4. Portento, maledizione
La prima impressione, sia chiaro, è stata disastrosa. Certo mi avevano avvertito, ma non mi sarei aspettato una simile esagerazione; e inoltre, del suo carattere, che per disgrazia intuisco, non mi avevano detto nulla, ignoravo che si trattasse di un fatuo. Lo vedo, è una cosa palese che mi renderà la vita impossibile, e non solo perché è inevitabile, perché è implicito (è proprio così) nella sua mera esistenza, ma perché non c'è alcun tipo di dubbio che siano queste le intenzioni che ha in quella sua testolina; quel brachicefalo, capace malgrado tutto di pensare; di idee luminose: è certamente di questo che è popolata. Luminose, splendenti, esigenti, un prodigio e una scoperta. E inoltre è presuntuoso: se fosse una donna, si reputerebbe una bellezza, e devo dire che pur con tutti i dispiaceri che una tale condizione potrebbe arrecarmi in futuro, lo preferirei. Chi lo avrà ingannato? O è forse padrone di una volontà onnipotente capace di trasformare tutto in significato, in convinzione, in legge? Deve essere così, diversamente avrebbe già messo fine alla sua vita; ma dovrebbe comprendere che esce dall'ordinario e optare per il termine medio, muoversi su quel terreno dove tutto è questione di vocabolario, dove non è difficile passare inavvertiti e dove, naturalmente, le maledizioni sono molto più sopportabili. Non mi ricordo neanche bene come si chiama. E a che scopo? Dovrò dargli un soprannome, è quello che si merita. In questo modo comincerà a imparare e saprà chi è che prende le decisioni. Eppure, nonostante tutto, mi renderà la vita impossibile, di questo sono del tutto sicuro. Ce l'ha nel sangue, quegli occhietti che senza opporsi né lamentarsi si lasciano invadere dalle palpebre e dalle guance me l'hanno detto con franchezza, malgrado guardassero amichevolmente e con un po' di civetteria. Deve aver imparato bene la lezione, sa a cosa va incontro, l'esperienza non gli manca. Schivare, schivare, in questo consiste la sua strategia e il suo carattere: preoccupante non è, non è questa la parola giusta, qui non c'è spazio per le mezze tinte e le sfumature: è un fenomeno, un energumeno; e inoltre è un traditore, è il suo sorriso, spigliato ma non per questo meno ostentato, a dichiararlo come tale. Potevo immaginare ben poco di tutto questo davanti alla fonte battesimale, quando gli feci da padrino. Senza alcun preavviso, quando meno me l'aspetti, brucerà le mie carte, rosicchierà le trine delle tende, segherà tre gambe a un tavolo, mi farà inciampare per prendersi gioco di me. Cosa posso fare?
Oggi l'ho visto che saltava la corda in giardino. Lo faceva troppo male, più che altro provocava ilarità, e considerando che in quei momenti la sua posizione nei miei confronti era di assoluto svantaggio e non potevo temere nulla dalle sue insolenze (né dalle sue impertinenze e sarcasmi, che non utilizza mai per difendersi, solo per attaccare), mi sono azzardato a interpellarlo e mi ha risposto, con serenità e senza titubanze, che vuole fare il pugile. A quanto pare, tra le sue cose, che per la maggior parte devono ancora arrivare, c'è un punching bag. Gli ho chiesto se non lo affaticasse fare tanti allenamenti e mi ha risposto di no, e che così inoltre dimagrisce. Per lo meno sa (e ciò che è più importante non lo nega né fa il finto tonto in proposito) di essere grasso e forse non si offenderà se lo prendo in giro per il suo volume debordante; queste sono le uniche gioie che oggi come oggi possono distrarmi dalla mia condanna. Ho anche notato che beve grandi quantità di liquidi, mentre invece, contrariamente a quanto mi ero immaginato, i dolci non gli piacciono. Il suo grasso deve avere un'origine endocrina; poveretto, se ci penso, la mia fermezza vacilla: magari, dopo tutto, non ne ha colpa. Però vederlo così mi indigna, mi viene voglia di malmenarlo, di schiaffeggiarlo, di prenderlo perfino a pedate nelle cosce. Ce le ha talmente grosse che quando cammina strusciano l'una contro l'altra e producono un rumore come lo sfregamento ritmico di due tele grezze. Sarebbe meglio se portasse i pantaloni lunghi. Il fatto è che dovrei accompagnarlo io a comprarli e mi vergogno a uscire per strada con lui; sebbene un giorno sarò costretto a farlo, non posso confinarlo nella casa e nel giardino. E una volta per tutte devo mettermi in testa che questa non è una situazione temporanea, non si tratta di qualcosa di passeggero, ahimè!: resterà sempre con me, sono l'unica cosa che gli resta al mondo. Devo riconoscerlo: la totalità delle sue speranze sono riposte in me.
