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BETSY
Sarebbe andato tutto molto molto molto bene, a patto che fosse stata attenta a mettersi sempre tutt’e due le scarpe, a non correre per strada, a non dire mai a nessuno dove stava andando, chiaro; si ricordò che sapeva fischiare e pensò: non devo mai aver paura.
Sapeva che il pullman partiva a mezzanotte; aveva programmato la fuga con molta più cura di quanto loro avrebbero mai potuto immaginare. Era stata così intelligente da riempire la valigia senza fare alcun rumore, muovendosi a passettini fra il letto e l’armadio, e poiché ormai sapeva che se ne stava andando, aveva scelto solo gli abiti più adatti per stare fuori casa e per viaggiare in pullman; inoltre aveva preso un sacco di soldi dalla borsetta della zia Morgen, e aveva imbrogliato il dottor Wrong per benino. E anche quando si sarebbero accorti della sua scomparsa, sarebbe passato comunque un altro bel po’ di tempo prima che scoprissero tutto della valigia, del denaro e del pullman: era stata bravissima a coprire le tracce. Fischiettando arrivò all’angolo e pensò: non sospetteranno mai che so prendere un taxi da sola, e che riuscirò anche ad arrivare alla stazione dei pullman per tempo. «Mi porti alla stazione dei pullman» disse infatti al tassista; furono le prime parole libere che avesse mai pronunciato, ma l’uomo si limitò ad annuire e la portò dove aveva chiesto. Gli porse una banconota da un dollaro che tolse dalla borsetta, e lui le diede il resto, e lei disse «Grazie mille» e «Buonanotte» quando chiuse la portiera dell’auto. Nessuno si voltò, nessuno gridò, nessuno si fermò per puntarla col dito e scoppiare a ridere; tutto sarebbe andato molto molto molto bene.
Nella borsetta aveva undici banconote da un dollaro, e le altre, i cento e passa dollari che aveva preso dal portafoglio della zia Morgen, erano nascoste prudentemente nella tasca interna della valigia, dato che in nessun caso doveva sembrare sciocca o malaccorta e perdere il denaro, perché questo, oltre a significare che non era capace di cavarsela, l’avrebbe messa nella sgradevole posizione di dover chiedere aiuto a degli sconosciuti. Aveva stabilito ogni cosa con precisione: appena scesa dal pullman sarebbe andata in un albergo, e lì, in una camera tutta sua, avrebbe potuto aprire la valigia e prendere i soldi che voleva.
Avendo il tempo e il denaro, bevve una tazza di caffè alla stazione dei pullman; comprò anche una rivista; in genere leggere non le interessava, ma era stata attratta dalla copertina vivace. Inoltre aveva notato che quasi tutti nella stazione avevano con sé una rivista o un libro, e lei non doveva per nessun motivo sembrare strana o diversa dagli altri. In valigia aveva un libro, un grosso dizionario cui ricorrere per le incertezze nel parlare o nello scrivere. Aveva comunque intenzione, in un secondo momento, di disfarsi di tutta la sua roba, e con quel tomo voluminoso e ben stampato avrebbe potuto farci qualche quattrino, un giorno o l’altro, in caso di bisogno, ma doveva ricordarsi di cancellare il nome di Lizzie dal frontespizio. Adesso era al sicuro nella valigia insieme al denaro, e non aveva senso tirarlo fuori solo per far finta di leggerlo in pullman. Finì il caffè e rimise la tazza sul piattino proprio come facevano tutti gli altri, scese dallo sgabello, prese la borsetta e la valigia e si recò alla biglietteria. Davanti a lei una donna stava dicendo all’impiegato: «New York, sola andata, per favore», e siccome l’impiegato non alzò la testa e non si mise a ridere Betsy dedusse che questo fosse il modo abituale di chiedere il biglietto. Avvertì un senso di grato appagamento nei confronti del bigliettaio e della donna davanti a lei e dell’uomo del bar e del tassista e di tutto quel mondo totalmente insolito; «New York, sola andata, per favore» disse, attenta a utilizzare l’inflessione giusta, e l’impiegato non alzò la testa e nemmeno sorrise, limitandosi a darle il resto con aria annoiata. «Tra quanto parte il pullman?» gli domandò baldanzosa, e il bigliettaio diede un’occhiata all’orologio e le disse, senza fare una piega: «Dodici minuti, porta laterale».
Domandandosi cosa fare per dodici minuti, visto che non sarebbe certo passata inosservata se fosse andata a bere subito un’altra tazza di caffè, notò un espositore di cartoline, e le venne in mente di mandare un messaggio d’addio. Avrebbero capito anche da soli che se n’era andata, chiaro, ma come rinunciare alla soddisfazione di dire che erano stati loro a spingerla a quel passo? Scelse due cartoline, rammaricandosi di non trovarne con l’immagine del museo; indirizzò quella col monumento alla zia Morgen, usando la penna che Lizzie teneva sempre nella borsetta: «Non mi vedrai mai più» scrisse. «Sto andando in luoghi sconosciuti. Spero che ti dispiaccia». E poi, dato che la cartolina le sembrava un po’ fredda, e la zia Morgen, in fin dei conti, non le aveva mai fatto veramente del male, aggiunse: «Con affetto, E.R.».
L’altra cartolina la indirizzò (aveva serbato questo piacere per ultimo) al dottor Wright, e per un minuto ragionò, con la penna in mano, sul modo migliore per dirgli in maniera chiara e netta tutto quello che era necessario dirgli confinandosi nel piccolo spazio riservato ai messaggi. Alla fine il pensiero della partenza imminente la spronò, e scrisse in fretta: «Caro dottor Wrong, non provare a cercarmi. Non tornerò mai. Sto andando in qualche posto dove la gente mi ama e non è come te. Molti cordiali saluti, Betsy». Queste frasi non le sembravano pienamente riuscite, ma non c’era più modo di rimediare perché un uomo annunciò: «Pullman per New York, porta laterale, in partenza fra tre minuti... pullman per New York, porta laterale, in partenza fra tre minuti... pullman per New York, porta laterale...».
Si affrettò a uscire dalla stazione, seguendo la donna in fila alla biglietteria, e salì sul pullman, meravigliandosi di quanto fosse grande e della comodità che offriva in confronto agli autobus tanto più piccoli su cui era solita viaggiare Lizzie per andare a lavorare al museo. Dopo aver esitato un istante, si sedette accanto alla donna in fila alla biglietteria, ma poi si alzò in fretta per mettere la valigia nella rastrelliera sopra il sedile, come vedeva fare agli altri passeggeri, perché non doveva in nessun modo sembrare diversa da loro, chiaro, ed era escluso tenere il bagaglio per terra se tutti mettevano la loro roba di sopra, nella rastrelliera. Appena si fu riseduta, con la borsetta e la rivista in grembo, si appoggiò allo schienale e sospirò, girando leggermente la testa per vedere se la donna seduta accanto la stesse guardando (aveva fatto qualcosa che aveva dato nell’occhio? Era stata troppo lenta con la valigia? Troppo svelta nell’appoggiarsi allo schienale?) e così disse in fretta: «Quanto dura il viaggio?».
«Lei dove va?» chiese la donna, inarcando le sopracciglia.
«A New York, come lei».
La donna corrugò la fronte, lanciò un’occhiata verso l’autista, e poi disse: «Come fa a sapere che sto andando a New York?».
«Gliel’ho sentito dire mentre comprava il biglietto, così ne ho comprato uno come lei».
«Ah!» disse la donna, inarcando di nuovo le sopracciglia e lanciandole un’occhiata sospettosa.
È assolutamente imprudente fidarsi di qualcuno, pensò Betsy con rapida e triste limpidezza, chiunque sia. Quella era una donna dell’età della zia Morgen, aveva l’aria stanca, e sembrava nient’affatto contenta di dover trascorrere la notte in pullman anziché a casa, nel suo letto; non era giusto che una donna dell’età della zia Morgen e con l’aria così stanca fosse anche una persona non degna di fiducia. Ma forse la donna, più che desiderare di essere di nuovo giovane e piena di vita, voleva solo che Betsy si fidasse di lei, perché adesso si voltò e le fece un gran sorriso e le disse: «Allora va a New York?» e poi annuì, girando per intero il viso e il corpo verso Betsy, come promettendole una casa, e la sicurezza. Crede che penserò che è di nuovo giovane? si domandò Betsy, e disse: «Sì, penso di sì. Voglio dire che ho un biglietto per New York, ma potrei anche decidere di andare da qualche altra parte. Ci si diverte a New York?».
«Non molto» rispose la donna. Ancora una volta rivolse un’occhiata all’autista, poi si protese verso Betsy. «Non ci si diverte da nessuna parte se lì non ci sono i tuoi cari» disse, e annuì di nuovo. «Per me New York è niente... niente. I miei vivono lontano».
Betsy guardò al di là della donna il finestrino scuro e a un tratto pensò che era del tutto da escludere che fossero sulle sue tracce; forse il viso di là dal vetro che scrutava ciecamente dentro il pullman era quello della zia Morgen? Forse l’uomo che gesticolava con aria imperiosa sulla porta della stazione era il dottor Wright? «Quand’è che partiamo?» domandò alla sua vicina, la quale posò una mano inguantata su quella di Betsy e disse: «Uno sogna sempre di stare con loro, sa? L’anelito a raggiungere i nostri cari a volte è quasi un dolore, un dolore qui» e tolse la mano che aveva appoggiato su quella di Betsy per posarsela sul petto; poi tornò a coprire le dita di Betsy con le sue.
Ma, pensò Betsy, anche ammesso che ormai sapessero della valigia, del denaro e del pullman (possibile che quella donna che corre, gridando e agitando freneticamente un fazzoletto, sia la zia Morgen?), non l’avrebbero mai scovata se fosse stata lì a chiacchierare con una donna triste in guanti neri, non sarebbero mai andati a guardare la mano della donna per vedere se sotto c’era la sua. Così si appoggiò di nuovo allo schienale, e girò con aria cortese la testa verso la sua vicina: due signore impegnate in una conversazione; e il pullman si mosse gemendo. L’autista fece un rassicurante cenno col capo rivolto verso la stazione, le porte del pullman si chiusero, e l’imponente veicolo uscì dal parcheggio e imboccò la strada (per caso quello era il dottor Wright? L’uomo che ora scendeva da un taxi agitando l’ombrello?), poi, prendendo velocità, puntò dritto verso la periferia. «Siamo partiti!» esclamò Betsy, felice.
«... molto fortunata» disse la donna. «Io, vede, non ho nessuna persona cara che mi aspetta a New York. Chi è giovane come lei non può capire che cosa significa...».
Addio, addio, pensò Betsy, girandosi a guardare la città alle loro spalle. Addio.
«I miei abitano lontano. Ah, se solo potessi raggiungerli!».
«Perché non può raggiungerli?». Betsy si raddrizzò e guardò con curiosità la donna, la quale, continuando a tenere una mano sulla sua, ora stava usando l’altra per asciugarsi gli occhi con un fazzoletto. «Dove stanno?».
«A Chicago. Purtroppo non ho i mezzi per arrivare fin là, e mi tocca fermarmi a New York. Una ragazza come lei, fiduciosa, felice, libera... una ragazza come lei, con una bella rendita...».
«Io non ho nessuna rendita» disse Betsy, e ridacchiò. «Ho solo quello che ho preso alla zia Morgen».
«Magari un piccolo prestito...».
«Oh, grazie mille, ma ho soldi a sufficienza» disse Betsy. «Ce li ho nella valigia».
La donna guardò in su, brevemente, e poi strinse la mano sulla sua. «Lei è una ragazza molto dolce» disse. «Come si chiama, cara?».
«Betsy».
«E basta?».
Ad un tratto, forse perché Betsy, ascoltando, si era messa a guardare dal finestrino le luci in movimento, o forse perché si era lasciata andare all’eccitazione e alla curiosità, spuntò fuori Lizzie che rivolse un’occhiata gelida alla donna coi guanti, mentre Betsy, presa in contropiede, cercava di riprendere il controllo. Lizzie disse: «Pardon?» e poi si guardò attorno, meravigliata.
«Ho detto solo: “Come si chiama?”» disse la donna, ritraendosi.
«Sono Elizabeth Richmond. Molto lieta».
«Piacere» disse la donna con voce fiacca, ma a quel punto Betsy inspirò a fondo e riuscì a rispingere giù Lizzie, poi col tono più educato che poté disse: «Adesso non ho più voglia di parlare, grazie mille. Lei è stata molto gentile, ma preferirei smettere di parlare».
Senza essere troppo scortese, o così sperò, si alzò e andò a occupare un sedile in fondo al pullman; era escluso tirar giù la valigia adesso che andavano così veloce; in quel momento era più importante rifugiarsi dove non sarebbe stata costretta a parlare con nessuno, e dal nuovo posto poteva tenere d’occhio facilmente il suo bagaglio. La donna di prima a un certo punto si girò a guardarla, poi, scuotendo appena la testa, lanciò un’occhiata alla valigia nella rastrelliera, quindi aprì il libro e si mise a leggere. Bene, bene, pensò Betsy; forse nemmeno s’è accorta che è stata Lizzie a parlarle in quel modo; o forse anche lei ha una sua Lizzie.
Anche se Betsy non dormiva, ed era convinta di non aver mai dormito, a Elizabeth il sonno era necessario, chiaro; per tutto il tempo in cui era stata prigioniera l’aveva guardata dormire, standosene rintanata in un angolino in fondo alla mente, inerte e inetta, a osservare come da una nebbia frastornante il mondo dei sogni di Elizabeth, vedendo le fioche forme del mondo di Elizabeth quando gli occhi di Elizabeth erano aperti, e i fantasmi urlanti degli incubi di Elizabeth quando gli occhi di Elizabeth erano chiusi. Era stata rannicchiata là sotto, a gridare, silenziosa e torpida, incapace di muovere le mani o i piedi di Elizabeth, resa pazza dal desiderio del moto, della vista, della parola, paralizzata nel bozzolo di un silenzio straziante; adesso che dominava la superficie della mente di Elizabeth, con indulgenza le concesse di sognare, deliziandosi dell’immagine di quella sotto di lei, muta, inerme e in attesa. Alle spalle di Elizabeth, nel regno remoto della mente, c’era Beth che vagava assonnata, ignara, stordita, persa fra ombre silenziose. Betsy sentiva che quelle due erano là sotto, pronte, così come un tempo succedeva a lei, a ridestarsi al primo suono brusco o immagine capace di ridestarla alla coscienza. Adesso Elizabeth dormiva, e nel sonno corrugò appena la fronte, e si girò scomoda nel morbido sedile del pullman, e dondolò seguendone gli scossoni, e Betsy, appoggiando la schiena contro il soffice cuscino dei sogni di Elizabeth, si mise a fare piani per il futuro, adesso che era libera.
