JANE

La camicia da notte di Reagan è per terra, vicino a un mucchio di vestiti. Jane la raccoglie e la mette nella cesta della biancheria. Si preme contro il naso un pigiama raccolto dal pavimento. Pulito. Lo sbatte per fargli prendere aria, lo ripiega e lo sistema sopra la cassettiera della compagna di stanza, accanto a un reggiseno rosa.

Il letto è un groviglio di lenzuola. Stamattina Reagan era in ritardo. Si è scordata dell’appuntamento con la signora Hanna, che non transige sugli orari, e non si è lavata la faccia né i denti. Ha avuto appena il tempo di cambiarsi e caracollare fuori dalla porta.

Non che Reagan si rifaccia mai il letto. Si diverte a dire a Jane che se tutte le Ospiti fossero come lei le donne delle pulizie perderebbero il lavoro. Ma Jane detesta il disordine. E poi: cosa direbbero le inservienti se la sua stanza fosse un macello? Che è pigra o sporca. Che si crede più furba di loro a spingere le calze sotto il letto e lasciare il dentifricio appiccicato al lavandino.

Jane raddrizza le lenzuola, rimboccandole sotto il materasso con gesti rapidi. Sollevando il cuscino di Reagan trova un braccialetto, e con un sospiro lo ripone nel cassetto del comodino, sotto un blocchetto di fogli. Reagan non si ricorda mai di mettere via le sue cose. Jane l’ha avvertita che la disattenzione può costare cara. Quando gli ospiti della casa di riposo non trovavano un anello o un orologio, spesso accusavano lei. Accuse che pungevano come spine, benché infondate. Grazie a Dio, Jane ritrovava sempre gli oggetti spariti – dimenticati nella doccia, gettati nell’immondizia per sbaglio – ma fino a quel momento lo stomaco le ribolliva di paura e vergogna.

Un uccello canta fuori dalla finestra aperta. Jane alza lo sguardo e sorride. Come potrebbe non essere felice?

Ieri il suo WellBand ha fatto bip. Un messaggio dalla signora Yu. Jane era terrorizzata. Il bambino era malato? Deforme? Stava morendo? Jane era già entrata nel secondo trimestre, ma potevano ancora succedere cose terribili. Negli anni aveva sentito tante di quelle storie da Ate: bambini nati morti, oppure senza braccia o senza mento, con i polmoni deboli, la testa rattrappita, il cuore perforato, il cervello striminzito.

Ma si sbagliava, e mai in vita sua era stata più felice di sbagliarsi. La signora Yu ha accolto Jane nel suo ufficio, ha chiuso la porta e ha annunciato: «Amalia verrà a trovarti!» Jane è scoppiata a piangere, biascicando la sua gratitudine fra le lacrime.

Ecco il programma: giovedì prossimo, fra soli otto giorni, Ate e Amalia arriveranno con la Metro-North. Un autista porterà Jane alla stazione e rimarrà con loro per tutto il giorno, accompagnandole ovunque vogliano andare: il lago d’acqua dolce oltre il caseificio, una delle cittadine nei dintorni. La signora Yu dice che sono incantevoli. Non a Golden Oaks, però, perché le altre potrebbero ingelosirsi vedendo che Jane, una nuova Ospite, ha ottenuto il permesso di ricevere visite.

La signora l’ha sottolineato parecchie volte: è un’eccezione che faccio per te.

La Cliente ha insistito per pagare l’autista e persino il pranzo («entro limiti ragionevoli»). Se tutto va bene e ci sarà una seconda visita, potrebbe persino pagare una stanza d’albergo in modo che Amalia e Ate si fermino per la notte. Seduta nell’ufficio della signora, scoprendo la generosità dei suoi Clienti – due perfetti sconosciuti che non ha ancora incontrato – Jane si è sentita travolta da qualcosa di simile all’amore e ha formulato una promessa silenziosa: mi prenderò cura di questo bambino con tutto il mio cuore.