Alla fine (confesserò che dopo lunghe riflessioni e esitazioni, ognuna di natura più penosa dell'altra, certo) mi sono deciso a seguirlo nelle sue passeggiate per i campi di periferia. E ora so perché si veste sempre di nero, grigio o blu oltremare: cade per terra, cade spessissime volte! Più o meno ogni venticinque passi. E l'unica soluzione affinché i vestiti non appaiano eccessivamente sporchi è quella di indossare toni molto scuri. In tutto questo tempo non me ne ero reso conto, perché finora lo avevo sempre visto calmo, in genere buttato su un divano e immerso nelle sue abominevoli letture. Non so che cosa gli potrà capitare, ma lui non sembra affatto preoccupato: né mi ha detto nulla, né mi ha chiesto di portarlo da un dottore. Ogni volta che cadeva era uno spettacolo magnifico; l'ho osservato molto attentamente, e non inciampa, neppure nei propri piedi; semplicemente cade per terra (o forse si lascia cadere spossato dallo sforzo di camminare, sebbene questo, a ben vedere, sia impossibile: se così fosse non uscirebbe a passeggiare; e in nessun momento sembrava affaticato). Si, cade, e se il terreno presenta qualche dislivello o pendenza, rotola per un paio di metri. Non si alza immediatamente, come uno si aspetterebbe, ma una volta a terra rimane lì adagiato come se verificasse festosamente l'infallibilità della regola o contemplasse serenamente la realizzazione del suo destino; ma, una volta trascorsi quei primi istanti, dà inizio a una serie di movimenti agonici che non sono mai gli stessi. Dato il grande numero di cadute a cui va incontro, la cosa naturale sarebbe quella che avesse già trovato un metodo grazie al quale gli risultasse semplice rimettersi in piedi e che lo usasse sempre; tuttavia non è così, e ogni volta cerca di alzarsi in un modo diverso. In un'occasione ha cercato di farlo rimanendo a pancia in su e senza aiutarsi con le mani, come fanno gli atleti; gli è costata molta fatica, ma, inspiegabilmente, alla fine ci è riuscito. Un'altra ancora, ha deciso di rotolarsi per terra, sfruttando l'impulso delle sue stesse giravolte fino a rialzarsi impetuosamente tutto rosso in faccia, non so se per lo sforzo o l'emozione. Dovrei dirgli che il modo più facile è: mettendosi a pancia in giù e appoggiando le mani per terra. Ma se lo facessi si accorgerebbe che l'ho spiato e potrebbe immaginare che mi interessi di lui. Ed è già abbastanza vanitoso, è già abbastanza vanitoso. Non potrebbe esserlo di più.
Ho scoperto che legge biografie. Biografie! Che gusto ci troverà? La sua stanza è letteralmente invasa di biografie, alcune, inoltre, romanzate; ce ne sono diverse di Metternich, mi è sembrato di vederne almeno due o tre; e altre di personaggi così irrilevanti e secondari che non sono neanche sicuro di sapere chi siano: l'imperatore Jacques I di Haiti, Carmen Sylva, il barone Jomini... Forse non le legge neppure e semplicemente le colleziona; questo potrebbe spiegare la sua nauseabonda indiscriminazione. Ha anche dei testi di teatro, ma sono tutti pessimi, e le edizioni talmente misere da attirare perfino un poco l'attenzione. Deve essere un cliente delle edicole. Ieri, per metterlo alla prova, gli ho offerto un librino di poesie di Querubin e uno di Valéry e li ha disdegnati. Mi ha detto che non gli interessavano per nulla, e quando gli ho chiesto perché, mi ha voltato le spalle e ha continuato la sua lettura senza rispondermi. Per alcuni secondi di stupore sono rimasto nel dubbio se sbatterlo a terra, sul tappeto, e picchiarlo fino a fargli vomitare una risposta, oppure andarmene senza dire nulla. Alla fine ho scelto la seconda opzione, e naturalmente mi sono pentito della mia decisione affrettata: ora si monterà la testa e si permetterà di non rispondermi ogni volta che vuole.
L'unico modo di impedire che un tale atteggiamento si trasformi in un'abitudine è quello di non fargli più domande, non rivolgergli la parola, ignorarlo. Oserei ipotizzare che tali misure finirebbero per fargli saltare i nervi, portandolo a una condotta diametralmente opposta, se non fosse che la solitudine e il silenzio non sembrano incidere troppo su di lui: se la cava bene da solo.
Ha la testa vuota, questo è il punto, anche se i voti che tutti i mesi si prende la briga di mostrarmi come se io fossi interessato a vederli sembrano dire proprio il contrario; deve essere uno che si applica molto. E devo riconoscere che non mi chiede mai aiuto in nulla.
La cosa peggiore sono i pranzi. Adesso sono ancora più insopportabili se possibile. Ormai si è reso conto che io faccio l'inimmaginabile pur di non sedermi a tavola finché lui non ha finito, e adesso, dopo il dolce, apre un giornale e si mette a sfogliarlo svogliatamente pur di non posarlo, tuttavia, fino al momento in cui io non metto un punto al mio desinare e accendo una sigaretta (con l'intenzione di affumicarlo e scacciarlo, non ne tollera l'odore). E così, mentre lui mangia da solo, godendosi l'intimità in quell'atto senza dubbio trascendentale per i suoi umori e senza venire disturbato da nessuno, io mi vedo costretto a sopportare i suoi sguardi opachi, tanto più irritanti in quanto non rivelano nulla. Sta molto più attento ai miei movimenti che non al giornale che sfoglia con grande scioltezza fra le sue manine di cera; lo so bene perché a volte, quando resto senza vino nel bicchiere, senza dare importanza al gesto mi avvicina la bottiglia; o se ho finito il primo piatto, spinge il vassoio del secondo finché non urta il mio gomito. E gioca col mio portatovagliolo. Sembra spazientirsi, che voglia ad ogni costo sparecchiare la tavola per usarla lui; invece no, quando ho finito si limita a togliere tutto senza il minimo riguardo, e poi inizia a girarmi intorno senza fare nulla, come se non avesse altro da fare che sorvegliare la mia digestione. Devo cambiare le mie abitudini: d'ora in poi riprenderò a mangiare quando mangia lui, sarà comunque meglio la sua compagnia, nonostante la stupidità delle sue chiacchiere banali. In questo modo ci troveremo almeno a parità di condizioni e io non mi sentirò così inibito dalla sua presenza, perché di certo l'opinione che l'uno potrà riscuotere dall'altro in quei momenti delicati dell'alimentazione non sarà così severa come quella che lui in realtà deve nutrire nei miei confronti: entrambe, in qualche modo, resteranno sospese vedendosi minacciate dal giudizio dell'altro commensale. Il giornale che legge sempre è quello sportivo.