Sapeva che sarebbe scesa dal pullman a New York, e avrebbe seguito gli altri passeggeri fuori della stazione e in strada (immaginava che vi sarebbe stata una strada, molto simile a quella che si era lasciata alle spalle; non doveva lasciare che la paura dell’ignoto le creasse delle difficoltà immaginarie; doveva essere pronta a muoversi con una certa sicurezza nel mondo esterno); poi avrebbe preso un taxi, come aveva fatto per andare da casa alla stazione dei pullman, solo che stavolta sarebbe stato di giorno, presumeva, e di conseguenza trovare un taxi sarebbe stato più facile, e durante il tragitto avrebbe potuto guardare dal finestrino. Si sarebbe fatta portare in albergo. La zia Morgen una volta era stata in un certo Hotel Drewe; e se c’era andata lei, doveva essere il tipo di albergo adatto a una signora che viaggia sola (la zia Morgen sicuramente aveva viaggiato da sola, no?), dunque sarebbe stato il posto migliore per Betsy, almeno per cominciare. In seguito, dopo aver avuto il tempo di disfare i bagagli e magari di guardarsi un po’ attorno e cominciare a conoscere la città, si sarebbe spostata in un altro albergo, il cui nome sarebbe stato del tutto ignoto alla zia Morgen; non riusciva a ricordare se il dottor Wrong avesse mai detto di conoscere qualche albergo a New York, ma pensò di poter contare in tutta sicurezza sul fatto che non avesse alcuna familiarità coi nomi degli alberghi adatti alle signore che viaggiano sole. Ho ricevuto un’educazione molto solida, pensò con soddisfazione, e mi comporterò bene. In particolare le tornò in mente che aveva detto sia alla zia Morgen sia al dottor Wrong che non sarebbero riusciti mai a trovarla, quindi era molto difficile che pensassero di cercarla a New York, perché a New York, volendo, avrebbero potuto rintracciarla. Le venne un’idea, e ridacchiò. Elizabeth si girò nel sonno. Forse, pensò, avrebbe dovuto scrivere due cartoline anche a Lizzie e a Beth, per salutarle; si ripromise di farlo alla prima occasione. Scriverò a tutte e due una cartolina quando sarò in albergo, è quello che si meritano. Elizabeth si agitò di nuovo, ed emise un gemito, e Betsy, preferendo che continuasse a dormire, rimase in silenzio.
Durante tutte le buie ore di quella notte il pullman continuò a viaggiare senza intoppi, cullando dolcemente Elizabeth; siccome era importante non farsi vedere sveglia mentre tutti gli altri dormivano, Betsy chiuse gli occhi, e pensò con stupore che era lei a viaggiare da sola nella notte. Per la prima volta era nelle mani indifferenti di gente sconosciuta, affidando la propria persona alla tenerezza dell’autista del pullman e il proprio nome alla donna che sonnecchiava nel sedile più avanti; avrebbe passato il resto della vita nella stanza di qualcun altro e mangiato alla tavola di un estraneo e camminato per strade ignote sotto un sole che, da sveglia, non aveva mai visto. Presto nessuno sarebbe stato più in grado di riconoscerla; il dottor Wrong l’avrebbe dimenticata e la zia Morgen avrebbe cercato Elizabeth; da quel momento in poi chiunque la guardasse l’avrebbe vista per la prima volta: era una sconosciuta in un mondo di sconosciuti ed erano degli sconosciuti anche quelli che si era lasciata alle spalle. «Chi sono?» sussurrò Betsy, meravigliata, e nemmeno Elizabeth la sentì: «Dove sto andando?».
A quel punto acquistò urgenza e importanza il fatto di essere una persona in particolare e di esserlo sempre stata; nel vasto mondo in cui stava entrando non c’era nessuno che non fosse dotato di un’identità ben precisa: era vitale essere qualcuno e non qualcun altro. «Mi chiamo Betsy Richmond» ripeté più e più volte, sommessamente, fra sé e sé. «Sono nata a New York. E mia madre si chiama Elizabeth Richmond, Elizabeth Jones prima di sposarsi. Mia madre è nata a Owenstown, ma io sono nata a New York. La sorella di mia madre si chiama Morgen, ma l’ho conosciuta appena». Invisibile nell’oscurità del pullman, Betsy fece un gran sorriso. «Mi chiamo Betsy Richmond» sussurrò «e sto andando da sola a New York perché sono abbastanza grande per viaggiare da sola. Sto a andando a New York col pullman, e quando arriverò a New York prenderò un taxi per andare in un albergo. Mi chiamo Betsy Richmond e sono nata a New York. Mia madre stravede per me. Mia madre si chiama Elizabeth Richmond, e io sono Betsy, mia madre mi ha sempre chiamata Betsy e quando sono nata mi hanno messo lo stesso nome di mia madre. Betsy Richmond» bisbigliò con un filo di voce nel sordo movimento del pullman. «Betsy Richmond».
«Mia madre...» proseguì seguendo un mezzo ricordo, ed Elizabeth emise un lamento e strinse le mani, sognando «mia madre era in collera con la sua Betsy e adesso sono sola, sono su un pullman che va a New York; sono abbastanza grande per viaggiare da sola e il mio nome è Betsy Richmond, Elizabeth Jones prima che mi sposassi. Mia madre diceva sempre: “Betsy è il mio tesoro”, e io dicevo sempre: “Elizabeth è il mio tesoro”, e io dicevo sempre: “Elizabeth preferisce Robin”».
Betsy si rizzò sul sedile del pullman con un movimento così repentino che Elizabeth quasi si svegliò e aprendo gli occhi disse: «Dottore?». «No, no» le disse Betsy, e poi, con un brivido, si guardò attorno per accertarsi di non aver fatto troppo rumore mentre gli altri passeggeri dormivano. È colpa di Robin, pensò, c’è mancato poco che Robin svegliasse Elizabeth. Aspettò un istante, cercando di distinguere qualcosa nell’oscurità del pullman: l’autista sembrava tranquillo, e poi qualcuno molto più avanti dall’altro lato del corridoio si mosse e sospirò forte, e Betsy tornò ad appoggiarsi allo schienale, sollevata; va tutto bene, pensò, anche gli altri si muovono e fanno dei rumori e nessuno ci bada. Guardò dal finestrino; chissà dove sarà adesso Robin, pensò, lui non si ricorderà di me proprio come chiunque altro, e anche se mi vedesse, Robin penserebbe che sono un’altra, una che non conosce. E se mia madre sapesse di Robin gliela farebbe pagare. Comunque sia, mia madre ama me più di tutti, si disse Betsy disperatamente, mia madre stava solo scherzando quando ha detto che non ero più io la persona che amava di più, mia madre mi ha tirato i capelli e ha riso e ha detto «Elizabeth ama Robin più di tutti», ma mia madre ama me più di tutti. Io mi chiamo Betsy Richmond e mia madre si chiama Elizabeth Richmond e mi chiama Betsy. È stato Robin a fare le cose brutte.
Avrebbe voluto alzarsi e sgranchirsi le gambe, ma non osava; per Elizabeth era importante dormire, e anche se fosse andata fino dall’autista, poniamo, e gli avesse chiesto a che velocità stavano andando o quando sarebbero arrivati a New York o se per caso si chiamava Robin, la gente l’avrebbe notata e l’avrebbe guardata storto, perché, a quanto ne sapeva lei, poteva essere del tutto assurdo chiedersi a che velocità andava il pullman. Comunque pensare a Robin la innervosiva sempre, mentre era importante non essere nervosi o spaventati, e si torse le mani e si sfregò gli occhi e si morse il labbro. Cosa dovrò fare, si chiese, se mi capita di vedere Robin da qualche parte, a New York?
Il pullman prese una curva molto larga, e Betsy urtò contro il bracciolo e ridacchiò; è divertente, pensò. Di colpo si sentì felicissima perché in fin dei conti stava fuggendo e nessuno l’avrebbe trovata, neanche Robin. Si appoggiò allo schienale e congiunse le mani e parlò a sé stessa con tono molto severo.
Se voglio che tutto vada a buon fine, se voglio diventare una persona vera, si disse in silenzio, Robin deve entrarci come tutti gli altri; non può tirarsene fuori così facilmente. Per giunta chiunque abbia dei ricordi ricorda anche le cose brutte, non solo quelle belle; la gente troverebbe molto strano se di tutta una vita ricordassi solo le cose belle. Non sarebbe normale. Per cui deve esserci anche Robin, perché era cattivo e odioso. Andammo a fare un picnic, Robin, mia madre e io. No, pensò Betsy a quel punto, scuotendo la testa, se deve entrarci anche questo, allora bisogna che ci sia tutto, fin dall’inizio, perché è così che uno ricorda le cose. Devo partire da quel mattino, devo cominciare dal principio, e ricordare bene tutto. Perché non si ricorda mai solo la cosa in sé, ma anche il contorno, si ricorda quello che è successo prima e quello che è successo dopo, e comunque un brutto ricordo, si disse per consolarsi, basta e avanza, chiaro; quando ti chiederanno cosa ricordi di brutto o di cattivo potrai sempre raccontare di Robin, e questo li soddisferà. Così, proseguì in silenzio, mi svegliai quel mattino e c’era un bel sole e la coperta ai miei piedi era azzurra. C’era un abito verde appeso alla pediera e pensavo che avrebbe stonato con la coperta azzurra, ma non stonava. Sentii mia madre al piano di sotto che diceva: «Che giornata stupenda! Perfetta per un picnic con la mia Betsy» e sapevo che lo diceva per me e che avrebbe continuato a ripeterlo anche mentre saliva le scale, di modo che mi svegliassi sentendoglielo dire. E poi entrò in camera mia e sorrise e c’era un bel sole a illuminarle il viso, e se non riesco a ricordare bene l’espressione di mia madre quella mattina è per via del sole che le batteva in faccia. «Una giornata stupenda per la mia Betsy,» disse «una giornata perfetta per un picnic, su che andiamo alla baia!». E si avvicinò e mi fece il solletico e scesi subito dal letto e lei mi tirò un cuscino e io ridevo. Mia madre disse: «Burro di arachidi» e uscì di corsa dalla mia camera, e io le gridai dietro «Marmellata!» e intanto mi infilavo il vestito verde e scendevo di sotto. Quella mattina feci colazione con arance e pane tostato perché faceva molto caldo. Mia madre preparò dei tramezzini con il burro di arachidi e la marmellata e mentre mangiavo le arance mi guardava e diceva «Burro di arachidi», e allora io la guardavo e dicevo «Marmellata» ed era buffo perché lei voleva il burro di arachidi e io la marmellata ed era buffo che due persone che si volevano così bene e che avevano lo stesso nome amassero due cose così diverse. Mia madre fece bollire le uova e sistemò tutto in un cestino insieme ai biscotti e a un thermos pieno di limonata e poi disse: «Dài, portiamo anche il povero Robin, Betsy, bimba mia. Il povero Robin è solo ed è il tesoro di Elizabeth», e io dissi «Marmellata» e lei mi fece una boccaccia e disse: «Burro di arachidi! E comunque, dài, portiamo anche Robin con noi!».
Feci finta di tirarle addosso un uovo sodo ma lei andò a telefonare a Robin e gli disse di venire subito e poi prendemmo i costumi da bagno. Robin, mia madre e Betsy andarono col tram fino alla baia e mia madre e Betsy si misero il costume da bagno e Robin si mise il costume da bagno e l’acqua era calda e ogni volta che Betsy schizzava mia madre Robin schizzava Betsy e diceva: «Betsy è proprio cattiva» e il sole splendeva e in giro non c’era nessuno. Robin e mia madre e Betsy mangiarono le uova sode e i tramezzini col burro d’arachidi e quando Betsy disse: «Marmellata» mia madre disse: «Betsy devi proprio far sempre la spiritosa?» e poi tutti si sdraiarono sulla spiaggia, al sole. E mia madre disse: «Betsy, piccola peste, vai a fare una passeggiata sulla spiaggia e raccogli settantatré conchiglie, le più belle che trovi, e poi diventiamo delle sirene e con le conchiglie facciamo una corona per il nostro Robin». E Betsy camminò lungo la spiaggia e raccolse le conchiglie, ed era sola, attorno non c’era anima viva, e da un lato c’era il mare e dall’altro la spiaggia e più in là le rocce, e lei cantava: «Amo il tè e amo il caffè, amo Betsy e Betsy ama me», dividendo le conchiglie in coppie, perché lei era la figlia del re del mare e stava raccogliendo gli occhi dei marinai annegati con cui avrebbe pagato il riscatto per il suo amore, chiuso fra le rocce nella prigione del re del mare. C’era una scatola di popcorn vuota, ed era uno scrigno di corallo dove mise i suoi gioielli, e le due rocce erano il suo trono, e quando cantava le onde correvano fino ai suoi piedi, e lei era una naufraga e viveva sola su un’isola, e la scatola di popcorn vuota arrivava a riva spinta dalle correnti, e dentro c’erano dei semi di granturco da piantare, e un martello con cui costruire una casa. Modellando la sabbia fece dei piatti e delle pentole che seccarono al sole, e sopra la testa aveva un tetto di alghe che le dava ombra. Le rocce erano la sua torre di segnalazione, vi si accendeva il fuoco per le navi che passavano. Arrivarono i pirati e la catturarono, e le rocce erano la cabina della nave pirata in cui i predoni tenevano l’oro; i pirati affondarono un mercantile e buttarono a mare tutte le conchiglie, e la scatola di popcorn era piena di smeraldi e di perle. Improvvisamente Betsy balzò in piedi, aveva freddo, e le conchiglie le caddero dal grembo: le rocce erano di nuovo rocce e al posto dei piatti e della piantagione di granturco c’era solo la sabbia pesticciata e nella baia non c’era nessun marinaio annegato. Sono stata via troppo tempo, pensò Betsy, e rimise le conchiglie nella scatola di popcorn e s’incamminò a passo svelto, perché aveva freddo, e sentì Robin che diceva: «La prossima volta, lascia quella mocciosa con Morgen».
«No» esclamò Betsy a voce alta, tanto che i passeggeri del pullman la sentirono, e più d’uno si girò a guardarla; ho avuto un incubo, pensò con veemenza, solo un incubo, tutto qui. Aspettò, tesa, e poi la gente si rimise comoda e si addormentò di nuovo, e nessuno sapeva che Betsy era ancora sveglia, e che lo era sempre stata.
«Mi chiamo Betsy Richmond» ricominciò a sussurrare dopo un po’ «e mia madre si chiama Elizabeth Richmond, Elizabeth Jones prima di sposarsi...».
Quando finalmente il pullman si fermò e i passeggeri si mossero e si svegliarono e un uomo a metà del corridoio saltò in piedi e cominciò a infilarsi il cappotto, Betsy si sentì sollevata all’idea di non dover più guardare sempre lo stesso interno e i finestrini che rendevano uguale tutto quello che inquadravano; fu tra le prime persone ad alzarsi, e si affrettò lungo il corridoio, oltrepassando l’uomo che si stava mettendo il cappotto, puntando verso la sua valigia proprio mentre la donna con i guanti neri la tirava giù dalla rastrelliera. «Buongiorno» disse la donna, sorridendole. «Ha dormito bene? Aspetti, cara, le prendo io la borsa».
«Voglio la mia valigia» disse Betsy. Non era una cosa usuale, lo sapeva, discutere per il bagaglio a bordo di un pullman, e non doveva andare in collera, così prese la donna per un braccio e ripeté: «Voglio la mia valigia, per piacere».
«La porto io» disse quella, guardando con un sorriso allegro gli altri passeggeri. «Cara» aggiunse, rivolgendo il sorriso su Betsy.
Questa era una cosa sbagliata, una vera disdetta. «Voglio la mia valigia» ripeté Betsy ancora una volta, non sapendo cos’altro dire, incerta sul giusto grado di collera da mostrare; ecco, una situazione come questa rivelava totalmente la sua ignoranza: quanto grande doveva essere, di norma, la collera di chi si vede portare via a forza la valigia? Quanto biasimo bisognava avere per quella donna col sorriso falso, con quel brio irreale e l’aria stanca, trasandata, squallida? Betsy doveva picchiarla? Doveva darle uno spintone? Doveva chiedere aiuto?