Il programma era top secret, naturalmente, ma ieri, uscendo dall’ufficio, Jane scoppiava di gioia, così piena di speranza che le sembrava di galleggiare. Tornata in camera ha trovato Reagan, seduta sulla sedia a dondolo a scrivere sul suo taccuino. Senza pensarci, le ha spifferato tutto. Mentre la ascoltava, Reagan ha chiuso la porta e si è seduta vicino a lei. Alla fine ha promesso di tenere il segreto, e Jane si è fidata.

Mi fido di lei! Meravigliata dalla strana sensazione, Jane raccoglie un lungo capello biondo dal cuscino della compagna e lo lascia cadere nel cestino dei rifiuti. Il capello cade lento, per un attimo intercetta la luce, poi si fa invisibile. Il suo comodino è in ordine, disseminato com’è di forcine, un tubetto di crema e libri che le ha passato Reagan dopo averli finiti. Jane nasconde forcina e crema in un cassetto e sposta i libri sulla mensola dietro il letto. Leggere non le piace, ma ama quei libri, e ama il fatto che Reagan è convinta che li leggerà.

Non è andata sempre così. Per varie settimane, Reagan l’ha fatta innervosire. La subissava di domande: sulla sua infanzia, la famiglia, il lavoro. Ma soprattutto sulle Filippine, perché da ragazza ci aveva trascorso un’estate. Aveva aiutato a costruire una casa e una scuola, e aveva provato il bagoong e persino il balut, l’uovo d’anatra fecondato che Billy adorava e che faceva vomitare Jane.

Erano troppo diverse, tutto qui. Le differenze portano sempre problemi, e Jane di problemi non ne voleva.

Era cambiato tutto in un pomeriggio, parecchie settimane dopo. Jane non stava bene. Aveva mal di stomaco, ed era così spossata che aveva sonnecchiato quasi tutto il pomeriggio. Non lo faceva quasi mai. Non le piaceva farsi vedere addormentata, nemmeno dalla sua compagna di stanza o da una Cliente in visita.

Quando il WellBand ha preso a squillare, all’inizio Jane non ha riconosciuto il suono. Sembrava il ronzio di un insetto o di un aereo lontano. Anche quando si è resa conto che era la sveglia, quella che lei stessa aveva impostato, le ci è voluto del tempo per aprire gli occhi. Quando ci è riuscita erano quasi le quattro, l’ora in cui aveva promesso ad Ate di videochiamarla. Dopo aver preso una bottiglia d’acqua dal frigorifero, ancora stordita dal sonno, è corsa alla media room.

La media room era l’unico ambiente di Golden Oaks in cui le Ospiti potevano ricevere e inviare e-mail, fare videochiamate e usare Internet. Nella sala – grande, ben illuminata, piena di eleganti computer in postazioni open air o in cabine di vetro – c’era soltanto Reagan, che l’ha salutata vedendola entrare. Jane si è irrigidita, aspettandosi il solito terzo grado, anche se bonario. Ma stavolta, grazie al cielo, Reagan non si è alzata dal computer. Jane è corsa in una postazione a chiamare Ate.

«Pronto? Pronto?» La fronte corrugata di Ate ha riempito lo schermo. «Pronto, Jane?»

«Sono qui, Ate. Mi vedi? Io ti vedo solo la fronte».

Con un brusco movimento, Ate ha riposizionato il telefono. Sullo schermo del computer è apparsa la metà inferiore del corpo di Amalia, in braccio ad Ate. «Sorridi, Mali. Sorridi alla mamma» l’ha incoraggiata Ate sollevandole un braccino e agitando la mano.

«Ate, non riesco a vederla. Piega all’insù il telefono…»

Un rumore, l’immagine ha ballato sullo schermo, ed ecco il volto di Amalia. Sorrideva e allungava la mano verso il telefono. «No, Mali. Non si tocca» l’ha ripresa Ate, spostandole la mano. Gli occhi scuri della bimba luccicavano, ma la pelle intorno a quello destro era viola chiaro.

«Cosa ha fatto all’occhio, Ate?» Ora completamente sveglia, Jane si è piegata in avanti.

Amalia ha tentato di afferrare il telefono. Jane ha visto la manina sullo schermo, poi la mano di Ate che la scacciava. «L’ho portata dal pediatra per l’otite. Mi hanno dato le gocce. Hanno detto che non è grave».

