingendo che niente fosse accaduto. Chissà se si trattava di un esaurimento nervoso? Oppure chissà, oltre all’esaurimento, mi aveva colpito un brutto male alla testa?… È strano a dirsi, ma a questo punto d’improvviso fui preso dal panico. Benché fossi lungi dal mutare le mie convinzioni che mi avevano portato a pensare che nel peggiore dei casi sarei morto sul bordo di una strada, d’un tratto, soltanto per un po’ di vertigini e di sangue alla testa, mi vennero le palpitazioni e diventai pauroso e ansioso all’eccesso. La paura si infiltra furtiva nel cuore degli uomini e avanza inesorabile; per quanto tu sia preparato alla morte, non c’è modo di tenerla sotto controllo. In breve “indifferenza verso la morte” e “terrore della morte” coesistono. Non mi importa di morire, però mi fa lo stesso paura! Quando ne venivo assalito, anche le cose più insignificanti mi terrorizzavano. Pensavo: “Ehi, tu! Anche se dicevi che non ti importava di morire, quanta paura per una cosetta da niente!”, e senza motivo alcuno cominciavo a tremare in tutto il corpo, il volto si faceva terreo, di un pallore mortale, mi venivano i sudori freddi ed ero molto vicino a svenire. Quando tutto questo mi accadeva all’improvviso, per esempio in mezzo a una strada o tra la folla, cominciavo a correre freneticamente come un pazzo in delirio. Mi strappavo i capelli. Se accadeva quando ero a casa, prendevo a calci il pavimento di legno e davo colpi a porte e pareti o scagliavo via a casaccio le cose che mi trovavo intorno, o correvo al lavandino e mi spruzzavo acqua sulla testa. Le palpitazioni diventavano sempre più violente, il cuore sembrava sul punto di scoppiare. Questa paura durava soltanto cinque o dieci minuti, e in genere si placava dopo due o tre bicchieri di brandy. Ma dato che non sapevo in quale momento sarebbe avvenuto, ogni giorno tremavo per il timore che mi assalisse. Ovunque fossi, non mi separavo mai dalla mia bottiglia di brandy.

Questi assurdi attacchi di terrore all’inizio si limitavano a venirmi quando ero da solo e in quel periodo era facile controllarli dato che all’infuori di me non c’era nessun altro che li notasse. Ma a poco a poco non fu più così. A quel tempo ero innamorato di una ballerina di nome Susan, e la vedevo giorno e notte. Una sera mi trovavo con lei, come sempre, nel luogo dei nostri appuntamenti e, seduti su un divano, ci scambiavamo dolci sussurri. Il colore della sua pelle era di un candore particolare, e i miei occhi guardavano le sue braccia nivee come se quella bellezza mi colpisse per la prima volta. “Che splendida pelle” pensavo sempre, ma quella sera l’osservavo particolarmente affascinato. Era come se mi avessero rapito l’anima mentre guardavo estasiato quel braccio. Ma quando a poco a poco spostai lo sguardo per ammirare le spalle, ancor più luminose e candide del braccio, all’improvviso mi venne la pelle d’oca. Appena i miei nervi ottici furono esposti all’eccezionale lattescenza della pelle delle spalle, in un batter d’occhio sentii le vertigini arrivare e un brivido freddo attraversò il mio petto. Le sensazioni che provai pensando: “Che biancore, che bellezza”, immediatamente si trasformarono in una sorta di terrore e le gambe mi tremarono proprio come quando dalla cima di un alto precipizio si osserva il profondo abisso di un crepaccio. Sarebbe ridicolo pensare che a spaventarmi sia stato il bianco della pelle della ragazza; c’è da dire però che era di un candore straordinario e in più si trattava di una parte del corpo della donna che amavo; il cuore di chiunque avrebbe palpitato e tutti avrebbero sentito un leggero brivido. In breve quello per me fu uno stimolo eccessivo. Susan mi fece: “Ehi, tu, cos’hai? Hai un viso così pallido…”, e si strusciò a me per coccolarmi. Ma a ciò il mio terrore raggiunse il culmine, dato che sentivo sempre più palpabile la vicinanza di quella pelle nivea. In delirio respinsi la sua mano, corsi al lavandino e mi gettai dell’acqua sulla testa. Ricordo che gridai: “Susan, Susan. Del brandy! Svelta, svelta!”, poi persi conoscenza.