Si girò per chiedere consiglio e incrociò lo sguardo dell’autista in fondo al corridoio. «Voglio la mia valigia» gli disse Betsy. L’uomo era ancora al volante, ma siccome la maggior parte dei passeggeri era già scesa, lasciò il suo posto e venne verso di loro.
«C’è qualche problema, signora?» domandò rivolto alla donna con i guanti neri, la quale, continuando a stringere con decisione la maniglia della valigia di Betsy, gli posò la mano libera sul braccio, esalando un sospiro di sollievo. «Vorrei solo che questa ragazza avesse un po’ di gratitudine» disse, indicando Betsy con un gesto che intendeva escluderla dalla cerchia delle persone adulte, a cui appartenevano lei stessa e l’autista, chiaro. «Così sola nella grande città» disse con voce squillante.
L’autista aveva ben presente la ferocia della città; annuì e considerò Betsy con aria mesta. «Se la gente cerca di aiutarla» esordì «dovrebbe essere più cortese».
Ogni inutile spreco di emozioni sarebbe stato un eccesso pernicioso. «Vecchia ladra di valigie!» disse alla donna. «Solo perché ho detto che lì dentro ci sono tutti i miei soldi...».
«Senti, senti...» disse la donna, a testa alta. «Io volevo solo aiutare questa ragazza» proseguì rivolta all’autista. «Figuriamoci, i soldi...» e fece capire che di tutte le fasulle gratificazioni, i soldi erano, non solo la più inaffidabile, ma quella a cui badava meno. «È sola in una città che non conosce,» disse la donna a Betsy «qualcuno si offre di aiutarla e per tutta risposta l’accusa di furto». Si tolse i guanti neri e rivolse prima a Betsy e poi all’autista una lunga, mesta occhiata di compatimento. «Le persone della tua specie le riconosco al volo» concluse seccamente.
«Signora,» fece l’autista tristemente «se la ragazza non vuole il suo aiuto non può costringerla ad accettarlo. Forse» aggiunse senza alcuna ironia «la ragazza preferisce portare da sé il suo denaro».
«Naturale» rispose la donna, e si girò, dando la schiena a entrambi; prese la propria valigia e la borsetta, e scese dal pullman camminando con l’andatura orgogliosa di chi mai e poi mai deruberebbe il prossimo. «Deve stare molto attenta, sa, signorina, a non cacciarsi in qualche guaio» disse l’autista a Betsy. «Non può fidarsi di nessuno, o quasi».
«Lo so» disse Betsy. «Mi sono ripromessa di essere molto prudente».
«Conosce qualcuno qui in città o cosa?» domandò l’autista, guardando per la prima volta Betsy anziché la valigia. «Voglio dire, sa dove andare?».
«Certo» rispose Betsy, rendendosi pienamente conto di dove fosse arrivata. «Devo vedere mia madre».
L’Hotel Drewe era un’insegna su una tenda da sole, una scritta dorata sulle tazze e i taschini dei gilè e le bustine di fiammiferi; Betsy non aveva mai camminato su una moquette dove i passi non producevano alcun rumore, e nemmeno al museo aveva mai visto degli ottoni lustrati così a puntino. La colpirono le premure che la direzione mostrò nei suoi riguardi: qualcuno aveva deciso dove doveva andare il letto e quante stampelle mettere nell’armadio, e nessuna sopracoperta di raso, nessun acquarello o rivestimento in legno di noce potevano oscurare il fatto che qualcuno aveva concepito una stanza chiusa dove Betsy avrebbe potuto compiere i gesti più privati della sua vita per il tempo che voleva, nell’ordine che lei avrebbe fissato, pagando di tasca propria, prudentemente nascosta e al sicuro. Dopo aver chiuso la porta a chiave (certo la zia Morgen e il dottor Wrong non avrebbero mai pensato di andarla a cercare in una camera con un copriletto di raso azzurro, ma aveva promesso all’autista del pullman di stare molto attenta con la valigia, e chiudere a chiave la porta le parve una giusta precauzione), corse alla finestra e si affacciò. La sua camera era in alto, e non lontano, fra i palazzi, scorse il fiume. Appoggiata al davanzale ebbe l’impressione che qualcosa la sfiorasse con tocco delicato; era come se il fiume, scorrendo fra gli argini e lambendo la terra con mille piccole onde, mandasse la sua carezza fino all’Hotel Drewe. Da un punto imprecisato le giunse l’ineffabile fermento della musica.
L’idea del mondo la sopraffece, l’idea della gente che viveva attorno a lei, che cantava, ballava, rideva; sembrava una cosa inaspettata e gioiosa che in tutto quel grande mondo cittadino ci fossero migliaia di posti dove avrebbe potuto andare a vivere in perfetta beatitudine, fra amici che la stavano aspettando proprio lì, nella folla indaffarata della città (ah, i balli in quelle piccole stanze, le voci che cantano in coro, le lunghe chiacchiere la sera al fresco sotto gli alberi, e le passeggiate spavalde mano nella mano, e i matrimoni, la musica, la primavera!); forse c’era già chi scrutava ansioso un viso dopo l’altro, chiedendosi quando sarebbe arrivata Betsy. Si sentì sfiorare da un piccolo scroscio di risate, come prima dalla carezza del fiume, e strinse forte le dita sul bordo del davanzale, deliziata: come siamo felici tutti noi, pensò, e che fortuna che finalmente io sia arrivata!
Molto più in basso di lei, su uno stretto cornicione fra uno dei palazzi e il fiume, c’era un uomo che avanzava piano piano; non lo vedeva in faccia né capiva quale fosse il suo obbiettivo, ma lo osservò con soddisfazione, sicura che avrebbe eseguito con competenza quello che aveva intrapreso. L’uomo inciampò, ma si riprese e si guardò indietro, sicuramente con un gran sorriso, come uno che dica: «Me la sono vista brutta, stavolta», e poi alzò lentamente la testa, quasi volesse accertarsi che Betsy lo stesse guardando. E mentre lei restava piacevolmente col fiato sospeso, l’uomo staccò una mano dal davanzale e fece un cenno di saluto, anche se Betsy sapeva che non era rivolto a lei, e, sempre sorridendo e vacillando, gridò qualcosa a qualcuno, prima di procedere e scomparire. Lei continuò a osservare il fiume che scorreva, interrogandosi sull’uomo che se n’era andato con tanta facilità, pensando a lui che adesso era al sicuro, e rideva già pronto a occuparsi d’altro, e girava in mezzo ai suoi amici, diretto forse verso qualche bel posto dove l’avrebbero accolto a braccia aperte; un giorno quell’uomo potrebbe diventare anche amico mio, pensò; e in quel bel posto accoglierebbero a braccia aperte anche me.
Adesso che sapeva di essere venuta per incontrare sua madre, la città cominciava ad acquistare ai suoi occhi una forma più coerente, perché in qualche modo al centro di tutto c’era una figura sola, sua madre, da cui si irradiavano in ogni direzione i segnali e gli indizi che Betsy avrebbe dovuto scoprire e che l’avrebbero senz’altro condotta fino al cuore del labirinto. Qualsiasi cosa, pensò, guardando con trepidazione le finestre dall’altra parte della strada, qualsiasi cosa poteva essere un indizio.
Sua madre, rifletté, doveva aver sempre saputo che un giorno o l’altro lei sarebbe arrivata, ma non poteva prevedere il momento esatto in cui Betsy sarebbe stata in grado di fuggire da Owenstown, quindi non c’era da aspettarsi chissà quale aiuto dalla mamma, almeno finché non veniva informata (forse dall’uomo del cornicione?) che Betsy finalmente era arrivata e aveva iniziato la ricerca. C’era anche la possibilità che s’incontrassero per caso, ma sembrava assai remota, considerando i milioni di persone che gremivano la città. Decise giudiziosamente che la miglior cosa da fare fosse ricordarsi di tutto ciò che aveva sentito dire da sua madre riguardo a New York, perché già allora, anni e anni prima, sua madre, in vista di quel futuro in cui avrebbero potuto essere libere insieme, aveva seminato gli indizi grazie ai quali prima o poi Betsy sarebbe riuscita a rintracciarla.
Allora, punto primo: Betsy aveva due anni quando aveva lasciato New York con sua madre; di conseguenza non si poteva pretendere che ricordasse molto della città, anche se aveva l’impressione che in ogni momento potesse capitarle di girare un angolo e di entrare senza il minimo presentimento in una scena rammentata fin nei minimi particolari e più reale di qualsiasi altra cosa vista dopo. Tutto quello che Betsy sapeva di New York (eccetto ciò che aveva osservato dal finestrino del taxi, e l’Hotel Drewe, e quel suo nuovo conoscente, l’uomo del cornicione – oltre all’autista del pullman, chiaro, e alla donna con i guanti neri, i quali probabilmente in questo momento erano anche loro lì, da qualche parte, in mezzo a quella folla brulicante) lo aveva sentito raccontare da sua madre: una dozzina di futili accenni, lasciati cadere nel corso di questa o quella conversazione. Betsy cercò di rievocare con precisione gli indizi lasciati da sua madre.
«... Lo comprai in quella piccola boutique che ti dicevo, Morgen, ti ricordi? Abigail’s». Betsy rammentava questa frase con la massima chiarezza, compreso il tono un po’ impaziente con cui sua madre era solita rivolgersi alla zia Morgen; cosa strana, però, non riusciva a ricordare né il vestito né le due donne che ne parlavano; in mente le era rimasta unicamente quella frase solitaria, il che doveva farne un sicuro indizio.
E poi... sua madre non aveva forse parlato spesso con nostalgia della casa dove aveva vissuto da sola con Betsy? «... E ballavo con la mia bambina, e cantavo, e al mattino guardavamo sorgere il sole; era un po’ come a Parigi». Forse doveva prendere in considerazione l’eventualità di andare a cercare sua madre a Parigi? Comunque era più saggio, decise, cominciare da qui; non era facile arrivare a Parigi, mentre a New York c’era già; inoltre, benché Elizabeth sapesse un po’ di francese, Betsy non si era mai presa la briga d’impararlo, e si sarebbe sentita terribilmente a disagio se avesse dovuto ricorrere a Lizzie per tradurre anche le cose più semplici; no, pensò, niente Parigi. Ma ballavamo insieme, e cantavamo, e vivevamo in un caseggiato di molti piani, perché c’erano un sacco di scalini («... e la mia Betsy che scendeva le scale, e scendi e scendi e scendi, e io che l’aspettavo giù, e aspetta e aspetta e aspetta...»). Rise ad alta voce, appoggiandosi al davanzale, pensando a sua madre.
Avrebbe passato quella sua prima mattina a New York nella stanza d’albergo, un po’ perché lì, al chiuso, poteva allentare leggermente il controllo su Elizabeth, e un po’ perché pensava che avrebbe dato nell’occhio se fosse uscita subito dopo essere arrivata, senza nemmeno disfare i bagagli o darsi una sciacquata alla faccia. Questo le fece venire in mente che era del tutto inopportuno continuare a indossare gli scialbi vestiti di Elizabeth; se davvero la zia Morgen e il dottor Wrong la stavano cercando avrebbero dato una descrizione precisa: Elizabeth Richmond, ventiquattro anni, altezza un metro e settanta, peso cinquantaquattro chili, capelli castani, occhi azzurri, indossa un tailleur blu, una camicetta bianca, scarpe nere col tacco basso, un semplice cappello nero, l’ultima volta è stata vista con una valigia marrone chiaro. Si ritiene che sia stata rapita da una giovane, tale Betsy Richmond, sedici anni, altezza un metro e settanta, peso cinquantaquattro chili, capelli castani, occhi azzurri, indossa un tailleur blu... No, era essenziale cambiarsi d’abito. Betsy, però, rifletté beffarda che se qualcosa poteva spingere Elizabeth a riaffermare la propria autorità era vedersi all’improvviso con un paio di scarpe rosse e un abito di lamé; così, con riluttanza, scelse un compromesso: forse bastava un cappello rosso e un po’ di bigiotteria.
Svuotò la valigia, mise la biancheria pulita e le calze di ricambio di Elizabeth nel cassetto del comò, appese il disadorno cappotto e la camicetta pulita nell’armadio. Si spogliò e fece un bagno, e poi, uscendo dalla vasca, si imbatté inaspettatamente in sé stessa, riflessa nello specchio a figura intera della camera da letto, e per un minuto quasi si smarrì nella sorpresa. Dov’è Elizabeth? si chiese. Dove, in quella pelle ben tesa sulle braccia e le gambe, nelle ossa sottili della schiena e nell’articolata struttura delle costole, nelle piccole dita dei piedi e delle mani e nel vitale comparto di collo e testa... dove c’era posto, in tutto questo, per qualcun altro? Forse dietro la limpidezza degli occhi si poteva cogliere Lizzie che si muoveva furtiva, che si affacciava con cautela per poi sbucare e vedersi? O forse Lizzie s’era rintanata più in fondo, e aspettava dietro il cuore, o la gola, pronta a serrarglieli con entrambe le mani e ad assumere il controllo con un attacco assassino? Era forse sotto i capelli, quella, o aveva trovato rifugio in un ginocchio? Insomma dov’era Lizzie?
Per un attimo Betsy, con lo sguardo fisso, smaniò di farsi a pezzi per dare metà di sé a Lizzie, e tanti saluti! E dirle: prendi questo, e questo, e questo, sì, puoi prenderti anche questo, ma adesso sparisci, esci dal mio corpo, vattene e lasciami in pace. Le avrebbe lasciato tutte le cose inutili, i seni e le cosce e le parti che, con gran gusto di Betsy, le facevano male; Lizzie poteva tenersi la schiena, così avrebbe avuto sempre mal di schiena, e lo stomaco, così avrebbe continuato ad avere i crampi; ah, consegnare a Elizabeth l’intero regno delle viscere e lasciarla andare, così lei sarebbe rimasta padrona di sé.
«Lizzie,» le disse con voce crudele «Lizzie, vieni fuori» ed Elizabeth, affacciandosi per un istante, si vide coi propri occhi, nuda, in piedi, in una camera sconosciuta, davanti a un grande specchio, e cominciò a piangere, e si abbracciò forte con entrambe le braccia, guardando inorridita la stanza.
«Dove...?» chiese con un sussurro «Chi...?», e si guardò attorno, aspettandosi forse di intravedere il suo aggressore, il furfante che l’aveva ghermita, ignara di tutto, in mezzo alla folla, per soddisfare le sue malvagie passioni da tratta delle bianche. «C’è qualcuno?» disse infine Lizzie, con voce fievole, e Betsy rise e la rispinse giù. «Poveraccia...» le disse, tornando a osservare nello specchio il corpo che tanto aveva atterrito Elizabeth. «Povera scema».
E poi, con le lacrime di Lizzie ancora sulle guance, pensò: «Mi sarebbe piaciuto avere una sorella vera».
Udì, chiara come se risuonasse in quel momento, lì accanto lei, nella stessa stanza, la voce di sua madre che diceva: «No, voglio che la bambina stia con me. Non rinuncerò mai alla mia Betsy».
Quella era mia madre, si disse, girandosi, era mia madre che parlava, vuole che vada da lei. Ma non l’ha detto adesso, pensò, quand’è che l’ha detto? Quand’è che ero lì che ascoltavo e ho sentito mia madre pronunciare queste parole: «No, voglio che la bambina stia con me...»?
