MARSIGLIA

A Marsiglia Tartarino si sentì più sgomento di come poi sarebbe stato in Africa. Fra Tarascona e le terre dell’avventura selvaggia non esisteva una tremenda differenza. Marsiglia invece è un mondo in cui l’avventuroso è quotidiano e la quotidianità è avventurosa. C’è davvero di che restare sgomenti. Marsiglia è la porta del mondo, Marsiglia è la soglia dei popoli. Marsiglia è Oriente e Occidente. Da questa città partirono i Crociati per la Terra Santa. Passando per questo porto, molte favole delle Mille e una notte si diffusero per l’Europa. Qui approdarono motivi orientali, qui gettarono l’àncora, qui calpestarono il suolo della letteratura e dell’arte europea. Da qui, alcuni secoli prima della nascita di Cristo, gli esploratori Pitea e Eutimene si spinsero fino al Mar Baltico, salparono da qui alla scoperta dell’Islanda. Marsiglia è al tempo stesso l’erede e la vecchia nemica di Cartagine, la bella amica di Roma, la città greca, l’«Atene gallica». Qui i Visigoti, i Longobardi, i Saraceni, i Normanni, conquistatori sconfitti, sprofondarono nella cultura latino-greco-fenicia. Qui la grande Rivoluzione fu salutata con giubilo, qui trovò la sua seconda patria, la sua vera patria, il suo testo e la sua musica. Marsiglia è la patria di Pierre Puget e di Thiers, ed è anche la patria di Edmond Rostand.

 

 

Marsiglia è New York e Singapore, Amburgo e Calcutta, Alessandria d’Egitto e Port Arthur, San Francisco e Odessa. A Marsiglia si fabbricano zucchero, stearina, sapone, prodotti chimici, aceto, liquori, ceramiche, cemento, vernici. In otto ore il sarto confeziona un abito. In ventiquattr’ore viene trasformato l’aspetto di una strada. Agli angoli delle strade, in baracche di legno, vivono i finti avvocati. In mezz’ora compilano testamenti e certificati di matrimonio, in mezz’ora risolvono vertenze legali. Dalla ricchezza alla povertà c’è meno di un passo. Il mendicante dorme sulla soglia del palazzo. Gli alimentari si comprano in una bottega, l’amore in un’altra. La barca dei marinai poveri procede con fatica accanto al grande transatlantico. Le conchiglie giacciono vicine alla merce esposta dai mercanti di pietre preziose. Il ciabattino vende coltelli còrsi. Il venditore di cartoline offre veleno di serpente. Nel vecchio porto i cinema sono aperti tutto il giorno. Ogni ora entra in porto una nuova nave. Un’onda su dieci getta a riva degli stranieri, come fossero pesci. L’ebreo algerino fa affari al caffè con il Cinese. Il «re del dollaro» si diverte in una bettola. Una notte su due c’è una persona colpita a morte, un assassinio, una rapina, un dramma familiare. La vita balla sul filo del rasoio, che nel porto è l’arma preferita. La miseria è profonda come il mare, il vizio libero come le nuvole.

Tutti i rumori hanno il medesimo timbro. In tutti i rumori c’è qualcosa che ricorda il fracasso del motore di una nave. Il lustrascarpe si annuncia tambureggiando con un colpo di spazzola sul coperchio della sua cassetta. E un analogo tambureggiare segna la fine del suo lavoro. I tram e tutti gli altri mezzi di trasporto strombazzano come automobili. Ognuno fa rumore. Ognuno batte il tempo della città. Ognuno traduce la musica delle onde nella propria lingua. Lo strillone, col fragore della campana di una chiesa, invita gridando a comprare il suo giornale. E le campane sui campanili si mescolano senza problemi ai rumori profani che vengono dal basso.

Palpabile, visibile, tangibile e vicina, si attua in ogni istante la grande e incessante mescolanza dei popoli e delle razze. Già crescono le palme, e ancora stormiscono i castagni. Il Rodano conduce a nord e a ovest, il mare a sud e a est. Qui fischia la locomotiva, là urla la sirena. L’acqua bagna la terra e la terra si sporge nell’acqua. Il vicolo più stretto e più buio sfocia nell’ampio e luminoso boulevard. Si percepisce il movimento delle enormi lancette dell’orologio della storia. Lo «sviluppo» e il «divenire» non sono più concetti astratti. Si vede il piede della storia e se ne contano i passi.