Ah, sono un uomo davvero sfortunato! Benché possegga una donna così attraente ormai non ho più il vigore per godere del suo amore! Ritornai a casa dopo essermi liberato dell’abbraccio di Susan; pensare a queste cose mi faceva sentire davvero misero. Dato che eravamo d’accordo di incontrarci anche il giorno dopo, il mio primo dilemma era come trovare una soluzione. Piuttosto che mostrare un comportamento ridicolo come la sera precedente e provare disgusto per lei, non sarebbe stato meglio abbandonarla? Eppure non è che Susan non mi piacesse. In fondo non ce la facevo a resistere al pensiero che quella donna mi stesse aspettando anche quella sera e volevo vederla. Dopo che l’attacco mi era passato del tutto, perfino il colore di quella pelle candida era causa di un fascino indimenticabile ben lungi dal provocare paura. Mi era impossibile abbandonare una donna simile e il desiderio aumentava. Alla fine mi decisi, e pregando in cuor mio perché l’attacco non sopraggiungesse, andai da lei. Da allora continuai a incontrarla; tuttavia la maggior parte delle sere, forte o leggero, l’attacco arrivava. Non era soltanto la bianchezza della sua pelle a mettermi in estrema difficoltà, ma anche tutto ciò che era bello e piacevole. Se gli stimoli diventavano troppo forti, non potevo resistere. Quando, avventato e presuntuoso, cercavo di salire fino all’apice dei piaceri dell’amore, l’abisso del terrore si apriva all’improvviso, e di colpo venivo sospinto con un tonfo nelle profondità della fredda terra. Quando le sue labbra ardenti si avvicinavano alle mie, quando le nostre braccia si avvinghiavano come se non volessero più separarsi per l’eternità, quando flirtavamo innocentemente, ecco l’attacco approfittarne. Quando il grado di piacere era intenso, altrettanto violento era il grado del terrore e pareva frantumare il piacere in piccoli frammenti. Così, perfino quando l’attacco non giungeva, ero intimidito dal presentimento del terrore e non potevo immergermi in tutto il piacere come avrei desiderato. Ironia della sorte! Io che credo in una vita attiva, nell’epicureismo portato all’eccesso, non potevo metterli in pratica e mi sentivo davvero in trappola!