«Liberiamoci di quella peste. Lasciala con Morgen. Che senso ha che stia con noi?». Ecco, pensò Betsy, la voce di Robin. «Detesto quella mocciosa» aveva detto Robin una volta, tanto tempo prima, parlando con la madre di Betsy. «Detesto quella mocciosa». E sua madre aveva davvero risposto: «Ma lei è la mia Betsy e io le voglio bene»? Aveva detto proprio così? Sicura?
«La tua bambina ha freddo» disse Betsy, e s’infilò nel letto, rincantucciandosi sotto le coperte, e continuò a pensare; ma più il tepore cresceva, più Lizzie dava segno di agitarsi. Allora Betsy si mise a canterellare: «Ninna nanna, ninna oh, un canarino ti darò, se il suo canto non è bello, alla mia bimba darò un anello, un anello con un diamantino, dormi dormi fino al mattino...». Vorrei avere un anello con un diamante, pensò, mentre Lizzie si chetava; se avessi un anello con un diamante potrei dire che sono fidanzata e prossima alle nozze. Se fossi fidanzata e prossima alle nozze, non potrebbero riportarmi a casa della zia Morgen perché il mio futuro sposo glielo impedirebbe. Se avessi un marito, mia madre potrebbe sposarlo e così potremmo nasconderci tutti e tre insieme e saremmo felici. Mi chiamo Betsy Richmond. Mia madre si chiama Elizabeth Richmond, Elizabeth Jones prima che mi sposassi. Chiamami Lisbeth come fai con mia madre, perché Betsy è il mio tesoro, caro Robin...
(«Sei una sciocchina» disse sua madre.
«Ma anch’io voglio che Robin mi chiami Lisbeth. Come chiama te».
«Betsy» fece Robin, ridendo. «Betsy Betsy Betsy»).
Mentre Elizabeth sognava di volare e di precipitare, Betsy decise di comprarsi dei vestiti nuovi, magari oggi stesso, se riusciva a trovare il negozio, Abigail’s. Forse lì avrebbe scoperto subito dov’era sua madre; forse – e questo pensiero la fece ridere fra sé e sé e dimenarsi nel letto –, forse, aprendo la porta della boutique, avrebbe visto sua madre già là, davanti allo specchio, che si provava l’abito di lamé e i gioielli. «Betsy, Betsy» avrebbe detto sua madre, andandole incontro a braccia aperte. «Dove sei stata? Sono secoli che ti aspetto, secoli e secoli!».
Più tardi, dopo aver riflettuto su cosa mettersi e passato un altro po’ di tempo alla finestra (ma l’uomo del cornicione non ritornò), si vestì e si accorse che Lizzie si era risvegliata, e le venne in mente il cibo e di colpo sentì di aver fame. Non ho fatto colazione, pensò; con la zia Morgen a quest’ora sarei a tavola, zuppa o pastasciutta o tramezzino con lattuga e maionese e un bicchiere di latte o cioccolata calda e dolci e biscotti e budini e ananas e cetriolini sottaceto; esitò sulla soglia, girandosi a guardare la camera. Aveva messo via tutto e non c’era alcuna traccia di lei, così se per caso fossero venuti a cercarla, nulla avrebbe rivelato dov’era o dove stesse andando. Dopo aver chiuso prudentemente la porta con tutte le mandate, infilò la chiave nella borsetta di Elizabeth, che aveva preso in mancanza di un’altra. Dentro c’erano la matita e il rossetto che Lizzie usava per darsi un pallido colore sulle labbra, e il fazzoletto pulito che non mancava mai, e una penna e un taccuino e una confezione di aspirina; chiudendo la cerniera della borsetta Betsy sogghignò, domandandosi come la chiave di un albergo ignoto avrebbe giustificato la propria presenza nella borsetta al fazzoletto bianco e casto di Elizabeth. Dopodiché si avviò lungo il corridoio diretta all’ascensore pensando: finalmente ci siamo.
La cosa più importante che aveva imparato fin qui – e non le sembrava poco, in sole dodici ore – era che non era obbligata a fingere sempre di sapere il fatto suo o di sentirsi a proprio agio in un ambiente estraneo. Gli altri, lo aveva capito, erano spesso a disagio e incerti, smarrivano la strada o il denaro, si innervosivano se uno sconosciuto li avvicinava o stavano sul chi vive davanti a poliziotti e funzionari. Questo rese tutto più facile a Betsy, dato che poteva chiedere tranquillamente all’impiegato della reception dove fosse la sala da pranzo senza apparire strana o malata. Contava così di poter affrontare tranquillamente un intero pasto, a patto di non chiedere pietanze dal nome francese e di osservare con attenzione come gli altri stavano a tavola e muovevano i piatti, e chiamavano il cameriere. Dopo aver visto il copriletto di raso che aveva in camera, non la intimorirono né la vastità né il biancore della sala; del resto, ragionò, tutte le tavole imbandite che non fossero quella della zia Morgen le sarebbero parse comunque insolite. Si sedette pensando divertita che se inciampava nel piede del cameriere, o le cadeva la borsetta, o addirittura, sedendosi, mancava completamente la sedia, avrebbe sempre potuto svignarsela, lasciando Lizzie a sbrigarsela da sola. Spiegò il tovagliolo e si guardò attorno, adagiandosi con soddisfazione contro il morbido schienale. Ogni esperienza, ormai, rifletté deliziata, è più bella di quella che l’ha preceduta: le cose stanno andando di bene in meglio.
Con una sconfinata sensazione di felice perversità ordinò, alla maniera della zia Morgen, un bicchierino di sherry, e non si accorse che il cameriere titubava chiedendosi se la ragazza avesse l’età che dimostrava nell’aspetto, e allora non c’era da preoccuparsi, o quella che dimostrava nei modi, nel qual caso non avrebbe potuto servirle alcolici. Il cameriere, ad ogni modo, era un amante della logica, e giunse alla conclusione che una donna aveva più facilmente gli anni che dimostrava piuttosto che quelli che fingeva di avere, così le servì lo sherry, e Betsy lo sorseggiò con garbo, e con la stessa professionalità della zia Morgen. Siccome era impossibile, in quello che sembrava il più affascinante dei mondi, che qualcosa potesse risultare sbagliato o fuori luogo, quando a Betsy venne voglia di compagnia adocchiò la prima persona che le passò accanto e disse: «Ciao».
«Ciao» rispose l’uomo, sorpreso, fermandosi incerto.
«Siediti con me, per favore» disse Betsy compita.
Quello spalancò gli occhi, guardò alle spalle di lei il tavolo vuoto che era stato il suo obbiettivo, poi rise e disse: «Va bene».
«Mi sento strana a stare qui da sola» spiegò Betsy. «Senza qualcuno con cui parlare e cose così. A casa c’era sempre la zia Morgen, e anche quando stava zitta avevo almeno qualcuno da guardare. Voglio dire, qualcuno che conoscevo» precisò.
«Naturale» disse l’uomo sedendosi. «Sei qui da molto?» le domandò, prendendo il tovagliolo.
«Sono arrivata stamattina, ma l’autista del pullman mi ha raccomandato di essere prudente, e cerco di esserlo, chiaro, ma ho pensato che avevi l’aria del tipo giusto, uno con cui poter parlare». Sembrava un uomo molto bene educato, non vecchio come il dottor Wrong, ma più grande di Robin, e perfettamente a suo agio con una persona che non conosceva. «Per caso eri tu, prima, fuori dalla mia finestra?» gli domandò all’improvviso. «Eri tu quello che camminava sul cornicione?».
Scosse la testa, stupito. «Non sono così agile» disse.
«Io sì, se volessi potrei farlo. Lizzie si sentirebbe svenire, ma a me non succede, chiaro».
«Chi è Lizzie?».
«Lizzie Richmond. L’ho portata con me, e vorrebbe uscire, ma non può». Si interruppe e guardò il suo interlocutore con aria sospettosa. «Avevo deciso di non dire a nessuno di Lizzie».
«Non c’è problema» replicò lui. «Sarò muto come un pesce».
«Ad ogni modo ci penserà mia madre, troverà lei il modo di liberarsi di Lizzie... Non è che possiamo avercela sempre tra i piedi, dopo tutti i problemi che abbiamo già avuto per liberarci di Robin e compagnia bella».
«Ti va di mangiare?» domandò l’uomo e, sorridendole, prese il menù dalle mani del cameriere. Betsy disse: «Questa è la prima volta che mangio in un ristorante» e si dimenò tutta felice. «Ho una fame da morire» aggiunse.
«Allora sarà bene ordinare un pranzetto coi fiocchi» disse lui. «Scelgo io per te?». Le porse il menù e proseguì: «O preferisci fare da sola?».
Betsy prese il menù, lo scorse velocemente e poi glielo restituì. «Lizzie parla francese,» disse «ma io non mi sono mai data la pena di impararlo, chiaro, sicché sarà meglio che faccia tu. Mi raccomando, però, devi ordinare un sacco di piatti. E tutti stuzzicanti». Esitò. «Non prendere cose come...» disse «come la pastasciutta, o i cetriolini sottaceto, o i tramezzini, o roba così. Non voglio le cose che fa la zia Morgen».
«Bene» disse l’uomo con voce grave. Studiò il menù con aria assorta. «Niente cetriolini sottaceto» disse, meditabondo. «Niente tramezzini». Alla fine, col cameriere in piedi accanto a loro, e annuendo rivolto verso Betsy con fare rassicurante, fece le ordinazioni con la massima facilità e proprio come se gli fosse già capitato chissà quante volte di ordinare il pranzo per delle signorine che volevano mangiare solo pietanze stuzzicanti e detestavano i cetriolini sottaceto. Mentre Betsy ascoltava le meravigliose parole che indicavano manicaretti succulentissimi di cui ignorava tutto, persino l’ordine in cui sarebbero stati serviti, e ascoltava la musica che veniva da qualche remoto angolo della sala, e udiva la dolce, armoniosa melodia che nasceva quando le forchette toccavano i coltelli, e le tazze i piattini, Betsy si disse: adesso, da ora in avanti sarà sempre così.
«Ecco fatto» disse alla fine l’uomo, restituendo il menù al cameriere. «Penso che ti piacerà tutto. E ora dimmi... non so nemmeno come ti chiami».
«Betsy. Betsy Richmond. Mia madre si chiama Elizabeth Richmond, Elizabeth Jones prima di sposarsi. Sono nata a New York».
«Quanti anni fa?».
«L’ho dimenticato» rispose Betsy in tono vago. «Questo è per me?». Il cameriere le aveva posato davanti una macedonia. Lei prese con le dita la ciliegia e se la mise in bocca. «Mia madre mi lasciò con la zia Morgen,» proseguì biascicando «ma non se ne andò mica via con Robin».
«Quel tipo di cui dovevate liberarvi?».
Betsy annuì energicamente, deglutì e disse: «Ma non voglio ricordare questa parte della storia, l’ho deciso mentre ero in pullman. Una cosa brutta sul conto di Robin basta e avanza, non credi?».
«Mi sa di sì» disse lui. «Considerato poi che ti sei liberata di lui».
Betsy ridacchiò, alzando il cucchiaio. «E della zia Morgen, e del dottor Wrong, e presto mi libererò anche di Lizzie: sono come il bambino di pan di zenzero, sono».
«Mi chiedo... chissà se la zia Morgen non sta in pena per te» disse l’uomo con tono prudente.
Betsy scosse di nuovo la testa. «Le ho mandato una cartolina con una bella foto e le ho detto che non intendo più tornare a casa, e comunque cercheranno Lizzie, non me. Posso avere ancora un po’ di frutta?».
«Tra un minuto il cameriere ti porterà qualcos’altro».
«Posso pagare, sai? Ho un sacco di soldi». Quando vide che l’uomo sorrideva, ebbe un pensiero e acutamente domandò: «Ho detto una cosa sbagliata, vero? Ma perché?».
«In un certo senso ti ho invitata a pranzo io, no?» rispose l’uomo. «Questo significa che penserò io a pagare il conto, quindi tu non devi mai nominare i soldi. Devi solo aspettare, e dopo mostrarti molto grata».
«Grata?» fece Betsy. «Cioè devo dire: “Grazie mille davvero”? Come fa la zia Morgen?».
«Proprio come fa la zia Morgen» rispose lui. «A proposito, dov’è tua madre, adesso?».
«Non lo so di preciso. Devo ancora scoprirlo. Come con l’uomo del cornicione. Ma alla fine me lo diranno, vedrai, perché continuerò a chiedere e a cercare, a chiedere e a cercare, a chiedere e a cercare, a chiedere e...». Tacque all’improvviso, e ci fu silenzio. Quando Betsy alzò lo sguardo, l’uomo stava finendo tranquillo la sua frutta. «A volte» gli disse con grande cautela «mi sento un po’ confusa. Mi devi scusare».
«Ma certo» rispose lui, niente affatto stupito.
«Così, capisci...» disse Betsy, fissando con profonda soddisfazione una scodella colma di un brodo limpido sul cui fondo si muovevano delle piccole strane forme, e giravano, e guardavano, e andavano.
«E lei chi è?» domandò Elizabeth, stralunata.
«Salve, piacere di conoscerla» disse lui. «Io le sono amico».
Betsy alzò lo sguardo e restò senza fiato. Si ritrasse nell’angolo più lontano della sedia, guardando il suo interlocutore, accigliata. «Non starla a sentire» gli ingiunse. «Quella dice solo bugie».
«D’accordo» disse lui, girando il brodo col cucchiaio.
«Non mi va questa sbobba» dichiarò Betsy, con voce indisponente.
«Fa’ come vuoi» replicò lui. «Però è molto buona. A me sono sempre piaciute le zuppe».
«Anche la zia Morgen ne va matta» disse Betsy. «Vuole sempre fare la zuppa».
«Va matta anche per i cetriolini sottaceto, se non sbaglio».
Betsy ridacchiò, anche se era seccata. «La vecchia zia Cetriolini» disse.
«E il vecchio dottor Cetriolini» disse lui.
«E la vecchia Lizzie Cetriolini».
«Lizzie, cioè Elizabeth Jones?» chiese lui.
«Come?» disse Betsy.
«Elizabeth Cetriolini prima di sposarsi» disse lui.
«Basta! Piantala!» esclamò Betsy, furibonda. «Smettila subito di parlare così o lo dirò a mia madre».
«Scusami tanto» disse lui. «Era solo una battuta».
«A mia madre non piacciono le battute. Niente battute cattive, e quando Robin faceva delle battute cattive mia madre gli diceva di smetterla e tu quando fai delle battute cattive sembri Robin».
«E ti libererai di me?».
Betsy rise. «Quella volta sì che sono stata furba! Parlo di come mi sono liberata di Robin» disse e poi, basita, sospirò: «Oh!» e si girò a guardare il carrello dei dolci che le passava accanto. «Posso prendere un pasticcino?».
«Prima devi finire di mangiare. Su, la zuppa è squisita».
«Voglio un pasticcino» insistette Betsy.
«Tua madre non vorrebbe, il dolce va mangiato per ultimo».
Betsy si placò di colpo. «Come fai a saperlo?» disse. «Come fai a sapere cosa vuole mia madre?».
«Be’, di sicuro non vuole che ti venga la nausea. Sarebbe una cosa da sciocchi».