Oggi è tornato dalle vacanze estive; è arrivato tutto abbronzato dal sole del sud e con vestiti di colore chiaro che, a quanto pare, gli hanno regalato, come agli altri, i responsabili del coro, suoi amici e protettori. Mi ha portato un fossile avvolto in un fazzoletto di carissimo madapolam, e l'unica cosa che mi è venuta in mente è stata di metterlo sopra il mio tavolo da lavoro a mo' di fermacarte. Prima di cena sono andato nella sua stanza per restituirgli il fazzoletto e, dopo avermi detto che non aveva appetito e che gli facessi il favore di non aspettarlo, è rimasto fermo a guardarmi torvamente: voglio pensare, per il suo bene, non con disprezzo. Non deve aver gradito il compito a cui ho destinato la sua pietra, ma cosa voleva che ne facessi? Che bisogno avrò mai di un fossile? E poi, perché deve farmi dei regali? Io gliene ho forse fatto qualcuno? Mai. Io non gli ho mai dato nulla che non fosse imprescindibile, che non rientrasse nei miei doveri; ora suppongo di essere in debito con lui e che dovrò fargli un dono. Ecco: gli regalerò una biografia di Ponce de Leon; o se no, un astuccio con compasso, tiralinee e balaustrino, perché si distragga facendo qualcosa di utile. O magari un trentatre giri? Una scatola di insetti? Un'uniforme? Un costume da torero? Semmai qualcosa di più utile, per esempio un accappatoio? Molto probabilmente, venendo da parte mia, qualunque cosa gli porti non sarà di suo gradimento. Io credo che sarebbe persino capace (di nascosto e dopo aver ricevuto il presente con indifferenza) di uscire e comprarselo di nuovo per poi dirmi, quando la restituzione sarebbe ormai impraticabile, di essersi dimenticato che da tempo ne aveva uno uguale; tanto tempo che se ne era dimenticato. Questo timore mi costringe a spremermi le meningi senza motivo e a pensare a qualcosa di unico che le sue molteplici risorse non sappiano imitare né ripetere.
Lo sapevo io che un giorno di questi mi avrebbe riservato qualche sorpresa; da quasi una settimana era inquieto e ansioso, evitando in tutti i modi di trovarsi con me così da non esporsi al rischio di cadere nella tentazione di formulare verbalmente la preghiera che teneva in serbo per me; rimandando il momento di fare un primo passo, di fare la sua richiesta e con ciò, infine, ammettere apertamente che sebbene le apparenze siano ben lungi dal rivelarlo, si trova in balia dei miei piani e dei miei ordini. Oggi non ha più potuto eludere l'impegno, forse perché gli hanno fatto pressione dall'esterno, spazientiti dall'ingiustificabile ritardo, dal mancato compimento di quanto promesso. Contrariamente alle mie previsioni, e perfino ai miei vaticini e desideri, non sembra sentirsi evitato più del normale: può darsi che possegga qualche incanto o attrattiva che io non sono stato capace di apprezzare o di decifrare, poiché per trovarglieli, senza dubbio, serve una concezione in certo modo matematica del mondo, atta a trasformare tutto in moduli e congruenze. Deve possedere dei requisiti molto difficili da mettere insieme, ma ignoro quale possa essere la combinazione desiderata affinché lui, proprio lui, sia riuscito a ottenerla.
Gli ho dato il permesso e presumo di aver fatto bene: così mi sarà grato per la mia magnanimità e si troverà nell'obbligo morale di dimostrarmi la sua gratitudine in una maniera che io stesso mi occuperò di suggerirgli e che forse riuscirà a restituirmi, almeno in parte, le mie energie. Si, sembrerà un controsenso, ma gli ho concesso quello che anelava. E inoltre, l'ho fatto con grande astuzia e non poca eleganza, come se in realtà mi sembrasse oltremodo strano che mi chiedesse il permesso per una simile bagatella. E tuttavia, guai a lui se non me lo avesse chiesto!