«Ma perché ha un occhio nero?» ha insistito Jane. Obbediente, Amalia ora se ne stava seduta in braccio ad Ate succhiandosi le dita.

«L’occhio? È stato un incidente. È caduta dal tavolo del pediatra e…»

«Dal tavolo?!» Jane non voleva alzare la voce. Dalla parete di vetro della sua postazione ha visto Reagan che la guardava. «Amalia è caduta da un tavolo?»

Amalia si è messa a ridere, perché Ate la stava scrollando. Di solito questo faceva sorridere Jane. Ate l’ha rassicurata: «È tutto a posto, Jane. Mali sta bene. Ha smesso subito di piangere».

Jane conosceva quella voce. Era quella che Ate usava con le madri in lacrime perché dovevano aggiungere il latte artificiale al proprio, o perché il loro bimbo non stava seduto come avrebbe dovuto secondo lo schema delle fasi di sviluppo indicato nei libri.

«Non la stavi tenendo d’occhio?» Jane ha sentito risuonare nelle orecchie la sua stessa voce, affilata come un rasoio e troppo alta. Ma era stata Ate a insegnarle quanto fosse importante non perdere mai di vista i bimbi. Perché rotolano, e possono cadere. Pòrtati sempre dietro il bimbo, le aveva detto prima che iniziasse a lavorare per la signora Carter.

«È stato un incidente» ha ripetuto Ate con calma. «Solo un piccolo incidente. I bimbi sono forti. Ti preoccupi troppo perché sei incinta. Ricordo una volta quando aspettavo Roy…»

Uno strano fremito ha scosso Jane, una sensazione bollente su per il corpo fino alle orecchie, che le impediva di udire le chiacchiere di Ate. Non aveva mai alzato la voce con lei, ma all’improvviso ha urlato: «Io sto esagerando? Perché stai più attenta con i figli dei Clienti che con la tua famiglia?»

Rabbrividendo, si è sforzata di tacere. Di chiudere la bocca e dare ad Ate la possibilità di spiegarsi. Ma dagli altoparlanti del computer non è arrivato nulla. «Rispondimi!» ha gridato, ma la rabbia si stava già tramutando in vergogna. Sullo schermo l’immagine si era bloccata: Amalia che si tirava un ciuffo con la manina. Jane ha armeggiato con il mouse e ha battuto il pugno sulla tastiera sperando di riportare in vita il computer, ma la connessione si era interrotta. Con un ultimo scatto d’ira ha spinto via la tastiera e si è accasciata sul tavolo, bagnandosi le maniche con le lacrime.

Che razza di persona alza la voce con una donna anziana? Una donna che sta solo cercando di aiutarti?

«Jane?»

Reagan ha posato sul tavolo una scatola di fazzoletti e si è seduta dietro Jane, muta e rocciosa come una sentinella. Jane è rimasta dov’era, il corpo scosso dai singhiozzi, ma non sapeva più perché piangeva. A un certo punto si è accorta di avere la mano di Reagan sulla schiena. Non la stava accarezzando, ma non era nemmeno appoggiata e basta. Generava calore.

Reagan le ha porto un fazzoletto. Jane l’ha preso e si è soffiata il naso.

«È bellissima» ha detto Reagan fissando il computer. «È uguale a te».

Jane ha finito di riordinare la stanza. La lezione di fitness comincia fra poco meno di un’ora, il che le dà il tempo di chiamare Ate per raccontarle della visita. Da quando hanno litigato Ate le manda decine di foto di Amalia, soprattutto primi piani. Probabilmente lo fa per mostrarle che l’occhio è guarito in fretta e che non c’era motivo di scaldarsi tanto. Sapendo che non sarebbe stata capace di nascondere la rabbia residua, Jane ha evitato le videochiamate. Oggi però vuole guardare Ate negli occhi per chiederle scusa. Non avrebbe dovuto mancarle di rispetto.

Nella media room, trova Reagan in una postazione privata. La saluta con la mano, e lei risponde, ma senza sorridere. Forse sta parlando con la madre. Dopo le loro chiacchierate settimanali, spesso è di malumore.

