ATE

Ate finisce di allacciarsi il marsupio alle spalle e lancia un’occhiata ad Amalia, seduta sul passeggino con un polipetto di gomma in bocca. «Pronta, Mali?»

La verità è che Amalia sta diventando troppo grande per portarla sul petto, ma adesso che gattona Ate non può lasciarla libera a casa degli Herrera. Consegnando le pietanze per le cene della signora, ha visto i tavoli coperti di fragili tesori: vasi cinesi a motivi azzurri, delicate statuine di santi, sottili ciotole in guscio d’ostrica piene di pietre rosa e bianche di Boracay, dove gli Herrera hanno comprato una casa che affittano ai turisti ricchi.

E le fotografie. Ogni centimetro di ogni superficie tappezzato di fotografie in cornici d’argento e d’oro. Solo sul pianoforte a coda ce ne sono una decina: il dottor Herrera e signora immortalati durante varie feste, a volte in abiti filippini tradizionali; il dottore con i suoi famosi pazienti, atleti professionisti che Ate non conosce. Vicino, grande quasi come la parete a cui è appeso, un enorme ritratto della famiglia sulle lussuose sedie bianche e oro in soggiorno. Il dottore e i due maschi sono in smoking; la signora e la figlia indossano vestiti lunghi e morbidi. Ate già vede Amalia che si avvicina a quattro zampe, attirata dal verde smeraldo della scarpa della signora, e tocca la fotografia con le dita appiccicose.

Prende la bimba dal passeggino e la infila nel marsupio, ignorando le sue proteste. «Sì, Mali, è troppo piccolo. Ma è solo per poco».

Saliti i tre gradini all’ingresso, si volta verso il passeggino. È uscito dal vialetto che taglia il prato impeccabile e si è fermato di sbieco sull’erba. Lo prenderà qualcuno?

Ate controlla il viottolo silenzioso. Non c’è nessuno fuori, forse perché non è consentito l’accesso agli estranei. L’ha scoperto qualche settimana fa, la mattina del matrimonio della figlia degli Herrera, quando il nuovo fidanzato di Angel, un pilota della Delta con i capelli radi, si è offerto di accompagnare Ate con i polvorones e il buko pandan. Dopo aver parcheggiato il suv di fronte alla casa, ha aiutato Ate, Segundina, Didi e Angel a portare le pietanze al tennis club poco lontano. Al ritorno, ha trovato una ganascia sulla ruota posteriore. Sulla multa infilata sotto il tergicristallo c’era scritto che quella era una strada privata, solo per i residenti. Ate ha dovuto pagarla di tasca sua.

Come fa una strada a essere privata? ha sbuffato Angel con una smorfia.

Ma Ate era contenta che una famiglia filippina vivesse nella proprietà più grande di una strada privata.

Girandosi di nuovo verso la porta, solleva il batacchio d’ottone e lo lascia cadere con un tonfo. Silenzio. Prova il campanello. Rumore di passi dall’interno. Ate si dipinge un sorriso sul volto.

Ad aprire è il figlio degli Herrera, quello che va ancora al liceo. Ha un paio di cuffie azzurre sulle orecchie e dei jeans strappati col cavallo così basso che gli spuntano le mutande, come i neri. «Come butta, Evelyn?»

Ate si aspettava Luisa. L’ha sistemata dagli Herrera tanti anni fa, la signora ne era così entusiasta che le ha dato cento dollari extra per la raccomandazione.

«Tua madre è in casa?» domanda. Parla ad alta voce, perché sente la musica uscire dalle orecchie del ragazzo.

«Ma’! È arrivata Evelyn!» grida lui su per le scale. Dopo un saluto frettoloso, sparisce pigramente nella penombra della casa.

Ate rimane sui gradini, trasferendo il peso da un piede all’altro. Amalia è pesante. Sta masticando l’orlo blu del marsupio e scalciando contro le cosce di Ate.

«Evelyn! Perché non chiudi la porta? Così entrano le mosche!» grida la signora Herrera in tagalog saltellando giù dalle scale come una giovincella, anche se non lo è più. Indossa una minuscola gonna bianca, una camicia bianca e un nuovo paio di scarpe da tennis bianche. «Entra, naman! Oppure sei venuta in metropolitana? Sì? Allora passa dal retro, Luisa ha appena lavato i pavimenti».