«Giusto!» esclamò Betsy con gioia. «Betsy è il tesoro della mamma e non le deve venire il mal di pancia, Betsy è l’amore della mamma e non deve piangere, e la zia Morgen diceva sempre: smettila di viziare quella ragazzina».
«Mi sa che a noi due» disse l’uomo lentamente «non ci sta troppo simpatica la zia Morgen, dico bene? Non mi sembra una tizia tanto per la quale».
«La zia Morgen dice che la ragazzina deve smetterla di andar dietro a Robin tutto il tempo. La zia Morgen dice che la ragazzina è troppo grande per stargli addosso a quel modo. La zia Morgen dice che la ragazzina sa troppe cose per la sua età».
«La vecchia zia Cetriolini» disse l’uomo.
«Voglio un pasticcino» disse Betsy, e rise, gesticolando verso il cameriere che spostava il carrello dei dessert. «Uno solo,» acconsentì l’uomo «e poi finisci di mangiare le altre cose che ho ordinato per te. Non devi farti venire il mal di pancia, ricordi?».
«Tanto mica viene a me» replicò Betsy, piegandosi amorevolmente sui sontuosi pasticcini, e negli occhi le luccicarono i riflessi della panna, del cioccolato, delle fragole. «Il mal di pancia viene a Lizzie». Uno era con le banane, uno con la graniglia di nocciola, uno con le ciliegie; Betsy sospirò.
«Allora mi dicevi che stanno cercando Lizzie?».
«Voglio quello quadrato,» fece Betsy «per cominciare. Quello quadrato» ripeté rivolta al cameriere. «E poi così ne provo uno di un altro tipo, e se qualcuno di quelli che assaggio è veramente buono, posso tornare qui a mangiarne ancora, dopo che li avrò provati tutti. Perché ho una camera proprio qua sopra,» disse a mo’ di spiegazione al cameriere «e se voglio posso tornare come e quando mi pare. Così adesso voglio...».
Lasciò la frase in sospeso vedendo il capocameriere avvicinarsi al loro tavolo per annunciare: «C’è una telefonata per lei, dottore».
«Dottore?» esclamò Betsy, balzando in piedi. «Dottore?». Agguantò la borsetta, e disse con voce rabbiosa: «Ah, ho capito, sei il dottor Wrong, anche se hai cambiato faccia, e volevi fregarmi...».
«Aspetta un attimo, ti prego» le disse il suo commensale tendendo una mano per cercare di trattenerla, ma Betsy lo respinse e lo oltrepassò a passi decisi, le labbra frementi, le mani che tremavano per la rabbia. «Questo è stato molto brutto da parte tua, dottor Wrong,» gli disse «e lo racconterò a mia madre e le dirò che hai fatto finta che eravamo amici, e così adesso non posso nemmeno gustarmi quel delizioso pasticcino quadrato». Si avviò, ma le tornò in mente una cosa. «Grazie mille davvero, per il conto che pagherai» disse con un cortese cenno del capo, poi lasciò la sala quasi di corsa, attraversò l’atrio dell’albergo e uscì in strada. Un pullman, pensò Betsy, ci vuole sempre un pullman per andarsene, e girando a destra si avviò di gran carriera lungo il marciapiede. Vide un autobus che svoltava l’angolo e si fermava, allora si scapicollò e riuscì a salire e si sedette con una sensazione di sollievo accanto a una donna che indossava un vestito di seta verde e che le rivolse una breve occhiata.
Quando ebbe ripreso fiato, Betsy si allungò davanti alla donna in verde per guardare dal finestrino, e disse: «Vorrei proprio sapere dove va questo autobus».
«Downtown, ovviamente» disse la donna con tono severo, come se Betsy avesse messo in dubbio l’onore dell’autobus o, peggio ancora, la perspicacia della donna in verde. «Quest’autobus va downtown».
«Grazie» rispose Betsy. «Spero di riuscire a trovare il posto che cerco. Non sarà facile, così alla cieca, ma voglio provarci comunque».
«Certa gente» disse l’altra, soppesando la questione, «crede che sia difficile orientarsi downtown. Ma io ho sempre avuto più difficoltà uptown. Deve andare lontano?».
«Be’, non ne sono sicura» disse Betsy. «Devo vedere. Ci sono un sacco di scale. E i muri sono rosa,» aggiunse, chiamando a raccolta i ricordi «e dalla finestra si vede il fiume».
«Allora mi sa che è il West Side» disse la donna in verde. «Ci sono un sacco di scale, nel West Side». Sospirò. «Io vivo nell’East Side,» aggiunse «ma tanto quest’autunno dovremo andare via».
«West Side?».
«Sì, a ovest» disse la donna. «A destra quando si scende dall’autobus».
«Allora vado sulla destra e ogni strada è buona?».
«Ogni strada?» fece la donna, con un’inflessione schizzinosa, e voltò con decisione la testa, mettendosi a guardare dal finestrino.
La gente qui mi sembra bella confusa, pensò Betsy con un senso di impotenza, poi riprese: «È che sto cercando mia madre, e non so esattamente dove sta perché manco da tantissimo tempo».
«Ah, sì?» disse la donna, continuando a guardare dal finestrino.
Povera me, pensò Betsy, e le posò timidamente una mano sul braccio. «Per favore,» disse «voglio domandarle solo una cosa, posso?».
La donna si girò, esitando come se si aspettasse da Betsy qualche altra domanda a sproposito – se aveva vissuto sempre nell’East Side, forse, o se nel suo caseggiato c’era l’ascensore – e poi annuì. «Naturalmente» precisò «non è che sappia rispondere a tutto».
«Ho bisogno solo di un segno» disse Betsy. «Di un indizio. So dove sto andando, chiaro, e sono sicura che il posto, quando lo vedo, lo riconoscerò subito, ma non so di preciso qual è la casa. La finestra guarda sul fiume, e i muri sono pitturati di rosa...».
«Di rosa?».
«Sì, e ricordo» aggiunse Betsy con tono trionfante «che c’era un bel quadro appeso alla parete». (E riudì, in lontananza, la voce di sua madre: «Perché, diciamolo, una volta che hai un bel quadro in casa, non c’è più bisogno di...». Di cosa? Di fiori? Di mobili? Di Betsy?).
La donna accanto a lei rifletté, seria, e alla fine domandò con tono speranzoso: «Ma la via se la ricorda?».
«Era downtown, questo lo so per certo. Mi ricordo le scale».
«Be’» fece la donna. «Sa che in effetti...» si decise a dire «delle persone che conoscevo una volta, cioè non veri e propri amici, naturalmente, non gente che, insomma...».
Liquidò la questione con un gesto veloce, e Betsy intervenne con sollecitudine: «Sì, conosco un sacco di persone così».
«Insomma queste persone avevano un appartamento dalle parti... vediamo, doveva essere la 10a Strada, perché uscendo andammo direttamente... No, no, cosa dico? Era la 16a! Ma, sì, certo. A metà dell’isolato».
«A metà dell’isolato» ripeté Betsy. «E si vedeva il fiume?».
«Me li ha fatti tornare in mente lei con quello che ha detto adesso,» rispose la donna «perché naturalmente a casa loro non ci sono più tornata, non è che li conoscessi davvero, ero capitata lì solo a una festa. Insomma queste persone in casa avevano un quadro e ci tenevano non le dico quanto. Sì, perché lui era un pittore».
«Oh» disse Betsy. «No, lei non è una pittrice, dico mia madre».
«Non lo faceva mica di mestiere» replicò la donna in verde. «Non era mica un bohémien. Stia sicura che non la manderei mai in un posto dove non è il caso di andare. Figuriamoci!» e, incrociando le braccia tornò a girarsi risolutamente verso il finestrino.
«Mi scusi, mi sono spiegata male» disse Betsy. «Intendevo solo che non mi sembrava il posto che cerco io».
«Be’, ha detto che c’era un quadro, no?» chiese la donna.
«Si tratta di mia madre, capisce?» spiegò di nuovo Betsy. «Sta aspettando che io torni da lei dopo tutto questo tempo».
«Scenda qui» disse la donna, con tono conclusivo.
«Grazie» fece Betsy, alzandosi. «E grazie anche di avermi detto dove andare».
«Non occorre che faccia il mio nome quando arriva da loro» replicò la donna. «Probabilmente non si ricordano nemmeno chi sono».
La strada non era di quelle da ricordare con allegria; Betsy studiò ansiosamente le cose che di solito, se nessuno le molesta, durano stabilmente, come la prospettiva fino al minuscolo punto dove la via spariva, presumibilmente nel fiume, e tuttavia la veduta da lontano non era meno squallida di quella vicina, e nel cemento del marciapiede non c’era scritto ELIZABETH VUOL BENE A BETSY, e la sudicia staccionata alla sua sinistra non presentava graffiti riconoscibili, così come non evocava niente la freccia tracciata col gesso con la scritta «di qua» che indicava semplicemente un cancello basso su cui una mano incerta aveva tracciato la parola «Circolo». Non è il mio circolo, pensò Betsy, e comunque mia madre certo non è qua, questo almeno è un posto che posso scartare. A metà dell’isolato, aveva detto la donna in verde, a metà dell’isolato, con la vista sul fiume, niente a che vedere con CAMERE, Sartoria per signora, Si vendono canarini, Medium. Sull’altro marciapiede c’era un residence di pietra bianca, rinserrato e come sulla difensiva rispetto ai vicini che offrivano CAMERE, e Betsy attraversò la strada per andare a guardarlo da vicino. C’erano delle vistose targhe con i caratteri in grassetto che riportavano il numero e le dimensioni degli appartamenti, ma non si diceva se c’erano o no delle scale, e Betsy, chiedendosi quando avrebbero preso a sgorgare dentro di lei i ricordi improvvisi, si affrettò sotto la pensilina verso l’ingresso, salì un esiguo scalino – forse solo un’ostentazione, dato che in corrispondenza di quel gradino esterno, dentro, bisognava scenderne uno di altezza uguale – e si trovò in un piccolo atrio dove c’era un murale in cui dei pesci arancioni si stagliavano sullo sfondo di un mare nero. I pesci, benché forse vivissimi al tempo in cui il murale era stato realizzato, erano ormai morti da un pezzo, e fluttuavano mesti con le pinne strasciconi nell’acqua dipinta; chissà, forse a un certo punto avrebbero potuto essere salvati, quando, boccheggiando erano venuti per la prima volta in superficie, volgendo gli occhi nel tormento dell’asfissia verso l’ospite distratto che attraversava l’ingresso del condominio; un po’ d’acqua fresca e uno sguardo gentile avrebbero potuto resuscitare i pesci pitturati e offrire un’accoglienza migliore al visitatore nell’atrio fiocamente illuminato. In ogni caso adesso i pesci erano bell’e morti e dietro a un tavolo c’era una donna tarchiata con un vestito di cotone scozzese, che stava indagando avidamente la vita della gente famosa. «Vuole una camera?» disse e si sporse sul tavolo appoggiandosi pesantemente alla sua rivista; il peso rassicurante del petto sul tavolo la indusse a darsi un contegno, dato che si tirò indietro, appoggiandosi allo schienale della sedia, e disse: «Posso sapere chi cerca?».
«Cerco mia madre» disse Betsy.
«Sta qui da noi?». Di nuovo la donna si diede un contegno e si riappoggiò allo schienale. «Il nome, prego».
«Mi chiamo Betsy, ma sto cercando mia madre. È qui?».
«E chi lo sa, bellezza? Quale appartamento?».
«Non so bene. Ma ha le pareti rosa e dalla finestra si vede il fiume, e c’è un bel quadro perché, diciamolo, una volta che hai un bel quadro, non hai più bisogno di...». Betsy tacque, ma la donna non era di alcun aiuto; fissava distrattamente un annuncio pubblicitario sulla sua rivista che reclamizzava un corso di ingegneria in sei settimane. «Le pareti rosa?» disse la donna quando Betsy s’interruppe.
«E dalla finestra si vede il fiume».
La donna guardò in su, poi di lato, quindi in basso. «Cosa ti fa pensare che tua madre sia qui?» domandò. «Qui magari ci sta anche la madre di Tizio, Caio e Sempronio, ma io cosa ne so?».
«Però quella donna ha detto...».
«Pareti rosa» continuò la sua interlocutrice, stizzita, oscuramente irritata da un mondo in cui esistevano stanze con le pareti rosa, mentre lei era costretta a passare le sue giornate rimirando dei pesci arancioni in un mare nero. «Roba da arredatori» aggiunse, pronunciando una condanna definitiva.
«Allora mia madre non è qui?» chiese Betsy, abbattuta.
«No,» rispose la donna «qui non c’è. Povera cocca. Hai perso la mammina, eh?». Si mise a sfogliare in fretta le pagine della rivista, come cercando qualcosa che aveva visto prima, e disse: «E adesso aria, ok?».
Betsy, ubbidiente, girò i tacchi e passò di nuovo davanti ai pesci morti, e mentre usciva salendo il gradino al quale, di là dalla soglia, corrispondeva un gradino discendente, udì la donna bofonchiare con tono disgustato: «Vogliono sempre qualcosa che non hai! Pareti rosa, figuriamoci!».
Si rimise in cammino. Sembrava che non ci fosse nessun altro posto dove cercare, e rinunciò quasi subito all’idea di mettersi a bussare di porta in porta; a un tratto vide un uomo che le veniva incontro, una sagoma indistinta fra le ombre dei palazzi, e pensò che non c’era niente di male a chiedere, anzi sua madre, quando le avrebbe riferito la cosa, avrebbe capito che Betsy stava facendo davvero tutto il possibile per rintracciarla.
«Mi scusi,» disse, allungando una mano per toccare il braccio dell’uomo «per caso ha visto mia madre? La signora Richmond?».
«Ciao» le disse lui.
«Robin?» esclamò Betsy, e poi di nuovo: «Robin?», e subito fece dietrofront e si mise a correre, e lo sentì riderle dietro, come il cacciatore sicuro di aver messo ormai nel sacco la sua preda. Finalmente Betsy raggiunse il semaforo e la salvezza.
«Mi passi il dottor Wright, per favore. Devo parlare col dottore, è urgente, la prego».
«Eh?».
«La prego, sono a un telefono pubblico e ho molta fretta. Mi passi il dottor Wright, per cortesia. Gli dica che sono Beth».
«Chi cerca?».
«Il dottore, la prego. Il dottor Wright».
«Ha sbagliato numero, signorina».
«Certo che ho sbagliato numero, pezzo di idiota. Pensa che sono matta?».
Rientrata sana e salva in albergo, Betsy era ancora impaurita e arrabbiata, eppure non osava permettersi né la paura né la rabbia, perché entrambe consumavano vitali riserve di controllo. Ce l’aveva con Beth, che si era infilata di nascosto in una cabina del telefono e le aveva quasi rovinato tutto; aveva paura dell’uomo che aveva detto di essere Robin e però l’aveva lasciata scappare. Ma soprattutto, lì in albergo, era arrabbiata e impaurita al pensiero di quel dottore che andava in cerca delle persone in difficoltà, per poter offrire loro il pranzo e poi tradirle; con amarezza rammentò a sé stessa che era assai pericoloso fidarsi di chicchessia. Si lasciò cadere pesantemente sulla sedia davanti allo scrittoio, con la porta della camera ben chiusa e la chiave di nuovo nella borsetta, sforzandosi di riflettere. Le cose non stavano andando bene, non era più come all’inizio. Aveva sbagliato qualcosa, ed era sicura che quel qualcosa fosse stato l’essersi messa a parlare col dottore a pranzo (lui non aveva forse promesso di esserle amico nel breve attimo in cui era spuntata fuori Lizzie? E questo non significava allora che lui era amico di Lizzie e non suo?); per fortuna la presenza di Robin l’aveva messa in guardia contro il quartiere che aveva visitato quel pomeriggio: sua madre non era lì. Di conseguenza, anche se certo aveva dato un dispiacere alla mamma, non tutto era ancora perduto; doveva solo essere più prudente con l’indizio successivo, ed evitare di finire dritta nelle braccia di Robin. («Robin caro,» disse Betsy ad alta voce «chiamami Lisbeth».) Ma appena si girò, infreddolita e di colpo tremante, si accorse che le cose non erano assolutamente come dovevano essere: era successo qualcosa.