Erano quasi tre anni, praticamente da quando arrivò lui, che nessuno entrava dalla porta di questa casa. Ci fu un fuggi fuggi generale e nessuna eccezione gratificante. Sono arrivati tutti insieme, dovevano essersi dati appuntamento dietro un angolo o (chissà) in un caffè; hanno suonato il campanello con più forza del necessario e io mi sono affrettato ad andare ad aprire la porta per dare un'occhiata, approfittando di una caduta dell'energumeno, che già si precipitava verso l'entrata con grande eccitazione. E ho fatto bene, perché dopo non mi è stato possibile sbirciare o udire nulla. Devo inoltre confessare che, malgrado stessi in agguato, hanno fatto talmente piano, che non ho neppure ben capito in che momento se ne sono andati. Erano tre e sembravano normali; il loro aspetto era un po' trasandato, ma nel complesso normale, in conseguenza della loro età ingrata. Uno di loro, ci ho fatto caso, aveva i baffi, e tutti e tre portavano delle scatole sotto il braccio, sebbene non sia riuscito a vedere di che tipo di scatole si trattasse né quale fosse la loro forma esatta. All'inizio pensai che forse erano strumenti musicali e che venivano col motivo di accompagnarlo nelle sue esercitazioni, invece no, in tutta la casa non si è sentita una sola nota; dunque non so che cosa siano stati a fare. E muoio dalla voglia di saperlo. Stasera, a cena, glielo chiederò, e siccome mi deve il favore non oserà rifiutarsi di rispondere. E se si rifiuta, prenderò delle misure molto severe e questa volta baderò io a che non possa schivarle. Pensandoci bene, la punizione l'ha già più che meritata: avrebbe dovuto... certo, avrebbe dovuto presentarmi!
Ormai non so più cosa fare. Le feste sono sempre più frequenti, si susseguono praticamente senza interruzioni, la mia vita attuale trascorre in mezzo a una festa alla quale peraltro non sono stato invitato; sebbene bisognerebbe piuttosto dire accanto a una festa; mi sento come l'inquilino della porta accanto a quella dell'insaziabile anfitrione, come quell'inquilino che soffre tanto di insonnia quanto di invidia; al massimo, a volte, come un vicino che non tanto per suoi meriti o incanti personali, quanto per la sua prossimità, si è ritrovato accidentalmente nell'ingresso, è giunto fino all'anticamera della festa probabilmente indotto a passare nel momento culminante da qualche personaggio che in maniera indebita si è arrogato il diritto di invitarlo verbalmente e in modo improvvisato, sul momento; come quel vicino che, tuttavia, non si azzarda a entrare: indugia sulla soglia meditando sul proprio destino, in attesa di un'insistenza che gli fornisca un'identità in quell'ambiente per poi, alla fine, rifiutare. E la cosa più irritante è che le feste, a ben guardare, non sono tali malgrado gli indubbi preparativi; voglio dire che alle feste (o accanto a esse) non si può passare inosservati; le conversazioni, scarse e infrequenti, si tengono a voce molto bassa e mai fra più di due persone per volta. Se qualcuno parla, gli altri gli prestano attenzione e non intervengono finché non venga proposto un altro tema e sia stata effettuata la ripartizione dei ruoli. Si direbbe un seminario. Tutto questo lo deduco dal tono delle riunioni, l'unica cosa che posso percepire: la porta rimane invariabilmente chiusa col paletto e, quando busso, il silenzio si va diffondendo gradualmente: il dialogo o il discorso si interrompono all'istante e cedono il passo a un mormorio che io definirei deliberativo cosicché, alla fine, solo la sua voce risalti (in un modo rivelato dal previo tossicchiare, l'artificialità) e chieda: chi è?, sapendo perfettamente che si può trattare solo di me. L'altro giorno, anziché dare la solita risposta e aggiungere una richiesta o un quesito superfluo e improbabile che non ottengono mai il loro proposito di giustificare la mia azione, rimasi in silenzio e bussai nuovamente alla porta con le nocche per obbligarlo ad aprire. Così fece, ma con tale cautela e avarizia che mi fu permesso unicamente di vedere uno dei suoi occhi color seppia e un considerevole volume di carne che doveva appartenere alla sua guancia destra. Tuttavia, qualcosa riuscii a ottenere: il suo sguardo, rispetto alla consueta inespressività, denotava da una parte superbia e dall'altra timore. Quest'ultimo sentimento è l'unica cosa che ancora possa salvarmi, e io, vittima dello scetticismo, ne avevo escluso l'esistenza.
Se si tratta solo di un problema di quotidianità, allora sono irrimediabilmente perduto, poiché non si può fare nulla per risolverlo; la mia speranza è che, al contrario, possa risolversi solo dalle altezze più sublimi, con un grande salto (nel vuoto, sì, ma calcolato matematicamente) che mi faccia ritrovare dove si trova lui e lo obblighi, vedendo invaso il proprio angolo di terreno ed essendo lui un personaggio che non può ammettere altro che il suo opposto, a trasferirsi nell'unico luogo dove sarebbe ancora capace di tenersi in piedi, dove potrebbe continuare a indossare i suoi abiti di gala e a soddisfare i suoi pruriti come se nulla fosse successo. Ma se, una volta in quel luogo, quello che io occupo e che mi spetta secondo la legge e la tradizione, tutto continuasse effettivamente come se nulla fosse successo, sarebbe successo qualcosa in realtà? Sarebbe servito a qualcosa quel laborioso e azzardato scambio tenendo conto che io ignoro, ancora oggi, chi sia a godere della posizione più favorevole, di privilegio? Che non so se il suo malessere, per non dire inaudito tormento, sia superiore o magari inferiore al mio? E che lui, come abitante della mia abitazione, potrebbe essere tentato (o meglio ancora: obbligato) a portare a termine, più avanti, la stessa identica operazione, annullando così i comunque dubbiosi effetti della mia rischiosa manovra?
La risposta a tutti questi interrogativi è già implicita nella loro stessa formulazione; tutta questa mancata cognizione delle circostanze è solo un'apparenza, con la quale io cerco di rivestire di ignoranza qualcosa che, per il fatto stesso di potersi definire come tale, già non lo è più. Questi paragrafi, pertanto, sono superflui.