Jane si infila in una postazione e prende il telefono. Una voce automatica la informa che la conversazione verrà registrata. Jane preme 9 per dare il consenso e digita il numero di Ate, che però non risponde. Incapace di trattenere un sorriso, Jane lascia un messaggio vocale per raccontarle della visita di Amalia.

«Io odio mio padre» proclama Reagan. È appoggiata alla parete della postazione con le braccia incrociate sul petto.

«Cosa succede?»

«Ce l’ha a morte con me perché è tanto tempo che non vado a trovare mamma. E allora mi fa sentire in colpa…» Agitata, Reagan inizia a fare avanti e indietro nella postazione, come un animale in gabbia.

Ha già parlato a Jane di sua madre, che a nemmeno cinquant’anni ha cominciato a dimenticarsi le cose: dove lasciava le chiavi, il cane, l’auto. Oggi non ricorda più il proprio nome né quello dei figli.

«Forse la signora Yu ti permetterebbe di andare a trovarla».

«Mio padre non sa che sono qui. Né che sono incinta» spiega Reagan a bassa voce. «Non capirebbe mai».

Ayesha passa di lì. «Sapete dov’è Lisa? Ho ancora il divieto di avvicinarmi al tavolo degli snack, volevo chiederle di prendermi qualcos’altro».

Reagan non risponde. Ha gli occhi rossi, come se fosse sul punto di scoppiare in lacrime. Jane non l’ha mai vista piangere. Suggerisce ad Ayesha di provare in biblioteca, poi riaccompagna Reagan in camera.

Prima ancora che la porta sia chiusa, Reagan le dice quanto odia andare dai suoi genitori. Il padre si rifiuta di mettere la madre in una casa per anziani, però non sta mai con lei, se non quando la trascina all’opera o in vacanza all’estero, regolarmente accompagnato da un’infermiera assunta per occuparsi del «lavoro vero». A volte organizza persino cene per i colleghi con la moglie che, splendida come sempre, sta seduta a capotavola senza toccare cibo.

Jane è incredula. Quanti uomini sarebbero capaci di un amore così grande?

«Per lui è solo una bella statuina» ribatte Reagan.

«Però le è rimasto accanto. Tanti uomini se ne sarebbero andati». Jane pensa a Billy, poi a sua madre. «E anche certe donne».

Reagan le racconta di sua madre prima della malattia. Era una mamma cool. Le amiche della figlia la adoravano: l’acconciatura, i vestiti stravaganti. Non avevano ancora diciassette anni e lei lasciava che guardassero i film vietati ai minori. Si informava sulle loro opinioni politiche e artistiche, perché era convinta che avessero qualcosa da dire. Una volta aveva dato loro il permesso di dipingere con la vernice spray la stanza sopra il garage, che lei non usava più come studio. Tornato a casa dal lavoro, il padre era andato su tutte le furie, ma lei era scoppiata a ridere.

«Ci diceva che l’arte vera è l’arte di strada. Perché è cruda e non gradevole. Come la vita» ricorda Reagan con voce inespressiva.

Al liceo, vedeva la madre in modo diverso. La sua «stravaganza» era diventata routine; l’orgoglio che suscitava nel marito era quello di un padrone. Gli piaceva avere una moglie originale, spiritosa e intelligente, ma entro certi limiti, senza esagerare. E Reagan non ne poteva più di avere una madre che recitava ininterrottamente. Era l’uccello dalle piume più vivaci in uno stormo di uccelli dai colori spenti. Ma chi se ne fregava, quando era ancora intrappolata dentro una gabbia che si era scelta da sola?

«Forse si amavano in una maniera che tu non capisci. Forse non lo capivano neanche loro, il loro amore» dice Jane pensando a Nanay, una donna inflessibile, spaventosa e quasi mai affettuosa che però Jane amava con tutto il cuore.

«E ora» aggiunge con una certa timidezza, «tuo padre sta rinunciando a tutto per lei».

«Non ha rinunciato a un bel niente! Il suo è ego, non è amore».