Caro K., vorrei che tu mi facessi il piacere di ascoltare ciò che ti dirò ora. Immaginerai come dopo essere precipitato in una situazione così misera giorno dopo giorno soffrissi agonizzante… Il cielo di Parigi era come sempre di un blu smalto senza nuvole; il sole splendeva luminoso e una miriade di belle donne camminava per le strade. Tutto questo per me non era più di alcun conforto, perché se guardavo verso quel cielo mi girava la testa, se la luce del sole mi abbagliava il sangue mi saliva al cervello, se guardavo quelle bianche carni la paura cominciava a farsi sentire. La vista mi si era tanto indebolita che non sopportavo più i raggi del sole. Mi rintanavo in stanze buie dove i raggi del sole non entravano e, acquattato come una talpa, stavo lì a rimuginare. Cominciò allora inaspettatamente a tornarmi in mente la casa nel mio vecchio villaggio nella provincia di Yamato, dove potevo trovare gentilezza e tenerezza, oscura proprio come la stanza in cui mi trovavo in quel momento. Avevo abbandonato quella casa da appena uno o due anni, ma mi sembrava un ricordo del lontano passato, davvero remoto. Per oltre vent’anni dopo la mia nascita, avevo vissuto seguendo le antiche tradizioni: l’usanza di tenere accesa la notte, mentre si dorme, un andon, una lampada a stelo ricoperta di carta di riso; la debole luce che illumina fiocamente il bordo del letto; i pannelli del soffitto e il pilastro centrale anneriti dal fumo della lampada; il volto assopito della moglie addormentata pigramente con una vestaglia addosso sotto quella luce fioca… “Ah, non devo pensare alle cose del Giappone”. Comunque, più cercavo di non pensarci più il loro ricordo continuava a rivivere nel mio cuore come una dolce memoria. E non si trattava soltanto del mio paese natio. Ripensavo anche ai quartieri di piacere di Gion e Shinmachi, al misterioso e riservato tono della musica dello shamisen, al suono roco e pieno di fascino10. Prima erano cose che rifiutavo come gusti falsi e perversi ma ora, stranamente, al solo immaginarle provavo la sensazione che i miei nervi agitati si calmassero. Anche per quanto riguarda il colore della pelle femminile, adesso mi sembrava che più del bianco fosse la sfumatura giallo-ocra ad avere in sé tenerezza e dolcezza. Mi pareva che un carnato così mi avrebbe trattato con sincera gentilezza. E poi mi venne in mente il profumo del quotidiano misoshiru; ripensai al gusto raffinato e ai tenui colori che avevano le verdure in salamoia, il riso, il brodo di alga konbu, le fettine di dentice crudo allineate sul basso tavolino da pranzo11. Provavo a insultarmi: “Eccoti diventato un nostalgico del Giappone! Stupido! Codardo!”, ma una volta che cominciai a provare queste sensazioni, non ci fu più rimedio. Paragonavo tutto ciò che vedevo o sentivo con i gusti orientali. L’occidente mi sembrava solo appariscente, dissoluto e frivolo. Per quanto mi sforzassi di non pensarci, sentivo anche un continuo mormorio nelle orecchie, un sussurro che mi istigava: “Sei un orientale, ti dico! Per quanto tu possa adorare l’occidente non puoi trasformarti in un occidentale fino in fondo!” Dovunque andavo, mi perseguitava immancabile. A ognuno dei tre pasti quel sussurro mi diceva: “Che ne dici? Reputi gradevole mangiare usando vetro brillante e stoviglie di metallo? Che ne dici di questa tovaglia? E di questo piatto di porcellana? Non c’è dubbio che sia igienico, ma non possiede né raffinata semplicità né spessore! Non preferiresti mangiare con i bastoncini in una scodella di legno laccato? Non è più soddisfacente per lo stomaco? Non pensi che sia da selvaggi cibarsi usando forchetta e coltello? Non ti sembra un modo di mangiare più vicino agli animali che agli uomini?” Se andavo all’opera, il sussurro di nuovo si lasciava sfuggire un velenoso sogghigno: “Fai pure finta di essere affascinato dalle canzoni e dal teatro degli occidentali! Per quanto mi riguarda, ti posso capire! Ascolta il canto di quel soprano e di quel baritono. Ammettiamo pure che abbiano un certo volume di voce e che il tono sia alto; ma sembra proprio l’abbaiare di una bestia. Ecco. Quando quelli lì tirano fuori una voce possente, i timpani delle tue orecchie sibilano come se stessero per scoppiare. E allora brami riascoltare le canzoni cantate allo shamisen dalle voci velate della gente del tuo paese natale. Dimmi, non è questo il tuo reale desiderio?” Il sussurro a poco a poco si fece forte e frequente e alla fine lo udii chiaramente. “Ritorna in fretta in Giappone. Non rimpiangerai di aver seguito il mio consiglio. È la costituzione fisica degli orientali che viene presa dalla paura quando eccede troppo nel guardare cose bianche e luminose. Un orientale viene senza dubbio colto da un esaurimento nervoso a vivere in mezzo a questi colori sgargianti. Per quanto tu cerchi di amare una donna bianca, è la tua costituzione fisica a non permettertelo”.

Opponevo resistenza a questa voce, ma giorno dopo giorno il terrore cresceva più intenso, non c’era assolutamente niente da fare. Così tutti i modi di vivere in stile occidentale mi causavano ansietà e brividi. Quando camminavo lungo un alto edificio, quando andavo su e giù in ascensore, quando correvo in auto ad alta velocità, quando passeggiavo sui marciapiedi e sui pavimenti di legno rigidi e duri, quando ero in una stanza circondato da quattro mura senza vedere nulla di paragonabile alla “grana di legno”… E poi gli odori: del cerone, del profumo, dei vestiti, dei cibi… gli odori caratteristici della razza bianca che si infiltrano dappertutto mi stancavano e mi facevano rivoltare lo stomaco. “Bene, bene. Ormai che siamo a questo punto non c’è più niente da fare. Non puoi stare in questo paese né vivo né morto. Prova a salire sulla nave, prova ad allontanarti dalla costa anche soltanto un po’; se lo farai comincerai a sentirti sollevato. Le palpitazioni e i nervi si calmeranno subito. Prova a farlo, anche se pensi che sia una trappola”. Era come se qualcuno mi tirasse per una manica. Da una parte pensavo che il ritorno in Giappone fosse terribile, ma dall’altra c’erano delle cose che facevano pressione su di me dal di dentro, suggerendomi di fuggire in fretta. Salii precipitosamente su una nave della compagnia Yusen, in parte con un senso di liberazione, in parte con la sensazione di essere trascinato indietro per i capelli. Dal ponte osservavo il porto di Marsiglia che si allontanava…