La brillantezza con cui ha vinto il concorso mi fa pensare. Non che dubitassi delle sue condizioni, ancor meno della sua buona e coscienziosa preparazione; di fatto devo riconoscere che seppure non sarei in nessun modo disposto a concedergli l'aggettivo di eccellente, la sua voce non è per niente male. Considerando i termini e la natura del nostro rapporto, c'era da aspettarsi che mi sarebbe risultato impossibile sopportare i suoi affannosi esercizi, pieni di tenacia, che si prolungano monotoni per tutto il giorno senza quasi mai pause o interruzioni; e tuttavia, posso affermare che seppure non attirino sufficientemente la mia attenzione al punto di prestargli ascolto, sono entrati a far parte dei suoni naturali della casa, come il tic tac dell'orologio, gli sbalzi d'umore del frigorifero o i campanelli delle biciclette che girano nei paraggi; cioè, non me ne accorgo più. Solo quando esegue il tremolo o il vibrato con eccessivo vigore ed energia ottiene che i miei pensieri, allarmati dalle grida, si distraggano e si confondano. Questa tolleranza nei confronti dei suoi esercizi, così giudiziosi, nonostante tutto diminuì dopo che ebbi l'occasione di osservarlo un giorno, in modo del tutto accidentale, nel pieno della sua commozione. Camminavo da una parte all'altra del giardino approfittando di un magnifico sole per esaminare un documento all'aria aperta quando, passando vicino alla finestra della sua stanza, la sua voce, che fino a quel momento come d'abitudine non avevo notato malgrado la sua insistenza per farsi notare, produsse una forte vibrazione nei vetri, facendomi sussultare. Mi fermai e, di nascosto, spiai all'interno della stanza: la prima cosa che vidi fu un grande disordine; i libri giacevano ammucchiati in pile molto alte, alcuni sparpagliati sul pavimento; una sedia era rovesciata a terra e tutti i quadri storti; alcune gocce di latte si erano versate sul tappeto. E lui era lì, enorme, provocante, perduto negli spazi sconfinati della vanagloria, intento a provare la portata delle sue facoltà: seminudo, con indosso solo una maglietta che gli arrivava a stento fino alla vita, aveva le braccia protese in avanti, le mani corte e carnose, insufficienti per esprimere tutto il turbamento della sua esibizione; con un ginocchio poggiato sul tappeto, la sua passione strideva con gli innecessari e inverosimili sforzi che si vedeva costretto a fare per girare, dalla sua posizione raccolta, le pagine dello spartito senza perdere l'equilibrio (il leggio si trovava all'altezza del petto di una persona che stia in piedi). Il suo corpo giallognolo e traboccante oscillava da una parte all'altra con pesantezza, accompagnato dall'intensità delle note a seguire, proferite con inesauribile sentimento ma totalmente prive di ragione. Era l'immagine della sproporzione e dello spreco, dello sconvolgimento e del terrore. Tutto sudato, sgolandosi come se nulla gli importasse o lo riguardasse, senza dubbio era arrivato persino a dimenticarsi della sua esistenza, non tanto in nome della musica che interpretava, quanto della difficoltà che, per sua stessa volontà, quella messa in scena comportava. La voce (fino ad allora sempre attutita e velata da corridoi, porte e saloni), di una potenza che sfuggiva alla mia comprensione, non sembrava provenire dalla sua gola, induceva a supporre un inganno; la certezza, però, che effettivamente era sua mi faceva penetrare nel mondo dell'incoerenza e mi colpiva la testa come una mazza impugnata dall'ingiustizia. Le sue carni molli, lisce, incapaci di raggiungere la contorsione a cui aspiravano, si accontentavano del soave ondeggiamento che come unico risultato producevano i suoi intenti di eccitazione. Così, l'incresparsi della voce non si lasciava associare alla flaccidezza della figura, grossa e strana, senza genere né età, in verità aliena al raziocinio. Se in quei momenti lui si fosse accorto della mia presenza, se soltanto l'avesse indovinata o intuita, non so che ne sarebbe stato di me. Forse, in preda all'estasi, la mia persona sarebbe risultata inaccessibile alla sua percezione, e nel migliore dei casi sarebbe stato solo in grado, dopo avermi intravisto, di scomparire, angosciato dalla rivelazione di un'oggettività inopinata della quale non aveva tenuto conto. Forse no, forse si sarebbe scagliato su di me e mi avrebbe fatto a pezzi senza per questo interrompere il canto: certo, i suoi movimenti demolitori si sarebbero accompagnati alla melodia e io sarei entrato a far parte della rappresentazione, l'unico ambito in cui sarebbe stato possibile assegnarmi un significato. Dopo questa visione, la cosa naturale, in effetti, sarebbe stata che da allora in poi non avrei più potuto sopportare i suoi vibrati stentorei e vertiginosi: che mi avrebbero riportato alla memoria l'immagine della sua spaventosa trasformazione. Se non è così, ciò è dovuto al fatto che la scena subì un'alterazione e giunse a una conclusione che cambiò il segno del mio ricordo, conferendogli un carattere più benevolo: nel mezzo della presuntuosa dilazione del suo crescendo, quando il punto culminante era ancora lontano, il suo ginocchio cedette come il coltello mal piantato nel legno e cadde bruscamente trascinando il leggio, la partitura, una sedia e il materasso. Si ritrovò steso a terra, stupefatto: la testa, sollevata, cercava di formare un angolo retto con il busto nel vano tentativo di scoprire una causa esterna che avesse accelerato quel suo crollo macchinoso, questa volta evidentemente inaspettato. La partitura nel cadere si richiuse. Allora si rialzò in preda a un rancore senza destinatari e, dopo aver preso atto dello scompiglio che aveva dintorno, cominciò di nuovo la sua tremenda e minacciosa esibizione, non più iracondo e ormai senza convinzione, con meno vigore, slancio ed esattezza.