Jane ascolta in silenzio mentre Reagan le racconta delle amanti del padre: una qui, una là, mai troppo a lungo. Lei e Gus avevano sentito voci al riguardo sin dall’infanzia, perciò com’era possibile che la madre non lo sapesse? E se lo sapeva, che razza di donna era?

Jane finisce per parlare di Billy. Quando si erano trasferiti a New York, lei aveva trovato lavoro alla casa di riposo e Billy si era iscritto alla laurea biennale, una condizione posta dai genitori di lui per permettergli di vivere con loro insieme a Jane. Dopo le lezioni Billy usciva quasi ogni sera con gli amici, ma non invitava mai Jane, e lei era troppo imbarazzata per chiederglielo. Lui la trovava già appiccicosa.

Una sera, Billy aveva dimenticato il telefono a casa. Continuava a ricevere messaggi, Jane li vedeva comparire sullo schermo uno dopo l’altro:

Sono al bar. Sono stufa di aspettare, vuoi muovere il culo o no? Non ho le mutandine. Sei con quella cretina di tua moglie?

Billy non aveva mai cambiato il pin, così Jane aveva sbloccato il telefono e trovato centinaia di messaggi. La sua amante. Erano compagni di corso e si frequentavano da mesi. A un certo punto avevano progettato una vacanza insieme a Porto Rico, da dove veniva lei. Billy le aveva scritto che probabilmente Jane non sapeva nemmeno dove fosse.

Non ha neanche finito il liceo. È stupida come una capra.

«Tu non sei stupida, Jane. Non ti sei diplomata, tutto qui!» dice Reagan.

Jane scuote la testa. Le parole di Billy la fanno vergognare ancora oggi.

«Stammi bene a sentire». Gli occhi di Reagan sono due fiamme accese. «Tutti i miei parenti e i miei amici sono andati al college, ma quello che sai tu, un’intelligenza come la tua, è qualcosa che non impareranno mai».

Jane è commossa. La sua amica sembra così convincente.

«E poi sei coraggiosa» continua Reagan. «Mia madre era molto più avvantaggiata di te, ma è rimasta con mio padre. Tu invece hai avuto il fegato di andartene».

«Me ne sono andata solo perché è stata Ate a spingermi» sospira Jane.

«Non ci credo».

«Io penso che… forse non è tutto così semplice. Forse puoi amare qualcuno anche se non ami tutto di lui». Jane lo dice lentamente, perché sono pensieri nuovi, che non ha mai espresso prima, nemmeno a se stessa.

«Mio padre ha amato mia madre finché lei ha giocato secondo le sue regole. Non sa amare in altro modo» ribatte Reagan con una durezza che ferisce Jane al cuore.

«Non credo che quello sia amore. Non credo che tuo padre…»

«È tutto condizionato. Nessuno fa mai niente in maniera disinteressata».

«Non è vero!» sbotta Jane, accalorandosi più di quanto volesse. Imbarazzata, distoglie lo sguardo e aggiunge, con più calma: «Io non amo Amalia in quel modo. In famiglia non esistono condizioni».

Reagan rimane in silenzio. Jane si accorge che la sua amica sta piangendo.

«Io credo, dalle tue storie, io credo che anche tua madre ti amasse così».

Tornata dalla palestra, Jane sta per farsi la doccia quando Lisa entra nella stanza.

«Troy se n’è andato. Niente privacy. La Coordinatrice – comesichiama, quella coi capelli rossi – ci ha costretto a tenere la porta aperta, come se avessimo quattordici anni» sbuffa lasciandosi cadere sul letto di Jane. «Facciamo due passi?»

Jane fa una smorfia. Durante la loro ultima passeggiata, parecchie settimane fa, avevano appena aperto i sentieri dopo un periodo di pioggia, e il terreno era umido. A un certo punto il fango era così denso e profondo che Lisa ci è rimasta invischiata. In pratica Jane l’ha tirata fuori dallo stivale, che Lisa ha lasciato nel sentiero.