Ate è già entrata, ma torna subito fuori, scende i gradini e si incammina per il vialetto di pietre ovali che conduce a un’anticamera sul retro, dove si pulisce attentamente i piedi sullo zerbino. Luisa è in cucina a cogliere kalamansi gialli da un albero in vaso accanto alla finestra.

«Quelli non sono ancora maturi» la prende in giro Ate.

«Ate!» esclama Luisa correndo ad abbracciare l’amica. «L’ho detto al ragazzo, ma vuole comunque la spremuta. Metterò più zucchero per renderla meno aspra».

In quel momento appare la signora Herrera, i capelli tinti raccolti in una coda di cavallo così stretta che gli occhi sporgono leggermente. «Che fine ha fatto la mia racchetta da tennis?»

Chiede a Luisa di andare a cercare di sopra nel ripostiglio, poi sospira. Sono mesi che gioca a tennis il martedì, spiega ad alta voce, possibile che Luisa non l’abbia ancora imparato? Lo sguardo le cade su Amalia.

«Di chi è questa bimba?» chiede osservandola, e Ate le racconta di Jane. Amalia allunga la manina sulla guancia della signora e ride.

«Ma è un amore! E com’è bianca! Mi ricorda la mia Josefina. La gente diceva sempre che Josi sembrava mestiza».

Ate si morde il labbro, fingendosi d’accordo. Josefina Herrera è la copia sputata di sua madre. Se si accovacciava, anche strizzata nell’abito nuziale da diciottomila dollari, era uguale agli Igorot che scendono dai monti di Luzon e si rannicchiano lungo le strade indossando vestiti americani ricevuti in dono. Bruna come il fango.

Amalia balbetta sillabe prive di senso alla signora, mandandola in brodo di giuggiole. «Che amore! Tirala fuori dal marsupio, Evelyn, è troppo grande!»

Ate esita. Non aveva intenzione di trattenersi a lungo, voleva ritirare l’assegno e andarsene. Ma la signora sta già slacciando una cinghia del marsupio, poi solleva Amalia, la bacia sul collo e le strofina il naso sul pancino. «Amore! Amore! Sei un amore!»

Amalia ride, la signora la bacia sulla testa. «Ah, non vedo l’ora che Josi abbia un bambino! Non ha bisogno di lavorare, suo marito lavora a Google! Sai cos’è Google?»

Ate solleva le sopracciglia per mostrare quanto è colpita. «Signora, sarei venuta a ritirare il saldo per il dessert del matrimonio…»

La signora Herrera balla avanti e indietro con Amalia in braccio, cantando. Amalia farfuglia e ridacchia, entusiasta. La signora rimane in silenzio così a lungo che Ate ha il dubbio di aver parlato a voce troppo bassa. Continuando a ballare con Amalia, la signora osserva: «Lo sai che molti polvorones si sono sbriciolati? Quando gli ospiti li hanno portati a casa sembravano mucchietti di sabbia».

Ate si scusa, per quanto l’avesse avvertita. Per quanto le avesse consigliato una bomboniera diversa.

La signora assume un’aria contrariata. «I polvorones sono friabili, lo so, ma allora perché non ci hai proposto un altro dessert? Sei tu la professionista, Evelyn. Devi usare la testa».

Ate inghiotte la risposta che ha sulla punta della lingua. La signora le restituisce Amalia, che però si aggrappa alla collana d’oro che porta al collo. Quando la signora le apre i pugnetti, la piccola si mette a piangere. «Ho finito gli assegni. Ti pago sabato, quando verrai a consegnare il pancit. Va bene?»

«Sì, certo» risponde Ate, distogliendo lo sguardo.

«Devi raddoppiare le dosi, aspettiamo più ospiti. Ma non ti pagherò di più, così saremo pari per l’inconveniente con i polvorones. D’accordo?»

«Sissignora» risponde Ate. Cos’altro può dire? Poi imbriglia Amalia nel marsupio, ma la bimba continua a cercare la signora piagnucolando.