Ancora non mi riprendo dal mio stupore nonostante che, dopo tanti anni, nulla avrebbe dovuto sorprendermi, men che mai dopo aver comprovato che la sua condizione è quella di un perenne sconvolgimento. E pur vero che la possibilità di uno scontro esplicito e diretto non esulava dal cerchio delle mie congetture, ma non è men certo che la consideravo come la più remota di tutte: i prolungati anni di taciturnità, di convivenza (in modo inespresso, però) già stabilita sulla base della reciproca supposizione e dell'arbitraria predizione che scarta quanto predice, la delimitazione dei territori, non perché imposta meno inviolabile, l'avevano relegata all'ultimo posto. Se avessi seguito alla lettera i precetti che reggono il futuro, nient'altro mi sarebbe apparso come più probabile, una tale possibilità sarebbe passata a occupare il primo termine, si sarebbe trasformata nella certezza inappellabile di ciò che mi aspettava; ma come seguire quei precetti infallibili senza, con ciò, invalidarne il contenuto? Quello che più mi addolora è non aver saputo rispondere, ammutolito dall'incredulità, alla sua mendacità e alla sua impudenza. Si direbbe mancanza di esperienza, ma fu piuttosto una stupefazione non preventivata, scusabile in ogni circostanza, non è così? Mi comunicò, con un giorno di anticipo, che desiderava parlarmi, che dovevamo discutere, ma si rifiutò di specificare il tema fino a quando, secondo la sua stessa espressione, non avesse ben ponderato quello che aveva da dirmi. Ventiquattro ore dopo capii che quello che aveva fatto in quel lasso di tempo non era stato meditare, quanto memorizzare: con l'aspetto brillante di chi si prepara per andare alla sua prima festa, così ben pettinato, sistemato e ordinato come non lo avevo mai visto, si presentò nel mio ufficio all'ora convenuta e al mio provocatorio ebbene?, rispose senza nessun preambolo con un discorso risoluto, insolente, audace, perfettamente elaborato, nel quale si intuiva la punteggiatura della scrittura accademica e nel quale, per i quindici minuti che durò, non smise mai di accusarmi, con la pedanteria che gli stessi termini proclamano, di iniquità, contumacia, protervia e prevaricazione. Di queste quattro cose in particolare, furono questi i sostantivi che utilizzò. Espose i motivi che lo avevano indotto ad avventurarsi in quel modo e si lamentò della mia inaccessibilità alla sua profusione di dettagli e alla sua evidente volontà di finirla con le diffidenze e le tensioni che rendevano ormai intollerabile l'inimicizia. Il testo recitato, cosparso qua e là di metafore inutili per la loro trasparenza, era, tuttavia, arrogante e duro, del tutto privo dei toni della supplica, era dettato dall'urgenza.
I ragionamenti si susseguivano con ordine e non mancò neppure qualche sillogismo di bassa lega. Le sue lamentele, all'interno di un'esagerazione che confinava con la fallacia, dal suo punto di vista non erano né ingiuste né insensate; ma lui ignora che, dal mio, sono semplicemente infondate e una sfacciataggine: non ha ancora l'età per capire che mi ha reso la vita impossibile, che la sua mera presenza è un tormento, che ha rovinato la mia folgorante e promettente carriera, e che inoltre, con la sua arringa, non ha fatto altro che aggravare tutta la questione, che a questo punto è ormai inevitabile che la faccia finita con lui quando si presenti il momento, che per colpa sua sono stato vittima della mediocrità e dello scoramento, che so bene che dietro la sua correttezza si nascondono la perfidia e il rancore. Non si rende neppure conto che con la sua denuncia è ora più debole e vulnerabile, che ai miei occhi il suo prestigio è svanito per sempre; più che di prestigio bisognerebbe parlare di vassallaggio e tirannia, di inespugnabilità, di dispotismo, di testardaggine, di lordura e di spietatezza. Ah, il giorno che potrò far cadere su di te tutto il peso della legge non scritta, quel giorno striscerai ansimante ai miei piedi e ti pentirai di ogni parola pronunciata in preda alla tua precoce follia!