Lì per lì temette che l’avessero catturata, ma poi si rese conto che era ancora sola e che la prima luce del mattino lambiva gli edifici dall’altra parte della strada. A un tratto si buttò sulla porta e scosse freneticamente la maniglia cercando di aprirla, e quasi pianse per il sollievo quando si accorse che era ancora chiusa a chiave; allora non è andata via, pensò, e poi si domandò: chi non è andata via?
Era ancora troppo buio e nella stanza non ci si vedeva; quando Betsy accese la luce le mani le tremavano e le riuscì difficile manovrare il piccolo interruttore accanto alla porta; la prima cosa che vide fu la valigia di Lizzie aperta in mezzo al pavimento. «Così ha trovato la valigia» disse ad alta voce, e poi, infreddolita e immobile, nel silenzio prolungato della camera domandò: «Lizzie, dove sei?». Ma non ci fu risposta.
Aveva le guance rigate di lacrime, ancora una volta erano quelle di Lizzie, e Betsy se le asciugò seccata, pensando: ma come si permette di toccare le mie cose quella sciattona disordinata? La valigia era piena a metà di abiti buttati dentro alla rinfusa, e, come se Lizzie si fosse messa a fare i bagagli ma a metà avesse rinunciato, disperata, gli altri vestiti erano sparsi qui e là per la camera e ridotti a brandelli. La camicetta bianca più bella di Lizzie era posata sulla pediera del letto, col colletto strappato e i bottoni che penzolavano dai fili, e Betsy, guardandosi lentamente attorno, si spaventò vedendo che le lenzuola erano state tirate via dal letto e tagliate con le forbicine da unghie, e il cuscino sventrato; i fogli di carta sullo scrittoio, spazzati via dall’azione violenta di un braccio furibondo, costellavano il pavimento in una pila informe; le tende erano state tirate giù e giacevano in terra, le veneziane divelte; persino il tappeto era stato strattonato e un angolo era ripiegato su sé stesso. «Non aver paura» sussurrò Betsy. «Betsy è il mio tesoro, il mio tesoro». Si appoggiò alla parete, sentendo che il panico le toglieva le forze e sapendo che se avesse perso anche solo un altro briciolo di energia sarebbe svanita di nuovo; non poteva permettersi di provare rabbia, paura o disperazione; non poteva sprecare neanche un attimo a guardarsi indietro. «Sono Betsy Richmond,» bisbigliò «e mia madre si chiama Elizabeth Richmond...».
A poco a poco ritrovò la calma. La stanza si stava riempiendo di luce, i raggi del sole inondavano la cima dei palazzi, e Betsy pensò all’uomo del cornicione e si rincorò. Alla fine si staccò dal muro, sospirando forte come un bambino che smette di piangere, e cominciò a misurare la camera a passi lenti, pensando: quella là dovrebbe avere più di rispetto per le cose degli altri! Raccattò una calza, rovinata dalle sforbiciate e piena di nodi, e tutt’a un tratto scoppiò a ridere. Guarda guarda, pensò Betsy, Lizzie sta imparando da me; questo è il mio genere di cosa, non il suo, vuole vendicarsi per la lettera che le ho rovinato. E adesso ha più vitalità di quanta ne abbia mai avuta, si disse Betsy, e, continuando a ridere, raccolse la morbida camicetta bianca tutta strappata; di colpo l’immagine delle mani stanche di Elizabeth che con gesti selvaggi faceva saltare le delicate cuciture le sembrò di una comicità irresistibile, e si lasciò cadere indietro sul letto, rotolando sul materasso senza smettere di ridere. Povera piccola, pensò, si è data un bel da fare per rovinare le mie cose, povera piccola pazza furiosa. Betsy aveva sul viso e sui capelli le piume uscite dal cuscino squarciato, e mentre le risate scemavano scoprì che, soffiando e risoffiando, poteva tenere una piuma a mezz’aria, rimandandola in alto ogni volta che stava per cadere; poi per fortuna la luce del sole le arrivò sulla faccia; per fortuna, perché aveva ancora parecchie cose di cui occuparsi se voleva rintracciare sua madre, chiaro, e non poteva permettersi di stare a letto a fare giochini con le piume. Si alzò e si guardò allo specchio con avversione. I vestiti che indossava avevano patito non poco durante la notte: erano coperti di piume e in disordine, e per un attimo si stupì che anche quelli non fossero stati strappati e tagliuzzati, finché non si rese conto che Lizzie doveva aver avuto in mente di scappare con quegli abiti indosso. Si domandò oziosamente se quella là non avesse infierito con tanto impeto sulla stanza perché aveva tentato di fuggire ma non era riuscita a trovare la chiave, o se piuttosto non avesse fatto subito quel disastro, per vendetta, con l’idea di scappare dopo, ma la stanchezza poi glielo avesse impedito. «Povera piccola sciocca» ripeté Betsy e, fischiettando, si mise a cercare un moncone del pettine ridotto in pezzi per ravviarsi i capelli. Poi, a un tratto, con la valigia in mano, si girò e si sentì infreddolita, nauseata e spaventata come non mai. Il grosso dizionario che aveva portato con sé, per controllare l’ortografia di tutte le parole che potevano servirle, era nella valigia, la copertina era stata staccata, le pagine strappate e spiegazzate, e milioni di parole belle, pratiche, utili, erano andate irrimediabilmente perdute.
«Ma Lizzie,» disse Betsy ad alta voce, arretrando «Lizzie non avrebbe mai fatto niente di simile a uno dei suoi amati libri...!».
Improvvisamente, follemente, prese in mano il libro, lo alzò sopra la testa e lo fece roteare, scagliandolo con tutte le sue forze contro lo specchio. «Ecco fatto,» esclamò, mentre la lastra argentata andava in frantumi «così imparerai che io sono sempre molto peggio di te, chiunque tu sia!».
Più tardi, mentre era di nuovo sul letto che giocava con la piuma, ritrovò un po’ di calma. Tutto ciò, si disse, significava unicamente che aveva meno tempo di quanto avesse pensato. Era semplice: adesso doveva solo raggiungere sua madre il più in fretta possibile.
Ormai era quasi mezzogiorno, e Betsy non riusciva a ricordare se e quando avesse mangiato qualcosa la sera prima. Trascurò con risolutezza le piccole gelide tracce di vasti lassi di tempo inspiegato; per esempio, perché era pomeriggio quando aveva lasciato la tavola da pranzo, e notte quando era tornata dopo aver incontrato Robin? Pensò che probabilmente non aveva cenato, perché adesso era affamatissima, e si soffermò con gratitudine su questo vorace appetito, che era senza dubbio una sensazione sana e normale e niente affatto pericolosa, benché comportasse di dover uscire dalla camera. Alla fine ragionò scaltramente che se anche il dottore fosse stato ancora al piano di sotto ad aspettarla, a un certo punto avrebbe dovuto smettere per andare a mangiare qualcosa, e se smetteva di aspettarla per andare a pranzare o a cenare, avrebbe chiesto a qualcuno di stare di vedetta al suo posto, ma anche questo qualcuno, prima o poi, avrebbe dovuto andare a pranzo o a cena, cosicché lei sarebbe stata invisibile a tutti gli effetti se fosse uscita solo per pranzare o cenare, e avrebbe potuto andare e venire come le piaceva. Con la testa ai pasticcini, si precipitò davanti allo specchio rotto per darsi una sistemata ai capelli, dopodiché, prendendo la borsetta – notò con soddisfazione che avendola riposta, come faceva la zia Morgen, nel cassetto dell’armadio era sfuggita alla devastazione della camera –, aprì la porta e subito se la richiuse alle spalle, lasciando dentro il caos; poi, infilando quella chiave libertina nella casta borsetta di Elizabeth, si avviò lungo il corridoio diretta all’ascensore. Entrando nella sala da pranzo, Betsy avanzò con fierezza, e si fermò addirittura un istante a considerare i tavoli per scegliere quello che preferiva; si sedette sentendosi perfettamente a suo agio, e ordinò un bicchierino di sherry.
«Ma allora perché Robin è scappato?» domandò lui.
«Perché gli ho detto che avrei raccontato a mia madre quello che avevamo fatto». Betsy alzò lo sguardo, esterrefatta, la forchetta in mano. «No» sussurrò poi, gli occhi fissi e spaventati. «No» ripeté, e poi, proprio come avrebbe potuto fare Elizabeth, «perché?» chiese, guardando l’uomo, poi il proprio piatto, quindi la forchetta e infine i pasticcini. «Perché stai qui a parlare con me?».
«Ti prego,» disse lui, facendo per alzarsi «ti prego, stai tranquilla, Bess, davvero...».
«Bess?» disse Betsy. «Bess?».
Adesso Betsy sapeva per certo di non avere quasi più tempo; aveva sprecato troppi minuti preziosi a guardare fuori dalla finestra, a scrutare avida i dolci, e ormai loro erano vicinissimi, ce li aveva alle calcagna, il dottore della sala da pranzo e la zia Morgen e forse anche l’autista del pullman, quel traditore, e l’intera città ancora da perlustrare alla ricerca di sua madre. Forse, pensò, smettendo di fuggire e fermandosi un attimo nella semioscurità, lontana dall’entrata dell’albergo, forse se me ne sto qui buona, la mamma verrà. Mamma, disse silenziosamente alla gente che le passava davanti, mamma, vieni a prendermi; mi sono persa, sono stanca, ho paura, vieni a prendere la tua bambina, ti prego.
«Mia cara bambina,» le disse lui, avvicinandosi quatto quatto alle sue spalle «dài, torna dentro; ti prometto che voglio solo...».
«Questo è Robin» si disse Betsy, e si rimise a correre, zigzagando fra la gente, senza curarsi se gli altri la vedevano, o se la giudicavano strana, tendendo l’orecchio solo per sentire se lui la stesse inseguendo. Girò un angolo e varcò un grande ingresso illuminato, entrando in un negozio immenso e luccicante. «È tardi, stiamo chiudendo» le disse una ragazza accanto all’entrata, e Betsy ruotò su sé stessa senza parlare e si precipitò fuori da un’altra porta, ritrovandosi in un’altra strada che percorse a perdifiato, finché non vide davanti a sé una ressa di gente e pensò: lui è lì che mi aspetta, così fece dietrofront e tornò indietro di gran carriera; arrivata all’angolo svoltò e si fermò.
Ma come fa a trovarmi? pensò, come riacquistando finalmente la ragione. Non sa nemmeno come mi chiamo! Respirò a fondo, appoggiandosi al muro di un palazzo. Quest’angolo era più buio del precedente e c’erano meno passanti, tutti diretti verso il semaforo poco più in là; per qualche minuto restò a osservare il semaforo che passava dal rosso al verde, al rosso, al verde, poi pensò: è assurdo buttare via altro tempo, tanto nessuno potrà mai trovarmi qui, e rise accorgendosi di avere ancora con sé la borsetta, che era sempre rimasta agganciata al gomito.
«Dov’è l’autobus?» domandò a un uomo che passava, e quello si fermò, ci pensò su, e poi disse: «L’autobus per dove, signorina?».
«Non fa differenza» rispose lei.
«Be’,» disse l’uomo «se non fa differenza, perché lo prende? Perché non va a piedi?».
«Non saprei» disse Betsy. «Lei dove sta andando?».
«A circa tre isolati da qua» rispose quello. «Devo comprare un regalo per mia moglie, una collana, per il suo compleanno».
«Posso venire con lei? A mia madre piacciono le collane e quel genere di cose».
«Perché no?» disse lui. «Così mi aiuterà a scegliere. A mia moglie,» proseguì mentre Betsy lo affiancava «a mia moglie piacciono i gioielli, ma non quelli dozzinali. Non quelli che si trovano dappertutto. No, a lei piacciono i gioielli insoliti».
«Ah, sono i migliori» disse Betsy. «Ma quasi tutto può essere insolito, se non ci sei abituato, chiaro».
«Sì, è proprio vero» disse lui. «Infatti conosco un negozietto che mia moglie non conosce, vendono cose un po’ speciali. Così il mio regalo sarà una vera sorpresa».
«Oh, sono sicura che a sua moglie piacerà moltissimo» disse Betsy. «Specie perché glielo regala lei».
«Be’, mi sa tanto di sì» disse lui. «A mia moglie piace quasi tutto quello che le regalo, perché cerco sempre qualcosa di insolito».
«Anche io, chiaro» disse Betsy. «Al momento sto cercando mia madre, ed essendo nuova di qui non so cosa sia insolito e cosa no, ma mia madre lo sa. Vive qui, da qualche parte».
«Questa è una città niente male» disse l’uomo, in tono riflessivo. «Certo bisogna viverci per poterla apprezzare».
«Io andrò a vivere con mia madre, appena la trovo» disse Betsy.
«Sua madre sta a Brooklyn?».
«Sì, può darsi» rispose Betsy, dubbiosa.
«Ma lei come farà a trovarla?» domandò l’uomo.
«Be’,» rispose Betsy «lei sta cercando qualcosa per sua moglie, e io sto cercando mia madre, e così se l’accompagno, forse la troverò».
«Ah, quanto alla mia di madre non c’è problema,» disse lui «lei la trovi sempre».
«Be’, vede, sono venuta qui per incontrare mia madre, ma ancora non ci sono riuscita. Devo solo continuare a cercare. Sua moglie vive a Brooklyn?».
«No» rispose lui, sorpreso. «Vive con me».
«E dove vivete?».
«Uptown». L’uomo si fermò e scrutò Betsy con aria inquisitoria. «Lei si sente bene, signorina, vero?» domandò.
«Certo» disse Betsy. «Perché?».
«Se pensa che io possa vivere a Brooklyn» disse lui, continuando a camminare. «A quest’ora di notte».
«Sua moglie lo sa» domandò Betsy, affrettandosi per rimettersi al passo «che vuole comprarle un regalo di compleanno?».
«Sicuro» rispose lui. «Ma, vede, non sa dove lo comprerò».
«E la torta?» domandò Betsy. «Sua moglie deve ricevere anche la torta con la scritta “Buon compleanno” e le candeline».
«Perbacco» fece lui, fermandosi di nuovo. «Perbacco. Vediamo un po’» disse. «Secondo lei quanto può costare una torta? Diciamo sessanta centesimi?».
«Immagino di sì, più o meno» rispose Betsy.
«Poi però ci vogliono le candeline» continuò lui. «Facciamo bene i conti. Le candeline costeranno una decina di centesimi, non crede? E la torta sessanta? Poi ci vuole anche la scritta che dice “Buon compleanno”, e così sono circa altri ventinove centesimi, ammesso che si riesca a trovare un supermercato aperto. In conclusione se ne va grosso modo un dollaro. Considerando il costo della collana...».