Luisa rientra in cucina con due racchette da tennis. La signora Herrera la rimprovera: quelle sono dei ragazzi, la sua racchetta nuova ha l’overgrip blu. E la rispedisce di sopra.

«Consegnerò il pancit sabato alle cinque» annuncia Ate dall’anticamera per congedarsi.

«Sarebbe meglio alle quattro e trenta» replica la signora senza guardarla.

Come se mezz’ora facesse chissà quale differenza.

Sazia di latte, Amalia si addormenta nel passeggino, il che rende le cose più facili e al tempo stesso più difficili per Ate. Più facili, perché non richiederà la sua attenzione, permettendole di dedicarsi alle commissioni. Più difficili, perché le toccherà sollevare il passeggino se ci sono le scale e manovrarlo nelle strette corsie, aggirando i clienti che sospirano infastiditi quando le grosse borse appese al manubrio li urtano.

Per fortuna, all’ingresso di MusicShack c’è un solo gradino. Ate inclina il passeggino per alzare le ruote anteriori ed entra. C’è molto rumore, musica ad alto volume e una parete di televisori a schermo piatto sintonizzati su vari canali. Ate si avvicina a un giovane commesso con la camicia rossa e il nome sul petto. Appoggiato a un grosso altoparlante, sta digitando sul cellulare con il pollice.

«Ho bisogno di un lettore musicale. E di un paio di cuffie».

Il ragazzo solleva lo sguardo dal telefono e si allontana senza una parola. Ate lo segue. Superati i televisori e i computer, arrivano in un’area piena di impianti stereo.

«Qualcosa di piccolo. Tipo un Walkman» spiega Ate, intimorita dalle dimensioni degli apparecchi che la circondano.

«Lo sa che può scaricare la musica sul telefono, vero?» Il ragazzo parla lentamente, come se l’età di Ate la rendesse una stupida.

Ate fa di no con la testa. Roy non ce l’ha un telefono. E, se anche ce l’avesse, non potrebbe usarlo. La sua yaya ce l’ha, ovviamente, ma secondo Ate Roy ha bisogno di un apparecchio semplice e di un buon paio di cuffie, come quelle che aveva il figlio degli Herrera. In questo modo, ovunque lo porti la yaya, potrà ascoltare la musica.

Ate lo spiega al commesso senza nominare Roy e descrive le cuffie blu del figlio degli Herrera con la b minuscola incisa sui lati. «Ma l’apparecchio dev’essere molto semplice. Più semplice è, meglio è».

Ha scoperto la musicoterapia grazie alla signora Carter. Nonostante con Jane sia finita male, sono rimaste in contatto. Di recente Ate l’ha aiutata a trovare una donna delle pulizie, perché la sua aveva un cancro alla gola. La signora temeva che l’avesse preso respirando i vapori dei detersivi, perciò aveva chiesto ad Ate di raccomandarle qualcuno che sapesse pulire senza usare prodotti tossici. Lei ci ha guadagnato non solo il compenso per la raccomandazione, ma anche un’idea: ‘pulizie domestiche bio’. Avrebbe potuto farsi pagare di più, come il fruttivendolo con le banane biologiche.

La signora Carter le ha inviato un articolo sulla ‘musicoterapia neurologica’. Diversi studi dimostravano che questo tipo di terapia poteva aiutare i soggetti con danni o malattie al cervello. In Massachusetts un’azienda la usava per insegnare a camminare senza bastone a un uomo con un danno cerebrale. La musicoterapia, inoltre, aveva aiutato a comunicare tramite le canzoni una donna che non riusciva a parlare in seguito a una lesione al
cervello.

Da quando ha letto l’articolo, Ate sogna spesso Roy che canta per lei. In un sogno, le canta che vuole raggiungerla in America.

Devi scrivere ai medici riguardo a tuo figlio, le ha suggerito la signora nell’e-mail, spiegandole che a volte i medici curano i pazienti gratis. Anche le compagnie, perché giova alla loro immagine.

Ma come farebbe Ate a procurargli il visto? Come potrebbe Roy affrontare da solo il lungo viaggio? Dove vivrebbe?