Insospettabilmente mi è stato rimproverato il mio comportamento; è stata solo una timida insinuazione non priva di rispetto, ma è bastata affinché il pallido ed esiguo velo della dissimulazione cadesse a terra ridotto in brandelli, lasciando allo scoperto la sua recondita aspirazione; mi è stato rimproverato il mio comportamento nei suoi confronti, e questo è il risultato per aver infine permesso che una sconosciuta si insinuasse nella mia casa e nella mia intimità e godesse di una confidenza concessa senza limiti né riserve, che ora mi troverò costretto a ritirare: lasciando perdere le attenuanti, le sue invocazioni a uno ieri che già stenta a ricordarsi, e malgrado le sue puerilità. Non posso essere accondiscendente con lei, e le sue visite devono cessare immediatamente, concludersi una volta per tutte prima che le sue considerazioni scriteriate vengano all'orecchio di lui e trovino un eco che, pur mitigato, non sarà del tutto innocuo. Non c'è pericolo peggiore di quello della connivenza. Io, facendole il mio racconto, non pretendevo né la sua interpretazione né la sua opinione, e tanto meno la sua comprensione: al limite, chiedevo un interesse per la mia persona che, d'altra parte, sembrava aver già abbondantemente manifestato in certi campi; fu questo, nient'altro che la sua tenacia, ciò che in verità le sgombrò la strada verso la mia alcova, che riempì (e gliene sono grato) di fragranza e di splendore. Ma ad ogni benessere corrisponde un eccesso che lo trasforma in malessere, e per delimitare senza rischi e con precisione la lunghezza del tragitto che si può percorrere indistintamente nell'uno e nell'altro senso prima di ritrovarsi coi piedi nel terreno fangoso dove i binari cedono, si richiedono grandi dosi di talento e di tatto, molto maggiori di quelle che (e mi dispiace) la mia bella ammiratrice sembra essere riuscita a mettere insieme lungo la sua breve e florida esistenza. Quello che non so ancora è come dirglielo: comunicarle che i nostri incontri non verranno tanto interrotti, né dilatati (il male minore), ma cancellati per sempre, è un compito delicato, e penso se non sarebbe più prudente non dare (certo, ingiustamente) né avviso né spiegazioni della mia brusca decisione: anche a costo di dover sopportare un assedio tanto più insulso perché guidato dalla miopia dello sconcerto. Se io fossi capace di eliminare tutto l'affetto e il sentimento e dedicarmi all'irrisione, l'evoluzione degli eventi potrebbe comunque risultarmi spassosa: già me la figuro a fare delle telefonate alle quali l'energumeno, provvisto di ordini tassativi, si incaricherebbe di rispondere con infinita ambiguità; a mandare dei billets-doux che magari, se fosse disposto (cosa di cui dubito) a partecipare alla commedia, mostrerei anche a lui per condividere la mia allegria e la mia ilarità; a picchiare instancabilmente alla porta coi capelli spettinati: sono sicuro che la sottoveste, intenzionalmente messa male, le spunterebbe da sotto la gonna. Dopo un po', l'atteggiamento contrario: minacce di abbandono definitivo, ignorando (o facendo come se ignorasse, ingannando se stessa, ormai perduta nell'illusione) di essere lei quella che è stata abbandonata; imprecazioni astruse che finirebbero per elevarsi a spropositi, per raggiungere una così piacevole dimensione; immensi sforzi e complicati arabeschi per ottenere che io sia al corrente delle sue avventure inoffensive, dettate non dal gusto ma dalla strategia; e a tutto questo io risponderei sempre col silenzio: col silenzio, che a lei all'inizio apparirebbe come un miraggio di claudicazione! Arriverei a un tale punto di crudeltà che alla fine lei, esausta e annoiata e desiderosa di cambiamento, si ritirerebbe dal palcoscenico con sollievo; ma anche con l'eterna amarezza dell'assenza di spiegazione, del non conoscere le cause né le condizioni del mio abbandono e con la certezza e la vergogna di aver perduto tanto il tempo quanto la dignità. Troppe vessazioni per il mio cuore pacifico. Non mi azzarderei, non avrei abbastanza coraggio per portare a compimento una tale fellonia. No, no, no, non se ne parla neppure!
Lui sta in alto, sul palcoscenico, vestito secondo l'usanza del XVIII secolo; porta un lungo naso posticcio, un po' ricurvo, che lo fa assomigliare a un vecchio scorbutico. In questo preciso istante se lo toglie e saluta il pubblico (che lo acclama) con un inchino non sprovvisto di grazia malgrado la sua obesità. Il pubblico, mentre si toglie la maschera, intensifica l'ovazione. Non merita tanto. Guarda alla sua destra, dove, leggermente in disparte, si trova la giovanissima soprano che, come lui, è al suo debutto ufficiale, e la prende per mano per fare un saluto tutti e due insieme: finora, quando l'uno saliva, l'altro scendeva e viceversa. E brutta, ma dalla distanza alla quale mi trovo è impossibile determinare in che cosa consista la sua bruttezza. Si è tolta, anche lei, la cuffietta e il grembiule: si libera degli accessori più superflui e ora lascia interamente allo scoperto il suo vestito rosso di velluto, non adatto a una domestica (i costumi di scena non sono stati dei migliori); fa delle riverenze molto rapide e insistite, come se la stessero aspettando fuori dal teatro e avesse fretta di terminare. Lui, il mio figlioccio, inoltre le impedisce di essere ben visibile: con la sua figura spropositata occupa il ristretto spazio della scena, e grazie al colorito del suo trucco, senza dubbio esagerato per attirare ancor più l'attenzione (suppongo che sia proprio questo il motivo per cui al suo ultimo ingresso in scena è apparso con dei ridicoli pantaloni