La Coordinatrice in servizio, Mia dai capelli rossi, ha sgridato Lisa, che tremava di freddo quando sono rientrate al Dormitorio. Aveva il piede nudo incrostato di fango e fili d’erba tra le dita. Mia ha rimproverato anche Jane: «Se si chiama buddy system c’è una ragione. Dovete prendervi cura l’una dell’altra».

Lisa è stata trascinata via, Jane accompagnata in un bagno annesso agli studi medici con l’ordine di farsi una doccia. Poi le hanno dato un tè caldo, mentre Mia e un’altra Coordinatrice le asciugavano la testa esaminando ogni centimetro del cuoio capelluto con una lente d’ingrandimento. Mia le ha controllato il collo, il petto e il ventre enumerando le malattie trasmesse dalle zecche, l’altra si è messa a studiarle il fondoschiena. Le hanno chiesto di coricarsi sotto la luce e aprire le gambe.

«Non immagineresti mai dove vanno a cacciarsi quelle zecche» ha riso Mia.

«Mi dispiace, ma ho appuntamento con Delia» risponde Jane a Lisa. Non è esattamente una bugia. Sono giorni che non vede l’amica filippina, è ora di andare a trovarla.

«Ma io voglio andare a passeggio con te!» protesta Lisa giungendo le mani. «Ti prego, Janie Jane, ti scongiuro!»

Jane arrossisce, lusingata suo malgrado. Sa che è infantile, ma le piacciono i soprannomi che le dà Lisa. E le piace che Lisa, l’amica di Reagan, ora consideri un’amica anche lei. Per due volte, davanti alle altre, le ha abbracciate e le ha chiamate le sue migliori amiche. Le Ospiti filippine dicono che Jane sta diventando una banana («gialla fuori, bianca dentro») e la accusano di essere presuntuosa. Ma non è vero. Jane sa di non essere come le sue nuove amiche. È solo che le piace stare con loro. Le piace il modo in cui parlano, come se nulla fosse impossibile.

Fuori dalla finestra il sole è ancora alto, fa caldo da molti giorni ormai. I sentieri saranno asciutti.

«Okay» si arrende. Lisa lancia un gridolino d’entusiasmo, Jane sorride.

«Sei la migliore, Janie Jane. Vestiti e prendi un telo, così facciamo un picnic. Ti aspetto in camera mia, va bene?»

Stavolta Jane fa attenzione a vestirsi secondo le regole. Pantaloni chiari infilati dentro gli stivaloni, camicia a maniche lunghe e berretto da baseball. Prende uno zaino, ci ficca dentro una bottiglia d’acqua e un grande telo da piscina e raggiunge Lisa, in un altro corridoio. È già sulla soglia che la aspetta. Sulla scrivania dietro di lei, Jane nota un vaso di lunghi fiori arancioni a becco. Sembrano tropicali, di quelli che nelle Filippine crescono spontanei.

«Si chiamano uccelli del paradiso» le spiega Lisa. «Troy dice che io sono il suo uccello esotico. Il che significherebbe che la Farm è il paradiso» aggiunge con una smorfia.

Al desk delle Coordinatrici una donna di mezza età con i capelli castani che sembrano strinati passa i WellBand dentro un lettore e ricorda alle due Ospiti di rimanere insieme. «Divertitevi, signore».

Dall’ingresso posteriore Lisa e Jane sbucano in un patio di pietra azzurra. I mobili sono ancora coperti con ampi teloni di plastica. La ghiaia scricchiola sotto gli stivali mentre si incamminano verso gli alberi.

«Ehi, David!» Lisa batte il cinque a un operaio che sta armeggiando con una telecamera fissata a una grande mappa dei sentieri di Golden Oaks. Si mettono a chiacchierare, e Lisa ride. Jane chiude gli occhi e aspetta, godendosi il sole sulla faccia.

«Cambio di programma. Prendiamo il sentiero azzurro per arrivare a quello verde» annuncia Lisa. Jane alza le spalle, per lei non fa differenza.

Regna un tranquillo silenzio quando il sentiero si allarga. La ghiaia cede il posto alla terra battuta, gli alberi proiettano ombre più lunghe. Gli uccelli trillano, una delicata brezza muove le foglie. Jane vuole ricordare ad Ate di portare il passeggino: sarebbe bello andare al parco con Amalia e fare una passeggiata nel bosco.