Caro K., forse te ne ricorderai: ti ho incontrato per la prima volta al Café Kōnosu di Koamichō, verso la fine del 41° anno Meiji [1908]. A dire la verità in quel momento ero appena arrivato in Giappone. Quando sbarcai a Kōbe non feci sapere del mio arrivo alle persone del mio paese e me ne andai direttamente a Tōkyō. In un certo senso infatti nel mio cuore era rimasto ancora un sentimento di ribellione verso i gusti orientali; inoltre ritenevo disgustoso ritornare come un codardo al paese. A Tōkyō mi imbattei in due o tre conoscenti; dato che nessuno si rese conto che ero Matsunaga Gisuke pensai che, dopo aver recuperato le forze standomene nascosto per un po’ in qualche località termale ed essermi completamente ripreso dall’esaurimento nervoso, avrei cercato un modo per tornare di nuovo in occidente. Così quando ti incontrai usai per la prima volta uno pseudonimo a casaccio, e cioè Tomoda Ginzō. In seguito però non solo la mia salute non ebbe alcun miglioramento, ma anzi peggiorò sempre di più. L’appetito diminuì; anche il desiderio sessuale a poco a poco non si fece più sentire; ormai non riuscivo a bere più neppure un sorso di alcol. Perfino il brandy, che usavo come una specie di stimolante, ora faceva aumentare il terrore. Così, dalla fine di quell’anno all’autunno seguente, mi recai in varie stazioni termali – Hakone, Ikaho, Beppu – e infine mi rinchiusi in una che nessuno conosceva in una montagna dello Shinshū. Provai a vivere come un monaco zen tenendo lontani tutti gli stimoli. Ma non ci fu nessun miglioramento. Il mio corpo si consunse, non avevo più neppure la forza di camminare, e anche quando salivo o scendevo le scale barcollavo. Pensavo che andando avanti così sarei forse morto. Mi chiedevo: “Come staranno le persone del mio paese? Se tornassi a casa e ricevessi le cure della mia tenera moglie non guarirei forse?”, e piangevo a dirotto. Mi veniva in mente il suo volto rigato di amaro pianto la sera di quattro anni prima quando le dissi addio. Ah, è vero che in quel periodo era incinta! Se quel bambino era nato e cresciuto bene, ormai doveva essere entrato nel suo quarto anno… Sentivo una creatura innocente che tendeva le mani e che chiamava “babbo, babbo”. E sentivo anche la voce di mia moglie che abbracciandola la cullava: “Su, non piangere. Il babbo tornerà certamente”. Mentre la nostalgia del paese natio mi penetrava in tutto il corpo, il mio fisico si faceva sempre più debole, ed ero arrivato al punto di starmene tutto il giorno a letto come un malato impossibilitato ad alzarsi. Una volta, chiedendomi fino a che punto ero dimagrito, presi d’un tratto lo specchietto che era di fianco al letto e mi guardai. La faccia con gli zigomi sporgenti, la barba incolta, l’espressione degli occhi, dalla testa ai piedi, senza accorgermene ero ritornato il Matsunaga Gisuke del passato!

Questa volta la mia sorpresa fu molto più grande dello stupore che mi aveva provocato la trasformazione nell’albergo di Parigi. Fu una cosa inquietante. Senza alcun dubbio solo fino all’anno scorso ero un uomo chiamato Jacques Moran, di cui non si capiva né razza né nazionalità, che poteva essere un giapponese, un italiano, uno spagnolo. E poi ero l’uomo che quando ti incontrò la prima volta si faceva passare per Tomoda Ginzō. Fino all’anno scorso dovevo essere sicuramente quell’uomo. Ma quando ritornai a essere di nuovo il Matsunaga Gisuke originario, e questo a mia insaputa, che tipo di persona ero mai? Il vero “io” qual era? Un fisico così strano che nel giro di un anno si era trasformato in una persona del tutto diversa a chi altro poteva appartenere se non a me?»