multicolori al posto di quelli tradizionali che aveva indossato per tutta la recita), ottiene che tutti gli sguardi si dirigano e si fissino su di lui. Accanto a me c'è la sua fidanzata, che applaude con fervore; gli occhi le brillano pieni di ammirazione, e l'orgoglio le fa battere le mani con un ritmo diverso da quello degli altri spettatori. Senza che se ne accorga un guanto le cade a terra, io mi chino per raccoglierlo e glielo porgo, ma lei, entusiasmata, avvampata, va avanti senza rendersi conto né della perdita né del mio movimento di recupero. Io insisto con la mano destra tesa, ma è inutile, la sua foga mi sta giocando un brutto tiro: varie persone mi guardano di traverso e con disappunto nel vedere che non sto applaudendo, cosicché alla fine mi metto il guanto sotto il braccio e riprendo il mio applauso nello stesso tempo in cui lancio un evviva che chiarisca la mia posizione. Sono nella terza fila della platea e devo voltarmi se voglio vedere l'espressione delle facce del pubblico. Si mostra festante e soddisfatto della rappresentazione, sebbene osservi che gli intenditori hanno già smesso di applaudire e si scambiano delle impressioni fra di loro. Quanto mi piacerebbe sentirle! Quando mi giro nuovamente a guardare verso il palcoscenico, i tre sono spariti, ma dopo qualche secondo escono di nuovo, adesso soltanto lui e la soprano, senza il muto; ripetono varie altre volte questa operazione mentre mi chiedo se alla fine uscirà soltanto uno di loro o se lo faranno sempre in due, dimostrando così il loro desiderio di equità. E finalmente ottengo la risposta che in verità anelavo: appare solo lui. Si è tolto la parrucca e mostra il suo aspetto abituale, la testa ben acconciata, con la divisa a destra. Esultante, si prodiga in riverenze in onore dell'uditorio, come tutti i novizi manda baci ai palchi, e non rivolge mai, nemmeno una volta, lo sguardo laddove mi trovo io con la sua fidanzata; spero che anche lei si accorga di questo dettaglio e che dunque mi dica qualcosa, mi presti un po' di attenzione. Così avrò occasione di darle il guanto, che mi si sta spiegazzando sotto il braccio; ma non posso toglierlo di lì se voglio essere l'ultimo a smettere di applaudire; devo farlo, altrimenti lei potrebbe pensare (non so che cosa le avrà raccontato di me, ma è ovvio che non mi riservi grandi simpatie) che l'invidia ha fatto presa su di me e che mi rifiuto di riconoscere e di decretare il suo trionfo esorbitante. Sono convinto che neppure lei confidava troppo in un successo. Accidenti! Ho paura che concederanno un encore. No, fortunatamente non era previsto: l'ovazione va calando e sembra che ormai lui si ritirerà. Sta ancora stringendo la mano al direttore; ora al violino, al clavicordo, le due trombe, che stavano già scomparendo dalla porta di fondo, ed è stato lui a fermarli per salutare tutti insieme. Adesso sì, è rimasto lui per ultimo e, senza dare in nessun momento le spalle all'uditorio, si incammina titubando con i piedi verso l'uscita. Attenzione, attenzione! Ecco, ci siamo! E rimasto agganciato a un leggio, inciampa, si trova in difficoltà, fa uno scivolone, barcolla all'indietro, cerca di mantenere l'equilibrio appoggiandosi ai piatti che ci sono in un angolo, cielo!, li trascina nella sua caduta... cade! Il pubblico, che già si stava avviando verso l'uscita, si volta sorpreso dal fracasso. La sua fidanzata, allarmata, manda un'esclamazione soffocata e si porta le mani alla testa: le è caduto l'altro guanto.
Alla fine mi ritrovo da solo un'altra volta, ormai se n'è andato e non ritornerà; al massimo, forse in visita e sempre accompagnato: la cosa più probabile è che gli incontri siano perfino una delizia, sedati e interessanti. Delle mani femminili e amorose lo avevano depositato, insensate, tra le mie braccia; e ora altre, ugualmente carezzevoli, me lo levano di dosso, lo allontanano dalla mia esistenza restituendomi la libertà e confermando così la sua inusitata capacità di elasticità. Ma la scelta non è stata azzeccata in nessuno dei due momenti; al contrario, hanno rappresentato ciascuno un errore ormai irreparabile; era prima, e non ora, quando più mi tormentava. E c'è dell'altro: questo capovolgimento, la conclusione, lungi dall'offrirmi sollievo e conforto, lungi dal restituirmi le energie e chiudere la prolungata parentesi della mia mancanza di talento ha mandato in malora la mia ultima opera, che oggi con lui assente, mi appare come priva di senso e con dannata in anticipo dalla mia goffa inavvedutezza. I miei sforzi, per quanto laconici e poco percettibili non meno considerevoli, si sono sprecati e dissipati e la mia volontà, ancora una volta, si è vista contrariata e defraudata: quando i lacci che mi legavano si erano ormai allentati, quando la sua carezza era più benevola, meno dolorosa e compulsiva, quando la mia integrità iniziava a logorarsi (maltrattata dalle continue avversità, dalla stanchezza per il disprezzo inferto senza requie nel corso degli anni), quando l'ottenebrato progresso si vedeva temperato, è allora che un taglio di netto mi concede, gratuitamente, quanto anelavo; in modo improvviso e senza scrupoli, lo priva di tutta la sua attrattiva e lo abbatte, ed è allora, soltanto allora, il momento in cui mi viene offerto senza che io dia nulla in cambio: quando il deterioramento ha ormai raggiunto un grado irrimediabile, quando lui, al contrario, si erge irresistibile nella sua sfolgorante carriera, è allora che il tempo si dissolve e a me, puntellato, non resta altro che riferire il disinganno come posso e constatare l'ingiustizia dell'assegnazione delle parti.