Per il momento, Ate ha preso in mano la situazione. Dopo aver chiesto ad Angel di stampare tutti gli articoli sulla musicoterapia neurologica che trovava, li ha studiati attentamente e ha videochiamato la yaya di Roy per illustrarle il piano.

«Ma come faccio, po?» le ha chiesto la yaya. Era nuova. Ate l’ha scelta fra la decina di donne che hanno fatto il colloquio con Isabel perché era troppo vecchia e brutta per cacciarsi nei guai. Non come l’altra, che Isabel aveva sorpreso in mutande a baciare il suo ragazzo sul letto di Roy.

«Devi fargli sentire la musica ogni volta che è possibile. Devi cantare per lui ogni giorno. Devi battere le mani al ritmo delle canzoni e incoraggiarlo a cantare – o almeno a canticchiare a bocca chiusa – insieme a te».

Sullo schermo del telefono la yaya sembrava dubbiosa, perciò Ate si è affrettata ad aggiungere: «Ti darò un extra. E se la terapia funziona, ancora di più».

Le cuffie migliori vengono centinaia di dollari. Ate è sorpresa. Sono davvero così superiori a quelle più economiche, che a parte il logo sembrano quasi identiche?

Il commesso in camicia rossa, più cordiale ora che Ate ha scelto un apparecchio, le spiega che le cuffie economiche sono, in effetti, inferiori. Sono meno comode, e ad alcuni suoi amici viene un «mal di testa cane» quando le usano. La qualità del suono è mediocre, «come una vecchia tv rispetto a un modello ad alta definizione». Le cuffie più costose hanno una fedeltà migliore.

Alla parola fedeltà, Ate si arrende. Non è da lei comprare gli articoli più cari. Non è come Angel, che adora gli oggetti di lusso, né come Jane, che si lascia abbindolare dai paroloni. Ma la fedeltà è un altro paio di maniche. È proprio ciò che vuole per Roy. Che la musica che gli filtra nelle orecchie e gli riverbera nel cervello malato rispecchi fedelmente i suoni del mondo.

Ate sceglie il modello verde. Il colore preferito di Roy da bambino.

Il commesso in camicia rossa conta i soldi e le dà il resto. Infila le confezioni in un sacchetto di plastica e le ricorda di compilare la garanzia. Amalia continua a dormire.

Non si è ancora svegliata quando inizia a piovigginare. Sono soltanto a metà strada. Ate si ferma sotto il tetto di una banca e sistema il parapioggia di plastica. Allunga una
mano nella tasca del passeggino per cercare l’ombrello, ma non lo trova, così riprende a camminare. La camicia si riempie di puntini, le gocce cadute dai capelli, poi diventa completamente scura. Ate supera i carrelli con gli ombrelli neri in vendita a pochi spiccioli. Non cerca un riparo per fermarsi, nemmeno quando la pioggia scende a catinelle.

Rientrata in casa, sistema Amalia davanti al televisore, si infila un accappatoio di un albergo a cinque stelle che le ha regalato una cliente e si asciuga con una salvietta. Il telefono ronza sul tavolo della cucina. Sullo schermo appare il volto di Jane, gli occhi cerchiati di rosso.

Non è l’ora della videochiamata settimanale. Ate prega che non si sia cacciata di nuovo nei guai.

«Jane?» chiede portando il telefono alla bocca. «Va tutto bene, Jane?»

«Perché hai permesso a quella donna di stare nel mio appartamento?»

«Quale donna?» temporeggia Ate.

«Segundina».

«Ah. Sì». Ate valuta le alternative e decide di confessare. «Era solo per qualche giorno».

«Ma nel mio appartamento! Io non conosco quella donna, e tu l’hai fatta stare in casa mia senza chiedermelo!»

Ate rimane in silenzio. Cosa avrà detto Segundina a Jane? Non sembrava che avesse la lingua lunga.

«E per giunta le hai lasciato Mali».

«Solo mentre facevo le consegne. Mai per troppo tempo. Non volevo portare Mali in quelle case quando poteva starsene fuori a giocare. Ay, Jane, quei clienti hanno case da non credere! I Ramos, te ne ho parlato. Non sono parenti dell’ex presidente, ma hanno la casa piena di sue foto incorniciate come se…»

«Ma io pago te per prenderti cura di Mali, non per lasciarla agli sconosciuti!» urla Jane, ansimando. Poi si ricompone e chiede, severa: «Quante volte, Ate?»