Non è più la Francia. È l’Europa, l’Asia, l’Africa, l’America. È il bianco, il nero, il rosso e il giallo. Ognuno porta la propria patria sulle suole delle scarpe e, passo dopo passo, la conduce a Marsiglia. Ma qui tutte le terre sono benedette dallo stesso sole, vicino, caldissimo, luminosissimo, e su tutti i popoli si inarca la medesima porcellana azzurra del cielo. Sulla sua ampia schiena oscillante il mare porta qui tutti quanti: ognuno aveva una terra per sé, ora hanno tutti un unico mare.

Qui la storia non lascia sopravvivere i monumenti di pietra. Li spazza via velocemente. Il respiro del passato non è altro che un alito, ormai. Una settimana fa qui c’erano i Fenici, ieri l’altro i Romani, ieri i Germani, oggi i Francesi. Come su una superficie di pochi chilometri quadrati si possono percorrere tutte le distanze della terra, così si affollano qui tutte le epoche della storia, quasi che non trovassero posto nelle ampie sale dell’eternità. Chi non crede in Dio sente qui la presenza di una forza che sospinge i secoli, e nel caos delle migrazioni intuisce un senso profondo. In un nuovo accavallarsi delle maree, elementare e inesplicabile come quello che l’ha preceduto, si avverte il flusso e il riflusso delle popolazioni.

Come fili neri che si stagliano sul cielo azzurro, così si tendono le gomene dei velieri in attesa. Il nuovo porto è una città di navi. L’olio galleggia sul mare. Gli innumerevoli alberi delle navi mi nascondono il mare. Nel porto non si sente odore di sale e di vento, ma di trementina. L’olio galleggia sulla superficie dell’acqua. Barche, barchette, zattere, passerelle sono incastrate così strettamente l’una nell’altra che uno potrebbe passeggiare per il porto senza mai bagnarsi i piedi se non ci fosse il rischio di annegare nell’aceto, nell’olio e nell’acqua saponata. È questa l’immensa porta che si apre sugli immensi mari del mondo? Marsiglia è piuttosto l’immenso magazzino degli articoli di prima necessità del continente europeo. Qui ci sono barili, scatole, travi, ruote, leve, tinozze, scale, tenaglie, martelli, sacchi, stoffe, tende, carri, cavalli, motori, automobili, tubi di gomma. Qui c’è l’inebriante puzza cosmopolita che si produce quando mille ettolitri di trementina vengono immagazzinati accanto a mille barilotti da mezzo quintale pieni di aringhe; quando il petrolio, il pepe, i pomodori, l’aceto, le sardine, il cuoio bulgaro, la guttaperca, le cipolle, il salnitro, l’alcol, i sacchi, le suole degli stivali, i tessuti di lino, le tigri reali, le iene, le capre, i gatti d’Angora, i buoi e i tappeti di Smirne esalano i loro tiepidi vapori; e quando infine l’appiccicoso, grasso e pesante fumo del carbon fossile avvolge tutti, i morti e i vivi, e confonde tutti gli odori, impregna tutti i pori, satura l’aria, vela a lutto le pietre e alla fine diventa talmente intenso da smorzare ogni rumore, così come da tempo ha già smorzato la luce. Qui mi aspettavo l’orizzonte infinito, il più azzurro azzurro del mare, e sale e sole. Ma il mare del porto è risciacquatura con enormi occhi grigioverdi di grasso. Salgo su uno dei grandi piroscafi e spero di cogliere un lieve soffio di quelle lontananze che la nave ha attraversato. Ma qui c’è l’odore che si sente a casa nei giorni che precedono la Pasqua: odore di polvere e di materassi messi a prendere aria; di vernice per le porte; di panni ad asciugare e di amido; di cibi bruciacchiati; di maiale macellato; di gabbie per polli ripulite; di carta smerigliata; di una certa pasta gialla per lucidare l’ottone; di una polvere contro gli scarafaggi; di naftalina; di cera per pavimenti e di conserve.

In questo momento più di settecento navi si trovano nel porto. Questa è una città di navi. I marciapiedi sono barche, e le strade zattere. Gli abitanti di Marsiglia hanno bluse azzurre, visi abbronzati e mani dure, grandi, di un colore tra il grigio e il nero. Se ne stanno ritti sulle loro scale a dipingere di fresco gli scafi delle navi con vernice marrone, portano secchi pesanti, fanno rotolare barili, smistano sacchi, lanciano rampini di ferro e inchiodano casse, girano manovelle e sollevano merci con carrucole di ferro, lucidano, piallano, puliscono e producono nuova sporcizia. Vorrei tornare al vecchio porto, dove sostano i romantici velieri e le scoppiettanti barche a motore, e dove si vendono le cozze fresche e gocciolanti a trenta centimes l’una.