Tomoda Ginzō raccontò fin qui tutto d’un fiato come se fosse guidato da qualche forza invisibile; poi si sporse ancor più in avanti e continuò: «Comunque non c’è solo questo di strano. Da allora decisi di ritornare al paese e vivere ormai nell’oscurità tutta la vita nella mia terra natia come padre e marito profondamente affezionato. Per quanto riguarda i miei movimenti di quel periodo, come saprai dalle lettere che ti ha scritto Shige, dall’autunno del 42° anno Meiji [1909] fino alla primavera del 1° anno Taishō [1912], e cioè per quasi quattro anni, vissi nella mia casa del villaggio Yagyū. Era una vita solitaria, cupa e priva di stimoli, ma quella monotonia e quella desolazione riuscirono a calmare i miei nervi e a eliminare la mia ansia. Nelle vicinanze c’erano tanti posti famosi e templi buddhisti sufficienti a confortare un cuore inasprito. A marzo sbocciano i fiori di susino di Tsukigase, ad aprile si schiudono i ciliegi di Yoshino, a maggio fioriscono i glicini di Nara e germoglia l’erba nuova. Con mia moglie e mia figlia esplorammo lo scenario primaverile in Yamato e facemmo un pellegrinaggio a vari templi, come il Nan’endo, il Tōdaiji, lo Yakushiji, lo Hōryūji. Quando unimmo le mani in preghiera davanti alle immagini di Buddha negli antichi templi, nel profondo del mio cuore fiorì una grande commozione per il fatto di essere un orientale. Non era forse capitato anche a mio padre e a mia madre di venire in pellegrinaggio a questi luoghi e di venerare le stesse immagini sacre? I nostri antenati non si prostravano anch’essi proprio dove la mia famiglia si inginocchiava ora? A questo pensiero, mentre riverivo l’immagine di Buddha, mi sentii commosso come se mio padre e mia madre vigilassero su di noi da un lontano passato. E così sembrava che avrei vissuto tranquillo il resto della mia vita senza più preoccupazioni ma, come ho detto prima, dopo quasi quattro anni ancora una volta vi fu in me un cambiamento imprevisto. All’epoca in cui ero molto debilitato pesavo solo poco più di quaranta chili, ma in seguito, quasi senza che me ne accorgessi, un po’ alla volta misi su carne e superai i quarantacinque. Piano piano i miei gusti cominciarono a cambiare. Dato che eravamo in una sperduta campagna, non si mangiava carne e solo raramente del pesce fresco. Sebbene subito dopo il mio ritorno in Giappone mi piacessero cose semplici come misoshiru, ortaggi in salamoia, verdure e frutta fresca, a poco a poco il mio palato cominciò a richiedere cibi più grassi e conditi. La mia vita non poteva andare avanti se mangiavo solo quelle cose. A volte, seduto davanti al mio vassoio, tiravo un profondo sospiro e mi tornavano in mente la fragranza del filetto alla Chateaubriand e il profumo della bouillabaisse che mangiavo a Parigi. Avevo voglia di divorare cose che colmassero il mio ventre, cose piccanti che bruciassero la lingua, cose che mi facessero ribollire il sangue. Le ghiottonerie sono terribili, e quando non se ne soddisfa il desiderio tutta la vita comincia a vacillare. Preso da tale impeto andai a Nara e a Ōsaka con l’intenzione di rimpinzarmi di qualunque tipo di cibo. Mangiai a sazietà tartarughe, anguille, sukiyaki di manzo. Dopo di che gustai di nuovo l’alcol, che da allora non avevo più toccato. Quando andai in un ristorante di Ōsaka e violai la mia astinenza per la prima volta, per un attimo un’orribile sensazione mi assalì: pensavo che forse mi sarebbe ritornato l’esaurimento nervoso. Ma quando provai a bere, non successe niente. Guardai in basso, girai attorno a me stesso, mi misi a correre: niente vertigini, né sangue alla testa. Salire in ascensore era piacevole, e lo era perfino correre veloce in macchina. Estasiato per la gioia, gridai ad alta voce: “Ah, sono sano! Sono libero! Chissà dove se ne sarà volato, senza che io me ne accorgessi, quel fastidioso panico?” Desideroso di passioni vigorose e di infiniti piaceri, il mio cuore cominciò a premere dal profondo.