«Lo so» disse Betsy. «Penso io alla torta e al resto. Lei pensi alla collana. Così è perfetto, no? Io regalo la torta, lei la collana».
«Bene» disse lui. «Lei la torta, io la collana. Al cioccolato, magari? O al caffè?».
«Io preferirei al cioccolato» rispose Betsy. «E prenda anche un bel biglietto d’auguri, e le dica che è da parte mia». Si fermò sotto un lampione e gli diede una manciata di monete che tolse dalla borsetta. «In realtà» fece notare «che lei vada uptown o a Brooklyn a me non mi può aiutare, perché mia madre sta dalla parte opposta. Ma grazie mille comunque».
«Bene» disse l’uomo. «Lei la torta,» continuò, preoccupato «io la collana. Ma senta un po’...» disse quando Betsy fece per avviarsi nella direzione opposta «chi devo dire? Sul biglietto eccetera?».
«Dica che è da parte di Betsy, con affetto».
«Bene» disse l’uomo. E mentre Betsy si affrettava lungo una via secondaria sentì che le gridava dietro: «Ehi, Betsy... grazie!».
«Tanti auguri e cento di questi giorni» gridò lei di rimando, e se ne andò per la sua strada. Benché avesse pochissime speranze di trovare sua madre di lì a poco, era contenta comunque di essersi ricordata della torta. Da noi c’è sempre la torta quando si festeggia un compleanno, pensò; mia madre ci sarebbe rimasta male se me ne fossi dimenticata; io mi chiamo Betsy Richmond e mia madre si chiama... Si arrestò all’improvviso e rise forte; finalmente andava di nuovo tutto bene.
«Mi scusi» disse, infilandosi fra i passanti; prese per il braccio una donna che camminava da sola e ripeté: «Mi scusi».
«Be’,» disse quella con tono scherzoso «solo se lei è una poliziotta, altrimenti non accetto le sue scuse. Cosa vuole?».
«Conosce una donna che si chiama Elizabeth Richmond? Cioè, sa dove sta di casa?».
«Richmond? No. Perché la cerca?» chiese la donna, scrutando Betsy.
«È mia madre. Dobbiamo incontrarci, ma mi sono dimenticata dove abita».
«Allora perché non guarda sull’elenco del telefono? Magari sotto la lettera R?».
«Non ci avevo pensato» disse Betsy, sconcertata.
La donna rise. «Ah, i giovani d’oggi» disse, e si allontanò.
Era una cosa così facile che Betsy ne ebbe quasi paura. Arrivò fino all’angolo, dove c’era un drugstore tutto illuminato, entrò e andò dritta verso la mensola su cui erano impilati gli elenchi telefonici; è troppo facile, pensò incerta, esitando a toccare il volume, deve essere una trappola; ma come avrebbe potuto guardare in faccia sua madre e dire che ci aveva messo così tanto a raggiungerla perché aveva avuto paura che fosse una trappola? Chi può sognarsi di avere paura se sta andando dalla propria madre? E perché mai sua madre avrebbe dovuto tendere una trappola alla sua Betsy, al suo tesoro?
RICHMOND, ELIZABETH. Le lettere nere spiccavano sulla pagina, e sotto c’era scritto: RICHMOND, ELIZABETH, e sotto ancora: RICHMOND, ELIZABETH, e poi di nuovo: RICHMOND, ELIZABETH. Qual è quella giusta? si chiese Betsy fissando la lista di nomi, qual è? Mia madre si chiama...
Si girò di scatto dando le spalle all’elenco del telefono, e poi si disse, severa: no, non è una trappola, e tornò a guardare la pagina, e ci posò il dito sopra. Che stupida, pensò, un sacco di persone hanno lo stesso nome di mia madre; anch’io ho il suo stesso nome. Comunque io sto cercando il suo indirizzo, il nome lo sapevo già. Avanti, allora, trova questo benedetto indirizzo, dev’essere dalle parti della 16a Strada, si disse, per giunta quanta gente vuoi che festeggi il suo compleanno proprio stasera? È a ovest dell’autobus, questo lo so, e dalla finestra si vede il fiume, e devo solo stare attenta a non dire a nessuno dove vado, per evitare le trappole.
Uno era sulla 18a Ovest, e questo era plausibile, così come quello sulla 12a Ovest, gli altri invece erano a Est, e uno era addirittura oltre la 100a, cioè per forza uptown; per cui gli indirizzi possibili si riducevano a due. Adesso sì, pensò Betsy trionfante, che le cose finalmente vanno molto, molto bene, adesso sì che ho l’indizio migliore di tutti, e posso andare dritta a casa di mia madre e forse arrivo in tempo per le candeline.
Uscendo nel buio dal drugstore vivacemente illuminato si rese conto che ormai era davvero molto tardi, e non osò mettersi in cerca di un autobus avendo così poco tempo a disposizione; prese invece un taxi e chiese all’autista di portarla nella 18a Ovest. Il tempo stringeva; sentiva i minuti che la strattonavano, e quando guardò dal finestrino le sembrò che le luci da fuori la investissero come un’onda nauseante, e dovette reggersi forte per evitare che la vista le si appannasse, e trattenere il fiato. Coraggio, ancora un po’ di pazienza, sussurrò, solo ancora un po’, Betsy è il mio tesoro. Il taxi la lasciò all’angolo fra la 5a e la 18a, e l’autista le mostrò in quale direzione doveva andare. Si avviò a passi affrettati, perché era meglio sbrigarsi, e le strade erano quasi deserte. Ho detto che ce l’avrei fatta e ce la farò, disse in un bisbiglio, ho detto che ce l’avrei fatta e ce la farò, mia madre mi aspetta e voialtri morirete tutti.
Non riusciva più a ricordare se il primo indirizzo fosse al numero 12 o 112 o 121; al 12 sembrava esserci un negozio, e quando ci passò davanti, osservando le vetrine buie, vide che probabilmente si trattava di una boutique; non distingueva il nome scritto in caratteri scuri ma sapeva che era Abigail’s, e capì d’essere alla fine sulla pista giusta. Eccomi, sussurrò, sto arrivando e mi chiamo Betsy... Allora doveva essere il 112 o il 121; i due caseggiati sorgevano quasi dirimpetto, uno da un lato della strada, uno dall’altro; Betsy si fermò, guardò le luci del 112 e pensò: è questo, è questo!
Per fortuna lì non c’erano pesci, notò entrando nel palazzo, e si domandò stupita cosa ci fosse di tanto importante nel fatto che sulle pareti non ci fossero dipinti dei pesci. «Mi scusi» disse, avvicinando la faccia a una finestrella munita di sbarre così assurdamente piccola che si chiese come facesse sua madre a passarci. «Sto cercando Mrs Richmond. Elizabeth Richmond».
«Qui non c’è».
«Ma l’indirizzo è questo, ne sono sicura. Le vostre camere hanno la vista sul fiume?».
«Naturale, signorina. Tutte le nostre camere...».
«Può darsi che si sia registrata con l’altro nome. Guardi sotto Jones».
«No, niente, non c’è».
«Ma sono sicura...».
«Provi qui davanti».
Pensò: vuoi vedere che alla fine il posto giusto è quello coi pesci? Fanno solo finta di avere delle camere con la vista sul fiume. Attraversò la strada, dando con decisione le spalle all’inutile edificio appena visitato, ed entrò in un altro ingresso; neanche lì c’erano i pesci, osservò soddisfatta. «Sto cercando mia madre» disse, con le ginocchia premute contro il bancone nell’atrio; la donna dietro al bancone indossava un vestito rosa e questo era un ottimo segno, chiaro. «Cerco mia madre» spiegò.
«Il nome?».
«Richmond. Elizabeth Richmond. O forse Elizabeth Jones».
«Si decida».
«A quest’ora dev’essere già arrivata, si starà preparando; ci sarà una festa per il suo compleanno».
«È vietato fare rumore dopo le dieci. Le feste, poi, sono vietate ventiquattr’ore su ventiquattro».
«Ma è solo una festicciola per il compleanno di mia madre. Saremo solo io e lei e le regalerò una collana».
«Gliel’ho detto. Qui da noi niente feste. Si rivolga altrove».
«Ma mia madre...».
«Provi qui di fronte».
Betsy uscì tutta impettita, perché si vergognava di essersi lasciata indurre a parlare con due estranee di sua madre, di cui aveva anche rivelato il nome; cosa avrebbe pensato di lei l’uomo del cornicione se avesse saputo che andava in giro a raccontare alla gente dove viveva sua madre? Pensa un po’, proprio adesso che era così vicina alla meta, rischiava di mandare tutto all’aria spifferando i fatti suoi a destra e a manca. «Mi scusi,» disse, e prese per un braccio una signora che passava «lei non è mica mia madre, vero?».
«Be’, veramente...» cominciò a dire la donna, e poi rise. «Si sbaglia» disse. «Con permesso...».
«Richmond» le gridò dietro Betsy. «Elizabeth Richmond».
A quel punto la donna si girò e aggrottò la fronte. «Per caso si fa chiamare Lili?» domandò. «Lili, eh?».
«Forse». Betsy fece per andarsene, ma l’altra l’abbrancò. «Se Lili è tua madre, bella mia,» disse «e non voglio dire che non lo è, se non lo sai tu, insomma, ma se Lili è tua madre, al posto tuo avrei vergogna a dirlo, giuro e mi venga un colpo se non è vero».
«Richmond» ripeté Betsy.
La donna fece cenno di sì con la testa, continuando a trattenerla per un braccio. «Ma sì, è lei» dichiarò, annuendo. «Cioè, avrei vergogna a dirlo se non fosse che io non ho niente da vergognarmi, perché io ho sempre fatto il mio dovere, senza tirarmi indietro, mentre lui, per tutto il tempo, correva dietro a quella là, capisci? E quando veniva da me, dovevi vederlo, faceva l’angioletto! E così non immaginavo niente, voglio dire, una non ci pensa a quelle robe lì, se non è sospettosa di natura».
«Parli di Robin?» fece Betsy. «Ma di Robin lo sapevo già».
«Ah, bene, ce n’è anche un’altra? Be’, prima o poi, tanto va la gatta al lardo... non so se mi spiego. Voglio dire che qualcosa succederà, insomma, mica scema tutta la vita. Un giorno lui mi arriva e io lì tranquilla e lui mi fa ciao come al solito e io – cioè, non mi andava di fare io il primo passo, capisci? –, io gli faccio ciao e allora lui dice cos’hai? E io non rispondo e lui insiste, fa, tipo: “Ehi, c’è qualcosa che non va?” e allora, badaban, gli ho detto tutto a brutto muso! Secondo te sono una scema? gli ho detto. Secondo te sopporterò che le cose vadano avanti in questo modo per l’eternità? Secondo te starò qui ad aspettare, aspettare, aspettare, aspettare, aspettare, mentre tu corri dietro a Lili? Non è per i soldi, gliel’ho detto chiaro e tondo, non è per i soldi, gli ho detto...».
«Era Robin,» esclamò Betsy, cercando di resistere alla presa della donna sul suo braccio «era proprio Robin, lo so».
«Sì, forse tu sai tutto» ribatté la donna con odio, allontanando leggermente Betsy da sé per poterla studiare meglio in faccia. «Forse sai tutto di questa storia, e io per prima non ne sarei stupita, dato che so perfettamente di essere stata l’ultima a saperlo, insomma siamo lì e lui dice: non so di che parli – faceva l’innocentino, capisci? –, e io dico per quanto tempo ancora pensi che starò qui ad aspettare, aspettare, aspettare, aspettare, aspettare? La gente è un pezzo che ne parla, gli dico, e mi sa che io ero l’unica che ancora non lo sapeva. Secondo te sono scema? Gli ho parlato così, senza peli sulla lingua. E lui? Ci credi che ha avuto la faccia tosta di ammettere tutto? Di dirmi tutto? A me! Ero così arrabbiata che non riuscivo nemmeno a piangere, e sì che io piango sempre quando sono arrabbiata, ogni volta che sono veramente arrabbiata, non riesco a trattenermi, capisci cosa voglio dire? E così lui mi dice che Lili è carina. Cosa vuoi dire? gli chiedo. Carina in che senso? Come fa una ragazza carina a stare con un broccolo come te? Sono andata giù dura, senza tanti giri di parole».
«Allora non è Robin» disse Betsy, dispiaciuta. «Io sono carina, no?». Trattenne il fiato, poi disse con voce ferma: «Tu non vuoi che io vada ancora da Robin, vero?».
«I desideri della carne» continuò l’altra, disperata «adesso me li chiami essere carina? Dico, come si può accettare una cosa del genere? Così l’ho messo con le spalle al muro. O me o lei, gli ho detto; devi prendere una decisione qui, ora, davanti a me, o me o lei. Cioè non mi andava di fare chissà che scene della malavita, se voleva prendersi quella Lili, se la prendesse pure, e se voleva me, doveva solo dimostrarmelo. Così ho parlato chiaro, capisci, non mi è mai piaciuto menare il can per l’aia e non volevo dargli questa soddisfazione, cioè, non volevo dargli la possibilità di dire che avevo fatto di tutto per trattenerlo mentre lui voleva piantarmi, sì, sai, se voleva sprecare i suoi desideri carnali con quella là, ma prego, aveva la mia benedizione! Perché la situazione era arrivata a questo punto qua, capisci? Ormai era o me o lei».
«E questa Lili dove abita?» chiese Betsy.
«A metà dell’isolato. Vedi quelle luci là? Capace» disse la donna, in cui adesso Betsy riconobbe la zia Morgen «che li trovi insieme».
Ora, pensò Betsy, percorrendo il marciapiede a grandi passi, ora sono molto arrabbiata con questa madre mia, che si nasconde con Robin e che per tutto questo tempo ha cercato di impedirmi di incontrarlo, eppure io non volevo altro che essere felice ed è stata una fortuna che la zia Morgen mi abbia detto come stanno le cose, altrimenti avrebbero continuato a farla franca, e a fingere che è il compleanno della mamma. Qui non ci sono pesci, notò Betsy, salendo un basso gradino, subito compensato da un altro gradino che scendeva; buon per loro. «Per favore, vorrei vedere mia madre» disse al tipo dietro il banco nell’atrio del palazzo. «Stanno cercando di nascondersi, mi sa».
«Sua madre?».
«Sì, penso che non devono essere qui da molto. Volevano starsene per i fatti loro, e nascondersi. Ma lei è mia madre».
L’uomo dietro il banco sorrise. «La camera rosa?» suggerì con tono allusivo.
«Sì,» disse Betsy «la camera rosa».
«Miss Williams» disse l’uomo, allungandosi indietro sulla sedia per parlare con la ragazza al centralino. «C’è nessuno nella 372?».
«Controllo subito, Mr Arden. Dice la nostra camera rosa?».
«Esattamente, Miss Williams. Questa signorina chiede informazioni».
«La 372 è occupata, Mr Arden. Stanno usando il telefono proprio in questo momento. Dico nella nostra camera rosa, Mr Arden».
«La camera rosa» ripeté Mr Arden con voce intenerita. «Miss Williams, la direzione ha mandato su lo champagne?».
«Controllo subito, Mr Arden. Sì. Stamattina. Una bottiglia di champagne e un mazzo di rose. Con i complimenti e le congratulazioni, Mr Arden».
«Magnifico, Miss Williams. E adesso immagino che questa signorina si starà facendo delle domande». Si girò e sorrise a Betsy. «È un nostro piccolo rito» spiegò. «Un omaggio della ditta. È il nostro...» esitò «tocco personale» disse, e arrossì visibilmente.