Davanti a loro, il sentiero si biforca intorno a un gruppetto di alberi. Dietro una quercia enorme, Jane vede un uomo alto e magro che fa capolino. Trattenendo il respiro, stringe il polso di Lisa, ma prima che possa premere il tasto panic sul WellBand l’altra spalanca le braccia e corre incontro all’uomo.

«Tesoro!» grida. Lui fa un passo avanti. Lisa gli prende il volto con entrambe le mani e gli dà un bacio appassionato. Jane rimane sul sentiero, troppo scioccata per muoversi.

«Vieni qui!» le sibila Lisa, gesticolando vigorosamente. «Non avere paura, non ci sono telecamere in questo punto. Me l’ha detto David!»

Jane esita. L’uomo le rivolge un sorriso pigro e sensuale. Con una mano tatuata, si toglie il cappuccio e passa le lunghe dita nei capelli arruffati. «Tu devi essere Jane. Ho sentito parlare molto di te. Magandang hapon». Buon pomeriggio in tagalog. Le fa l’occhiolino.

Lisa ridacchia. Jane non l’ha mai vista ridere così, come una ragazzina. «Jane, questo è Troy. Che evidentemente sta studiando il filippino!»

Malgrado l’ansia, Jane avverte una punta di gioia per il fatto che Lisa ha parlato di lei al suo ragazzo. Asciugandosi i palmi sudati sui pantaloni, risponde al saluto: «Magandang hapon».

Lisa si slaccia il WellBand dal polso. «Janie, ti dispiace tenerlo e andare a farti un giro? Solo una trentina di minuti, così io e Troy possiamo avere un po’ di privacy». Con un sorriso radioso, fa penzolare il braccialetto dalle dita. «Resta sull’anello centrale finché non arrivi al torrente. In quella parte del sentiero c’è una sola telecamera, è sulla mappa. Passaci vicino e cammina lentamente, in modo da coprire l’obiettivo con il corpo. A quel punto il gioco è fatto. Potrai riposarti un po’ sulla riva. È tutto in pianura».

Jane osserva il WellBand di Lisa. Sta già scuotendo la testa. No, no.

«Ti scongiuro, Janie Jane! Sono mesi che Troy non viene a trovarmi, e prima non siamo riusciti a passare neanche un minuto da soli» la blandisce Lisa insinuandole il braccio intorno alle spalle.

Jane rimane in silenzio, con il petto rigido.

«Non lo chiederei a nessun’altra. Solo mezz’ora. In men che non si dica saremo tornate al Dormitorio. Okay?» Lisa punta gli occhioni verdi su quelli di Jane e le fa scivolare il WellBand nella mano.

«Sei la migliore, Janie!» grida tornando di corsa verso gli alberi. «Ti devo un favore! Ci vediamo qui fra mezz’ora!» Troy le dà una sculacciata, Lisa fa un risolino. Grazie, mormora lui a Jane, poi i due scompaiono giù per un pendio nel folto degli alberi, lasciandola sola sul sentiero.

Aspetta! vorrebbe gridare Jane, ma non apre bocca. Deve inseguirli? Fa un passo verso gli alberi, ma subito si ferma, paralizzata. E se non li trova e si perde? Abbassa gli occhi sul WellBand di Lisa. Deve gettarlo nel bosco, tornare al Dormitorio e confessare? Non vuole mettere Lisa nei guai. Senza contare il buddy system: e se le Coordinatrici dessero la colpa a lei?

Jane sente le lacrime bruciare negli occhi. Guarda il bosco e chiama Lisa a bassa voce. Come hanno fatto a scomparire così in fretta? Cosa può fare? Prova a escogitare un piano, ma la mente è vuota. Incamminandosi verso il torrente, ha l’impressione che la terra si stia per aprire da un momento all’altro, come uno strato di ghiaccio sottile. Quando è sulla riva si ferma, sentendosi vulnerabile. Che stupida è stata ad allontanarsi da sola! Avrebbe dovuto gridare. Avrebbe dovuto premere il tasto panic.