Arrivati a questo punto non c’è bisogno di spiegare il motivo per cui nell’estate di quell’anno lasciai la mia casa per la seconda volta. Per gli identici motivi della volta precedente mi ripugnava di nuovo la campagna, mi ripugnava il Giappone, mi ripugnava l’oriente, mi ripugnava il negativismo. Desideravo ancora una volta la pelle bianca di Susan, bramavo le notti dissolute di Montmartre; desideravo ritornare ai vecchi tempi di Jacques Moran. Di diverso dalla volta precedente c’era soltanto il fatto che al momento non avevo denaro sufficiente per recarmi in Europa. Non che mi importasse qualcosa del denaro; mi sarei adattato anche alla terza classe e pensavo che pur avendo soltanto quanto bastava per il biglietto d’andata della nave mi sarei arrangiato. Però, dato che in qualche modo l’esaurimento nervoso mi aveva dato una buona lezione, senza denaro non ebbi proprio il coraggio di andare. Può darsi che questo, dopo tutto, sia un punto debole dei giapponesi. Ormai comunque l’oriente mi era diventato insopportabile. Da una parte pensavo che andando in occidente una volta per tutte sarei morto lì, ma dall’altra avevo timore che senza denaro non avrei potuto bere liquori né mangiare cibi deliziosi e temevo che così il mio corpo, che aveva cominciato a ristabilirsi con gran difficoltà, a poco a poco sarebbe forse dimagrito di nuovo e se quel panico mi avesse assalito, non avrei saputo cosa fare. Lasciai mia moglie dicendole: “Abbi pazienza soltanto per tre o quattro anni. Non so dove andrò, ma se rimarrò vivo può darsi anche che ritorni”, e prendendo duemila yen scarsi feci la traversata per Shanghai. La prima cosa che pensai fu che se fossi andato a Shanghai vi avrei potuto trovare la splendida vita dell’occidente. In un certo senso anzi ci sono più piaceri a Shanghai che a Parigi. Nel frattempo mi sarei accontentato di stare lì. Mi sarei preso cura della mia salute, e quando fossi stato sicuro di non subire più attacchi di terrore e di non sentire più la nostalgia di casa, la mia intenzione era di cogliere al volo un’occasione e di tornare in Europa. Comunque, quando arrivai a Shanghai, sperperai tutti i duemila yen in un batter d’occhio. E proprio in quel momento una diabolica donna americana si innamorò di me e io diventai un magnaccia. Naturalmente saprai cos’è: è la fusione di un mantenuto e di un ruffiano. Quella donna si prese cura di me; acquistammo due o tre ragazze e iniziammo a occuparci di certi traffici ignobili. Non c’è bisogno di parlarne dettagliatamente. Dovunque nei porti orientali si trovano ragazze di razza bianca, le cosiddette “schiave bianche”; i loro capi sono in contatto fra loro e prendono accordi. Le ragazze ogni tanto cambiano residenza da un porto all’altro, spostandosi continuamente tra Yokohama, Kōbe, Tientsin, Shanghai, Singapore, Hong Kong. Alcuni hanno aperto filiali su vasta scala in molti porti. Mi faceva paura avere le mani in pasta in questo tipo di affari, ma se non si lavorava in qualche modo, non si mangiava. E poi oltre a questo non c’era nessun altro lavoro che potessi fare. Tutto dipendeva dalla mia disposizione d’animo: non c’era niente di meglio che essere circondato da donne e da liquori, libero di fare tutto ciò che mi pareva e per di più guadagnare del denaro. Anzi, dovevo ritenermi fortunato! Progettavo di pazientare lì per due o tre anni e poi, una volta messa assieme una bella somma, lavarmene completamente le mani e andarmene in occidente.