Bianca riluce la città: è costruita con la stessa pietra del castello dei trovatori di Les Baux e del Palazzo dei Papi di Avignone. Ma non è festosa. È laboriosa. Ospita milioni di vite frantumate. Ad Avignone anche i mendicanti serbavano una certa fierezza. Nel vecchio porto di Marsiglia la povertà è peggio che miseria. È un inferno al quale non si sfugge. Accatastati in infernale disordine si accampano uno sull’altro i relitti umani. La malattia fiorisce gialla e velenosa dai canali intasati. Cani rognosi giocano con i bambini nei pantani. I poveracci lottano con gli animali per un osso gettato via, migliaia di donne e di uomini raccolgono mozziconi di sigaretta, il cane spia l’uomo, il gatto il cane, il topo il gatto, e tutti fanno la posta allo stesso pezzo di carne putrefatta nell’immondizia.

La via dell’amore ha dimesso il proprio nome ufficiale e non ha insegna. Tutti la trovano perché sanno dov’è. Chi va dalla grande cattedrale al vecchio porto sente uscire da cinquanta strette bottegucce la metallica melodia di cinquanta carillon che non smettono mai di suonare. Davanti alle botteghe siedono le donne, le più vecchie e le più grasse di questa terra. Vendono il proprio corpo per tutto il giorno, per tutta la notte. Gli uomini che vengono dalle navi percorrono la strada in gruppetti sciolti di dieci o quindici unità. Si disperdono nelle varie botteghe. E allora un carillon tace, una tenda di perle di vetro scende davanti a un grigio e triste canapè, e nella fila diritta delle donne in vendita davanti alle porte si forma un vuoto.

Non accade nient’altro, solo amore e musica. Certe donne tengono i bambini in grembo. È una strada in cui crescono molti bambini, i bambini più tristi delle madri più tristi del mondo. Accanto alla loro culla un carillon suona. Dal momento in cui vengono alle tenebre del mondo, già sanno che cos’è il giaciglio dell’amore a buon mercato. Gli enigmi dell’esistenza vengono loro offerti insieme alla soluzione più ovvia. La vita con loro è prodiga di esperienze. I compagni di giochi dei loro primi anni sono gatti malati che portano fortuna, e i giocattoli preferiti un tombino, una conchiglia o un ciottolo.

Mattino, mezzogiorno, pomeriggio, sera, notte, tutte le ore qui sono uguali. Del cielo si vede solo una striscia, del sole nulla. Anche questo è un amore senza tempo. E chi lo offre non ha età. Erano donne vecchie e brutte già quarant’anni or sono. Per altri quarant’anni potrebbero essere giovani e belle. Quarant’anni fa il carillon emetteva cigolando le stesse melodie. Per altri quarant’anni suonerà una musica che agli orecchi di uomini storditi sembrerà celestiale. Già quarant’anni fa metteva in fuga chi l’ascoltava. E per altri quarant’anni ammalierà coloro che vorranno prestarle ascolto. Che cosa è vecchio, che cosa è giovane, che cosa è brutto, che cosa è bello, che cosa rumore e che cosa musica, quando il giorno consiste di innumerevoli notti d’amore e un istante è una notte d’amore? Quando la merce coincide con la persona che la vende, quando l’amore vale un soldo e un soldo contiene l’amore? Quando la notte è un giorno di lavoro e il coricarsi un affare?

 

 

In questa strada non valgono le leggi del mondo. Con occhi immobili per l’atropina, le sopracciglia dipinte fino alle tempie, i capelli finti che non diventano mai grigi, un’età imbellettata che dell’eterna giovinezza ha solo la stupidità, le donne, che sembrano tutte uguali come gemelle e dunque non si invidiano né si fanno concorrenza tra loro, fissano tutte lo stesso tombino, lo stesso gatto, lo stesso selciato – e lo stesso uomo che il caso spinge per la strada in diecimila esemplari. Quando una donna allarga le braccia, il carillon tace perché grazie a un ingegnoso congegno i due meccanismi sono tra loro collegati.

Qui si disgrega tutto ciò che sembrava immutabile. Ma poi si ricompone. Costruzione e distruzione si susseguono incessantemente. Nessuna epoca, nessun potere, nessuna fede, nessun concetto qui è eterno. Chi posso chiamare straniero? Lo straniero è vicino. Chi posso chiamare vicino? L’onda lo porta lontano. Che cos’è l’oggi? Ecco, ormai è trascorso. Che cos’è il passato? Ecco, sta già ritornando.

Mentre scrivo queste parole, Marsiglia ha già cambiato aspetto. E ciò che riferisco con mille parole è solo una piccola goccia che traggo dal mare degli eventi, invisibile a occhio nudo, tremante sulla punta sottile della mia penna.