Si accovaccia, abbracciandosi le ginocchia e fissando il torrente marrone. Ha bisogno di riflettere, ma i pensieri sono un vortice inarrestabile. Un tonfo nell’acqua. Ci sono pesci in questo torrentello insignificante? Due farfalle, bianche come nuvole, le danzano intorno alla testa. Delle voci. In fondo al sentiero Jane vede due Ospiti, troppo lontane per identificarle, pelle nera che spunta dalle casacche a maniche lunghe, berretti da baseball in testa. Terrorizzata, salta in piedi e torna sui suoi passi, come se scappasse da qualcuno.

«Lisa?» chiama appena arriva al bivio. Non può gridare, le altre Ospiti la sentirebbero. Toccando il suolo con la punta del piede, la chiama di nuovo. È passata quasi mezz’ora, perché non è ancora tornata? E se le altre passassero di lì proprio mentre Lisa e Troy sbucano dal bosco? Cosa direbbe Jane se la trovassero da sola? Senza pensare si infila tra gli alberi. Nel buio groviglio di rami bassi e foglie cadute fa molto più fresco. Si ritrova a correre giù per una ripida discesa, ansimando e quasi incespicando. In fondo al pendio, si appoggia a una roccia muschiosa. Una fitta macchia di alberi di Natale – sembrano proprio alberi di Natale – le è comparsa davanti. Jane si apre un varco in un reticolo di rami.

Lisa non la vede nemmeno. È a quattro zampe, i capelli sciolti sul volto, la camicia raccolta intorno al collo, il seno penzolante. Si è tolta i pantaloni, scoprendo l’immensità del ventre. Le mani, piantate come zoccoli, artigliano il terreno. Troy è chino dietro di lei, a torso nudo, un uccello enorme – falco? fenice? – con le penne azzurre, verdi e viola tatuato sul petto. Sta spingendo con gli occhi chiusi, sulla bocca una smorfia che sembra dolore. Con le mani ancorate sui fianchi di Lisa, la sbatte contro di sé, ancora e ancora. Le afferra il seno e stringe così forte che Lisa emette un ululato, poi piagnucola, si dimena e spinge all’indietro, prendendolo sempre più a fondo. Troy lancia un gemito che sembra un ringhio, più animale che umano.

In preda al panico, Jane si allontana. Spezzando i ramoscelli, torna dietro i pini, dietro gli alberi di Natale, fino alla roccia muschiosa. A metri di distanza le sembra di sentire ancora gli ansiti violenti e umidi. Si guarda lo sporco sotto le unghie, i graffi rosa sulla pelle. Mentre risale il pendio verso il sentiero, i suoi pensieri vorticano così rapidi da diventare indistinti. Siede per terra nella radura dove il sentiero si biforca, non le importa più se le altre Ospiti la vedono. Non arrivano: devono essere passate mentre era nel bosco.

Lisa ricompare più di venti minuti dopo. È piena d’energia, quasi isterica. Per cominciare dichiara tutto il suo amore a Janie Jane, poi spiega a Troy nei minimi dettagli dove trovare Julio, che lo farà uscire da Golden Oaks di nascosto. Lei e Troy si avvicinano per salutarsi, Jane abbassa lo sguardo, e quando lo rialza lui è sparito.

Lisa è un fiume di parole mentre si pulisce, strofinandosi le mani, il volto e in mezzo alle gambe con le salviettine per bambini che ha tirato fuori dallo zaino. Si rifà la treccia, si cambia camicia, poi tornano alla Farm per un tragitto più breve. Lisa non tace un attimo: il sesso con Troy, Tasia, Jane che deve farsi valere di più.

Jane la sente ma non la ascolta.

Mia, la Coordinatrice, è di nuovo in servizio. Senza che nessuno glielo dica, Jane si fa una doccia. Quasi non avverte le dita di Mia su di lei, il lievissimo pizzicore sulla schiena. Le Coordinatrici parlano a bassa voce, un cassetto si apre e si chiude. Mia le mostra la zecca, sigillata in una busta di plastica e pronta per essere mandata al laboratorio. È grande come un seme di papavero. Sembra del tutto innocua.