Nel frattempo venne la primavera del 2° anno Taishō [1913], e ritornai in Giappone. Era infatti in vendita il bordello Casa Dieci a Yokohama, che anche tu conosci; lo comprai e programmai di aprirvi una filiale della casa di Shanghai. Non è che questa volta fossi ritornato per la nostalgia del Giappone; come mercante di schiave ero venuto a Yokohama per fare affari. Mi sono dimenticato di dirti che, arrivato a Shanghai, mi ero già liberato del nome Matsunaga Gisuke e mi facevo chiamare Tomoda Ginzō, come mi ero presentato quando ti incontrai per caso. Nell’anno di soggiorno a Shanghai avevo il segreto presentimento che nel mio fisico sarebbe di nuovo avvenuto quel sorprendente cambiamento e che sarei ingrassato ancora come nel periodo di Parigi. E tale presentimento si avverò in pieno. Con un anno di eccessi nel bere e nel mangiare il mio corpo in un batter d’occhio si dilatò come una palla di gomma. Quando avevo lasciato il paese ero magro e pesavo appena quarantacinque chili; al mio ritorno a Yokohama avevo raggiunto quasi i settantasette, record uguale alla volta precedente! Entrai trionfalmente a Tōkyō, e fu quando una sera andai al Café Liberté in Ginza che ti incontrai di nuovo.

Tu sei uno scrittore con una sviluppata facoltà d’immaginazione; anche se mi limitassi a raccontarti solo questo della mia strana vita, ti immagineresti pressappoco il seguito. In poche parole, il mio fisico da allora in poi cambiò all’incirca ogni quattro anni. Al massimo della magrezza pesavo sui quarantuno chili, poi ingrassavo fino a settantasette circa. Oscillavo tra questi due pesi nell’arco dei quattro anni. Quando ero magro, la malinconica dimora del mio paese natio mi tornava cara; mi sentivo attratto da tutti i gusti del puro stile giapponese; il mio carattere tendeva al sentimentale; corpo, espressione, carattere si trasformavano completamente in Matsunaga Gisuke e io ritornavo al mio villaggio. Vivevo un periodo tranquillo, e col passar del tempo mi ristabilivo. Prima di tutto mi veniva un forte appetito. Poi arrivava il desiderio sessuale e cominciavo a detestare i gusti orientali e a odiare la vita passiva. A poco a poco riprendevo a mettere su peso: avevo allora il presentimento che sarei ingrassato in fretta e andavo via da casa. Andavo a Shanghai, cercavo alcuni amici e iniziavo a lavorare con le “schiave bianche”. In un anno dai quarantacinque chili passavo quasi ai settantacinque. Diventavo Tomoda Ginzō e aprivo di nuovo una filiale a Yokohama. E facevo affari viaggiando tra Cina e Giappone. Così, dal 1° anno Taishō [1912] fino a oggi, 14° anno [1925], questo cambiamento ha continuato a ripetersi. Ti chiederai se da allora non sono più andato in occidente e se ho guadagnato del denaro. Ne guadagnai più che a sufficienza, ma nel 3° anno Taishō [1914] scoppiò la guerra mondiale e le procedure per entrare in un paese diventarono complicate. Per chi faceva quel genere di affari però c’erano comunque a disposizione donne di razza bianca. Sia che mi trovassi a Yokohama, sia che fossi a Shanghai, i luoghi dove stavo erano uguali a Parigi. Da quella collezione di fotografie che ho mostrato spesso anche a te, avrai capito quanto abbia tirato la corda della dissipatezza e della sregolatezza. Anche se non diventai più Jacques Moran mi bastava essere “Tom san” di Tomoda Ginzō. La situazione così era perfino migliore. All’inizio avevo in mente di arrivare fino a un buon punto e poi di lavarmene le mani, ma alla fine decisi di portare avanti questi affari qui piuttosto che andare in occidente. Quando chiusi la Casa Dieci nel 4° anno Taishō [1915], depositai in una banca di Shanghai quanto avevo guadagnato e questa volta, con quel denaro, aprii la Casa Ventisette nell’8° anno Taishō [1919]. È probabile che la terza apparizione di Tomoda Ginzō al Café Plaisantin in Ginza risalga a quel periodo».

Fin qui avevo ascoltato in silenzio l’insolita storia di Tomoda Ginzō, ma a questo punto lo interruppi e gli feci delle domande.

«Allora, come pensavo, eri tu a dirigere sia il Café Plaisantin sia il precedente Café Liberté, vero?»

«No. Non avevano nessun rapporto con me; è stato soltanto un caso se quando la Casa Dieci era aperta frequentavo il Liberté e quando era aperta la Ventisette andavo anche al Café Plaisantin. Può essere che i camerieri di quei locali avessero supposto che tipo ero, ma sono sicuro che non conoscevano la verità».

«Allora perché frequentavi quel genere di locali? Nel periodo in cui eri Tomoda Ginzō non avevi niente a che fare con i giapponesi!»