«In che senso?» Ate finge di non capire.

«Quante volte? Quante volte hai lasciato Mali a quella donna?»

«Jane, non le ho contate. Non è mai stato a lungo. Io…»

«Più di cinque? Più di venti? Quante volte l’hai abbandonata per badare ai tuoi affari

Dalla voce trapela una ferocia incontenibile. Ate la avverte e decide di scusarsi prima che sia troppo tardi.

«Hai ragione. Perdonami».

Jane non risponde. Dal telefono arriva solo il suo respiro affannoso, come un foglio di carta strappato più volte.

«Questo weekend ho portato Mali a fare musica, come mi avevi chiesto» dice Ate alla fine. Soldi sprecati, vorrebbe aggiungere. Amalia ha passato tutta l’ora a mordere un tamburello mentre l’insegnante, una donna con l’anello al naso e le gambe non depilate, suonava canzoncine alla chitarra. Ma Ate deve riconoscere che non è una stupida, quella donna pelosa. Fa pagare venticinque dollari a bambino, e ce n’erano almeno dieci.

«Le è piaciuto?» chiede Jane dopo un lungo silenzio.

«Ha saltellato su The Wheels on the Bus. Ti manderò il video».

Ancora silenzio. Ate prova un altro approccio. «La settimana prossima ho appuntamento dal medico. Per cambiarmi le medicine. Credo siano la causa del mio mal di testa. Ho il permesso di farmi dare una mano da Angel con Mali?»

«Angel va bene, perché la conosco» risponde freddamente Jane.

«Sì. Capisco».

«Mai più, Ate».

«Mai più».

Jane espira faticosamente. «E non voglio sconosciuti nel mio appartamento».

«È che Segundina stava al dormitorio ed era in difficoltà. Volevo solo aiutarla…»

«È il mio appartamento».

«Sì, sì. Hai ragione, avrei dovuto chiedertelo. Questa è casa tua, non mia».

Di solito Jane dice ad Ate che quell’appartamento è anche casa sua. È casa di entrambe, perché sono una famiglia. Ma stavolta rimane in silenzio.

Con cautela, Ate la aggiorna sui progressi di Amalia. Cammina molto più veloce ora. I piselli passati li sputa sempre, ma va matta per la zucca.

«Domani la porto al museo dei bambini. Le piaceranno le mostre. È sveglia, Jane. Mi sto informando sugli asili migliori».

«Voglio che vada in un buon asilo».

«Sì» annuisce Ate, sollevata che la conversazione abbia preso un’altra piega. «Ora la prendo».

Ate posa il telefono e tira su Amalia da terra, sperando che oggi dica ‘mamma’. Ogni volta che deve cambiarle il pannolino, indica la foto di Jane appesa sopra il fasciatoio, scandendo la parola: Mam-ma. Mam-ma.

«Mali! Com’è grande la mia bambina!» grida Jane, illuminandosi all’istante. Gonfia le guance e fa una faccia buffa, ma Amalia fissa lo schermo, ipnotizzata.

«Mamma. Mamma. Mamma» le mormora Ate all’orecchio, piegando la testa in modo che Jane non veda le labbra che si muovono.

«Ti piacciono gli animali, amore?» chiede Jane mettendosi a muggire, poi a grugnire.

Ate fa il solletico ad Amalia sulle cosce finché non ride.

«A Mali piace il porcellino?» chiede Jane, ridendo anche lei, poi ricomincia a grugnire con più vigore.

Ate fa di nuovo il solletico ad Amalia. La bimba non ride, e Ate le fa il solletico sui fianchi. Amalia si dimena: «No!»

«No? Basta porcellino? Oh, Mali, come sei grande, hai solo un anno e parli già!» esclama Jane, gli occhi lucidi e le mani tese verso lo schermo.