«Posso andare su, adesso?» domandò Betsy.
«La aspettano?» domandò a sua volta l’uomo, inarcando le sopracciglia.
«Sì, chiaro» disse Betsy. «Mi aspettano».
«Be’» disse Mr Arden, e con una mano fece un gesto eloquente. «Ne è sicura?».
«Chiaro» disse Betsy. «E sono già in ritardo».
Mr Arden fece un cenno d’assenso col capo. «Miss Williams,» disse «accompagni la signorina di sopra, nella camera rosa».
«Certamente, Mr Arden. Se vuole seguirmi, Miss, da questa parte, prego».
Sulle pareti dell’ascensore non c’erano dipinti dei pesci e questo era un segno molto, molto buono, e al piano di sopra i muri erano di un verde pallido e non assomigliavano affatto all’acqua del mare, anche se il verde pallido era il colore dell’abisso e dell’andare a picco e del perdere e sbiadire e affondare e fallire. «La nostra camera rosa ha un grande successo con i clienti» disse Miss Williams uscendo dall’ascensore e camminando a passi felpati. «La direzione fa trovare sempre in camera una bottiglia di champagne e un mazzo di rose per le novelle spose. Omaggio, naturalmente. Un’abitudine che piace».
«Vorranno nascondersi» disse Betsy.
«Ecco, laggiù. L’ultima camera sulla sinistra. Per offrire una maggiore privacy, lei mi capisce». Miss Williams ridacchiò, ma assai sommessamente.
«È qui?».
«No, no» disse Miss Williams. «Mi lasci bussare, se non le spiace». Ridacchiò ancora. «Bisogna sempre bussare due volte alla camera rosa» disse, di nuovo con un risolino.
«Qualcuno ha detto: avanti» fece Betsy.
«Buonasera» disse Miss Williams aprendo la porta. «Mr Harris, ecco la signorina che stavate aspettando».
«Buonasera, Betsy» disse Robin dal fondo della camera, sul viso un ghigno atroce.
«No, no» esclamò Betsy, arretrando e andando a urtare contro Miss Williams. «Questo no! Di nuovo Robin?».
«Prego?» disse Miss Williams, sbarrando gli occhi. «Prego?».
«No, basta, non te lo lascio fare più, sai?» disse Betsy a Robin. «E neanche la mamma te lo permetterà più». Si girò e divincolandosi per superare Miss Williams sulla soglia, fuggì a rotta di collo. «Sono terribilmente desolata, Mr Harris» disse Miss Williams dietro di lei «nella camera rosa... non immaginavo...».
«Non c’è problema» disse Mr Harris. «Un equivoco. Cose che capitano».
E Betsy udì che Robin la stava inseguendo, lungo il corridoio e giù per le scale, e pregò di non inciampare, no, ancora Robin no, dopo tutto quello che lei aveva fatto, non dopo tutto quello che lei aveva tentato, ancora Robin no, non era giusto, nessuno poteva farlo di nuovo, e pregò di riuscire a correre abbastanza veloce per scappare da lì, tirarsi fuori da quella situazione e mettersi al sicuro prima che Robin potesse toccarla, mettersi al sicuro. «Robin,» disse Betsy «Robin caro chiamami Lisbeth, Lisbeth»; la stava ancora inseguendo? Allontanarsi dalla luce e diventare invisibile, raggiungere l’angolo e sparire, lasciarsi Robin alle spalle... E se Robin invece era giù di sotto? Sulla soglia? Se stava lì ad aspettarla ghignando, con le braccia spalancate per acciuffarla? Betsy cercò di scendere ancora più veloce. Davanti a lei ecco la fine delle scale e la porta d’ingresso, ci si lancia contro, e la porta si apre, ma, to’, c’è Robin, come sempre, Robin che la aspetta, come sempre, e Betsy disse: «No, basta, ti prego», e si tuffò in avanti, infilandosi sotto il braccio aperto di lui e, singhiozzando, schizzò verso la porta. «Al ladro!» gridò una voce, e qualcun altro disse forte: «Aiuto!», e mentre correva a perdifiato udì Robin che le rideva dietro e alzò le braccia per proteggersi la faccia e si gettò verso l’uscita e quasi inciampò nei gradini, uno che saliva e l’altro che scendeva; la strada era piena di luci e Betsy socchiuse gli occhi, senza osare guardarsi indietro perché sentiva che Robin stava per raggiungerla.
«Robin,» disse Betsy «Robin, chiamami Lisbeth, Lisbeth, chiamami Lisbeth, Robin caro, chiamami Lisbeth». E cadde, e cadde, e nessuno poté acchiapparla, e cadde.
Era nella camera d’albergo, stava cercando di riporre nella valigia i pochi abiti sbrindellati che le sembrava valesse la pena di portare con sé. Aveva strappato e tagliato i vestiti e le tende e i cuscini perché era arrabbiata, ma adesso aveva la borsetta e la chiave, e avvertiva solo il bisogno impellente di sbrigarsi, perché – capiva bene quale fosse il pericolo peggiore che incombeva – Betsy poteva tornare da un momento all’altro. Sullo scrittoio, fra le penne rotte e l’inchiostro versato, scovò quel pezzetto di carta importantissimo che sapeva di dover nascondere fra le sue cose e consegnare poi ad una persona la cui identità era al momento ancora imprecisata. Benché non arrivasse a capire come una cosa di così vasta importanza potesse essere stata scritta su un foglietto tanto minuscolo, sapeva perfettamente che quell’appunto non doveva cadere nelle mani di Betsy; la sfiorò l’idea che si trattasse di un oggetto dal valore puramente artificiale, come il gingillo che viene nascosto quando si gioca ad Acqua, fuochino e fuoco!, o il fazzoletto di Rubabandiera, cose ambite solo finché dura il gioco, e che poi non interessano più a nessuno. Tra l’altro non riusciva nemmeno a leggerlo. Assomigliava alle centinaia di altri pezzetti di carta che capitano ogni giorno fra le mani della gente, come il volantino nel pacco ritirato in lavanderia in cui ti raccomandano di far lavare a secco le tende all’inizio della primavera, o i bigliettini che certificano la purezza del cioccolato delle uova di Pasqua, o il foglietto dentro il programma di un teatro in cui si avverte che a pagina dodici per un errore alla Miss Tale è stato attribuito il nome della Miss Talaltra; in ogni caso, lei non riusciva a leggerlo.
Non aveva la minima idea di chi l’avesse scritto, o perché, o a chi avrebbe dovuto consegnarlo, né come, né quando, tuttavia lo ripose nella borsetta: il fatto che Betsy non dovesse vederlo costituiva già di per sé una ragione sufficiente per nasconderlo e per fare tutto il possibile per consegnarlo a chi di dovere. Sprecò del tempo prezioso cercando di leggere l’appunto e, sconcertata, poté solo concludere che sembrava contenere delle lettere e delle cifre che, benché chiare e distinte a un primo sguardo, diventavano sgorbi incomprensibili appena li esaminava con più attenzione. Siccome era assolutamente sicura che quel biglietto fosse della massima importanza, decise di metterlo nel portafoglio, insieme alle banconote: sapeva che non avrebbe mai estratto un biglietto di banca per pagare le caramelle o una rivista o il taxi per la stazione dei pullman senza fare bene attenzione a quel gesto, così non rischiava di perdere il foglietto.
Non trovò molto da mettere in valigia. Era irritante considerare che se Betsy fosse stata meno irragionevole e le avesse consegnato la chiave senza fare storie, non sarebbe successo niente di tutto questo e i suoi vestiti, i quali, dopotutto, erano costati dei bei quattrini, non sarebbero mai finiti in brandelli; ma Betsy, oltre a essere una ragazza pericolosa e intrigante, era anche una terribile spendacciona; prendiamo, tanto per dirne una, questa camera d’albergo: non si poteva certo considerarla una spesa necessaria, per giunta avrebbe dovuto pagarla con soldi che non erano suoi. Comunque adesso l’unica cosa che voleva era saldare il conto e lasciare l’albergo il più presto possibile, prima che il personale scoprisse i danni nella camera; era stata colpa di Betsy, ma era evidente che avrebbero cercato di farsi rimborsare tutto da lei, anche lo specchio che aveva mandato in frantumi Betsy.
Quando ebbe riempito la valigia con quello che le sembrava potesse essere aggiustato, o rabberciato, o usato per qualche altro scopo, la chiuse e si rialzò, e si guardò attorno per controllare di non aver dimenticato niente. Poi con gesti veloci s’infilò il cappotto e prese la borsetta e la valigia. Ma a quel punto si bloccò, restando perfettamente immobile: Betsy stava tornando.
Adesso non c’era più tempo per pensare alla valigia e l’abbandonò sul pavimento; rimestando nella borsetta in cerca della chiave, corse verso la porta. Betsy le fu addosso proprio mentre stava per infilarla nella toppa, e levò un urlo rabbioso, e le afferrò la mano e gliela morse finché lei non lasciò cadere la chiave, che Betsy cercò di prendere al volo. Se fosse riuscita a impadronirsene, lei non avrebbe avuto più speranza di fuga; affondò una mano nei capelli di Betsy e glieli tirò selvaggiamente, dandole uno strattone per allontanarla dalla chiave, che restò sul pavimento, mentre tutt’e due, ansimando, si fermavano in attesa delle mosse una dell’altra, come due gatti che si muovono in circolo. Poi, con uno slancio incredibilmente veloce, Betsy si gettò di nuovo sulla chiave e arrivò a sfiorarla con la punta delle dita, ma lei schiacciò forte il piede sulla mano di Betsy, inchiodandogliela a terra.
Tuttavia Betsy era insensibile a qualsiasi dolore, e lei lo sapeva; quella mente nera non registrava alcun genere di sofferenza, dunque l’unica sua possibilità era di sopraffarla fisicamente, e ricacciarla giù; con una forza lenta e quieta, con un gesto quasi delicato, mise una mano attorno alla gola di Betsy e strinse le dita a poco a poco, lentamente; non disse niente, perché aveva bisogno di tutto il suo fiato. Betsy invece strillò, e boccheggiò, e poi le graffiò la mano con unghie affilate e taglienti, e tirò calci, e urlò di nuovo mentre annegava; il tacco della scarpa di Betsy s’impigliò nel filo elettrico di una lampada che si rovesciò e cadde, rompendosi in mille pezzi; il rumore farà venire gente, lei pensò. Sentì le unghie di Betsy solcarle una guancia, e la udì gridare: «Mamma!», e poi più niente: l’aveva annientata.
Ritrasse la mano che le aveva serrato attorno alla gola e con singulti affannati rotolò sul pavimento e recuperò la chiave. Poi, muovendosi con delicatezza, tutta dolorante, si alzò in piedi, infilò la chiave nella serratura e la girò.
«Bene, bene,» disse l’infermiera con grande entusiasmo «ha fatto proprio una bella dormita. Stiamo un po’ meglio, vero?».
Molte camere hanno le pareti bianche e molti letti hanno le coperte bianche, ma solo negli ospedali ci sono le pareti bianche e le coperte bianche e un comodino con un bicchiere d’acqua con dentro una cannuccia per bere e le infermiere hanno nella voce esattamente quel genere di entusiasmo. «Dove?» disse, e parlando avvertì un dolore lancinante.
«Ahi, dobbiamo fare silenzio!» disse l’infermiera, agitando scherzosamente un dito. «Abbiamo la gola ridotta un po’ maluccio, vero? Ma adesso non ci dobbiamo pensare; adesso dobbiamo solo darci una bella lavata e poi arriverà il medico a controllare come andiamo. E non dobbiamo parlare e non dobbiamo eccitarci e soprattutto non dobbiamo pensare a quello che è successo, perché in fin dei conti deve essere stata una cosa abbastanza orribile, dico bene? Giriamo solo appena un po’ la testa da questa parte, così possiamo medicare come si deve questi graffi sulla guancia senza sentire male. Ecco fatto». L’infermiera si tirò indietro e con sincera semplicità le rivolse un sorriso radioso. «Tornerà presto graziosa come prima» disse con voce allegra.
«Dove?».
«Dove, cosa? Che domande assurde facciamo, eh?». L’infermiera rise, e di nuovo alzò il dito. «Per noi sono guai» disse «se entra il medico e ci trova che chiacchieriamo. Ma, diciamolo, quanto sarà soddisfatto di vedere come stiamo bene oggi, pensando a come stavamo ieri? Ma, diciamolo, che siamo state proprio brave e intelligenti, ieri, con quel biglietto, eh?». Si girò verso la porta e poco mancò che facesse un inchino, l’aria gioconda sostituita all’istante da un’espressione grave e austera. «Buongiorno, dottore» disse.
«Buongiorno, infermiera. Buongiorno, Miss Richmond. Come va la gola stamane?».
«Mi fa male».
«Certo, è naturale» rispose il medico. Esitò un attimo, poi proseguì: «Non voglio che sforzi la voce, tuttavia gradirei che provasse a darmi almeno una vaga idea di quello che è successo. Conosce la persona che ha cercato di strangolarla?».
«Nessuno ha cercato di strangolarmi».
«Miss Richmond,» replicò il medico «qualcuno le ha stretto le mani attorno al collo, lasciandole quei brutti lividi. Forse intende dire che non sa chi sia stato?».
«È stata lei a graffiarmi».
«Lei, chi?».
«Dottore,» disse l’infermiera, avvicinandosi con fervida sollecitudine «è arrivato il medico curante di Miss Richmond».
«Bene, lo faccia venire. Cara Miss Richmond, grazie all’appunto che abbiamo trovato nella sua borsetta, siamo riusciti a metterci in contatto con sua zia e con il suo medico, e abbiamo potuto pregarli di venire subito qui». Il medico si alzò e andò alla porta, dove lo sentì parlottare a bassa voce. «Da ieri sera» gli sentì rispondere, e poi un’altra voce, altre domande. «... un occhio su di lei, in albergo» sentì che diceva ancora il medico dell’ospedale.
L’infermiera le andò vicino e la guardò dall’alto, con sconfinata gentilezza. «È stata molto fortunata, sa?» disse con tono enigmatico.
«... autoinflitte, ma è impossibile che...».
«La zia Morgen?» chiese lei.
«Sua zia è al piano di sotto» rispose l’infermiera. «È venuta per riportarla a casa».
La porta si spalancò e il medico rientrò nella stanza, accompagnato da un uomo piuttosto basso di statura, pallido in viso, che camminava a passettini e sembrava avere un’aria preoccupata. «Un foglietto con il mio nome e l’indirizzo» disse varcando la soglia; evidentemente stava ripetendo a mo’ di conferma quanto gli era stato appena riferito dal medico dell’ospedale, che ora annuiva. Le si misero accanto, uno da un lato del letto, uno dall’altro, e la osservarono dall’alto mentre l’infermiera si faceva da parte in tutta fretta. «Vorrei che fosse in grado di dirci qualcosa di più» continuò il medico. «Ma pare che non sappia chi l’ha aggredita».
«So io chi è stato» disse l’uomo basso, sovrappensiero; la stava scrutando con grave serietà, poi allungò un braccio, le sfiorò i graffi che aveva sulla guancia, e subito ritrasse la mano. «Povera cara Elizabeth» disse. «Sapesse quanto siamo stati in pensiero» le disse.
Miss Richmond lo guardò, perplessa. «Scusi, ma lei chi diavolo è?».