«Questo è il punto. Ho tralasciato di dirti una cosa importante. Avendo saputo che caffè frequentavi, ci andavo sempre perché volevo incontrarti. Desideravo che almeno una volta uno scrittore come te ascoltasse questa mia storia davvero strana. Quale pensi sia il motivo per cui tenevo nascosti nella borsa scoperta da Shige il sigillo di Tomoda, l’anello, le fotografie e la tua cartolina? Sappi che quando diventavo Matsunaga Gisuke e ritornavo al paese, vendevo tutto; però non mi sono mai separato dalle cose che sono in quella borsa, e non solo perché per me erano dei ricordi. Un uomo infatti non sa quando morirà, e io avevo preparato tutto in maniera perfetta in modo che, qualora in campagna mi fossi ammalato gravemente, venissero fatte queste rivelazioni: “Questo Matsunaga è il tuo amico Tomoda Ginzō. Il suo aspetto è del tutto diverso, ma qui ci sono prove a sufficienza”. Ti chiederai perché, stando così le cose, quando qualche tempo fa mi hai spinto a confessare, io non l’abbia fatto. Ecco, per me quel tuo modo d’agire fu un attacco troppo a bruciapelo! Avevi l’aria di aver scoperto ormai gran parte del mio segreto quando mi hai messo all’improvviso sotto il naso la fotografia del pellegrinaggio. Prima di tutto rimasi scioccato, e poi ho provato avversione nei tuoi confronti. Non solo: mi sono arrabbiato anche per il comportamento di Shige che di testa sua ti aveva spedito la lettera. Non sapevo assolutamente che lei avesse guardato di soppiatto nella mia borsa, finché non ho sentito quello che mi dicevi. Non ti sembra naturale che mi sia irrigidito?»

«Anche dopo, quando ci incontrammo al Ventisette, eri risentito, vero?»

«Quella sera avevo paura. Perché mi parlavi del mio paese. Di colpo ero stato preso dal panico e intimidito dal presentimento che in un batter d’occhio sarei dimagrito. Quella sera lo mascherai con l’aiuto del vino, ma come mi aspettavo il panico mi colpì dal giorno seguente. Cominciai a dimagrire velocemente e dopo un anno finii per tornare a essere Matsunaga Gisuke».

«Allora l’uomo che incontrai al villaggio Yagyū nel marzo di tre anni fa, quel Matsunaga Gisuke, eri tu?»

«Proprio così. Oppure può darsi che non sia così».

Tomoda Ginzō posò il bicchiere di cognac. Ormai avevo perso il conto di quanti ne avesse bevuti.

«Dopo tutto può darsi che Matsunaga Gisuke e Tomoda Ginzō siano due uomini diversi. Hanno due diverse personalità: quando uno è in questo mondo, l’altro non c’è. E così loro si appropriano, ora l’uno ora l’altro, di questo “io”. Non riesco a pensarla altrimenti».

Poi Tomoda allungò la mano davanti a me indicando l’anello di ametista: «Dai, guarda. L’“io” del presente è Tomoda Ginzō, non è per nulla Matsunaga Gisuke. Misuro sempre il mio peso con quest’anello: quando mi è stretto e si incastra nella carne del dito e per quanto lo tiri non riesco a togliermelo, il mio peso è sui settantacinque chili».

«E così ora viaggi di nuovo tra Yokohama e Shanghai per quegli affari?»

«Questa volta aprirò a Kōbe, perché a Yokohama dopo il terremoto è ormai impossibile. Mi chiedo come finirò andando avanti di questo passo. Fino a quando continuerò a essere ora Matsunaga Gisuke ora Tomoda Ginzō? Quest’anno ho quarantacinque anni e fra tre o quattro anni tornerò a essere di nuovo Matsunaga Gisuke; e forse poi Tomoda Ginzō non tornerà più! Sento che sarà così. Quando mi sono allontanato dal Giappone l’ultima volta, mi è sembrato che il panico arrivasse più alla svelta, e rimasi più a lungo a Yokohama che a Shanghai. Quando sarò a Kōbe, sarò ancora più vicino al paese di Matsunaga Gisuke…»

Lo sguardo di Tomoda Ginzō era un po’ triste. In ogni caso a me sembrò senza dubbio tre o quattro anni più giovane rispetto alla sua età: quarantacinque anni.