Non appena la videochiamata finisce, Ate telefona alla signora Yu per avvisarla che Segundina ha parlato troppo e Jane è turbata. La signora le promette che se ne occuperà, quindi la informa che la provvigione per Segundina è stata versata sul suo conto corrente e le conferma che, come con Jane, riceverà una piccola somma a intervalli regolari durante la gravidanza, più un bonus al momento del parto.

«Le chiedo solo di tenermi aggiornata. Le sue informazioni mi aiutano ad aiutare loro» spiega.

Amalia le tira la vestaglia. Ate posa il telefono per sollevarla da terra e controlla il pannolino. È caldo e pesante. Mentre la porta al fasciatoio la riempie di baci sulle pieghe profumate del collo.

Quanto ama quella bimba.

Posata Amalia sul fasciatoio, le dà un giocattolo e indica la foto di Jane sul muro.

«Mamma» dice togliendo il pannolino zuppo. Ate sente ancora il nodo allo stomaco, duro come una noce. Poco alla volta si scioglierà, lo sa.

Asciuga il sederino di Amalia, spalma la crema – è quasi finita, deve passare in farmacia – e le fissa il pannolino nuovo ai fianchi. Prima di tirare giù la maglietta, affonda il naso nel pancino e lo agita finché Amalia non scoppia a ridere.

La verità è che Ate non ha mai mentito a Jane. Ci è stata attenta. Ate è davvero convinta che Golden Oaks sia un’opportunità. Ha aiutato davvero Segundina perché era in difficoltà. Certo, questa è solo una parte della storia. A Jane non ha mai detto che la signora Yu la paga per aiutarla a trovare le Ospiti, non solo per via degli accordi di riservatezza che ha firmato, ma anche perché Jane non capirebbe. A volte vede solo un lato della medaglia. Penserebbe che le buone azioni di Ate – perché di questo si tratta: Golden Oaks cambierà la vita a lei e a Segundina –
siano sminuite dal fatto che pure lei ci guadagna qualcosa. E perché mai? Se l’azione è buona, diventa meno buona solo perché ci guadagna anche lei?

«No, no, no» canta ad Amalia, che ora è stufa e tende le braccia. «Se è buona per te e buona per me allora è buona-buona-buona».

Ate la prende in braccio e la porta in cucina. Recupera un biberon pulito dallo scolapiatti, lo riempie di latte e si siede al tavolo tenendo Amalia sulle ginocchia. Lascia che sia la bimba ad afferrarlo. Il biberon si abbassa e tremola mentre cerca di portarselo alla bocca. Ate ride. «Ti aiuto io, Mali». Le sue mani brune e venate coprono quelle chiare e lisce della piccola, e insieme sollevano il biberon fino alle labbra della bimba.

Il telefono vibra. Sullo schermo appare il volto di una giovane filippina, figlia di una delle governanti di Forest Hills. Potrebbe interessare alla signora Yu, pensa Ate. Difficile dirlo. Prima di Jane le ha proposto tante ragazze, ma sono state tutte rifiutate. La signora non le ha spiegato perché. L’idea di mandare Jane a Golden Oaks non la sfiorava nemmeno, prima che i Carter la licenziassero. A quel punto Jane era disperata: come avrebbe fatto a trovare un altro incarico senza una raccomandazione? Come avrebbe potuto mantenere Amalia con gli spiccioli del salario minimo?

Per fortuna, la prima segnalazione andata a buon fine è stata proprio Jane. In questo modo Ate potrà tenerla d’occhio e dare alla signora Yu le informazioni necessarie perché tutto fili liscio. Secondo Ate, è per questo che la signora ha accettato anche Segundina. Se Ate dimostra di meritare la sua fiducia, se Jane e Segundina partoriranno bimbi sani, allora sarà solo l’inizio, l’afflusso di soldi sarà regolare e lei potrà concentrarsi su Roy.

Con una punta di rimorso, risponde al telefono. La madre della giovane sogna di vederla andare al college. Ma lei è pigra, le interessano i vestiti e i ragazzi, non i libri. Da qualche settimana, dopo la messa, Ate le sta accennando a un lavoro che le permetterebbe di fare tanti soldi, se è capace di tenere un segreto. Poco alla volta, vuole valutare se potrebbe essere adatta.

Potrà sempre andarci dopo, al college, e sarà in grado di pagarselo da sola.